Translate

domenica 26 novembre 2023

L’EUCARISTIA SECONDO ZWINGLI

 



 

Il riformatore Zwingli Ulrico (1484-1531) si trovava ad operare tra il gruppo radicale degli anabattisti che intendevano creare una Chiesa “libera” e il fronte cattolico tradizionale che non intendeva accogliere le novità dei riformatori. Zwingli l’11 aprile 1525 presentò al Consiglio della città di Zurigo una nuova liturgia eucaristica. Il testo fu accolto e, con alcuni ritocchi, sostituì la messa tradizionale. Non intendo analizzare questo nuovo rito della santa cena. Vorrei soltanto indicare quali siano stati i criteri che hanno guidato a Zwingli nella sua riforma, che costituisce una vera e propria creazione liturgica.

Zwingli rifiuta il termine “messa”, ma accetta il vocabolo “eucaristia”, che è “memoriale” (Wiedergedächtnis), “ringraziamento” (Danksagung) e “esultanza” (Frohlocken). Partendo dal principio della “sola Scriptura”, tutto ciò che non si conforma alla parola di Dio deve essere eliminato. Il rito della cena del Signore è sato istituito da Cristo. È opportuno, pertanto, evitare lo sfarzo e la pompa delle cerimonie per non ricadere negli errori del passato. Il riformatore, poi, intende favorire la partecipazione di tutta la popolazione.

Non è difficile notare nei suddetti criteri del riformatore di Zurigo, tre criteri fondamentali della riforma cattolica della santa messa promossi dal Vaticano II ed enunciati nella Costituzione Sacrosanctum Concilium: una più grande ricchezza biblica (SC n. 51); la partecipazione attiva dei fedeli (SC nn.48-49); la ricerca di una nobile semplicità dei riti (SC nn.34, 50). Naturalmente, c’è una notevole differenza nel modo di applicare questi tre criteri nel rito di Zwingli e nel Missale Romanum di Paolo VI. Nondimeno, prendere atto di quanto abbiamo indicato può essere un punto di partenza per un fruttuoso dialogo ecumenico. 

 

Fonte: Per quanto riguarda la santa cena di Zwingli, si può consultare Ermanno Genre, Il culto cristiano. Una prospettiva protestante. Claudiana, Torino 2022, 244-247.   

venerdì 24 novembre 2023

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 26 Novembre 2023 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 



 

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

 

Celebriamo Cristo “Re dell’universo”. Per comprendere correttamente questo titolo dato a Cristo bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. L’immagine del “re” e del “pastore” nell’antichità erano interscambiabili; così come quelle del “gregge” e del “regno”. Il Sal 22 parla di Dio Pastore buono che pasce il suo popolo, lo fa riposare su pascoli erbosi e lo conduce ad acque tranquille. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Il salmo esprime la grande fiducia nel Signore che illumina, conforta e guida i credenti nei sentieri della vita.

 

L’anno liturgico si chiude sottolineando la centralità di Cristo nella storia e nella vita dell’uomo nonché il suo primato sull’universo. In effetti la solennità di Cristo Re dell’universo non intende riconoscere a Cristo un semplice titolo onorifico, ma il suo diritto a essere il centro della storia umana, la sua chiave di lettura. Il senso della storia del mondo e della vita dell’uomo si decide nel rapporto con Gesù Cristo e il rapporto con Gesù Cristo si decide nel rapporto coi fratelli. Questo doppio tema è quello che illustrano le letture bibliche odierne.

 

La prima lettura contiene un annuncio di speranza che il profeta Ezechiele fa pervenire al popolo d’Israele in un momento travagliato della sua storia. Dinanzi alla incapacità dei capi politici e religiosi d’Israele di essere autentiche guide al servizio del popolo, è Dio stesso che promette di prendersi cura d’Israele. Il Signore “pascerà” direttamente il suo gregge, nella speranza che questi risponderà alle sue premure. La tenerezza infinita di Dio è l’altra faccia della sua sovrana autorità, della sua onnipotenza.

 

La profezia di Ezechiele trova pieno compimento in Cristo. Il brano della lettera ai Corinzi della seconda lettura contempla la storia come un processo attraverso il quale il mondo deve essere sottomesso alla sovranità redentrice di Gesù. Il progetto di Dio è l’uomo liberato dalla schiavitù del peccato e ricondotto alla pienezza della verità e dell’amore e questo progetto è stato realizzato da Gesù Cristo. E quando tutto sarà stato sottomesso a Cristo, “anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Queste parole ci introducono nel brano evangelico d’oggi. Infatti, san Matteo ci presenta a Cristo Signore quando verrà nella sua gloria a giudicare il mondo. Il criterio con cui Cristo giudicherà “tutti i popoli” sarà quello di aver amato, servito, aiutato, consolato chi si sia trovato in situazione di miseria, di povertà, di sofferenza, di malattia, di ingiustizia. Gesù afferma che in ognuna di queste situazioni lui era presente, per cui ogni gesto compiuto in favore del fratello in realtà era diretto a lui. Chi ha amato i fratelli di fatto ha amato Cristo. Ecco perché riconoscere la regalità di Cristo significa imitarne lo spirito, incontrarlo nel fratello e impegnarsi a liberarlo dalle sue necessità. L’amore attua e dilata i confini del regno di Cristo, che non è una realtà né geografica né spaziale né temporale, ma è la sovranità del suo amore, che si attua già nel cuore di ogni uomo e nelle realizzazioni terrene e si compirà in pienezza alla fine quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. seconda lettura). Sintetizzando possiamo dire, riferendoci al grandioso scenario del giudizio finale che “alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce).

 

domenica 19 novembre 2023

IL NOME DI DIO

 



 

In Ex 3,14, a Mosè che gli chiede come dovrà rispondere agli ebrei che lo interrogano sul nome di Dio, Jahwèh risponde ehyé ašer ehyé, “sono colui che sono”. La Settanta, prodotta in un ambiente allenistico, e quindi a contatto con la filosofia greca, traduce questo nome con egó eimi ho õn, cioè col termine tecnico per l’essere (ho õn). Maimonide, commentando questo passo, si mostra perfettamente cosciente delle implicazioni filosofiche di questo nome di Dio: “Dio gli diede allora una conoscenza che doveva comunicare loro per l’affermazione dell’esistenza di Dio, cioè ehyé ašer ehyé. Si tratta di un nome derivato da haya, che designa l’esistenza, poiché haya significa “fu” e la lingua ebraica non distingue tra “essere” e “esistere”. Tutto il mistero è nella ripetizione, in forma di attributo, di questo termine che significa l’esistenza, poiché la parola ašer (chi), essendo un nome incompleto […] esige che si esprima l’attributo che gli è congiunto. Esprimendo il primo termine, che è il soggetto, con ehyé e il secondo termine, che gli funge da attributo, con lo stesso nome ehyé, si afferma che il soggetto è identico all’attributo. E questa è una spiegazione dell’idea che “Dio esiste, ma non attraverso un aggiungere l’esistenza”, il che si interpreta in questo modo: “L’essere che è l’essere”, cioè l’essere necessario.

Fonte: Giorgio Agamben, Horkos. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Saggi 82), Quodlibet, Macerata 2023, 69-70.

venerdì 17 novembre 2023

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 19 Novembre 2023

 



 

 

Prv 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

 

Vicini ormai alla fine dell’anno liturgico, anche questa domenica è dominata dal pensiero delle ultime realtà, ma con una particolare sottolineatura: il rimando alla responsabilità personale nel presente come fatto decisivo in ordine al giudizio del futuro. Siamo liberi di scegliere come spendere la propria esistenza terrena, ma solo chi segue fedelmente le vie indicate dal Signore raggiungerà un traguardo luminoso. La prima lettura fa l’elogio della donna perfetta, di cui si loda sia la sua integrità morale sia la sua capacità di gestire con fermezza, intelligenza ed amabilità la sua casa. La parabola dei talenti riportata dal vangelo si muove su una linea simile ma superiore.

 

Nella lettura della parabola sui talenti, occorre concentrare l’attenzione sul comportamento del servo cattivo. Infatti, la chiave dell'intera parabola è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone. Il servo ha una sua idea del padrone e cioè quella di un uomo duro che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c'è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza della legge, tutto ciò che è prescritto e nulla di più. Il servo non intende correre rischi e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Noi lettori siamo tentati di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta la pretesa di un tale padrone. Questa reazione è quella degli scribi, dei farisei e degli zelanti e scrupolosi osservanti della legge. Essi concepiscono la giustizia come un rapporto di parità: tanto-quanto. Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore che è senza calcoli ma anche senza paure. Il servo non deve porre limite al proprio servizio, perché l’amore non ha limiti. E non deve avere paura di correre rischi, perché non c’è paura nell’amore.

 

La parabola dunque, fondamentalmente, ha lo scopo di far comprendere la vera natura del rapporto che corre fra Dio e noi sue creature. È tutto l’opposto di quel timore servile che cerca rifugio e sicurezza nell’osservanza esatta delle norme. È invece un rapporto di amore, dal quale soltanto possono scaturire coraggio, generosità e libertà.

 

Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore; ci incontreremo solo con ciò che avremo costruito, ma anche con tutto ciò che avremo avuto il coraggio di aspettarci da Dio. La venuta dell’ultimo giorno, del giorno del Signore, sarà un’amara sorpresa solo per chi avrà sistematicamente ignorato le proprie responsabilità e avrà chiuso il suo cuore alla speranza. Nella seconda lettura, san Paolo ribadisce la stessa dottrina: conoscendo le ultime realtà a cui andiamo incontro, non possiamo comportarci come se non esistessero, ignorandole o adagiandoci in una passiva e inattiva attesa. Ciò che Dio ci chiede è ben poca cosa: la fedeltà alla sua grazia, l’apertura del nostro cuore al suo amore.

 

Possiamo ben dire che la santa eucaristia a cui partecipiamo costituisce la sintesi massima dei talenti datici da Dio. Perciò la partecipazione fruttuosa ad essa è pegno della gloria futura: ci ottiene la grazia di servire il Signore con generosità e ci prepara il futuro di un’eternità beata.

 

 


domenica 12 novembre 2023

I NEMICI DELLA CARNE

 



A Buddha, insieme a Pitagora, dobbiamo una delle due filosofie che hanno gettato le basi dell'alimentazione non violenta. Per uno strano scherzo del destino, sono vissuti entrambi nel sesto secolo prima di Cristo, ma in due mondi paralleli, l'India è stata l'orizzonte del primo, l'Italia greca la patria di elezione del secondo.

A dire il vero, sia Buddha sia Pitagora pensano da filosofi più che da religiosi. L'uno e l'altro, infatti, elaborano una riflessione sulla vita e sul rapporto tra l'uomo e le altre creature. E propongono un'alimentazione al servizio della pace interiore e dell'armonia. E soprattutto condannano i sacrifici animali che a quel tempo sono una pratica frequentatissima tanto nel mondo orientale che in quello occidentale. Così il vegetarianismo diventa molto più di una dieta. È a tutti gli effetti una obiezione di coscienza alimentare in nome dei diritti del vivente. E al tempo stesso una presa di posizione politica. Molte altre fedi dopo di loro promuoveranno l'embargo alla caccia e alla pesca. In Asia, per limitarci agli esempi più significativi, verranno i seguaci di Krishna e i seguaci di Jina il Vittorioso. Nel Mediterraneo si avvicenderanno orfici, neoplatonici, ermetici, gnostici e manichei, e nel Medioevo bogomili e catari, conosciuti anche come albigesi. Fino ai vegetariani e vegani di oggi, che evitano di cibarsi di altre creature viventi non per obbedire a un comandamento di Dio, ma per togliere un peso dalla coscienza dell'io.

 

Fonte: Elisabetta Moro – Marino Niola, Mangiare come Dio comanda (Vele 213), Giulio Einaudi editore, Torino 2023, pp. 121-122.

 

 

venerdì 10 novembre 2023

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) - 12 Novembre 2023

 



 

Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13

 

 

L’anno liturgico volge ormai al termine. Le tre domeniche che lo chiudono orientano la nostra attenzione verso il traguardo delle “cose ultime” (i cosiddetti “novissimi”). Il tema odierno è la venuta gloriosa e definitiva del Signore alla fine dei tempi. In questo contesto, siamo invitati a vivere in attesa vigilante. La prima lettura parla della sapienza che si fa volentieri trovare da coloro che la cercano. Questo brano anticotestamentario si deve leggere in funzione del vangelo, che ci propone la parabola delle vergini stolte e sagge che sono in attesa dello sposo. Così come le vergini sagge erano pronte ad accogliere lo sposo e sono entrate con lui alla sala del banchetto di nozze, così l’uomo saggio è pronto ad accogliere il Signore quando egli verrà per entrare con lui nel regno del Padre. La sapienza di cui parla la Bibbia non è quindi una pura conoscenza intellettuale; è piuttosto quella capacità di trovare il giusto cammino della vita. Il saggio è colui che sa leggere alla luce di Dio i fatti, le persone, i sentimenti, i segni il più delle volte ambigui o ambivalenti delle evenienze storiche; in questo modo, il vero saggio vive con consapevolezza la logica della tensione tra possesso e attesa, tra certezza e speranza. In altre parti del vangelo l’incontro definitivo con il Signore è talvolta rappresentato come un giudizio. In questa parabola invece emerge un altro simbolo, quello delle nozze, proprio per sottolineare la dimensione dell’amore, della comunione di vita. Questo ci rivela come davanti a Dio non siamo passivi, ma chiamati a collaborare con lui per divenire artefici della nostra salvezza.

 

La vigilanza a cui ci esorta la parola di Dio oggi è un invito a pensare all’atteggiamento fondamentale della nostra vita, impegnata nel tempo ma senza mai perdere di vista l’eternità. Nella seconda lettura san Paolo si rivolge ai primi cristiani di Tessalonica che soffrono con angoscia per il distacco dai propri cari e s’interrogano sulla sorte dei defunti. L’apostolo ricorda a questi primi cristiani la fede nella morte e risurrezione del Cristo, quale premessa e fondamento della speranza in una vita ultraterrena. Nonostante la morte e al di là della morte, noi speriamo che la vicenda storica avrà una conclusione positiva. Non il vuoto ma l’incontro definitivo con il Cristo definisce la visione cristiana sulla conclusione della vicenda terrena.

 

Ogni celebrazione eucaristica di per sé è già partecipazione al banchetto celeste, realizzata però nel segno sacramentale, nell’attesa cioè della sua completa e definitiva manifestazione. Ecco perché noi cristiani preghiamo, soprattutto nella celebrazione eucaristica, per affrettare il ritorno di Cristo dicendogli: “Vieni, Signore” (1Cor 16,22; Ap 22,17-20).

 

 

 

 

domenica 5 novembre 2023

55 ANNI DOPO

 


 

Mercoledì, 6 novembre 1968 – ore 19-20.30

Abbiamo letto nuovamente, col Rev. P. Annibale Bugnini, il nuovo “Ordo Missae”, compilato dal “Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia”, in seguito alle osservazioni fatte da noi, dalla Curia Romana, dalla S. Congregazione dei Riti, dai partecipanti alla XI sessione plenaria del “Consilium” stesso, e da altri ecclesiastici e fedeli; e dopo attenta considerazione delle varie modifiche proposte, di cui molte sono state accolte, abbiamo dato al nuovo “Ordo Missae” la nostra approvazione, in Domino.

                                                                               Paulus P.P. VI

venerdì 3 novembre 2023

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) - 5 Novembre 2023

 



 

 

Ml 1,14-2,2.8-10; Sal 130; 1Ts 2,7b-9.13; Mt 23,1-12

 

         

La prima lettura () riporta un richiamo accorato e minaccioso del profeta Malachia contro i sacerdoti del tempio di Gerusalemme del suo tempo, i quali non sono zelanti dell’amore di Dio, non osservano la sua legge ed agiscono con perfidia. La vita di quei sacerdoti dell’Antico Testamento era in stridente contrasto con il loro compito, anzi lo annullava del tutto. Il brano evangelico racconta che Gesù ha lo stesso atteggiamento con gli scribi ed i farisei, che pur essendo maestri della legge in Israele non sono coerenti tra quanto dicono e fanno. Impongono sugli altri pesanti fardelli che essi non portano minimamente, amano essere ammirati dalla gente ed essere chiamati maestro. E proprio Egli, Gesù l’unico nostro vero Maestro, si presenta ai suoi discepoli come colui che ha dato esempio, diventando il loro servo. San Paolo nella seconda lettura, dopo aver affermato di essere disposto a dare la sua stessa vita per amore dei fratelli, ricorda che egli ha lavorato notte e giorno per non essere di peso ad alcuno. In questo contesto di dedizione e di sacrificio personale dell’apostolo, i tessalonicesi possono veramente fare l’esperienza di una parola che non è più “parola di uomini” ma “parola di Dio”. San Paolo imita l’atteggiamento affettuoso di Dio, di cui parla il salmo responsoriale, nei riguardi della comunità, che ha generato alla fede, e che considera quasi come creatura da lui partorita (cfr. Gal 4,19).

 

Con il battesimo tutti siamo diventati corpo sacerdotale di Cristo, tutti siamo chiamati ad annunciare le meravigliose opere di Dio, e quindi le dure parole della Bibbia che abbiamo ascoltato oggi sono dirette a tutti indistintamente affinché la vita di ciascuno non diventi una controtestimonianza ma sia coerente. L’insidia dell’ipocrisia e del fariseismo minaccia continuamente ogni esperienza religiosa, compresa l’esperienza cristiana. La logica della vita cristiana richiede che non ci sia una frattura tra fede e vita, tra parola e azione; l’autenticità cristiana passa attraverso il costante superamento di questa dicotomia che tenta sempre di annidarsi nelle più diverse pieghe dell’agire umano. Recuperare l’unità coerente e interiore della fede e del comportamento è l’esigenza proclamata dal vangelo di questa domenica. Possiamo quindi domandarci: siamo impegnati a testimoniare con sincerità l’autentico messaggio di Cristo? La nostra testimonianza di fede cristiana si riduce a vuote parole o è in coerenza con la nostra vita?

mercoledì 1 novembre 2023

BREVE RIFLESSIONE SULLA MORTE

 



 

Come scriveva Seneca, bisogna “imparare a vivere finché si vive” (La brevità della vita VII, 3). E un grande cristiano Dietrich Bonhoeffer dirà che “l’uomo comprende veramente sé stesso solo a partire dal proprio limite”. Questa verità ci impone di leggere la nostra vita come segnata da un inizio e da una fine. Assumere il proprio limite vuol dire imparare a discernere le sue diverse forme ed espressioni riconoscendolo come tale, in relazione alla propria storia e ai propri vissuti esperienziali, e in questo modo si potranno trovare le strategie per renderlo terreno fecondo e per farne momento di crescita. Il limite è costitutivo della persona umana. Per l’uomo e la donna d’oggi, una delle espressioni più tipiche della difficoltà a raggiungere il senso di sé sembra essere la non accettazione del proprio limite.

 

Per il cristiano la morte è una nuova nascita: come il feto, attraverso una crisi formidabile, viene espulso dal grembo materno nel mondo, così la persona umana attraverso l’evento drammatico della morte viene espulso dal grembo di questa terra per un mondo nuovo più vasto e misterioso che è il mondo di Dio. Con la morte cadono tutti i limiti della nostra condizione terrena per essere liberi pienamente e definitivamente nella totalità della nostra esperienza, portando con noi la nostra storia che troveremo in Dio. Il mistero della morte, che si è compiuto nei nostri congiunti, ci invita ad approfondire il senso della vita da cui la morte ricava significato. Tutti abbiamo bisogno di un qualche punto di riferimento o, detto in altre parole, nessuno può vivere senza ideali. Alla luce di questi ideali cerchiamo di dare un senso alla vita. Per il credente il vangelo rappresenta l’ideale a cui far riferimento. La vita presente prepara quella futura e definitiva. Nell’aldilà ritroveremo ciò che abbiamo seminato qui. Il pensiero della morte è salutare quando ci incoraggia ad una vita vissuta consapevolmente, quando ci aiuta a non disperdere il dono di Dio che è in noi.