2Cr
36,14-16.19-23; Sal 136 (137); Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
La
Pasqua ormai vicina (cf. colletta), la Chiesa ci invita alla gioia (cf.
antifona d’ingresso). Infatti, il Figlio dell’uomo è stato innalzato in croce,
dice il brano evangelico, affinché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna.
Per far capire che cosa vuol dire credere nel Figlio dell’uomo, l’odierno brano
del vangelo di Giovanni rimanda alla storia del popolo d’Israele che nel
cammino del deserto si era ribellato contro Mosè e contro lo stesso Dio, per
cui molti furono puniti con i morsi di serpenti velenosi e morirono. Avendo
però gli israeliti riconosciuto il loro peccato, Dio promette che chiunque,
morso dai serpenti, guarderà il serpente di rame collocato sopra un’asta,
resterà in vita. La storia di Israele va interpretata come un messaggio
profetico nel suo aspetto di severo giudizio sull’infedeltà del popolo e nel
suo aspetto di accorato invito al pentimento fondato sulla fedeltà
incondizionata di Dio. Il serpente innalzato da Mosè nel deserto è una
prefigurazione di Gesù innalzato sulla croce. Il serpente di rame salvava
perché presupponeva la fede nella parola di Dio che promette la salvezza. In
modo analogo Gesù morto in croce è fonte di salvezza per chiunque vi riconosce
la rivelazione dell’amore di Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio
unigenito; chiunque crede in lui ha la vita eterna” (canto al vangelo).
Alla
nostra infedeltà e al nostro peccato si contrappongono la fedeltà e l’amore
misericordioso di Dio. Al peccato che conduce l’uomo alla schiavitù e alla
morte si contrappone l’amore di Dio che dona liberazione e salvezza. La prima
lettura illustra lo stesso concetto: al peccato d’Israele che gli ha meritato
la punizione della deportazione in Babilonia, si contrappone l’amore di Dio
che, fedele alla sua parola, libera il suo popolo dall’oppressione e lo
riconduce a Gerusalemme. La nostra salvezza non è fondata sui nostri meriti, ma
sull’infinita ricchezza della misericordia di Dio. E’ ciò che ricorda san Paolo
ai primi cristiani di Efeso: la salvezza “non viene da voi, ma è dono di Dio”
(cf. seconda lettura). E tutto ciò, aggiunge l’Apostolo, trova pieno compimento
in Cristo Gesù: “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con
Cristo”. L’ultima parola di Dio non è la morte ma la vita.
Quando
si parla di “colpa” o di peccato si ha a che fare con il compimento o il
fallimento di una esistenza: solo chi ha forte il senso della dignità dell’uomo
davanti a Dio, del suo destino eterno, è capace di percepire quanto grande sia
la tragedia del peccato. Paradossalmente però il peccato rivela chi è Dio:
quanto più profondo è il rifiuto dell’uomo, tanto più grande appare l’abisso
dell’amore divino, che la croce mostra in tutta la sua concretezza e veracità.