Is
6,1-2a.3-8; Sal 137; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
Le
letture bibliche di questa domenica ci ricordano che la nostra vita acquista
senso e indirizzo quando facciamo una personale esperienza di Dio. Ogni vero
incontro con Dio non lascia mai l’uomo come prima, ma lo cambia, lo rende
cosciente della propria missione e delle proprie responsabilità. E’ quello che
succede a Isaia nella grandiosa visione ambientata nel tempio di Gerusalemme,
di cui ci parla la prima lettura, ed è quello che succede a Pietro e ai suoi
compagni Giacomo e Giovanni allorché incontrano Gesù presso il lago di
Genesaret (cf. il vangelo): mentre da una parte provano sgomento, perché, come
Isaia, davanti alla santità di Dio, scoprono il proprio peccato, dall’altra
sono affascinati da questo incontro e trovano il senso della loro vita,
scoprono la loro missione. Come afferma san Paolo nella seconda lettura, essa
consisterà nell’annunciare l’opera di salvezza del Signore. Non c’è missione
senza un’esperienza di Dio.
La
missione d’Isaia, quella di Pietro, di Giacomo e Giovanni, e quella di Paolo
nascono da una profonda e personale esperienza di Dio. Colto di stupore per la
pesca straordinaria Pietro reagisce come Isaia che vede la gloria del Signore
nel tempio di Gerusalemme. Le loro vite da ora in poi saranno profondamente
trasformate da questa esperienza. Fare esperienza della vicinanza di Dio è
possibile a tutti noi. Se guardiamo con fede il mondo e gli eventi della
storia, vi possiamo trovare sempre la trasparenza diafana della rivelazione del
Signore. Ma Dio ci si rivela soprattutto attraverso la sua Parola che è il
Figlio suo incarnato. Il brano evangelico odierno inizia affermando che la
folla faceva ressa intorno a Gesù “per ascoltare la parola di Dio”. E’ questa
stessa parola che ascoltata da Pietro, Giovanni e Giacomo, li trasforma in
discepoli di Gesù e continuatori della sua opera. Essi, dice il vangelo,
“tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. E’ l’inizio di una
vita nuova che rompe con il passato per proiettarsi verso un futuro
affascinante e fecondo.
Il
canto al vangelo, tratto da Gv 15,16, ci ricorda che tutti noi siamo stati
scelti perché portiamo frutti duraturi di salvezza. La Chiesa ha sempre sentito
l’esistenza cristiana come una chiamata, una vocazione: san Paolo afferma un
parallelismo reale tra lui che è “apostolo per chiamata” (Rm 1,1) e i cristiani
di Roma che sono “santi per chiamata” (Rm 1,7) o quelli di Corinto che sono
stati “santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata” (1Cor 1,2). Ogni
chiamata è fondata sul fascino e sulla potenza della parola di Dio
sperimentata. Ognuno di noi è chiamato personalmente a “lasciare…” per poter
“seguire” Gesù ed essere, come dice san Paolo di sé stesso, testimone della
risurrezione di Cristo. Oggi l’umanità crederà alla risurrezione di Cristo non
per i testimoni di ieri ma per quelli di oggi, che siamo tutti noi, solo però
se imiteremo quelli di ieri con fedeltà e generosità. Cristo non ha altro corpo
visibile che quello dei cristiani, non ha altro amore da mostrare che il
nostro. Nel concreto riconoscimento del bisogno dell’altro, nella condivisione delle
debolezze di ciascuno, nell’accettare di venirsi in aiuto reciprocamente, la comunità
cristiana si mostra come luogo fraterno in cui ci si ama e si è amati.