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mercoledì 30 ottobre 2024

TUTTI I SANTI – 1 Novembre 2024

 



 

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

 

Se a Pasqua abbiamo celebrato il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie sprigionate dalla risurrezione di Cristo, contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi.       La prima lettura ci dice che questi santi sono “una moltitudine immensa”. La seconda lettura descrive la radice della santità cristiana: essa consiste nell’essere figli di Dio e nel vivere come tali. Nella lettura evangelica Gesù ci offre la “magna carta” della santità, dove troviamo la fisionomia del perfetto discepolo di Cristo tratteggiata nel messaggio delle Beatitudini.

 

I santi non sono superuomini, ma persone che si sono realizzate umanamente seguendo la via indicata da Cristo e sintetizzata nelle Beatitudini. San Matteo colloca le Beatitudini all’inizio del Discorso della montagna (Mt 5,1-7,29). La tradizione ecclesiale considera questi capitoli di Matteo le basi fondanti dell’etica cristiana, il modo di vivere di chi si dice cristiano. Le Beatitudini sono una proclamazione messianica, l’annuncio che il Regno di Dio è arrivato per tutti. I profeti avevano descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per Gesù le Beatitudini si riducono a una sola: la gioia del Regno arrivato. Ed è alla luce del Regno arrivato (Regno che ha capovolto i valori umani) che si giustifica la paradossalità delle sue affermazioni.

 

Dopo una lettura rapida delle Beatitudini, dentro di noi risuona come un’eco la parola “beati” che Gesù pronuncia otto volte, all’inizio di ogni beatitudine. E’ una parola nota alla tradizione biblica, una parola augurale, un’invocazione di tutti quei beni che vengono da Dio. Beato è l’uomo che riceve la salvezza. Essa richiede come presupposto la fede (Mt 16,17; Lc 11,28), la perseveranza nella fede (Gc 1,12) e la vigilanza per attendere il Signore (Lc 12,37). Gesù chiama beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia. Ogni augurio è accompagnato da una promessa. E notiamo subito che l’ultima corrisponde alla prima: “di essi è il regno dei cieli”. Mentre l’Antico Testamento giungeva ad identificare la beatitudine con Dio stesso, Gesù si presenta a sua volta come colui che porta a compimento l’aspirazione alla beatitudine: il regno dei cieli è presente in lui. Più ancora, Gesù “incarna” le Beatitudini vivendole perfettamente. Ecco perché la proclamazione delle Beatitudini è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (Mt 4,23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici, paralitici. Ha cercato i poveri e li ha amati con amore di predilezione. Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato: eppure amato da Dio e salvatore. La vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del Regno e perché sono essi, i poveri, i crocifissi, che costruiscono la salvezza. Gesù ha vissuto l’ideale delle Beatitudini e in lui tutte le promesse di Dio si sono realizzate. Non siamo quindi di fronte ad una pura utopia, ma a un programma di vita che è possibile per ogni discepolo. Ce lo dimostra la schiera immensa dei santi che oggi la Chiesa venera come modelli e intercessori (cf. il prefazio).

 

La festa odierna costituisce inoltre un forte richiamo a riscoprire il santo che è accanto a noi, a sentirci parte di un unico corpo che è la Chiesa santa, cattolica e apostolica.

venerdì 25 ottobre 2024

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 27 Ottobre 2024

 



 

 

Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52

 

 

La prima lettura parla del popolo d’Israele in esilio che viene consolato dalle parole di speranza del profeta Geremia che annuncia a tutti coloro che “erano partiti nel pianto” l’intervento salvifico di Dio che li riporterà in patria “tra le consolazioni”. L’evento, nella rilettura che ne fa la liturgia, diviene la profezia della grande restaurazione messianica, espressa simbolicamente nel brano evangelico odierno dalla narrazione della guarigione del povero cieco Bartimeo, compiuta da Gesù lungo la strada che porta a Gerusalemme. Due situazioni che illustrano assai bene la condizione dell’uomo alla ricerca della salvezza. Alla luce del disegno salvifico di Dio, tutti i personaggi e gli eventi della Bibbia possono essere considerati paradigmatici, esemplari. In essi possiamo ritrovare noi stessi con i nostri problemi e le nostre attese.

 

Prendiamo il personaggio Bartimeo. E’ seduto sulla strada a mendicare. Non è neppure in grado di vedere Gesù. Il cieco però, attraverso la fitta coltre delle tenebre che lo avvolge, riesce a sentire che Gesù Nazareno è lì di passaggio, e grida fiducioso invocando da lui pietà. Gesù lo fa chiamare, gli domanda cosa vuole e, alla richiesta del cieco che chiede di riavere la vista, Gesù lo guarisce con queste parole: “Va, la tua fede ti ha salvato”. La risposta di Gesù va oltre la richiesta del povero cieco. Egli grazie alla sua fede, non è solo liberato dalla sua infermità, ma “salvato”. Il racconto di san Marco si chiude con questa annotazione: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”. Ormai Bartimeo vede in Gesù non solo il “benefattore” (Figlio di Davide) capace di guarirlo, ma anche il Maestro da seguire per la strada. La guarigione di questo cieco ha quindi una dimensione fisica, ma nello stesso tempo una dimensione spirituale: è stato liberato dalla cecità per poter diventare discepolo di Gesù. Il rilievo dato alla fede come causa della guarigione e la sequela da parte di questo “emarginato” hanno un significato paradigmatico: la salvezza è donata all’uomo nella fede e nella sequela lungo la strada verso la croce (questo miracolo è l’ultimo compiuto da Gesù in cammino verso Gerusalemme). Chi incontra il Cristo, chi si fida di lui, come il cieco Bartimeo, incontra la salvezza, viene cioè liberato dal suo male. Ma non basta incontrare il Cristo, occorre mettersi anche al suo seguito e condividere la sorte del Maestro che porta alla croce ma anche alla risurrezione.

 

Alla luce della seconda lettura, che parla di Gesù “sommo sacerdote”, che “è in grado di sentire giusta compassione” per la sofferenza e debolezza dell’uomo, la guarigione del cieco di Gerico assume le caratteristiche di un’opera di misericordia con la quale Gesù rivela l’amore misericordioso del Padre per noi. Da soli non riusciamo a vedere il cammino che conduce alla salvezza. Incontrare Cristo significa incontrare la luce che illumina il cammino che conduce alla salvezza attraverso i sentieri tortuosi della vita.

domenica 20 ottobre 2024

L’ASSEMBLEA CELEBRANTE





A differenza del Credo, che prevede un “io” come soggetto di quella che è una dichiarazione, la preghiera eucaristica si esprime nel “noi”, che ha per soggetto l’intera assemblea, anche se uno solo proclama a titolo comune. Il termine “sacerdote” per indicare il singolo che prega a nome di tutti, va considerato nel suo mero uso colloquiale, bisognoso di molti distinguo. Nella storia cristiana, infatti, non sono mancati i momenti in cui si sono reintrodotti quegli elementi di interdetto e di mediazione tipici di una sacralità che la liturgia cristiana ha sempre voluto superare. Per secoli il “sacerdote” è tornato ad essere nei fatti un mediatore del sacro, vecchia maniera. Essere speciale e separato, egli era il solo a poter maneggiare le cose sante, è l’unico, sostanzialmente, a rendere vera e valida la celebrazione.

La logica del sacro, le cui radici antropologiche affondano dentro profondità che a stento controlliamo, sta sempre in aguato. Il canone della preghiera però vigila più di noi, e nella parola prescritta tiene fermo quello che è dirimente. Quindi essa ci ricorda che magari uno presiede, ma a celebrare sono tutti. Anche quello che sta in fondo alla chiesa, nascosto dietro al confessionale, e non lo sa. Il popolo sacerdotale è anche santo, non perché tutti sono santi, nel senso convenzionale del termine, ma in virtù dell’essere parte di un organismo che è la santità di Gesù a qualificare nella sua interezza.

 

Fonte: Giuliano Zanchi, Preghiera e liturgia; San Paolo, Cinisello Balsamo 2024, pp. 66-67. 

venerdì 18 ottobre 2024

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 20 Ottobre 2024

 



 

Is 53,10-11; Sal 32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45

 

 

Nel brano evangelico odierno possiamo distinguere due momenti. Nel primo, vediamo gli apostoli e fratelli Giacomo e Giovanni che si avvicinano a Gesù per chiedergli l’onore dei primi posti accanto a lui nella gloria. Notiamo che la richiesta degli apostoli segue immediatamente il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione fatto da Gesù ai Dodici sulla strada per Gerusalemme (cf. Mc 10,32-34). Con la Ioro incosciente richiesta, i due figli di Zebedeo dimostrano, da un lato, la loro incomprensione delle parole che Gesù ha appena pronunciato sul futuro di sofferenza e di morte e, dall’altro, rivelano di vivere la comunità come finalizzata alla loro personale riuscita. Evidentemente gli interessi dei discepoli si muovono su un livello del tutto diverso da quello su cui si muove Gesù, totalmente proteso a fare la volontà del Padre. Nel secondo momento, troviamo la risposta di Gesù, il quale rifiuta le pretese dei discepoli e al tempo stesso propone un nuovo ordine di valori ai quali si deve attenere colui che intende seguirlo: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse […] Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Gesù dice come orientare la tendenza a primeggiare in modo che l’agire del discepolo sia una vera contestazione del comune agire degli uomini e serva a costruire una comunità di fratelli: ognuno deve mettere i propri doni, i carismi ricevuti, al servizio del bene comune, senza ricerca di privilegi.

 

Il discepolo, quindi, deve distanziarsi dalle logiche mondane e conformarsi al comportamento del Figlio dell’uomo, che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (cf. anche la prima lettura). In queste lapidarie parole di Gesù sono racchiuse quattro avvertenze: la prima è che servire è una dimensione dell’intera esistenza, non un frammento del nostro tempo o del nostro agire. Servire cioè è un modo di esistere, uno stile che nasce dal profondo di se stessi. La seconda avvertenza è che lo stile del servizio si oppone nettamente alla logica del farsi servire. Non si possono vivere alcuni spazi come servizio e altri come ricerca di sé. La terza avvertenza è che servire significa in concreto vivere sentendosi responsabile degli altri. La quarta avvertenza e forse la più importante: il vero servizio non raggiunge soltanto i bisogni, ma accoglie la persona. Si potrebbe essere efficienti per quanto riguarda i bisogni, trascurando poi del tutto le persone. Per Gesù i “molti” per i quali dona la vita sono persone, volti, non masse anonime o semplicemente problemi da risolvere.

 

L’insegnamento di Gesù punisce la nostra ambizione, il nostro pensare incentrato sull’esito personale, sulla nostra inconfessata brama di potere, la nostra ricerca di prestigio, il nostro vaneggiare di grandezza. I discepoli di Gesù siamo chiamati a porre nella società i germi concreti di uno stile di vita nuovo, di una generosità grande e piena. La parola di Gesù stigmatizza la logica dei poteri mondani, ma soprattutto si rivolge alla Chiesa. La prima testimonianza “politica” della Chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli.

 

 

domenica 13 ottobre 2024

L’AZIONE RITUALE

 



 

Sebastiano Bertin, Actio. L’azione rituale crocevia tra Dio e l’uomo (“Caro salutis cardo”. Studi 25), Edizioni Liturgiche – Roma, Abbazia di Santa Giustina – Padova, 2024. 496 pp. (€ 45).

 

Prima parte: L’eredità della riflessione sull’azione.

Capitolo 1: L’azione come oggetto d’indagine.

Capitolo 2: Status quaestionis: la riscoperta dell’azione e la sua valenza liturgico-sacramentale.


Seconda parte: L’antropologia dell’azione rituale.

Capitolo 3: L’azione come questione antropologica. Una possibile antropologia dell’azione come fondamento della teologia liturgica.

Capitolo 4: La risorsa dell’azione rituale nella postmodernità.


Terza parte: L’azione liturgica.

Capitolo 5: Il problema dell’azione nel pensiero liturgico-sacramentale.

Capitolo 6: L’ars celebrandi come ars agendi. Sfida per un’autentica teologia liturgica.


Conclusione.

venerdì 11 ottobre 2024

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 13 Ottobre 2024

 



 

 

Sap 7,7-11; Sal 89; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

 

 

La prima lettura è un invito a formarsi la giusta scala dei valori. Il testo parla di ricchezza, onore, potere, salute, bellezza, tutte cose in sé positive e quindi appetibili. Tuttavia, tutte queste realtà non sono capaci di appagare la nostra sete di felicità, perché il loro valore rimane essenzialmente limitato e appunto per questo, non di rado, a chi le possiede lasciano il cuore vuoto. Ecco, quindi, che la parola di Dio ci esorta a colmare il vuoto del nostro cuore con un bene che non tramonta, “lo spirito di sapienza”, l’unica vera ricchezza. Colui che cerca instancabilmente questa sapienza senza lasciarsi incantare da altre bellezze è un uomo veramente saggio. Colui che incontra la sapienza, la conosce e ne fa il centro della propria vita sarà felice, perché con essa vengono tutti gli altri beni.

 

Ma cos’è questa sapienza di cui parla la prima lettura. La risposta la troviamo nel brano evangelico d’oggi. La vera sapienza consiste nell’accogliere la chiamata di Gesù e seguirlo collocando in lui ogni nostra speranza. L’uomo che si avvicina a Gesù viene presentato come un giusto osservante dei comandamenti di Dio e, al tempo stesso, molto ricco. Si tratta apparentemente quindi di un uomo a cui non manca nulla per essere felice. Ciò nonostante, quest’uomo sente il bisogno di qualcosa di più per assicurarsi la vera felicità, la vita eterna. Ecco perché si rivolge a Gesù in cerca di un consiglio: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Alla risposta di Gesù che gli chiede di donare i suoi beni ai poveri e seguirlo, il nostro uomo non ha la forza di rinunciare alle ricchezze e preferisce la sicurezza di queste ad una vita totalmente donata a Cristo. Il saggio invece è colui che dinanzi a questo dilemma, sceglie Cristo. Naturalmente, non tutti sono chiamati a fare un gesto così radicale, ma tutti siamo chiamati, quando ciò sia necessario per la nostra salvezza, a posporre i beni terreni ai valori del vangelo o, in altre parole, tutti siamo chiamati ad acquisire quella sapienza, alla luce della quale siamo in grado di valutare le cose terrene ed eterne diventando interiormente liberi e quindi aperti ai valori del regno di Dio. Nella sobrietà di quei beni che il Vangelo chiama ricchezze si trova la possibilità di altri beni ben più importanti.

 

Nell’ascolto assiduo della parola di Dio, ognuno di noi è chiamato a dare le sue risposte. La parola di Dio, infatti, non è semplice cronaca, ma è voce di Dio che ci interpella e ci sollecita ad una concreta risposta. Come ci ricorda la seconda lettura, “la parola di Dio è viva, efficace […]; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito […] e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”. Sperimentare l’efficacia della parola di Dio significa aprire la propria vita ad un vero incontro con il Signore. Lasciamoci interpellare da questa parola. Non permettiamo che le loro sollecitazioni vadano a vuoto.

 

domenica 6 ottobre 2024

PREGHIERA E LITURGIA

 



Giuliano Zanchi, Preghiera e liturgia; San Paolo, Cinisello Balsamo 2024. 143 pp. (€ 14,00).

1. Gesù, una rivoluzione cultuale.

2.Cristo, epicentro della preghiera.

3. Nel “Noi” della Chesa.

4. Nel segno del sacramento.

5. Il nucleo eucaristico.

6. Mensa di una parola viva.

7. Registri, toni, modulazioni.

 

Il libro è “per quelli che hanno già una familiarità con la liturgia, e desideri  sinceri in fatto di preghiera, e vogliono mettere a fuoco con un supplemento di riflessione qualcosa che nella loro esperienza non trova ancora parole per definirsi. Più una serie di meditazioni che un saggio per specialisti” (Introduzione, p. 15).

Posso aggiungere, dopo una attenta lettura delle pagine di questo libro, che è un’opera utile anche agli specialisti.

 

venerdì 4 ottobre 2024

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 6 Ottobre 2024

 



 

Gen 2,18-24; Sal 127; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16

 

È evidente che il tema delle letture bibliche odierne è quello dell’amore fedele come fondamento del matrimonio. Ma il testo del versetto del canto al vangelo sembra che allarghi in qualche modo la visuale quando propone come criterio di lettura del brano evangelico le parole di 1Gv 4,12: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi, e l’amore di lui è perfetto in noi”. L’amore fedele, quindi, non è solo fondamento della vita matrimoniale ma è anche principio di armonia tra i figli di Dio, tra noi tutti.

 

La prima lettura riporta il brano del libro della Genesi dove si narra la creazione della donna. Le immagini usate dal racconto mettono in risalto l’uguaglianza in dignità tra l’uomo e la donna. Inoltre, il testo presenta l’incontro di amore tra l’uomo e la donna come una realtà che rientra pienamente nel disegno voluto da Dio. Il brano evangelico ci tramanda alcune affermazioni di Gesù sul matrimonio in risposta ad una domanda fattagli dai farisei. La domanda verte su se sia lecito o meno ad un marito ripudiare la propria moglie. Come evidenzia il testo, tale possibilità era prevista dalla legge di Mosè. Gesù, superando i termini angusti in cui viene posto il problema, va alla radice della questione ed afferma che questa norma era stata scritta “per la durezza del vostro cuore”, e colloca poi il rapporto uomo-donna nella visione originaria di Dio in cui un tale ripudio non era contemplato. Rientrati poi a casa, Gesù risponde ad una nuova interrogazione su questo argomento fatta questa volta dai discepoli riaffermando la natura indissolubile dell’amore matrimoniale e la pari dignità che in esso hanno l’uomo e la donna. Per capire meglio le parole di Gesù, è utile che ci soffermiamo sull’espressione: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma…”  Cosa intende affermare Gesù? 

 

L’immagine del “cuore indurito” richiama la denuncia dei profeti contro l’atteggiamento degli israeliti che non erano in grado di cogliere il senso dell’azione e della parola di Dio. I profeti però al tempo stesso che fanno questa denuncia, promettono - almeno dopo l’esilio - che Dio farà loro dono di un cuore nuovo. Così, ad esempio, è conosciuto il testo di Ezechiele che parla del dono che Dio farà di un cuore di carne in sostituzione del cuore di pietra affinché i figli d’Israele siano capaci di pulsare in sintonia con il progetto di Dio. Queste promesse si realizzano pienamente in Gesù Cristo. In lui siamo stati santificati (cf. seconda lettura). In lui possiamo quindi essere liberati dalla durezza del nostro cuore e comprendere e vivere le esigenze di Dio. L’amore umano è fragile, minacciato continuamente dalla debolezza. Ma chi apre il suo cuore a Dio riceve la forza per portare a compimento il progetto divino. Per i discepoli di Gesù, “sposarsi nel Signore” significa lasciarsi condurre dallo Spirito ed accettare una possibilità inedita, che Dio rende possibile con la sua grazia.