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domenica 14 febbraio 2016

QUALE SOLENNITA’?


Il concetto di solennità riferito alla celebrazione liturgica è espresso molto bene dall’Istruzione Musicam sacram del 5  marzo 1967 quando al n. 11 afferma:

«Si tenga presente che la vera solennità di un’azione liturgica dipende non tanto dalla forma più ricca del canto e dall’apparato più fastoso delle cerimonie, quanto piuttosto dal modo degno e religioso della celebrazione, che tiene conto dell’integrità dell’azione liturgica, dell’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura. La forma più ricca del canto e l’apparato più fastoso delle cerimonie sono sì qualche volta desiderabili, quando cioè vi sia la possibilità di fare ciò nel modo dovuto; sarebbero tuttavia contrari alla vera solennità dell’azione liturgica, se portassero ad ometterne qualche elemento, a mutarla o a compierla in modo indebito».

Nelle fonti liturgiche antiche e moderne, dal cosidetto Sacramentario Veronese al Messale Romano di Paolo VI, «sollemnitas» indica generalmente la celebrazione liturgica in sé come un tutto. Così l’espressione «Missarum sollemnia», che appare per prima volta in un’omelia per il giorno di Natale di san Gregorio Magno, significa semplicemente «celebrazione della Messa». C’è quindi solennità quando la celebrazione liturgica si esprime con tutti i suoi elementi, in modo unitario e nel rispetto della «natura» delle sue diverse parti: letture, preghiere, acclamazioni, gesti, canti, silenzi, ecc. Non si tiene conto dell’ «integrità dell’azione liturgica» quando, ad esempio, il canto è inserito nella celebrazione come un semplice elemento «ornamentale» del rito e non come un elemento costitutivo della stessa azione liturgica. I testi cantati sono parte della stessa celebrazione e non vanno «recitati» dal celebrante che presiede mentre il coro o l’assemblea canta, come avveniva nell’ordinamento liturgico anteriore al Vaticano II. In sostanza ciò che si canta è la celebrazione stessa, e cioè si «celebra» anche attraverso il canto. Quando invece il canto viene adoperato come «ornamento» e sovrapposto talvolta all’azione rituale non accresce da per sé la vera solennità della celebrazione perché non si tiene conto  dell’esecuzione di tutte le sue parti e si mortifica quindi l’intrinseca unitarietà dei segni che costituiscono la celebrazione stessa. 

La Costituzione Sacrosanctum Concilium, al n. 113, aggiunge una precisazione importante quando afferma : «L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la parteciapzione attiva del popolo». E più avanti, al n. 114, dice: «I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa parteciapare attivamente». Quindi una celebrazione con canto, nel rispetto di quanto ho detto sopra, nella quale però il canto è affidato ad una piccola schola e il resto dell’assemblea dei fedeli non canta nulla o quasi (come talvolta capita qui a Roma in molte piccole chiese o rettorie del centro), non ha tutti i crismi della solennità. L’altro estremo è quello di alcune parrocchie in cui canta solo l’assemblea dei fedeli testi che non sono quelli proposti dalla liturgia, ma canzonette più o meno pertinenti al momento celebrativo.