Baluardo o
cavallo di troia? Una recensione del volume dedicato alla “comunione sulla
mano”, introdotto dal card. Sarah (di Claudio U. Cortoni)
La Prefazione che il card. Sarah ha scritto intorno al tema della
“comunione sulla mano”, con i contenuti sopra le righe che abbiamo segnalato
nel post precedente ( qui), ha forse distratto da un elemento
decisivo: si trattava di un testo che è stato pubblicato nelle prime pagine di
un volume, scritto da F. Bortoli, e interamente dedicato ad un esame storico
della prassi di “distribuzione della comunione sulla mano”. Appare assai
importante conoscere bene il contenuto del volume, per valutare anche da questo
punto di vista il testo che cardinale ha voluto scrivere per introdurlo.
Siamo perciò contenti di ricevere questa articolata recensione del volume,
scritta con cura dal prof. Claudio U. Cortoni, e che rivela la debolezza
argomentativa e la fragilità documentaria del testo di Bortoli. Si tratta di
una tesi di dottorato, scritta in ambito giuridico, che pretende di “dettare
legge” in ambito teologico e spirituale, sul quale, come appare evidente, non
dimostra di avere alcuna specifica competenza. Tanto più grave sembra che ad un
lavoro tanto fragile e discutibile, il Prefetto Sarah abbia voluto far
premettere il proprio testo. Così, con l’intento di dare autorevolezza ad un
volume tanto precario, ha ottenuto l’effetto opposto. per valutare questo
infortunio teologico e dottrinale, la recensione di Cortoni ci dà argomenti
numerosi e convincenti.
L’eucaristia: un sacramento da venerare?
La tesi della comunione in bocca alla prova della storia
di Claudio U. Cortoni
“La storia è maestra di verità, insegna a riconoscere la relatività di ciò
che è effettivamente relativo”. Interessante e davvero educativo quanto Yves
Congar scrive della ricerca storica, applicata ovviamente alla rilettura della
tradizione attraverso le fonti e riconoscendo un implicito valore teologico
al ressourcement. Il ritorno alle fonti, infatti, non solo può
gettare nuova luce sul passato, ma può anche illuminare il presente: chi
potrebbe in effetti pensare di affrontare la storia dell’interpretazione
dell’eucaristia ignorando il nome di Henri de Lubac, o l’invito di Karl Rahner
ad approfittare delle nuove edizioni patristiche e medievali, per porre qualche
interrogativo illuminante alla storia del dogma della presenza reale nelle
specie eucaristizzate? E questo per non ridurre il tutto alla sola devozione
eucaristica.
La bibliografia trascurata
Eppure Federico Bortoli nel capitolo iniziale della sua tesi
dottorale, La distribuzione della Comunione sulla mano, (Firenze,
Cantagalli, 2018) che reca il sottotitolo Profili storici, giuridici e
pastorali, nel passaggio più opportuno, quello dedicato agli
approfondimenti dottrinali sull’eucaristia, non solo ignora Henri de Lubac, ma
omette anche gli studi più recenti di Enrico Mazza, e di altri ancora che si
sono dedicati allo studio dell’interpretazione dell’eucaristia dall’epoca
patristica al medioevo; ma non solo, è rimasto inascoltato anche il richiamo di
K. Rahner ad approfittare delle fonti patristiche e medievali in edizione
critica, che offrono introduzioni appropriate al testo e al contesto
storico-teologico nel quale videro la luce, continuando invece a citare, per la
maggior parte degli autori, l’edizione della Patrologia Latina.
Perché allora insistere sul profilo storico?
La storia, come scrive Y. Congar, ha la proprietà di riconoscere la
relatività di quanto è davvero relativo, anche nella dottrina, se non fosse che
questo termine è caduto in disgrazia negli ultimi decenni, senza pensare che
tutto ciò che ha una vita, una storia, va rapportato al suo contesto, ai suoi
interlocutori, senza nulla togliere alla verità di cui un pronunciamento
dottrinale è portatore. Si invoca la storia, ma per confermare quanto si crede
tradizione della chiesa, senza entrare minimamente nella più complessa dinamica
istituzionale, dottrinale e pastorale, che davvero ha dato forma a più tradizioni
nell’unica chiesa, senza che queste ne mettessero a repentaglio l’unità.
Le differenze e la comunione
Non sono mie parole, ma riecheggiano negli scritti di Raterio da Verona,
Anselmo d’Aosta, Anselmo di Havelberg, i quali credevano che la differenza nella
celebrazione dei riti, compresa la celebrazione eucaristica, non fosse causa di
divisione tra le chiese, e per chiese non si intendeva solo le Tradizioni
orientali e quella occidentale, ma all’interno della stessa chiesa latina, se
rimaneva intatta la memoria della dispensatio Christi mediante
l’opera dell’unico Spirito, poiché il sacramentum fidei fides est.
Ciò non si fermava al rito, ma si spingeva fino all’ordo che la
chiesa poteva assumere nella sua composizione in consonanza con il mutare delle
consuetudini degli uomini, come scrive Adalberone di Laon («Mutantur mores
hominum, mutatur et ordo»), senza alcuna paura di cadere in un qualsivoglia
forma di relativismo, ma per favorire una chiesa davvero contemporanea all’uomo
del suo tempo. Ovviamente la chiesa in Francia, quella in Germania e in Italia
avrebbero declinato questi principi generali in forme diverse e spesso
inattese, perché in risposta a contesti socio-culturali differenti, dai quali
dipendeva l’organizzazione della società civile, e dunque anche di quella
grande porzione del popolo di Dio che sono i laici, i destinatari dei
sacramenti, intesi quasi esclusivamente in chiave escatologica. Dunque la tanto
aspirata unità attraverso l’uniformità inseguita prima dai carolingi (sec.
VIII-IX), poi dalla chiesa della rinascita ottoniana (sec. X-XI) e infine dalla
Chiesa romana (sec. XII-XIII), doveva fare i conti anche con quanto scrivono i
pastori delle proprie diocesi, e viceversa.
La storia e la dottrina
In questo senso la storia è maestra di verità, rimettendo al suo
posto ogni tessera del mosaico dottrinale in più ampio contesto, che è quello
di una chiesa che non teme di incarnarsi nel suo tempo. Tutto ciò rispetto al
capitolo che avrebbe dovuto fondare storicamente la posizione di Bortoli sulla
distribuzione dell’eucarestia, sulla mano o in bocca, avrebbe dovuto
indirizzare lo studio verso una contestualizzazione delle fonti portate a prova
della propria posizione, e non accostate solo per temi affini, ma criticamente
valutate e rilette alla luce dei dati storico-teologici.
Pur rimanendo veri i passi estrapolati dai Padri e dalle assemblee sinodali
sulla convenienza di far comunicare i laici assumendo il pane eucaristizzato
direttamente in bocca, manca una qualsiasi domanda sul senso teologico assunto
dai riti di comunione alla fine del Tardo Antico e lungo il Medioevo, come pure
manca una seria riflessione sui diversi modelli ecclesiologici che si sono
succeduti in più di mille anni, da corpo mistico a corpo ecclesiale, il cui
effetto fu quello di “clericalizzare i chierici” e di escludere i laici dagli
spazi del sacro, inserendo indebitamente nel rito segni di devozione
appartenenti al mondo feudale, per sottolineare la venerazione al sacramento
eucaristico ma ancora di più per il ministro, un processo che conobbe
un’accelerazione con il pontificato di Innocenzo III, ma già conosciuto da
Amalario di Metz, che sull’atteggiamento tenuto dal comunicante preferisce ad
una stilizzazione liturgica una devozione intima.
Assenze troppo gravi
È assente un’indagine previa sul linguaggio cristologico trinitario,
debitore della teologia di Calcedonia, che fonda il fisicismo eucaristico di
Pascasio e una problematicizzazione della posizione di Ratramno, su cui si
fonda tutta la riflessione sul sacramento in genere dei secoli successivi, e
una visione complessiva sui tre modi di riferirsi al corpo di Cristo, il corpo
storico (corpus Christi historici), corpo sacramentale (corpus
in mysterio), e corpo mistico, la chiesa (corpus mysticum),
condivisa tanto da Ratramno che da Pascasio, per non cadere in quello che il
medievista Ovidio Capitani ed il liturgista Enrico Mazza definiscono fisicismo
ingenuo. Infatti sia per Pascasio che per Ratramno, i fedeli, assumendo il
corpo e il sangue di Cristo, comunicavano al corpo di Cristo e alla Sua chiesa.
Nella breve esposizione storica che avrebbe dovuto ripercorre lo sviluppo
medievale della questione, Bortoli si sofferma sui protagonisti delle due
controversie eucaristiche fino a Innocenzo III, ignorando quegli scrittori
ecclesiastici, le cui opere gli avrebbero offerto un’ampia visuale sul problema
liturgico-disciplinare del sacramento dell’eucaristia, come Guglielmo Durando
ed Egidio Romano, entrambi versati tanto in questioni liturgico-sacramentali
che in diritto. Questo gli avrebbe permesso di arricchire il profilo giuridico
della tesi, che non può essere limitato alla citazione di alcuni sinodi, e alla
loro ricezioni in pochi Concili generali della Chiesa latina, o al solo
magistero del sec. XX-XXI. Manca in effetti a questo riguardo un panorama
generale sulla ricezione delle decisioni sinodali dal VII al X sec. recepite
nel Decretum Gratiani, una questione già indicata dallo storico e
giurista francese Jean Gaudemet.
Riformatori giudicati in contumacia
Il problema si fa più serio quando Bortoli viene a trattare le
posizioni in materia di eucaristia in un periodo complesso come quello delle
Riforme, citando John Wycliff, in realtà al termine della sezione sulle
posizioni sostenute nel Medioevo, senza menzionare il fatto che egli recupera
Berengario di Tours nel tentativo di rileggere la dottrina eucaristica
nel Decretum Gratiani e nel magistero di Innocenzo III, una
questione studiata dalla storiografia più recente, e che probabilmente avrebbe
portato ad una riflessione più accurata sull’intreccio tra il discorso
sacramentale e quello canonico disciplinare. In tutto questo si parla di
presenza reale senza darne una ragione storico dottrinale, e soprattutto senza
inserirla nel più complesso confronto tra il magistero e l’avvento di quella
lunga stagione che può essere identificata come “medioevo ereticale”, che si
muove lungo due direttrici: crisi cristologico-trinitaria, innescata dalla
dottrina catara; e crisi ecclesiologica-ministeriale, dovuta ai movimenti nati
sulla spinta di un ritorno all’antica forma della chiesa, come descritta nei
libri degli Atti, fatta propria dalla Chiesa valdese, ma con una lunga storia
alle spalle come quella dei Petrobrusiani, i quali negavano la possibilità di
ripetere la cena del Signore, perché storicamente consumata dal Cristo, che ora
siede alla destra del Padre, di cui nessun ministro può dirsi a ragione
vicario. In questo caso dovremmo guardare alle anomalie per comprendere la
norma, che spesso ci sfugge perché siamo concentrati solo sulle norme
disciplinari a rimedio degli abusi.
Presenza reale e comunione in bocca
Nell’elaborazione storica del Bortoli, il ricorso al dogma della
presenza reale rappresenta senza dubbio il più problematico sostegno alla
consuetudine di ricevere l’eucaristia direttamente in bocca e non sulla mano.
Dico questo perché viene tralasciato ogni debito richiamo allo sfondo
escatologico e soteriologico, che comunque animava il credente delineato lungo
la storia medievale, ed è invece appena accennato lo sfondo ecclesiologico, pur
presente nell’interpretazione teologica dei riti di comunione. Emerge invece in
maniera chiara la preoccupazione che il modo di ricevere la comunione sia
adeguato alla venerazione che spetta a tale sacramento. Ma l’autore si è
chiesto se esista davvero nella chiesa la prassi di venerare un sacramento?
Ovviamente la risposta viene proponendo l’istituzione della festa del Corpus
Domini, ma anche qui Bortoli dimentica di fare un’analisi
accurata delle due Bolle esistenti edite, ormai da lungo tempo, dallo storico
Ezio Franceschini, che rimandano alla prassi penitenziale legata ai riti di
comunione, senza preoccuparsi poi degli sviluppi successivi della festa nel
Trecento, che ha dato vita alla prassi che oggi conosciamo. Nelle Bolle di
istituzione della festa del Corpus Domini il centro non è il
modo di assumere l’eucaristia, ma come l’assumiamo nel senso della disposizione
interiore, che richiama l’aspetto escatologico del Giudizio e della salvezza
procurata da Cristo.
Il ruolo della “impurità della donna”
Per concludere, proprio sulla comunione in bocca o sulla mano, una
critica va portata al richiamo che viene fatto ad alcuni testi patristici, come
la Traditio Apostolica, di cui l’autore sembra ignorare il lavoro
di critica testuale fatto in questi ultimi anni, il richiamo fatto a diversi
sinodi, da quelli del sec. VII celebrati nelle Gallie (Merovingi) a quello di
Cordoba dell’839, senza minimamente aver contestualizzato alcune pratiche nate
in seno all’evangelizzazione di quei territori, e ad una questione ancora più
spinosa, rappresentata dall’impurità rituale della donna, oggetto di decisioni
sinodali sin dal sec. V. Ovviamente è noto come i sinodi della chiesa
dell’Africa latina abbiano influito poi su quelli celebrati in Gallia al tempo
dei Merovingi, e come questo abbia influito anche sulla benedizione delle
nozze, che prevedeva ad es. una giusta distanza dal ministro e la spoliazione
degli arredi sacri dell’altare, perché non venissero profanati da un’unione che
avrebbe previsto la consumazione. Mi chiedo se, come per il matrimonio oggi non
è più così, allo stesso modo anche altri usi entrati nella ritualità della
chiesa per una visione negativa della donna e poi estesa a tutto il laicato,
costituiscano “tradizione” o debbano essere trattati come ogni consuetudine,
che ha la possibilità di essere rivista? Lo studio storico che dovrebbe rendere
chiara anche una certa prassi pastorale e disciplinare, dovrebbe aprire a nuova
considerazioni, come ci suggerisce dall’XI sec. Adalberone di Laon: «Mutantur
mores hominum, mutatur et ordo». Non credo che questo possa influire
negativamente sulla realtà dell’eucaristia, come presenza del Signore nel
pellegrinaggio dell’uomo e della donna verso il Regno.
Un baluardo o un cavallo di troia?
Mi sono soffermato molto sulla premessa storica di Bortoli perché
particolarmente elogiata dal Card. Robert Sarah nella prefazione al volume.
Delle sue molte parole ed indicazioni, quasi tutte attente più agli abusi che
alla possibilità di riaccostare i credenti alla comunione sacramentale con una
rinnovata coscienza ecclesiologica e soteriologica, un’affermazione in
particolare mi ha colpito, ossia quella che vede nella parola
“transustanziazione un bastione inespugnabile contro le eresie”, a cui segue
un’invettiva contro il pensiero filosofico applicato alle realtà di fede.
Ovviamente apprezzo da parte del Card. Sarah l’aggiornamento fatto della
lettera con la quale Gregorio IX, scrivendo ai teologici di Parigi nel 1228, li
metteva in guardia circa i rischi di sottoporre le realtà della fede al vaglio
di una filosofia profana, più adatta ad investigare le realtà naturali; mi
dispiace però che tra quei teologici si possano annoverare Pietro Lombardo, già
difeso e accolto da Innocenzo III, e tanti altri che ben conosciamo. Ma che la
transustanziazione possa essere un baluardo contro le eresie non credo, dato
che la definizione di sacramento in genere che abbiamo è una rielaborazione
berengariana della tradizione agostiniana tardo carolingia, riprese e
perfezionata da Pietro Lombardo, uno di quei maestri di Parigi il cui metodo
era fortemente riprovato da Gregorio IX; e dato che la parola realtà poi
applicata alla presenza del Cristo nelle specie eucaristiche, è una novità
senza precedenti, tanto che la parola non esisteva, ed è stata la filosofia
profana da averla fornita a Ugo di Langres nella disputa con Berengario, quando
per la prima volta pensò di ricorrere alla distinzione “res et sacramentum”.