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lunedì 31 dicembre 2018

MARIA SS. MADRE DI DIO – 1 Gennaio 2019






Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21



Il salmo responsoriale è un inno di ringraziamento corale per i doni divini e, in particolare, per il frutto della terra, segno dell’amore di Dio. La liturgia del primo giorno dell’anno riprende questo inno nella sua parte più universalistica in cui si parla di una presenza benedicente di Dio che abbraccia tutti i popoli della terra. La nostra vita, che oggi inizia una nuova tappa, è veramente benedetta da Dio nella misura in cui è illuminata dallo splendore del volto di Dio.



In questo primo giorno dell’anno si sovrappongono una serie di temi: l’inizio dell’anno, l’ottava del Natale, la solennità di Maria SS. Madre di Dio e la giornata della pace istituita da Paolo VI nel 1967. Possiamo aggiungere ancora, con il brano evangelico, la circoncisione, in cui “gli fu messo nome Gesù”, che significa “Iahvè salva”; in Luca, è a Maria che viene detto il nome scelto da Dio (1,31), mentre in Matteo viene detto a Giuseppe (Mt 1,21.25). Tutte queste tematiche possono trovare un logico collegamento tra loro nel tema della benedizione. Maria, la benedetta fra tutte le donne, ci ha donato Gesù, frutto benedetto del suo seno, primogenito fra molti fratelli. Infatti, anche noi siamo diventati, per opera dello Spirito, figli ed eredi, e, in questo modo, tutta la nostra vita è nel segno della benedizione divina di cui la pace è frutto prezioso. Le letture bibliche d’oggi riprendono queste tematiche e conferiscono loro motivazioni e contenuti dottrinali.



La prima lettura descrive come i sacerdoti d’Israele davano al popolo la benedizione al termine delle grandi feste liturgiche. Quest’antica benedizione sacerdotale, ancora oggi usata nella liturgia sinagogale, fa perno sul nome del Signore, richiamato per tre volte (alcuni Padri della Chiesa l’hanno interpretato in senso trinitario), e pone questo nome sui figli d’Israele. “Porre il nome” vuol dire stabilire una relazione con la persona. La benedizione è riconoscimento che ogni bene viene da Dio e dipende da una vita di comunione con lui. Segno manifesto delle benedizioni divine è la pace: Dio benedice il suo popolo e lo conduce alla pace. Il pieno compimento della benedizione si ha in Gesù Cristo, proclamato dall’antifona d’ingresso “Principe della pace”. San Paolo lo illustra a modo suo nella seconda lettura quando afferma che in Cristo abbiamo ricevuto “l’adozione a figli”; non siamo più schiavi, ma figli. Possiamo diventare consapevoli della nostra condizione filiale perché ci è stato donato lo Spirito, che plasma interiormente in ognuno di noi i lineamenti del Cristo, il Figlio primogenito. Questo mistero è stato possibile ed è reso visibile perché, “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna”. In questo modo, la maternità di Maria accresce la propria realtà dandosi a vedere quale “madre del Cristo e di tutta la Chiesa” (orazione dopo la comunione). Maria è inoltre esemplare di accoglienza delle benedizioni divine donateci in Cristo: nel brano del vangelo essa appare come colei che serba e medita nell’interiorità del cuore tutti gli eventi che riguardano il Figlio, frutto benedetto del suo seno. Da madre si fa anche prima discepola fin da ora, custodendo nel cuore il mistero.



Col nuovo anno inizia un ulteriore tratto del cammino della nostra vita che siamo invitati a percorrere sotto il segno della benedizione di Dio. L’eucaristia che segue alla proclamazione della Parola al tempo stesso che ci pone in atteggiamento di riconoscenza per i doni ricevuti da Dio, di cui Cristo è il dono più prezioso, ci rassicura che ogni giorno di questo nuovo anno, ogni giorno della nostra vita sarà sempre un dono prezioso della grazia divina. A noi aspetta accoglierlo con gratitudine e renderlo fruttuoso nella vita quotidiana.


venerdì 28 dicembre 2018

SANTA FAMIGLIA DI GESU’ MARIA E GIUSEPPE (C) - 30 Dicembre 2018


Sacra Famiglia (Murillo)




1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52




Tutte e tre le letture bibliche odierne parlano della nascita dell’uomo all’interno della famiglia, ma tutte e tre affermano che il bambino è più grande della famiglia in cui nasce. Ciò la prima lettura lo dice di Samuele, il vangelo lo afferma di Gesù, e la seconda lettura lo applica ad ogni uomo, ad ogni battezzato, vero figlio di Dio. Il destino dell’uomo che viene a questo mondo è un destino che sovrasta i limiti della famiglia in cui nasce perché la dimensione ultima della sua vita trascende le realtà di questo mondo. Questo vale anzitutto per Gesù.



Il vangelo ci racconta che Maria e Giuseppe si recano a Gerusalemme per la ricorrenza della Pasqua ebraica. Gesù, ormai dodicenne, accompagna i suoi genitori in questo pio pellegrinaggio. Ed ecco che al ritorno il bambino rimane a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano. Dopo tre giorni di angosciose ricerche, nel ritrovarlo seduto in mezzo ai dottori nel tempio, Maria non può far a meno di rimproverare affettuosamente suo figlio, come farebbe ogni mamma: “perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Gesù risponde: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. E’ la prima autorivelazione del suo destino. Il brano evangelico aggiunge che Maria e Giuseppe non compresero queste parole. Dice però che Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. La breve parentesi dell’autorivelazione di Gesù nel tempio di Gerusalemme prelude a quella della sua pasqua di morte e risurrezione. I tre giorni di angosciosa ricerca da parte di Maria e Giuseppe anticipano i tre giorni del suo dramma finale.



L’odierna festa della Sacra Famiglia ci invita a riflettere sul mistero del figlio, d’ogni figlio, d’ogni uomo. “Eredità del Signore sono i figli” (Sal 127,3a). Perciò su ogni uomo che viene a questo mondo, Dio ha un suo progetto. La persona è chiamata ad uscire dall’ambito della famiglia e trovare nella obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita al di là di ogni tentazione di possesso personale dei propri genitori. Gesù affermerà più volte di avere Dio per Padre (cf. Lc 10,22; 22,29; Gv 20,17) rivendicando per sé un rapporto che oltrepassa quello paterno e anche quello materno. Le ultime parole del vangelo d’oggi ci fanno capire però che il progetto di Dio su di noi si realizza attraverso il passaggio di crescita e di maturazione in seno alla famiglia: “Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso…” Gesù vive e cresce in una famiglia dove Maria e Giuseppe offrono l’insegnamento della loro saggezza rimanendo sempre aperti al progetto di Dio sul loro figlio. La famiglia in cui la persona umana nasce e cresce è essenziale; ma la persona dovrà uscire dall’ambito familiare e trovare nell’obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita. La famiglia svolge il proprio compito quando non ostacola, ma si pone al servizio del pieno sviluppo umano e spirituale della persona.




mercoledì 26 dicembre 2018

IL “TE DEUM”






Daniel-Alberto Escobar Portillo, Te Deum laudamus. La formulaciόn y celebraciόn de la gloria de Dios a través de una forma hίmnica (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” “Subsidia” 189), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2018. 307 pp. (€ 35,00).



L’opera parte dalla ricerca dei fondamenti biblico-teologici, liturgico-culturali ed ermeneutici-musicali della presenza del Te Deum nella vita della Chiesa. In seguito, è esaminata la sua configurazione letteraria per poi, più avanti, affrontare da una prospettiva diacronica e sincronica il suo posto nella celebrazione liturgica e fuori di essa. La comprensione della forma musicale, presa come chiave interpretativa del Te Deum, corrobora la sua chiara matrice pasquale e apre un orizzonte metodologico in cui non si può evitare la complementarietà necessaria tra le fonti più primitive, sia di indole testuale, come anche liturgica e musicale.

domenica 23 dicembre 2018

NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2018




Messa della notte



Is 9,1-3.5-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14



 “Oggi è nato per noi il Salvatore”. E’ un annuncio che si ripete più volte in questa santissima notte (antifona d’ingresso, canto al vangelo, lettura evangelica, antifona alla comunione).



Gesù “è nato per noi”. E’ logico quindi che ci domandiamo cosa arreca a noi questa nascita. La risposta la troviamo nelle parole con cui si chiude il vangelo di questa notte: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”, e cioè pace a tutti gli uomini perché Dio ha liberamente deciso di amarli. La prima lettura ci ricorda che tutta la storia dell’umanità è un faticoso cammino nelle tenebre e nell’oppressione alla ricerca di luce, di verità, di speranza e di pace. Gesù, il “Principe della pace”, di cui parla il profeta Isaia, è la risposta definitiva di Dio alle attese dell’umanità. “Egli - dice san Paolo nella seconda lettura - ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga”.



Nel mistero della nascita di Gesù, gli spiriti celesti al tempo stesso che annunziano “sulla terra pace agli uomini”, proclamano “gloria a Dio nel più alto dei cieli”. Che cos’è la gloria di Dio? E’ Dio stesso in quanto si rivela nella sua maestà, nella sua potenza, nello splendore della sua santità. Dio manifesta la sua gloria con i suoi interventi meravigliosi nella storia. Ma, secondo san Giovanni, la gloria nascosta di Dio è apparsa nel Cristo fra gli uomini (cf. Gv 1,14; 11,4-40) ed è riconoscibile solo attraverso la fede (cf. Gv 2,11). In altre parole, la gloria di Dio è Dio stesso in quanto manifesta il suo amore, un amore che si riflette sul volto di Cristo e da lui arriva a noi. La “pace sulla terra” quindi è la manifestazione storica della gloria di Dio, la manifestazione della volontà salvifica di Dio in Cristo per noi. Possiamo quindi affermare anche che quando gli uomini siamo nella pace, viviamo in pace, Dio è glorificato in noi: la gloria di Dio è l’uomo redento, l’uomo che ha accolto Gesù come Salvatore. Gesù, “Principe della pace”, appare nella storia dell’umanità come segno di riconciliazione con Dio e con gli uomini. Con lui “la vera pace è scesa a noi dal cielo” (antifona d’ingresso). Con Cristo inizia il tempo della nuova ed eterna alleanza tra l’uomo e Dio, un tempo - ormai definitivo - di pace, d’intimità e familiarità dell’uomo con Dio.



La salvezza di Dio ci viene offerta in forma umana, nella povertà e debolezza, nel “segno” di un bambino, che assume la nostra debolezza: “la nostra debolezza è assunta dal Verbo” (prefazio III del Natale). Perciò la tradizione cristiana ha fatto del Natale una festa di profonda solidarietà umana. Il Natale è un invito a riscoprire i veri valori che danno spessore alla nostra esistenza: il senso della vita, il gusto di ciò che è essenziale, il sapore delle cose semplici, lo stupore della vera libertà, la voglia di costruire la propria esistenza nel servizio agli altri e nell’impegno quotidiano per la realizzazione di un mondo riconciliato. Il buon Natale che ci scambiamo vicendevolmente dev’essere anzitutto un augurio di pace e di serenità intensa e profonda, che ci renda capaci di avvicinarci agli altri per farli partecipi della nostra pace, più felici e più fratelli, più inseriti nella grande famiglia umana e cristiana.





Messa dell’aurora




Is 69,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20




Alla luce della prima lettura, tratta dal profeta Isaia, il mistero del Natale appare come la manifestazione dell’amore di Dio che salva. Anche la lettura apostolica parla del manifestarsi della bontà di Dio, salvatore nostro. San Paolo, rivolgendosi al suo discepolo Tito, afferma che la prova massima della sua bontà e del suo amore Dio ce la fornisce donandoci il suo proprio Figlio. Egli ha congiunto il nostro limite alla sua infinità, ci ha restituito la possibilità di esistere nella speranza. Il Natale celebra il dono dell’amore divino nel Cristo, rivelazione del Padre e salvezza del mondo. Questo dono, fatto a tutti, apre il cuore dell’uomo alla speranza. 



Nel brano evangelico vediamo che i primi destinatari di questa rivelazione sono alcuni umili pastori che pascolano il loro gregge nelle vicinanze di Betlemme. E’ significativo che l’annuncio della nascita di Gesù sia dato a poveri pastori, e non ai potenti di Gerusalemme o ai sacerdoti del tempio. Vediamo poi che la risposta dei pastori alle parole dell’angelo è stata coerente e immediata: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere...” E san Luca aggiunge: “E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro”. I pastori quindi, obbedendo alla rivelazione ricevuta, si recano a Betlemme e vedono il Bambino. In questo modo, conosciuto l’avvenimento, riferiscono, e cioè annunciano agli altri quanto essi hanno udito e visto nel loro incontro con Gesù. Il vangelo non nominerà più i testimoni di questa prima rivelazione. Secondo san Luca, dobbiamo a Maria, la Madre di Gesù, se si è conservato il ricordo di queste circostanze: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Solo colui che è attento ascoltatore della Parola può essere portatore di quell’annuncio che suscita la meraviglia della fede.  



L’eucaristia rievoca e ripresenta la morte e la risurrezione del Cristo, ma, con il mistero della Pasqua, e in ordine ad esso, ricorda e rinnova, in certo modo, tutta la storia della salvezza, di cui l’incarnazione e la nascita di Gesù sono gli inizi. Il Natale del Signore segna l’inizio di quel cammino salvifico che porta Gesù a farsi in tutti simile agli uomini, fuorché nel peccato, fino alla morte di croce: è il cammino che, da una parte, prepara la Pasqua e ad essa conduce e, dall’altra, riceve significato salvifico proprio dalla Pasqua.



L’orazione dopo la comunione ci indica l’atteggiamento con cui dobbiamo celebrare il Natale: “conoscere con la fede le profondità del mistero, e viverlo con amore intenso e generoso”.





Messa del giorno




Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6: Gv 1,1-18



La gioia del Natale sarebbe superficiale se non fosse fondata sulla contemplazione del mistero natalizio alla luce della fede. Ecco perché in questa messa del giorno siamo invitati a contemplare, guidati dalla parola di Dio, le profondità di questo mistero.



La lettura evangelica è presa dal mirabile inno che fa di prologo al vangelo di Giovanni, vera e profonda meditazione sul mistero del Natale. San Giovanni annuncia che il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi; ma al tempo stesso annuncia che tutti coloro che accolgono questo bambino, il Figlio di Dio fatto carne, ricevono anch’essi il potere di diventare figli di Dio. In Cristo ci viene offerta la possibilità di una nuova origine, non più fondata sul sangue e sulla carne, ma su Dio stesso. Le parole iniziali del vangelo di Giovanni “in principio” evocano idealmente quelle parallele di Gen 1,1 riguardanti la creazione, tema a cui fa riferimento anche la colletta quando dice: “O Dio, che, in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti”. Il mistero del Natale riguarda quindi anche noi. Il mistero di un Dio fatto uomo ci immerge nel mistero dell’uomo che diventa figlio di Dio. Si tratta di quel “misterioso scambio” di cui parla il prefazio della messa: il Verbo di Dio assume la nostra natura umana nella sua debolezza e fragilità, e noi, uniti a lui in comunione mirabile, condividiamo la sua vita immortale. La stessa dottrina esprime san Paolo in un brano che viene proposto oggi alla nostra attenzione nella Liturgia delle Ore: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Primi vespri, lettura breve - Gal 4,4-5). Nel Natale noi contempliamo gli inizi della nostra salvezza. La prima lettura, tratta da Isaia, annuncia profeticamente questo evento quando dice: “tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”, parole riprese dal ritornello del salmo responsoriale, come ormai realizzate e riproposte dall’antifona alla comunione.



San Leone Magno, contemplando il mistero dell’Incarnazione, esclama: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna” (Liturgia delle Ore: Ufficio delle letture, seconda lettura). Questa stessa esortazione è implicita nel testo del prologo di san Giovanni quando si dice che a colui che accoglie il Figlio di Dio fatto carne, viene dato potere di “diventare” figlio di Dio: la nostra identità di figli di Dio è inserita dentro un processo dinamico che si apre ad una crescita progressiva e senza sosta che ci conduce verso gli spazi della vita divina. Come dice la Costituzione Gaudium et Spes del Vaticano II, “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo (n. 22). L’umanesimo cristiano radica nel divino e nell’eterno la nostra povera condizione mortale.



L’eucaristia che oggi celebriamo è per eccellenza il sacrificio della nuova alleanza, il rito della nuova umanità, che ci introduce progressivamente alla partecipazione della vita divina.  

 



venerdì 21 dicembre 2018

DOMENICA IV DI AVVENTO (C) – 23 Dicembre 2018








Mi 5,1-4a; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45





Il Sal 79, che fu una supplica d’Israele per implorare l’intervento di Dio liberatore, è diventato preghiera e supplica della Chiesa soprattutto nel Tempo di Avvento, vicini ormai al Natale. Nell’attesa dell’imminente manifestazione del Cristo, la nostra preghiera diventa pressante: “Signore, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (ritornello del salmo responsoriale).



La quarta e ultima domenica di Avvento svolge il ruolo di una sorta di vigilia del Natale e quindi l’attenzione dei testi liturgici è volta a coloro che, in ogni nascita, sono i protagonisti: la madre e il suo figlio. Il Messia annunciato, “colui che deve essere il dominatore in Israele” (prima lettura), giunge tramite la piena disponibilità di Maria al piano di Dio (cf. vangelo). Egli viene per adempiere la volontà salvifica del Padre, per salvare cioè l’uomo mediante l’offerta non di olocausti né sacrifici ma del proprio corpo (cf. seconda lettura). 



La venuta del Figlio di Dio richiede una preparazione, una disposizione all’accoglienza. Questa preparazione si compie lungo tutto l’Antico Testamento, e trova espressione particolare nelle parole dei profeti e nelle speranze e preghiere del popolo d’Israele. Ma questa preparazione ha un suo particolare compimento nella fede obbediente di Maria. Elisabetta proclama Maria beata perché “ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Troviamo nel vangelo di san Luca un altro passaggio dove viene lodata da Gesù stesso la fede obbediente di Maria. L’evangelista ci tramanda le parole di una donna che si trova tra la folla che segue e ascolta Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”. A queste parole Gesù risponde: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Qui sta la vera grandezza di Maria, nella sua totale disponibilità all’ascolto e nell’accoglienza fattiva della parola di Dio. Maria, che ha incarnato l’attesa e la fede di Israele nelle promesse di Dio, diventa prototipo della Chiesa nel suo cammino incontro al Cristo.



Possiamo quindi affermare che il testo evangelico è anzitutto celebrazione dell’accoglienza. Elisabetta riconosce in Maria colei che ha accolto la parola di Dio credendo al suo compimento. Maria canta Dio come Colui che l’ha accolta nella sua piccolezza rivolgendole uno sguardo di amore e di elezione. Nella visitazione, poi, Maria ed Elisabetta si accolgono reciprocamente riconoscendo ciascuna l’azione che Dio ha compiuto nell’altra: Elisabetta, la sterile, è rimasta incinta, e Maria, la vergine, ha concepito per opera dello Spirito Santo. Il mistero del Natale è un mistero di accoglienza: accoglienza di Dio che viene a noi, e accoglienza vicendevole riconoscendo in noi e negli altri la presenza di Dio con i suoi doni.

mercoledì 19 dicembre 2018

“OSPITALITA’ EUCARISTICA”






di Andrea Grillo


docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione presso il

Pontificio Ateneo S. Anselmo




Anche in liturgia, nel cuore della intimità ecclesiale, rischiamo sempre di pensare, e di sentirci dire, come nel film Totò a colori: «Si ricordi che lei qui è un ospite». Come se ci fosse qualcuno che potesse vantare un «diritto originario di cittadinanza» nella eucaristia. Ma, al di là delle battute, la terminologia della “ospitalità eucaristica” pare giustificata da un fatto molto positivo, ossia dal superamento delle “scomuniche” tra Chiese, che prende la figura dell’“ospitalità” del “fratello separato” all’interno di una celebrazione cattolica. Il fenomeno è un cammino inevitabilmente lento e complesso, che deve superare storiche ostilità e incomprensioni e che fatica, ad esempio, a concepire la reciprocità: ossia noi possiamo ospitare, ma non possiamo essere ospitati.

Ovviamente la terminologia è il frutto di tanti scontri, di tante incomprensioni, di tante rotture. Il termine, allo stesso tempo, afferma e nega: afferma un rapporto di “comunanza di mensa” in assenza di “comunione ecclesiale”. Vorrei brevemente illustrare la questione sotto tre punti di vista.



Aspetto antropologico



I cattolici si sono abituati a ragionare così: finché non vi è comunione ecclesiale, non può esservi comunione sacramentale. Sembra una posizione di buon senso, che segue una logica elementare: se non c’è accordo sulle parole, sulle verità, sui poteri, sulle simboliche, come si può fare la comunione allo stesso pane e allo stesso calice? Questo vale per la dottrina teologica classica. Ma la antropologia, che conosce bene anche questa logica - infatti non facciamo così solo in Chiesa, ma anche con gli amici o in famiglia - ne conosce anche un’altra, molto diversa e per certi versi capovolta. Sappiamo bene, infatti, che è proprio l’atto del “pasto comune” a rendere possibile una comunione di vita.

Dice un antico adagio: «communitas victus, communitas vitae», comunione di mensa è comunione di vita. In altri termini, le difficoltà dottrinali e disciplinari non sono soltanto un ostacolo alla comunione fraterna. Possono essere anche risolte sulla base di una esperienza di pasto comune, che anticipa profeticamente e accompagna escatologicamente il divenire dei soggetti.

In uno dei suoi primi discorsi pubblici da Presidente, il presidente Barack Obama raccontò di quel gesuita, membro della commissione americana che negli anni Cinquanta doveva superare l’Apartheid e creare comunione tra bianchi e neri nella società USA. Quel prete, con acume, scoprì che i membri bianchi e neri della commissione, sotto le contrapposizioni apparentemente inconciliabili, erano accomunati da una passione comune: la pesca.

Una uscita al lago, con una esperienza di pesca comune, fu l’inizio dell’accordo tra loro. Un atto comune ha preceduto il comune riconoscimento della verità.



Aspetto ecclesiologico



La questione oggi ha acquisito un’ulteriore coloritura, da quando i vescovi tedeschi hanno lanciato l’idea di allargare la ospitalità eucaristica per le coppie miste, formate da un marito protestante e una moglie cattolica o viceversa, il cui destino sembra poter condividere tutta la vita, in tutti i suoi aspetti, meno che l’eucaristia - santa cena. I vescovi tedeschi, a maggioranza, hanno visto che qui la Chiesa entra in una sorta di contraddizione. Da un lato nega la comunione, perché le Chiese di appartenenza non sono in comunione.

D’altra parte riconosce che la comunione nuziale è, per certi versi, più avanzata e più esplicita della stessa comunione eucaristica. Proprio qui, a me pare, la ospitalità eucaristica dovrebbe essere intesa non come una benevola concessione che le singole Chiese possono fare a membri esterni di partecipare alla pienezza dei propri riti, bensì come profezia ecclesiale che riconosce, in coppie miste, la presenza di una chiesa unita e capace di comunione, anticipata dalla vita domestica, che sta in anticipo rispetto alla coscienza istituzionale. Ciò che le Chiese non riescono a riconoscere come comunione, un uomo e una donna possono viverlo appieno, nonostante la loro appartenenza ecclesiale differente. Qui, forse, la relazione tra il sacramento dell’eucaristia e il sacramento del matrimonio deve essere pensata in modo meno rigido e unilaterale e la “differenza ecclesiale” può essere compresa non come difficoltà e ostacolo, ma come ricchezza e stimolo.



Aspetto cultuale/culturale



La ospitalità, infine, non è un caso estremo dell’eucaristia, ma il caso serio e ordinario della sua verità. Ci siamo abituati a pensare alla comunione come al rapporto con pane e vino “convertiti” in corpo e sangue. Ma questo, per tutta la tradizione teologica, è solo l’effetto intermedio dell’eucaristia. Il dono di grazia è l’unità della Chiesa, la comunione delle pietre vive. Per questo, già da un secolo, fin da Pio X, si è riscoperta la natura non solo di premio, ma di farmaco della comunione eucaristica. L’eucaristia non è solo culmine di una identità già acquisita, ma anche fonte di una identità da costruire, da strutturare, che trova alimento in questa “pratica di comunione sacramentale” per pellegrini in cerca della pienezza.

Questa consapevolezza teologica deve diventare, allo stesso tempo, modo di celebrare e modo di vivere l’eucaristia. 

Circa il modo di celebrare, è evidente che l’ospitalità eucaristica è la forma comune della esperienza cristiana e cattolica. Tutti, e sottolineo tutti, sono ospiti. Chi presiede, chi proclama, chi canta, chi serve, chi risponde. Tutti sono ospiti perché tutti compiono una sola azione il cui titolare non è altro che Cristo e la sua Chiesa, di cui nessuno è esclusivo rappresentante. Questa “articolazione ministeriale” è finalizzata a quel fine che Sant’Agostino definiva in modo così sorprendente: «Estote quod videtis, accipite quod estis»: siate quel che vedete, ricevete quel che siete. Corpo di Cristo non è solo un ricevere, ma un essere.

La Chiesa corpo di Cristo è il fine dell’eucaristia celebrata.

Ma se cambia il modo di celebrare, cambia anche il modo di vivere. Essere Chiesa non è anzitutto gelosa custodia di un deposito, su cui fare selezione. Ma è vita in uscita e in periferia. Queste parole, che di solito attribuiamo alla originalità di papa Francesco, sono in realtà scritte nella tradizione eucaristica, che ci chiede di diventare soggetti accoglienti e ospitali.

Quello che ricevi nel sacramento devi farlo diventare il tuo stile di vita: una cultura della ospitalità e della accoglienza non è il caso limite di una coscienza ecclesiale, ma la norma piantata al centro della celebrazione eucaristica. Che riconcilia i diversi e abbatte i muri. A questo diciamo amen e su questo decidiamo la nostra sequela di Cristo.



FONTE: Blog AlzogliOcchiversoilCielo

https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.com/2018/12/andrea-grillo-ospitalita-eucaristica.html?spref=fb&fbclid=IwAR3e070h7AvMfsg6x38FDB_WYS-gke6x_fwMH4YdM_jSxLu_thYYUrUITFU

domenica 16 dicembre 2018

FALSO NATALE





L’ultima fatica di Errico Buonanno, apparsa nelle librerie all’inizio di questo mese di dicembre, è un volumetto di 173 pagine dal titolo Falso Natale. Bufale, storie e leggende della festa più importante dell’anno (UTET). L’autore afferma che il suo libro “è un invito a riscoprire il Natale”. E credo che quest’opera, letta con intelligente discernimento, può essere un aiuto a riscoprire il vero Natale.


Falso Natale affronta uno dopo l’altro gli elementi della tradizione natalizia e ne ricostruisce l’avventurosa e curiosissima storia. Ci ricorda: che la scelta della data del 25 dicembre non è fondata storicamente come data della nascita di Gesù; che nei Vangeli non c’è nessuna grotta; che il bue e l’asinello sono frutto di un errore di traduzione dall’ebraico al greco; che i magi non erano tre e non erano re; che dietro la Befana bitorzoluta si nasconde addirittura la fulgida dea Diana; che Babbo Natale magari non è stato inventato dalla Coca Cola, ma reinventato sì; che il Natale non è una smania consumistica; ecc.


Enrico Buonanno ci spiega che ogni tradizione culturale o religiosa non nasce mai dal nulla, né rimane incorrotta e intatta per sempre, ma si sedimenta e modifica nei decenni e nei secoli, grazie a continue rielaborazioni, riscritture, contaminazioni e pure causalità.


Dopo la lettura di questo piccolo libro, tanto ironico quanto rispettoso, il mio invito al lettore è celebrare il Natale con i testi e i riti della Liturgia della Chiesa, dove si trova il Vero Natale.

sabato 15 dicembre 2018

DOMENICA III DI AVVENTO (C) – 16 Dicembre 2018






Sof 3,14-18°; Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18



Il tema centrale e tradizionale della terza domenica di Avvento è la gioia “perché il Signore è vicino” (seconda lettura), anzi è in mezzo a noi come “salvatore potente” (prima lettura). Infatti è lui che battezza “in Spirito Santo e fuoco” (vangelo); il “fuoco” nella prospettiva di Luca è il simbolo dello Spirito Santo che Gesù comunica ai discepoli a pentecoste. Se il messaggio della seconda domenica di Avvento era un pressante invito alla conversione per far fruttificare in noi il dono della salvezza, oggi siamo invitati alla gioia, frutto del dono della salvezza. Domenica scorsa, il personaggio centrale era Giovanni Battista che invitava a preparare le vie del Signore. Oggi il personaggio centrale è Gesù, datore dello Spirito.

L’Avvento, proiettandoci verso il mistero della presenza salvatrice del Cristo, non può non essere caratterizzato dalla gioia. Quando però fin dal Medioevo l’Avvento aveva assunto un aspetto fortemente penitenziale, questa domenica interrompeva la penitenza e diventava una festa gioiosa, quasi anticipo del Natale ormai vicino. Il senso festivo e gioioso veniva sottolineato da alcuni segni esteriori, quali ad esempio il fatto di indossare per la celebrazione eucaristica i paramenti colore rosa. Ciò è ancora possibile, ma certamente molto meno significativo in quanto l’Avvento ha perso quel forte aspetto penitenziale che lo assimilava alla Quaresima. In ogni modo, la liturgia odierna è contrassegnata da un forte richiamo alla gioia, che viene vista come espressione immediata della fede che riconosce la vicinanza del Signore.

 La gioia cristiana, di cui parliamo, non è vuota, senza senso, ma è fondata sulla presenza di Dio che salva. In questo contesto, possiamo affermare che l’eucaristia è la gioia del nostro pellegrinaggio. Si tratta di una gioia anzitutto interiore, profonda, che si colloca nella sfera della salvezza, nella ricerca sincera di Dio, nella persuasione ferma di averlo come propria eredità, nella certezza incrollabile di poter contare su di lui in ogni evenienza. Questa gioia è misteriosa, perché può coesistere anche col dolore fisico e morale, con l’umiliazione, la tentazione, la solitudine. Paradosso cristiano, espresso in modo sublime da san Francesco d’Assisi quando dice: “E’ tanto il bene che m’aspetto che ogni pena m’è diletto”. L’uomo può essere ricco, pieno di salute e, nonostante tutto, sentire il cuore profondamente insoddisfatto. Se non si è ricchi dentro, ricchi di fede e di speranza, difficilmente si può avere l’esperienza della gioia cristiana. La spiritualità cristiana della gioia però non deve attenuare in noi la partecipazione cordiale ai beni di questo mondo e alla sua condivisione gioiosa con gli uomini, nostri fratelli. Anzi nella condivisione fraterna e gioiosa dei beni di questo mondo si esprimono i frutti della salvezza portata da Cristo, e trovano compimento le parole profetiche: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (canto al vangelo – Is 61,1).

domenica 9 dicembre 2018

IL PAGANESIMO E LE RELIGIONI “À LA CARTE”






Marc Augé, Cuori allo schermo. Vivere la solitudine dell’uomo digitale (Una conversazione con Raphaël Bessis), Mondadori 2018. 162 pp. (€ 16,50).



Offro ai lettori del blog l’ultima parte del capitolo 7: “Il paganesimo e le religioni ‘à la carte’” (qui pp. 54-57). Se non altro, sono pagine che fanno pensare.



… il cristianesimo ha accolto numerosi aspetti dal protestantesimo e nella tradizione cattolica non è difficile individuare innumerevoli elementi pagani.

Quanto accade in America Latina forse dipende dalla dimensione pagana del cattolicesimo. Ne sono una conferma la presenza di innumerevoli santi, i riti o l’idea che la preghiera possa avere un’efficacia immediata.

Non è un caso che la Chiesa cattolica si sia sovrapposta alle strutture pagane; certamente la sua era una vera e propria strategia atta a cancellare i luoghi di culto precedenti, ma che si realizzava con un’ambiguità su cui era facile giocare. Tutte le leggende e le storie collegate a questa o quella Madonna e a questo o quel miracolo lo testimoniano. Pensate per esempio alla Vergine di Guadalupe in Messico.

Quindi nella pratica del cattolicesimo è presente un lato pagano. Il sentimento religioso di chi ha una fede semplice passa attraverso una relazione con i santi e il rito che risulta quasi strumentale e proprio in questo pagana. Al contrario non è pagana la speculazione sul futuro, sulla persona oltre la morte o il concetto di peccato.

Sia in America Latina sia in Africa, e più in generale nelle regioni che si trovano alla confluenza di diverse tradizioni, nella pratica religiosa indigena si riscontra spesso questa ambivalenza: talvolta prevale l’aspetto più cristiano, talvolta quello pagano.

Questa tendenza continua a preoccupare ancora oggi i rappresentanti della Chiesa, che sembrano sempre convinti che gli indiani o gli altri fingano di convertirsi per poter restare fedeli agli antichi culti.

Per tornare all’interpretazione dello sviluppo delle idee religiose in relazione alla mondializzazione, ho dei dubbi nel definire questa evoluzione un “cristianesimo pagano”, in quanto non sono certo della natura esclusivamente cristiana del riferimento. Mi sembra che ciò che avviene in America Latina, e forse anche altrove, corrisponda a un sistema di passaggio possibile tra opzioni religiose differenti. In qualche modo il mercato religioso si è diversificato.

Nella simbologia di tanti piccoli culti che valorizzano l’importanza della Vergine Maria (penso a Maria Lionza in Venezuela o alle forme diverse del candomblé o dell’umbanda) sono presenti elementi e citazioni presi in prestito dai cristiani. Questo ci fa intuire che ciò che sta emergendo corrisponde a una specie di sistema di interpretazione individuale dell’evento, d’ispirazione tipicamente pagana. Ma quale percentuale di cristianesimo contengono queste invenzioni religiose? Difficile a dirsi.

In opposizione a questi culti sincretici esiste un cristianesimo la cui origine protestante rafforza leggermente la sua natura non pagana. Mi riferisco all’evangelismo, al pentecostalismo. Questi movimenti si esprimono con molta decisione contro tutto l’aspetto peccaminoso della vita (la droga, il sesso e altre cose orribili…) introducendo un rigido sistema di purificazione, per nulla indulgente. Il loro successo risulta piuttosto impressionante.

Sa che l’evangelismo si sta diffondendo a livelli moto importanti sia in Africa che nell’Europa dell’Est? È anche interessante notare che molti capi di Stato dell’America del Sud oggi sono rappresentanti o membri di queste Chiese.

A prima vista, quindi, questi movimenti si pongono in opposizione a tutti i diversi sincretismi in cui sono presenti elementi cristiani. Tuttavia, le indagini condotte dagli etnologi hanno portato alla luce che spesso essi rappresentano soltanto un luogo di passaggio nella vita dei credenti. Per la maggior parte dei fedeli, l’approdo all’evangelismo o al pentecostalismo costituiva un’opzione temporanea, nell’attesa di un’alternativa.

Di conseguenza, anche se determinate scelte sono piuttosto lontane dal paganesimo, il semplice fatto che esista la possibilità di una religione “à la carte” con una serie di opzioni diverse conferisce alla pratica religiosa contemporanea una dimensione pagana a largo termine.

Il paganesimo, infatti, richiedeva di adorare gli dei del villaggio, ma non disdegnava di inserire eventuali altri pantheon. I pagani non facevano guerre di religione…

Ma facevano altre guerre, vero?

Ah, sì, non erano certo pacifisti!

sabato 8 dicembre 2018

DOMENICA II DI AVVENTO (C) – 9 Dicembre 2018




Bar 5,1-9; Sal 125; Fil 1,4-6.8-11; Lc 3,1-6



La prima domenica di Avvento ci invitava all’attesa vigilante. Oggi invece siamo invitati a “preparare la via del Signore”. Nel brano evangelico emerge la figura di Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti mandato da Dio. Giovanni, con la propria vita richiama la forza purificatrice del “deserto”; con la sua predicazione, al seguito di quella dei profeti e, in particolare, del profeta Baruc, di cui oggi leggiamo un brano nella prima lettura, annuncia il prossimo compiersi della salvezza nel Messia. Si tratta di un annuncio gioioso perché la salvezza è anzitutto opera meravigliosa compiuta da Dio: “Gerusalemme, sorgi e sta’ in alto: e contempla la gioia che a te viene dal tuo Dio” (antifona alla comunione – Bar 5,5; 4,36). La salvezza viene descritta come una grande trasformazione che si compie nell’uomo. Questa trasformazione è anzitutto opera della grazia di Dio. Ce lo ricorda il salmo responsoriale (Sal 125) con il ritornello “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”, parole riprese quasi alla lettera da Maria nel suo Magnificat (Lc 1,49). Ma la grazia rimane inattiva se non interviene e coopera con essa la nostra libertà: “Dio che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Perciò il messaggio di questa seconda domenica di Avvento può essere riassunto come un invito alla conversione. San Giovanni promette: “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, ma prima ammonisce i suoi ascoltatori con queste parole: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. La salvezza è dono, grazia di Dio, ma anche azione, cooperazione dell’uomo. Non basta attendere passivamente l’irrompere dell’azione di Dio. La salvezza presuppone un cambiamento nell’uomo, cioè l’abbandono del male e del peccato e l’opzione decisa per il bene. E’ talvolta un cammino duro e difficile, che esige il coraggio di spianare le montagne e di colmare i burroni.



Attraverso una fitta collezione di simboli e di imperativi gioiosi il cap. 5 del libro di Baruc vuole lanciare un messaggio di fiducia e di speranza. Nel brano della prima lettura, preso appunto dal cap. 5 di Baruc, il profeta legge il fatto storico del ritorno degli Ebrei esiliati, nell’anno 538 a. C., e della conseguente restaurazione di Gerusalemme come pellegrinaggio di ritorno gioioso dell’intera umanità alla condizione primordiale e come restaurazione messianica. La conversione è cambiare strada, ritornare a casa, ritrovare il senso del proprio camminare. L’immagine della strada può essere assunta come simbolo del tempo di Avvento. Una strada che deve essere appianata per condurre anche noi, come un giorno gli esuli da Babilonia, a ricostruire la città di Dio, a ritrovare la propria libertà e dignità. La conversione quindi non è solo rinuncia. San Paolo nella seconda lettura ci ricorda che la vera conversione non è soltanto allontanamento dal peccato; implica anche la crescita nell’amore fino al suo pieno compimento. In altre parole, convertirsi significa ritrovare la freschezza e l’originalità della propria fede, del proprio rapporto con Dio e con gli altri. Si tratta di verificare quale posto ha veramente Dio nella nostra esperienza quotidiana, quale influenza ha il vangelo nelle nostre concrete scelte di vita.



Se la conversione è un ritrovare Dio nella nostra vita, la partecipazione all’eucaristia è dono di conversione perché in essa Dio si rende presente in mezzo a noi. L’eucaristia ci insegna a leggere la storia con gli occhi di Dio, a “valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo” (orazione dopo la comunione).


venerdì 7 dicembre 2018

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA – 8 Dicembre 2018






Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38



Il ritornello del salmo responsoriale sintetizza molto bene i sentimenti della Chiesa in questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria. La Chiesa contempla in Maria il capolavoro di Dio. In Maria preservata immune da ogni macchia di colpa originale, in previsione della morte di Cristo (cf. la colletta), noi contempliamo compiuto in modo meraviglioso il disegno amoroso che Dio ha su tutti noi. In Maria immacolata infatti celebriamo l’alba della redenzione, l’inizio della nuova umanità o, come dice il prefazio della messa, “l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo senza macchia e senza ruga, splendente di bellezza”.



La prima lettura racconta il peccato di disubbidienza di Adamo ed Eva e le sue conseguenze. Dio si rivolge al serpente per punirlo della sua opera di seduzione al male: la sua momentanea vittoria si cambierà in definitiva sconfitta ad opera di un misterioso personaggio, figlio (“stirpe”) di una “donna” altrettanto misteriosa, che sosterrà una accanita “inimicizia” contro il serpente. La scelta di questo brano intende mettere in evidenza il peccato dal quale Maria è stata preservata e suggerire l’idea di Maria come nuova Eva. Come Adamo ed Eva sono personaggi emblematici per esprimere l’umanità caduta nel peccato, così Gesù, nuovo Adamo, e sua madre, nuova Eva, diventano personaggi altrettanto emblematici che enunciano l’umanità rinnovata, che sarà tale proprio nella misura in cui porterà avanti la inimicizia contro Satana.

         

La lettura evangelica propone il racconto dell’Annunciazione. I Padri della Chiesa hanno visto in questo evento la contropartita di ciò che è successo nella caduta del paradiso terrestre: Eva non ascolta il precetto di Dio, Maria invece ascolta il messaggio dell’angelo inviato da Dio; Eva disubbidisce alla parola di Dio, Maria invece pronuncia il suo “si” ubbidiente al piano di Dio su di lei: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”; Eva significa “madre di tutti i viventi”, Maria lo è in senso più profondo in quanto è madre dei redenti mediante la morte del Figlio suo, vincitore del male e della morte. Maria, generando il Cristo, ha posto nella terra il “seme” indistruttibile del bene, della giustizia e della speranza. Esso si radicherà e trasformerà l’umanità intera. E’ la stessa realtà che descrive il brano introduttivo alla lettera agli Efesini (seconda lettura) in cui l’Apostolo afferma che Dio, in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”.



Maria è chiamata dall’angelo dell’Annunciazione “piena di grazia”, che è quasi come un nuovo nome per lei: descrive il suo stato e la sua missione. Dio ha “colmato di grazia” Maria. In Maria immacolata contempliamo il primo, stupendo effetto della redenzione: l’umanità viene ricondotta all’integrità del progetto di Dio. L’Immacolata è quindi un segno di speranza per tutti noi.



L’eucaristia “guarisce in noi le ferite di quella colpa da cui, per singolare privilegio” Maria è stata preservata nella sua immacolata concezione (orazione dopo la comunione).

domenica 2 dicembre 2018

UOMINI E DONNE: IL SERVIZIO NELLA LITURGIA




Andrea Grillo – Elena Massimi (edd.), Donne e uomini: il servizio nella liturgia. Atti della XLV Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia, Verona, 28-31 agosto 2017 (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 187), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2018. 275 pp. (€ 32,00).


Il volume offre un’ampia riflessione sul tema della ministerialità, da molteplici e diversi punti di vista, ponendo teologia e prassi liturgica in un dialogo deciso e aperto con la cultura contemporanea. Gli autori evidenziano alcune delle mete raggiunte, ma soprattutto le vie non ancora percorse.


Paolo Tomatis, I ministeri liturgici, tra servizio e autorità.

Andrea Grillo, I sacramenti come luogo di elaborazione di identità ecclesiale e di differenza sessuale. Lettura in prospettiva sistematica, con 10 tesi.

Lucia Vantini, Mediazione di Cristo nella liturgia e differenza sessuale.

Hèlène Bricout – Martin Klöckener, Uomini e donne al servizio dell’altare.

Elena Massimi, I ministeri del canto e della musica: una questione complessa.

Claudio Fontana, Il ministero liturgico del diacono.

Moira Scimmi, Un inno a Cristo a cori alterni.

Heribert Hallermann, Prendere la parola nella liturgia.

Giorgio Bonaccorso, Differenza e discriminazione.

sabato 1 dicembre 2018

DOMENICA I DI AVVENTO (C) – 2 Dicembre 2018




Ger 33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36


L’anno liturgico inizia con l’invito a dare uno sguardo al compimento della nostra salvezza, che – in adempimento alle promesse divine, di cui ci parla Geremia nella prima lettura – ha avuto nella storia come momento culminante la prima venuta del Figlio di Dio “nell’umiltà della nostra natura umana” (prefazio dell’Avvento I) e avrà come meta e traguardo ultimo e definitivo il ritorno del Figlio dell’uomo, che alla fine dei tempi verrà “con grande potenza e gloria”, come dice la lettura evangelica. In questa cornice, la parola di Dio ci esorta ad attendere vigilanti, ma senza turbamento, il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore, e al tempo stesso ci sprona a prepararci a questa venuta con la testimonianza della propria vita di fede e soprattutto con una intensa  vita di carità (cf. la seconda lettura).

Le immagini e le parole misteriose con cui Gesù descrive il suo ritorno glorioso alla fine della storia sono da interpretare in modo adeguato. Dietro questa descrizione del futuro, che può apparire a prima vista fosca e terrorizzante, bisogna leggere l’attesa di eventi storici che segneranno per sempre la sconfitta definitiva del male e il trionfo ultimo del bene. In questa luce, il ritorno glorioso del Cristo alla fine dei tempi, è da considerarsi un evento non tanto temuto quanto piuttosto atteso, anzi addirittura invocato con speranza dagli oppressi, vittime della malvagità degli uomini, e dall’intero popolo di Dio pellegrinante sulla terra. Caratteristico del racconto di san Luca è appunto la speranza nel compimento della salvezza: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Speranza di cui parla anche l’antifona d’ingresso della messa facendo proprie le parole del Sal 24, adoperato inoltre come salmo responsoriale: “A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido…” La nostra speranza poggia sulla fedeltà di Dio, che ha fatto “promesse di bene” (prima lettura).

Per noi cristiani il tempo è un continuo “avvento”, un ininterrotto venire di Dio. Il Signore viene in continuazione, in ogni uomo e in ogni tempo. Perciò siamo invitati a vegliare e pregare. La vigilanza orante ci rende capaci di discernere i segni e i modi della presenza del Signore. La storia umana non è da concepirsi come un succedersi più o meno caotico di fatti senza significato, ma come il compiersi graduale del “progetto” di salvezza che Dio ha sull’uomo. In questo progetto Dio ha voluto impegnare anche la nostra libertà e quindi la nostra cooperazione. La nostra vita non sfocia nel nulla, nella delusione, ma può avere, se lo vogliamo, una conclusione positiva. Nel brano della seconda lettura, per preparare questo futuro positivo, san Paolo ci stimola a crescere e sovrabbondare nell’amore fra noi e verso tutti per rendere saldi e irreprensibili i nostri cuori e irreprensibili nella santità, “davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.”

In questo impegno quotidiano ci è di aiuto l’eucaristia, “che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita”, ed è sostegno nel nostro cammino e guida ai beni eterni (orazione dopo la comunione), nonché “pane del nostro pellegrinaggio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1392). “L’eucaristia è tensione verso la meta, pregustazione della gioia piena promessa da Cristo; in certo senso, essa è anticipazione del paradiso, pegno della gloria futura. Tutto, nell’eucaristia, esprime l’attesa fiduciosa, che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo” (Ecclesia de Eucharistia, n. 18).


domenica 25 novembre 2018

I dieci punti per cantare bene alla Messa


L'incontro delle corali. I dieci punti per cantare bene (e senza errori) alla Messa

sabato 24 novembre 2018




«Che cosa si fa quando si è innamorati? Si canta una serenata. Ecco la Chiesa che ama il suo Signore canta le lodi all’Altissimo». Monsignor Marco Frisina racconta con una similitudine il ruolo della musica liturgica. Il prete romano, diplomato al Conservatorio Santa Cecilia della Capitale, autore di brani sacri, colonne sonore, oratori, è il promotore e coordinatore del terzo Incontro internazionale delle corali in Vaticano che oggi ha avuto il suo momento centrale con l’udienza di papa Francesco a settemila cantori giunti da tutto il mondo e che domani si conclude con la Messa nella Basilica di San Pietro.
«Le parole del Papa sono state un incoraggiamento per svolgere con rinnovato entusiasmo quello che è un vero e proprio ministero», afferma Frisina che ripercorre la sua storia personale fra ministero sacerdotale e pentagramma nel libro “Mio canto è il Signore”, una conversazione con Antonio Carriero (Elledici; pagine 112; euro 8,90). E traccia una sorta di decalogo del “buon canto” durante la Messa e della “buona corale”.

1. Il coro accompagna


«Il coro è una realtà ben presente nelle parrocchie italiane. Ma può cadere in alcune tentazioni che ne offuscano l’efficacia», spiega Frisina. E indica come parola chiave: “accompagnare”. «Il coro è non un elemento estraneo all’assemblea. Quindi fa parte del popolo di Dio che vive la celebrazione. Il suo compito è di accompagnare la comunità nella lode di Dio attraverso il canto. Ma deve essere anche accompagnato dalla comunità stessa. Perché è a servizio di essa e non può essere autorefenziale».

2. La Messa non è un concerto

Il canto liturgico non è «un’esibizione», chiarisce il sacerdote compositore. E nel rito «va evitato l’“effetto concerto”». Perché «la liturgia non è spettacolo ma verità. E se il coro è chiamato a dare il meglio di sé, tutto deve avvenire secondo uno spirito di servizio».

3. Attenzione ai canti

I canti vanno scelti tenendo conto della pertinenza liturgica dei brani. «Un canto di Quaresima – afferma Frisina – è diverso da uno pasquale. Quelli di Avvento non sono equiparabili a quelli del tempo di Natale». Da qui il consiglio. «Il Messale e la Liturgia delle Ore indicano quali contenuti devono avere i brani o a che cosa si devono ispirare. La questione della scelta adeguata è essenziale perché il canto deve muovere alla preghiera all’interno di un rito».

4. Brani non astrusi e con riferimenti spirituali

Frisina suggerisce di privilegiare «melodie non troppo astruse e complicate ma facili da apprendere da parte dell’assemblea». E precisa che «sono da preferire canti con un testo di qualità, possibilmente nutriti di Bibbia e di riferimenti agli scritti dei padri della Chiesa o alle preghiere dei santi».

5. Spazio al gregoriano

Attingere al patrimonio musicale del passato è auspicabile, sottolinea il sacerdote. In particolare al gregoriano che «va indubbiamente utilizzato anche se secondo le possibilità della comunità che lo esegue, in quanto non è sempre facile». Certo, chiarisce Frisina, il gregoriano «resta il modello e ci mostra come deve essere un canto liturgico, a partire dal legame con la Parola».

6. Chitarra sì o no?

Monsignor Frisina parla della chitarra come di «uno strumento leggero e delicato che difficilmente riesce a inserirsi in una celebrazione numerosa dove è presente un coro ampio. In questo caso occorre un sostegno armonico più solido, vale a dire l’organo». Comunque, «in una piccola comunità dove l’organo non è presente la chitarra, può essere un sussidio ma legato alle necessità». E serve saperla suonare. «Non va impiegata come si fa nella musica pop. Perché la chitarra è uno strumento a pizzico e non a percussione».

7. Niente canti registrati

Quando non c’è il coro e quando un’assemblea fa fatica a cantare, meglio il silenzio rispetto ai canti registrati. «Il canto registrato è un falso. È di plastica, come i fiori artificiali. Il canto liturgico è espressione di un popolo vero; pertanto non può essere costruito».

8. Nei matrimoni troppe licenze

Musiche da film, brani di un cantautore, colonne sonore entrano nei matrimoni. Ma non va. «Questo è frutto di ignoranza – sostiene il sacerdote – e della superficialità degli sposi che non hanno chiaro il senso liturgico del sacramento che celebrano».

9. Prepararsi bene

Secondo Frisina, ogni celebrazione «richiede sempre un’adeguata preparazione anche se i canti sono conosciuti ed eseguiti in precedenti occasioni».

10. Insegnare a cantare

«La musica sacra – conclude il compositore – apre al mistero. Tocca il cuore, avvicina i lontani, non ha bisogno di traduzioni. Essa unisce ed eleva: ecco il suo potere straordinario. Allora dovremmo imparare e insegnare a cantare. Perché oggi si canta poco nelle nostre chiese e le assemblee non sono abituate a esprimersi con il canto».



Fonte: Avvenire.it


venerdì 23 novembre 2018

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO – 25 Novembre 2018 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO





Dn 7,13-14; Sal 92 (93); Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37



Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo nell’ultima domenica dell’anno liturgico, quasi come sintesi di tutto ciò che abbiamo celebrato durante l’anno. Infatti ogni domenica, “giorno del Signore”, proclama la sovrana signoria di Cristo. Alla fine di questo percorso annuale, l’ultima domenica intende celebrare in modo più organico ciò che costituisce il nocciolo di ogni celebrazione domenicale. Le letture bibliche odierne illustrano alcuni aspetti di questo mistero: Cristo centro della nostra vita e Signore della storia.



Tutti i poteri e regni di questo mondo sono destinati prima o poi a fallire, a scomparire. Il testo profetico della prima lettura invece, parlando del futuro regno messianico, lo descrive come un regno “eterno, che non finirà mai”. Il sovrano di questo regno messianico preannunciato dai profeti è Gesù. Nel brano evangelico, vediamo che per tre volte Gesù dice: “Il mio regno”, e per due volte si preoccupa di chiarire che questo regno è completamente al di fuori degli schemi mondani: “Il mio regno non è di questo mondo”, e cioè il regno di Cristo è diverso dei poteri mondani, si colloca su di un altro piano. Il regno di Gesù non si costruisce con la forza che si impone dall’esterno, ma con la forza interiore della verità che trasforma l’uomo dal di dentro. Infatti il suo compito - lo dice egli stesso - è quello di “dare testimonianza alla verità”. Il fondamento della regalità di Cristo è quindi la testimonianza che egli rende alla verità. Sappiamo che Pilato non ha capito queste parole di Gesù. Cos’è la verità?



Nel vangelo di san Giovanni, che ci tramanda il passaggio in questione, la verità non è un concetto astratto o un principio filosofico, ma la rivelazione concreta di Dio e del suo amore; la verità è che Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito. Gesù ha reso testimonianza a questa verità, ha manifestato cioè questo amore di Dio con le sue parole e le sue opere, con la sua vita e, soprattutto, con la sua morte, che è la suprema sua testimonianza a favore della verità. Come dice san Giovanni nel brano dell’Apocalisse proposto come seconda lettura, egli ci ha amati e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue. La signoria di Cristo significa che Dio non permette che il mondo vada in rovina; anzi in lui lo ha portato definitivamente alla salvezza.



Dire regno di Cristo significa dire giustizia, pace, libertà, dignità umana, amore, liberazione dal peccato e da ogni forma di male (cf. il prefazio). Nella misura in cui questi valori s’impadroniscono di noi e della storia, il regno di Dio si compie o, meglio, il regno di Dio accelera il suo compimento. Ecco quindi che il regno di Cristo cresce in noi nella misura in cui diamo spazio a questi valori, nella misura in cui ne siamo protagonisti nella storia.