In
un post dello scorso 4 marzo mi sono occupato di alcuni aspetti della prima parte,
quella storica, del libro di Federico Bortoli (La distribuzione della Comunione sulla mano). Anche il resto del
libro merita la nostra attenzione. Così, ad esempio, il cap. 2: “L’introduzione
della Comunione sulla mano dopo il Concilio Vaticano II”. L’Autore nota che la
pratica della Comunione sulla mano iniziò a diffondersi in alcuni luoghi, in
particolare in Germania, Olanda, Belgio e Francia. In seguito, per ben 14
pagine, si descrivono gli interventi del Consilium
e della Sacra Congregazione dei Riti per fermare questa novità; si ricorda la
concessione accordata alla Conferenza Episcopale Tedesca, che, avendo suscitato
vivaci proteste, è stata sospesa dal Santo Padre; in questo contesto, si
illustrano i diversi interventi di Mons. Bafile, allora nunzio apostolico in
Germania, e via dicendo. Bisogna ammettere che Bortoli offre un panorama assai
preciso e completo di queste vicende, sempre però per ribadire, come egli
affermerà verso la fine del libro, che “la Comunione sulla lingua e in
ginocchio costituisce ciò che è giusto nella distribuzione dell’Eucaristia” (p.
272) o, come si dice nella Prefazione al volume, il lavoro di Bortoli potrebbe
“favorire un ripensamento generale sul modo di distribuire la Santa Comunione”
(p. 15). Ma mi domando se vale la pena questo accanimento contro la Comunione
sulla mano e questa difesa ad oltranza della Comunione sulla lingua.
La
liturgia romana in altri tempi ha accolto usi nati altrove (l’introduzione del
Credo, l’elevazione delle Specie alla Consacrazione, ecc.). Un caso
paradigmatico, e ben più importante di quanto non sia comunicarsi sulla mano o sulla
bocca, è la storia del sacramento della riconciliazione. Ricordo qui solo il
passaggio, nel sec. V/VI, dalla severa penitenza “canonica” a quella
“tariffata” più morbida. La cosiddetta penitenza “tariffata” è d’origine
celtica e monastica, e all’inizio ha incontrato una forte opposizione in alcuni
ambienti ecclesiali. È nota la condanna nel celebre canone 3 del concilio di
Toledo (589), nel quale i vescovi ispanici riprovano questa novità con parole
durissime e senza riserve considerandola un “modo assolutamente indegno (foedissime)” di celebrare il sacramento
della penitenza.
Il
nostro Autore si sforza per mettere in luce la inopportunità della comunione
sulla mano, una novità che non può essere considerata un’applicazione della Sacrosanctum Concilium (p. 81 e passim).
È un modo sbagliato di considerare la Costituzione conciliare, assai comune però
in ambienti tradizionalisti per criticare la riforma di Paolo VI, proprio quei
ambienti che spesso e volentieri declassano il Vaticano II affermando che è
semplicemente un Concilio “pastorale”... Una Costituzione non dice e non deve
dire tutto.
La
storia ci insegna a non scandalizzarci dinanzi a delle novità che non toccano
la sostanza della fede, novità che vanno “governate” con prudenza e apertura di
mente. Anche comunicarsi in piedi porgendo le mani al ministro può essere un
gesto ricco di significati. Inoltre, come dice l’Ordinamento generale del Messale Romano, “con il canto di comunione
si esprime, mediante l’accordo delle voci, l’unione spirituale di coloro che si
comunicano, si manifesta la gioia del cuore e si pone maggiormente in luce il
carattere ‘comunitario’ della processione di coloro che si accostano a ricevere
l’Eucaristia” (n. 86). Bortoli parla giustamente dell’importanza dei segni
nella liturgia (pp. 257-261). Prima di criticare i (possibili) abusi, cerchiamo
di valutare gli usi. Non si tratta solo di adorazione, riverenza e rispetto
(una ossessione del volume), ma anche di gioia e di unione spirituale di coloro
che si comunicano.