Il concetto di solennità riferito alla celebrazione
liturgica è espresso molto bene dall’Istruzione Musicam sacram del 5 marzo 1967 quando al n. 11 afferma:
«Si tenga presente che la vera solennità di un’azione
liturgica dipende non tanto dalla forma più ricca del canto e dall’apparato più
fastoso delle cerimonie, quanto piuttosto dal modo degno e religioso della
celebrazione, che tiene conto dell’integrità dell’azione liturgica,
dell’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura. La forma
più ricca del canto e l’apparato più fastoso delle cerimonie sono sì qualche
volta desiderabili, quando cioè vi sia la possibilità di fare ciò nel modo
dovuto; sarebbero tuttavia contrari alla vera solennità dell’azione liturgica,
se portassero ad ometterne qualche elemento, a mutarla o a compierla in modo
indebito».
Nelle fonti liturgiche antiche e moderne, dal cosidetto Sacramentario Veronese al Messale Romano di Paolo VI, «sollemnitas» indica
generalmente la celebrazione liturgica in sé come un tutto. Così l’espressione
«Missarum sollemnia»,
che appare per prima volta in un’omelia per il giorno di Natale di san Gregorio
Magno, significa semplicemente «celebrazione della Messa». C’è quindi solennità
quando la celebrazione liturgica si esprime con tutti i suoi elementi, in modo
unitario e nel rispetto della «natura» delle sue diverse parti: letture,
preghiere, acclamazioni, gesti, canti, silenzi, ecc. Non si tiene conto dell’
«integrità dell’azione liturgica» quando, ad esempio, il canto è inserito nella
celebrazione come un semplice elemento «ornamentale» del rito e non come un
elemento costitutivo della stessa azione liturgica. I testi cantati sono parte
della stessa celebrazione e non vanno «recitati» dal celebrante che presiede
mentre il coro o l’assemblea canta, come avveniva nell’ordinamento liturgico
anteriore al Vaticano II. In sostanza ciò che si canta è la celebrazione
stessa, e cioè si «celebra» anche attraverso il canto. Quando invece il canto
viene adoperato come «ornamento» e sovrapposto talvolta all’azione rituale non
accresce da per sé la vera solennità della celebrazione perché non si tiene
conto dell’esecuzione di tutte le sue
parti e si mortifica quindi l’intrinseca unitarietà dei segni che costituiscono
la celebrazione stessa.
La Costituzione Sacrosanctum
Concilium, al n. 113, aggiunge una precisazione importante quando
afferma : «L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini
uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la
parteciapzione attiva del popolo». E più avanti, al n. 114, dice: «I vescovi e
gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata
con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa parteciapare attivamente».
Quindi una celebrazione con canto, nel rispetto di quanto ho detto sopra, nella
quale però il canto è affidato ad una piccola schola e il resto dell’assemblea dei fedeli non canta nulla o quasi
(come talvolta capita qui a Roma in molte piccole chiese o rettorie del
centro), non ha tutti i crismi della solennità. L’altro estremo è quello di
alcune parrocchie in cui canta solo l’assemblea dei fedeli testi che non sono
quelli proposti dalla liturgia, ma canzonette
più o meno pertinenti al momento celebrativo.