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giovedì 11 febbraio 2016

UNA LETTURA INTERESSANTE DEL CONCILIO DI TRENTO


John W. O’Malley sj, Trento. ¿Qué pasó en el concilio? (Panorama 17), Sal Terrae 2015. 327 pp.

Il professore John W. O’Malley, dell’Università di Georgetown, è uno storico della Chiesa, specializzato nell’Europa dei secoli XVI e XVII. Ho letto il suo volume su Trento nella versione spagnola (quella italiana non è ancora sul mercato). Vorrei condividere con i lettori del blog alcune mie reazioni a questa piacevole lettura. La storia è maestra di vita e ci insegna ad interpretare il presente. Mi limito generalmente ad alcuni aspetti che hanno un rapporto con la liturgia.

Nell’Introduzione al suo volume, l’Autore ricorda che i migliori studiosi del concilio tridentino distinguono tra Trento e “tridentinismo”, e cioè, tra le decisioni propriamente dette del concilio e l’interpretazione che in seguito si è fatto di esse. Questa distinzione aiuta a capire come il concilio terminasse diventando un mito che andava oltre la realtà dell’avvenimento storico come tale (p. 11). Sempre nell’Introduzione, O’Malley afferma che Trento sulla lingua liturgica si limitò a dire che era sbagliata l’idea secondo cui la messa deve celebrarsi “soltanto” in lingua volgare, parole che se legittimano l’uso del latino, non ne dichiarano però obbligatorio l’uso (p. 19). Notiamo che il latino era la lingua internazionale del dialogo teologico, cattolico e protestante nonché la lingua ufficiale del concilio (p. 94). D’altra parte, Trento riconobbe l’utilità della comprensione di quanto si dice e si fa nella messa fino a raccomandare che il celebrante durante la celebrazione spiegasse ai fedeli qualcosa di quello che legge… (p. 190). Purtroppo, aggiunge O’Malley, molto prima della fine del concilio tridentino il latino era diventato un segno talmente chiaro dell’identità dei cattolici che il suo uso si impose in modo incontestabile (p. 190).

I decreti di Trento presentano l’eucaristia in modo frammentario, dovuto ai limiti della teologia scolastica medievale, che non era riuscita a formulare in modo sintetico e soddisfacente la indivisibile unità dei tre aspetti dell’eucaristia (sacrificio, presenza reale, comunione o “cena”) (pp. 189-190). Nei testi del concilio di Trento c’è una esortazione alla “comunione frequente”, cosa che era oggetto di dibattitto e, nonostante questa esortazione, continuò ad esserlo fino al secolo XX (pp. 147-148). Dopo il concilio tridentino, la messa era vista come il “sacrificio” della messa, ma la sua dimensione comunionale non era percepita dai fedeli perché la ricezione dell’eucaristia era fatta normalmente fuori dalla messa (p. 255). In questo contesto, si capisce perché nel periodo postridentino, il tabernacolo fosse collocato al centro dell’altre (p. 261).

Trento manifestò una persistente resistenza a concedere ai laici la comunione al calice. Questa resistenza era fondata in parte sull’autorità della Chiesa: La Chiesa aveva agito in modo illegittimo  quando aveva negato il calice ai laici? (p. 146). Pur essendoci accordo di massima sulla questione dottrinale, la discussione sui due articoli dedicati alla concessione del calice ai laici provocò una “feroce controversia” (p. 187). Pio IV però era disposto a concedere il calice ai laici a certe condizioni e, di fatto, questa concessione è stata fatta in alcune regioni. Ciò nonostante, non ebbe un seguito dato che il calice ai laici era diventato un segno distintivo tra luterani e cattolici (p. 252).

O’Malley afferma che se da una parte Trento evitò di affrontare il problema pastorale dell’ansietà che poteva provocare la confessione – ansietà che in alcune occasioni adottava forme gravi e si manifestava in persona così diverse come Lutero e Ignazio di Loyola – dall’altra parte involontariamente, con l’enfasi data alla dimensione giudiziaria della confessione, contribuì ad aumentare detto problema (p. 153). 

Nel concilio di Trento i teologi erano numerosi ed erano ascoltati prima della discussione in aula delle singole questioni. Ma questi teologi avevano due debolezze: nel presentare le idee dei protestanti prediligevano l’uso di testi isolati, male endemico della scolastica. Tolti dal loro contesto, questi testi non riuscivano ad avere piena forza come prova. In secondo luogo, i teologi erano carenti di una vera critica storica, altro male endemico della scolastica. Ciò portò il concilio a considerare di origine apostolica alcune credenze e pratiche che non lo erano (p. 249).

I rapporti tra i padri conciliari sono stati spesso tesi. Un caso che riflette questa tensione e quello in cui, nel dibattito sulla giustificazione il vescovo Tommaso Sanfelice furioso prese per la barba e agitò violentemente al vescovo francescano Dionigi Zanettini, il quale si mise a gridare forte chiamando l’attenzione dell’assemblea conciliare (p. 109).

O’Malley ricorda che san Carlo Borromeo, prototipo di fedeltà al concilio di Trento, proponeva tra l’altro che nella celebrazione della messa il sacerdote fosse rivolto verso i fedeli (versa ad populum facie).

Il lettore intelligente potrà ricavare da quanto detto alcune affinità ma anche alcune doverose differenze tra il concilio di Trento e il Vaticano II. Nihil novum sub sole!