John W. O’Malley sj, Trento. ¿Qué pasó en el concilio? (Panorama 17), Sal Terrae 2015. 327 pp.
Il
professore John W. O’Malley, dell’Università di Georgetown, è uno storico della
Chiesa, specializzato nell’Europa dei secoli XVI e XVII. Ho letto il suo volume
su Trento nella versione spagnola (quella italiana non è ancora sul mercato).
Vorrei condividere con i lettori del blog alcune mie reazioni a questa
piacevole lettura. La storia è maestra di vita e ci insegna ad interpretare il
presente. Mi limito generalmente ad alcuni aspetti che hanno un rapporto con la
liturgia.
Nell’Introduzione
al suo volume, l’Autore ricorda che i migliori studiosi del concilio tridentino
distinguono tra Trento e “tridentinismo”, e cioè, tra le decisioni propriamente
dette del concilio e l’interpretazione che in seguito si è fatto di esse.
Questa distinzione aiuta a capire come il concilio terminasse diventando un
mito che andava oltre la realtà dell’avvenimento storico come tale (p. 11).
Sempre nell’Introduzione, O’Malley afferma che Trento sulla lingua liturgica si
limitò a dire che era sbagliata l’idea secondo cui la messa deve celebrarsi
“soltanto” in lingua volgare, parole che se legittimano l’uso del latino, non
ne dichiarano però obbligatorio l’uso (p. 19). Notiamo che il latino era la
lingua internazionale del dialogo teologico, cattolico e protestante nonché la
lingua ufficiale del concilio (p. 94). D’altra parte, Trento riconobbe
l’utilità della comprensione di quanto si dice e si fa nella messa fino a
raccomandare che il celebrante durante la celebrazione spiegasse ai fedeli
qualcosa di quello che legge… (p. 190). Purtroppo, aggiunge O’Malley, molto
prima della fine del concilio tridentino il latino era diventato un segno
talmente chiaro dell’identità dei cattolici che il suo uso si impose in modo
incontestabile (p. 190).
I
decreti di Trento presentano l’eucaristia in modo frammentario, dovuto ai
limiti della teologia scolastica medievale, che non era riuscita a formulare in
modo sintetico e soddisfacente la indivisibile unità dei tre aspetti
dell’eucaristia (sacrificio, presenza reale, comunione o “cena”) (pp. 189-190).
Nei testi del concilio di Trento c’è una esortazione alla “comunione frequente”,
cosa che era oggetto di dibattitto e, nonostante questa esortazione, continuò
ad esserlo fino al secolo XX (pp. 147-148). Dopo il concilio tridentino, la
messa era vista come il “sacrificio” della messa, ma la sua dimensione
comunionale non era percepita dai fedeli perché la ricezione dell’eucaristia
era fatta normalmente fuori dalla messa (p. 255). In questo contesto, si
capisce perché nel periodo postridentino, il tabernacolo fosse collocato al
centro dell’altre (p. 261).
Trento
manifestò una persistente resistenza a concedere ai laici la comunione al
calice. Questa resistenza era fondata in parte sull’autorità della Chiesa: La Chiesa aveva agito in modo
illegittimo quando aveva
negato il calice ai laici? (p. 146). Pur essendoci accordo di massima sulla
questione dottrinale, la discussione sui due articoli dedicati alla concessione
del calice ai laici provocò una “feroce controversia” (p. 187). Pio IV però era
disposto a concedere il calice ai laici a certe condizioni e, di fatto, questa
concessione è stata fatta in alcune regioni. Ciò nonostante, non ebbe un
seguito dato che il calice ai laici era diventato un segno distintivo tra
luterani e cattolici (p. 252).
O’Malley
afferma che se da una parte Trento evitò di affrontare il problema pastorale
dell’ansietà che poteva provocare la confessione – ansietà che in alcune
occasioni adottava forme gravi e si manifestava in persona così diverse come
Lutero e Ignazio di Loyola – dall’altra parte involontariamente, con l’enfasi
data alla dimensione giudiziaria della confessione, contribuì ad aumentare
detto problema (p. 153).
Nel
concilio di Trento i teologi erano numerosi ed erano ascoltati prima della
discussione in aula delle singole questioni. Ma questi teologi avevano due
debolezze: nel presentare le idee dei protestanti prediligevano l’uso di testi
isolati, male endemico della scolastica. Tolti dal loro contesto, questi testi
non riuscivano ad avere piena forza come prova. In secondo luogo, i teologi
erano carenti di una vera critica storica, altro male endemico della
scolastica. Ciò portò il concilio a considerare di origine apostolica alcune
credenze e pratiche che non lo erano (p. 249).
I
rapporti tra i padri conciliari sono stati spesso tesi. Un caso che riflette
questa tensione e quello in cui, nel dibattito sulla giustificazione il vescovo
Tommaso Sanfelice furioso prese per la barba e agitò violentemente al vescovo
francescano Dionigi Zanettini, il quale si mise a gridare forte chiamando
l’attenzione dell’assemblea conciliare (p. 109).
O’Malley
ricorda che san Carlo Borromeo, prototipo di fedeltà al concilio di Trento,
proponeva tra l’altro che nella celebrazione della messa il sacerdote fosse
rivolto verso i fedeli (versa ad populum
facie).
Il
lettore intelligente potrà ricavare da quanto detto alcune affinità ma anche
alcune doverose differenze tra il concilio di Trento e il Vaticano II. Nihil novum sub sole!