Es
12,1-8.11-14; Sal 115 (116); 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15
E’
evidente che le preghiere e le letture bibliche della Messa “in cena Domini”,
hanno come tema il fatto dell’istituzione dell’eucaristia. Va però osservato
che questo tema è più rigorosamente proposto se lo si incentra attorno a quello
della “consegna” (in latino: traditio),
e questo secondo un doppio significato: quello della “consegna/tradimento” di
Cristo da parte di Giuda e, in modo particolare, quello della “consegna” che
Gesù fa di se stesso sia nell’evento storico della sua passione e morte, sia
attraverso l’evento rituale della cena/eucaristia.
Nella
nostra riflessione, partiamo dal racconto dell’istituzione dell’eucaristia
riportato da san Paolo nella prima lettura. Dando ai discepoli il pane spezzato
e dicendo loro: “Questo è il mio corpo che è per voi”, Gesù anticipa e
interpreta l’evento della sua passione come consegna totale di se stesso a noi.
Il “corpo” infatti, nel linguaggio biblico, non indica propriamente l’organismo
fisico di una persona, ma essa stessa in quanto capace di esprimersi e di
manifestarsi, la persona nella sua concreta relazionalità con gli altri e con
il mondo e al tempo stesso nella sua condizione di mortalità. Di fatto Gesù ha
interpretato tutta la sua esistenza in chiave di “servizio”, come esprime bene
l’episodio della lavanda dei piedi riportato da Giovanni. Con il suo gesto e le
sue parole sul pane nell’ultima cena, Gesù ha presentato per così dire ai
discepoli – sia pure in modo velato e misterioso – il significato della sua
morte quale supremo atto di donazione di se stesso, nella logica di quella
radicale carità che egli aveva costantemente predicato: “Vi do un comandamento
nuovo: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (canto
al vangelo).
La
morte di Gesù in croce rappresenta l’estrema attuazione del dono di se stesso
che Gesù ha compiuto, vivendo fino in fondo la logica dell’amore totale e senza
condizioni per il Padre e per gli uomini. Ma questo dono non rimane solo un
gesto eroico e commovente, che però esaurisce il suo senso nel compiersi come
atto espressivo di amore. E’ invece un fatto da cui deriva un reale beneficio
per noi, un grande bene. Gesù fa dono di se stesso “per noi”. Lo ha fatto
nell’evento della sua morte in croce, e lo ha fatto nel sacramento
dell’eucaristia. In ciò che è avvenuto sul calvario e in ciò che Gesù ha fatto
nell’ultima cena è in gioco la stessa realtà di fondo. Il senso più profondo di
ciò che è avvenuto sul calvario, è il dono totale di se stesso che Gesù ha
compiuto una volta per sempre, in modo definitivo, nella morte liberamente
accettata. Questa stessa realtà, il dono di se stesso per noi, è la verità
profonda di ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena. Di questa realtà Gesù ha
fatto il suo “testamento”. Dicendo “ogni volta che mangiate questo pane e bevete
questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”, Gesù ha
lasciato in eredità a tutta la Chiesa lungo i secoli, come realtà perennemente
presente nel gesto rituale dell’eucaristia, quel dono di se stesso e della sua
vita per noi, che egli portò all’estremo compimento sul piano storico nella sua
passione e morte.
La
liturgia del Giovedì santo celebra l’eucaristia, memoriale della Pasqua di
Cristo, sacramento del suo amore infinito per noi e di quello che dobbiamo
avere gli uni per gli altri, e l’istituzione del ministero sacerdotale, che
deve essere compreso ed esercitato, sull’esempio del Signore, come servizio dei
fratelli e delle sorelle nella comunità. Come dice la colletta della messa,
“dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di
vita”.