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giovedì 1 marzo 2018

Baluardo o cavallo di troia?


Baluardo o cavallo di troia? Una recensione del volume dedicato alla “comunione sulla mano”, introdotto dal card. Sarah (di Claudio U. Cortoni)


Pubblicato il 1 marzo 2018 nel blog: Come se non

La Prefazione che il card. Sarah ha scritto intorno al tema della “comunione sulla mano”, con i contenuti sopra le righe che abbiamo segnalato nel post precedente ( qui), ha forse distratto da un elemento decisivo: si trattava di un testo che è stato pubblicato nelle prime pagine di un volume, scritto da F. Bortoli, e interamente dedicato ad un esame storico della prassi di “distribuzione della comunione sulla mano”. Appare assai importante conoscere bene il contenuto del volume, per valutare anche da questo punto di vista il testo che cardinale ha voluto scrivere per introdurlo.  Siamo perciò contenti di ricevere questa articolata recensione del volume, scritta con cura dal prof. Claudio U. Cortoni, e che rivela la debolezza argomentativa e la fragilità documentaria del testo di Bortoli. Si tratta di una tesi di dottorato, scritta in ambito giuridico, che pretende di “dettare legge” in ambito teologico e spirituale, sul quale, come appare evidente, non dimostra di avere alcuna specifica competenza. Tanto più grave sembra che ad un lavoro tanto fragile e discutibile, il Prefetto Sarah abbia voluto far premettere il proprio testo. Così, con l’intento di dare autorevolezza ad un volume tanto precario, ha ottenuto l’effetto opposto. per valutare questo infortunio teologico e dottrinale, la recensione di Cortoni ci dà argomenti numerosi e convincenti.
 L’eucaristia: un sacramento da venerare?
La tesi della comunione in bocca alla prova della storia
di Claudio U. Cortoni
“La storia è maestra di verità, insegna a riconoscere la relatività di ciò che è effettivamente relativo”. Interessante e davvero educativo quanto Yves Congar scrive della ricerca storica, applicata ovviamente alla rilettura della tradizione attraverso le fonti e riconoscendo un implicito valore teologico al ressourcement. Il ritorno alle fonti, infatti, non solo può gettare nuova luce sul passato, ma può anche illuminare il presente: chi potrebbe in effetti pensare di affrontare la storia dell’interpretazione dell’eucaristia ignorando il nome di Henri de Lubac, o l’invito di Karl Rahner ad approfittare delle nuove edizioni patristiche e medievali, per porre qualche interrogativo illuminante alla storia del dogma della presenza reale nelle specie eucaristizzate? E questo per non ridurre il tutto alla sola devozione eucaristica.
La bibliografia trascurata
Eppure Federico Bortoli nel capitolo iniziale della sua tesi dottorale, La distribuzione della Comunione sulla mano, (Firenze, Cantagalli, 2018) che reca il sottotitolo Profili storici, giuridici e pastorali, nel passaggio più opportuno, quello dedicato agli approfondimenti dottrinali sull’eucaristia, non solo ignora Henri de Lubac, ma omette anche gli studi più recenti di Enrico Mazza, e di altri ancora che si sono dedicati allo studio dell’interpretazione dell’eucaristia dall’epoca patristica al medioevo; ma non solo, è rimasto inascoltato anche il richiamo di K. Rahner ad approfittare delle fonti patristiche e medievali in edizione critica, che offrono introduzioni appropriate al testo e al contesto storico-teologico nel quale videro la luce, continuando invece a citare, per la maggior parte degli autori, l’edizione della Patrologia Latina. Perché allora insistere sul profilo storico?
La storia, come scrive Y. Congar, ha la proprietà di riconoscere la relatività di quanto è davvero relativo, anche nella dottrina, se non fosse che questo termine è caduto in disgrazia negli ultimi decenni, senza pensare che tutto ciò che ha una vita, una storia, va rapportato al suo contesto, ai suoi interlocutori, senza nulla togliere alla verità di cui un pronunciamento dottrinale è portatore. Si invoca la storia, ma per confermare quanto si crede tradizione della chiesa, senza entrare minimamente nella più complessa dinamica istituzionale, dottrinale e pastorale, che davvero ha dato forma a più tradizioni nell’unica chiesa, senza che queste ne mettessero a repentaglio l’unità.
Le differenze e la comunione
Non sono mie parole, ma riecheggiano negli scritti di Raterio da Verona, Anselmo d’Aosta, Anselmo di Havelberg, i quali credevano che la differenza nella celebrazione dei riti, compresa la celebrazione eucaristica, non fosse causa di divisione tra le chiese, e per chiese non si intendeva solo le Tradizioni orientali e quella occidentale, ma all’interno della stessa chiesa latina, se rimaneva intatta la memoria della dispensatio Christi mediante l’opera dell’unico Spirito, poiché il sacramentum fidei fides est.
Ciò non si fermava al rito, ma si spingeva fino all’ordo che la chiesa poteva assumere nella sua composizione in consonanza con il mutare delle consuetudini degli uomini, come scrive Adalberone di Laon («Mutantur mores hominum, mutatur et ordo»), senza alcuna paura di cadere in un qualsivoglia forma di relativismo, ma per favorire una chiesa davvero contemporanea all’uomo del suo tempo. Ovviamente la chiesa in Francia, quella in Germania e in Italia avrebbero declinato questi principi generali in forme diverse e spesso inattese, perché in risposta a contesti socio-culturali differenti, dai quali dipendeva l’organizzazione della società civile, e dunque anche di quella grande porzione del popolo di Dio che sono i laici, i destinatari dei sacramenti, intesi quasi esclusivamente in chiave escatologica. Dunque la tanto aspirata unità attraverso l’uniformità inseguita prima dai carolingi (sec. VIII-IX), poi dalla chiesa della rinascita ottoniana (sec. X-XI) e infine dalla Chiesa romana (sec. XII-XIII), doveva fare i conti anche con quanto scrivono i pastori delle proprie diocesi, e viceversa.
 La storia e la dottrina
 In questo senso la storia è maestra di verità, rimettendo al suo posto ogni tessera del mosaico dottrinale in più ampio contesto, che è quello di una chiesa che non teme di incarnarsi nel suo tempo. Tutto ciò rispetto al capitolo che avrebbe dovuto fondare storicamente la posizione di Bortoli sulla distribuzione dell’eucarestia, sulla mano o in bocca, avrebbe dovuto indirizzare lo studio verso una contestualizzazione delle fonti portate a prova della propria posizione, e non accostate solo per temi affini, ma criticamente valutate e rilette alla luce dei dati storico-teologici.
Pur rimanendo veri i passi estrapolati dai Padri e dalle assemblee sinodali sulla convenienza di far comunicare i laici assumendo il pane eucaristizzato direttamente in bocca, manca una qualsiasi domanda sul senso teologico assunto dai riti di comunione alla fine del Tardo Antico e lungo il Medioevo, come pure manca una seria riflessione sui diversi modelli ecclesiologici che si sono succeduti in più di mille anni, da corpo mistico a corpo ecclesiale, il cui effetto fu quello di “clericalizzare i chierici” e di escludere i laici dagli spazi del sacro, inserendo indebitamente nel rito segni di devozione appartenenti al mondo feudale, per sottolineare la venerazione al sacramento eucaristico ma ancora di più per il ministro, un processo che conobbe un’accelerazione con il pontificato di Innocenzo III, ma già conosciuto da Amalario di Metz, che sull’atteggiamento tenuto dal comunicante preferisce ad una stilizzazione liturgica una devozione intima.
 Assenze troppo gravi
 È assente un’indagine previa sul linguaggio cristologico trinitario, debitore della teologia di Calcedonia, che fonda il fisicismo eucaristico di Pascasio e una problematicizzazione della posizione di Ratramno, su cui si fonda tutta la riflessione sul sacramento in genere dei secoli successivi, e una visione complessiva sui tre modi di riferirsi al corpo di Cristo, il corpo storico (corpus Christi historici), corpo sacramentale (corpus in mysterio), e corpo mistico, la chiesa (corpus mysticum), condivisa tanto da Ratramno che da Pascasio, per non cadere in quello che il medievista Ovidio Capitani ed il liturgista Enrico Mazza definiscono fisicismo ingenuo. Infatti sia per Pascasio che per Ratramno, i fedeli, assumendo il corpo e il sangue di Cristo, comunicavano al corpo di Cristo e alla Sua chiesa.
Nella breve esposizione storica che avrebbe dovuto ripercorre lo sviluppo medievale della questione, Bortoli si sofferma sui protagonisti delle due controversie eucaristiche fino a Innocenzo III, ignorando quegli scrittori ecclesiastici, le cui opere gli avrebbero offerto un’ampia visuale sul problema liturgico-disciplinare del sacramento dell’eucaristia, come Guglielmo Durando ed Egidio Romano, entrambi versati tanto in questioni liturgico-sacramentali che in diritto. Questo gli avrebbe permesso di arricchire il profilo giuridico della tesi, che non può essere limitato alla citazione di alcuni sinodi, e alla loro ricezioni in pochi Concili generali della Chiesa latina, o al solo magistero del sec. XX-XXI. Manca in effetti a questo riguardo un panorama generale sulla ricezione delle decisioni sinodali dal VII al X sec. recepite nel Decretum Gratiani, una questione già indicata dallo storico e giurista francese Jean Gaudemet.
 Riformatori giudicati in contumacia
 Il problema si fa più serio quando Bortoli viene a trattare le posizioni in materia di eucaristia in un periodo complesso come quello delle Riforme, citando John Wycliff, in realtà al termine della sezione sulle posizioni sostenute nel Medioevo, senza menzionare il fatto che egli recupera Berengario di Tours nel tentativo di rileggere la dottrina eucaristica nel Decretum Gratiani e nel magistero di Innocenzo III, una questione studiata dalla storiografia più recente, e che probabilmente avrebbe portato ad una riflessione più accurata sull’intreccio tra il discorso sacramentale e quello canonico disciplinare. In tutto questo si parla di presenza reale senza darne una ragione storico dottrinale, e soprattutto senza inserirla nel più complesso confronto tra il magistero e l’avvento di quella lunga stagione che può essere identificata come “medioevo ereticale”, che si muove lungo due direttrici: crisi cristologico-trinitaria, innescata dalla dottrina catara; e crisi ecclesiologica-ministeriale, dovuta ai movimenti nati sulla spinta di un ritorno all’antica forma della chiesa, come descritta nei libri degli Atti, fatta propria dalla Chiesa valdese, ma con una lunga storia alle spalle come quella dei Petrobrusiani, i quali negavano la possibilità di ripetere la cena del Signore, perché storicamente consumata dal Cristo, che ora siede alla destra del Padre, di cui nessun ministro può dirsi a ragione vicario. In questo caso dovremmo guardare alle anomalie per comprendere la norma, che spesso ci sfugge perché siamo concentrati solo sulle norme disciplinari a rimedio degli abusi.
 Presenza reale e comunione in bocca
 Nell’elaborazione storica del Bortoli, il ricorso al dogma della presenza reale rappresenta senza dubbio il più problematico sostegno alla consuetudine di ricevere l’eucaristia direttamente in bocca e non sulla mano. Dico questo perché viene tralasciato ogni debito richiamo allo sfondo escatologico e soteriologico, che comunque animava il credente delineato lungo la storia medievale, ed è invece appena accennato lo sfondo ecclesiologico, pur presente nell’interpretazione teologica dei riti di comunione. Emerge invece in maniera chiara la preoccupazione che il modo di ricevere la comunione sia adeguato alla venerazione che spetta a tale sacramento. Ma l’autore si è chiesto se esista davvero nella chiesa la prassi di venerare un sacramento?
Ovviamente la risposta viene proponendo l’istituzione della festa del Corpus Domini, ma anche qui Bortoli dimentica di fare un’analisi accurata delle due Bolle esistenti edite, ormai da lungo tempo, dallo storico Ezio Franceschini, che rimandano alla prassi penitenziale legata ai riti di comunione, senza preoccuparsi poi degli sviluppi successivi della festa nel Trecento, che ha dato vita alla prassi che oggi conosciamo. Nelle Bolle di istituzione della festa del Corpus Domini il centro non è il modo di assumere l’eucaristia, ma come l’assumiamo nel senso della disposizione interiore, che richiama l’aspetto escatologico del Giudizio e della salvezza procurata da Cristo.
 Il ruolo della “impurità della donna”
 Per concludere, proprio sulla comunione in bocca o sulla mano, una critica va portata al richiamo che viene fatto ad alcuni testi patristici, come la Traditio Apostolica, di cui l’autore sembra ignorare il lavoro di critica testuale fatto in questi ultimi anni, il richiamo fatto a diversi sinodi, da quelli del sec. VII celebrati nelle Gallie (Merovingi) a quello di Cordoba dell’839, senza minimamente aver contestualizzato alcune pratiche nate in seno all’evangelizzazione di quei territori, e ad una questione ancora più spinosa, rappresentata dall’impurità rituale della donna, oggetto di decisioni sinodali sin dal sec. V. Ovviamente è noto come i sinodi della chiesa dell’Africa latina abbiano influito poi su quelli celebrati in Gallia al tempo dei Merovingi, e come questo abbia influito anche sulla benedizione delle nozze, che prevedeva ad es. una giusta distanza dal ministro e la spoliazione degli arredi sacri dell’altare, perché non venissero profanati da un’unione che avrebbe previsto la consumazione. Mi chiedo se, come per il matrimonio oggi non è più così, allo stesso modo anche altri usi entrati nella ritualità della chiesa per una visione negativa della donna e poi estesa a tutto il laicato, costituiscano “tradizione” o debbano essere trattati come ogni consuetudine, che ha la possibilità di essere rivista? Lo studio storico che dovrebbe rendere chiara anche una certa prassi pastorale e disciplinare, dovrebbe aprire a nuova considerazioni, come ci suggerisce dall’XI sec. Adalberone di Laon: «Mutantur mores hominum, mutatur et ordo». Non credo che questo possa influire negativamente sulla realtà dell’eucaristia, come presenza del Signore nel pellegrinaggio dell’uomo e della donna verso il Regno.
 Un baluardo o un cavallo di troia?
Mi sono soffermato molto sulla premessa storica di Bortoli perché particolarmente elogiata dal Card. Robert Sarah nella prefazione al volume. Delle sue molte parole ed indicazioni, quasi tutte attente più agli abusi che alla possibilità di riaccostare i credenti alla comunione sacramentale con una rinnovata coscienza ecclesiologica e soteriologica, un’affermazione in particolare mi ha colpito, ossia quella che vede nella parola “transustanziazione un bastione inespugnabile contro le eresie”, a cui segue un’invettiva contro il pensiero filosofico applicato alle realtà di fede. Ovviamente apprezzo da parte del Card. Sarah l’aggiornamento fatto della lettera con la quale Gregorio IX, scrivendo ai teologici di Parigi nel 1228, li metteva in guardia circa i rischi di sottoporre le realtà della fede al vaglio di una filosofia profana, più adatta ad investigare le realtà naturali; mi dispiace però che tra quei teologici si possano annoverare Pietro Lombardo, già difeso e accolto da Innocenzo III, e tanti altri che ben conosciamo. Ma che la transustanziazione possa essere un baluardo contro le eresie non credo, dato che la definizione di sacramento in genere che abbiamo è una rielaborazione berengariana della tradizione agostiniana tardo carolingia, riprese e perfezionata da Pietro Lombardo, uno di quei maestri di Parigi il cui metodo era fortemente riprovato da Gregorio IX; e dato che la parola realtà poi applicata alla presenza del Cristo nelle specie eucaristiche, è una novità senza precedenti, tanto che la parola non esisteva, ed è stata la filosofia profana da averla fornita a Ugo di Langres nella disputa con Berengario, quando per la prima volta pensò di ricorrere alla distinzione “res et sacramentum”.