La liturgia è “l’esercizio della funzione (munus) sacerdotale di Cristo” (SC 7); è anche opera della Chiesa, in cui “ciascuno, svolge il proprio ufficio (munus)” (SC 28). I pastori “esercitano in essa la funzione (munus) di dispensatori dei misteri di Dio” (SC 19). Partecipando alla liturgia il Signore “fa di noi stessi un’offerta (munus) eterna a lui” (SC 12). “Munus” può esprimere bene il mistero liturgico nella sua globalità.
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domenica 31 marzo 2019
venerdì 29 marzo 2019
DOMENICA IV DI QUARESIMA (C) – 31 Marzo 2019
Gs 5,9a.10-12; Sal 33 (34); 2Cor 5,17-21; Lc
15,1-3.11-32
L’antifona
d’ingresso invita alla gioia: “Rallegrati (Laetare),
Gerusalemme… Esultate e gioite voi che eravate nella tristezza…”. Il salmo
responsoriale riprende questa tematica in chiave di ringraziamento: “Benedirò
il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode…” Perciò questa
domenica si chiama anche “Domenica Laetare”.
Il tema ritorna nel vangelo al termine della parabola del figliol prodigo:
“Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è
tornato in vita…”
Le letture bibliche odierne,
nel cuore del cammino quaresimale, sono una solenne proclamazione della
misericordia di Dio e un pressante invito a riconciliarci con Lui. In questa
domenica, come in quella precedente, ritroviamo il tema della conversione, vista
però sotto l’aspetto della riconciliazione come dono dell’amore di Dio. La
prima lettura parla della sollecitudine di Dio per il suo popolo, al quale,
dopo la traversata del deserto, offre in dono una terra e una patria. Il brano
del vangelo riporta la bellissima parabola del figliol prodigo, che viene
accolto dal padre misericordioso nella casa paterna. Nella seconda lettura
ascoltiamo san Paolo che parla di un Dio misericordioso che ha riconciliato a
sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe; l’amore fedele
di Dio ci viene comunicato tramite la fedeltà solidale di Gesù crocifisso.
All’azione di Dio che salva, noi siamo invitati a corrispondere: come Israele
che celebra nella gioia della pasqua il dono della terra promessa; come il figliol
prodigo che riconosce il suo peccato e si getta nelle braccia del padre.
La liturgia di questa domenica
quaresimale è un invito alla riconciliazione con Dio e con i fratelli. Notiamo
però che centro della bellissima parabola del figliol prodigo non è tanto la
riconciliazione di quest’ultimo con suo padre e la sua decisione di tornare in
famiglia, ma l’amore del padre che ridona al figlio minore la condizione
precedente prima ancora di ascoltare il suo pentimento. Qualcuno ha chiamato
questo racconto la parabola del Padre misericordioso o prodigo d’amore. E’ nota
l’opera di Rembrandt, che ha dipinto in modo meraviglioso l’episodio della
parabola: nelle mani del padre, notiamo la sinistra affusolata, femminile,
materna; la destra invece forte, maschile, paterna. Mani che esprimono amore,
appoggio, sollecitudine, fermezza, sicurezza.
La conversione –
riconciliazione è anzitutto una grazia, un dono dell’immenso amore di Dio. Egli
è sempre pronto ad accoglierci. Anzi Dio ha fatto già la sua parte, ci ha
riconciliati a sé tramite Gesù Cristo. Tocca a noi fare la nostra parte. La
misericordia di Dio ci viene incontro. Tocca a noi accoglierla nella
concretezza della vita. Dio non chiude la porta in faccia a nessuno. Tocca a
noi varcare la soglia di questa porta sempre aperta. Come nella parabola del
figliol prodigo, il primo atto della riconciliazione per quanto a noi concerne
è la constatazione della propria miseria, del proprio peccato. E’ un discorso
che va talvolta contro corrente in un ambiente culturale in cui si è perso di
molto il senso del peccato. La conversione, poi, non può esaurisci nell’intimo
del cuore, è chiamata ad esprimersi nel segno sacramentale. Infatti
l’esperienza cristiana della conversione è suggellata dal sacramento del
perdono e ha come effetto la riconciliazione con Dio e con i fratelli.
Riconciliati con Dio, non siamo più divisi e disgregati in noi stessi, ma
ritroviamo la nostra unità interiore e la nostra vera libertà, che ci rende
capaci di un servizio responsabile sia a Dio che ai fratelli. Finalmente,
riconciliati con Dio, possiamo gustare la gioia nella cena pasquale
dell’Agnello.
domenica 24 marzo 2019
LE SOGLIE CRISTIANE
Il tema delle soglie potrebbe subito far pensare alla
classica dialettica fra sacro e profano che accompagna normalmente la logica
del tempio arcaico. Una linea netta separava rigidamente lo spazio profano
della vita secolare da quello sacro della presenza divina. Le due sfere del
resto erano rigorosamente distinte. La soglia verso il sacro restava nella
norma inaccessibile. Sigillava il confine di uno spazio interdetto, salvo alle
specifiche facoltà della mediazione sacerdotale.
Per il cristianesimo le soglie hanno un significato
diverso: benché abbiano anche la funzione di distinguere, esse non hanno il
compito di interdire, piuttosto hanno la funzione di introdurre. La forma
cristiana della relazione religiosa del resto non oppone una profanità del
secolare a una sacralità trascendente. Le sa distinguere ma non accetta di
contrapporle. Le sue radici anticotestamentarie e le sue origini evangeliche si
fondono entrambe, per quanto in modo diverso, sulla concezione di un divino che
della scena secolare ha fatto il luogo reale della sua presenza, non
semplicemente il teatro astorico della sua manifestazione. Il corpo di Gesù,
verità ultima di questo principio, resta per sempre la tenda messa da Dio nel
mondo, tempio aperto all’intera umanità, veicolo dello Spirito che non resta
confinato in un sacello inaccessibile ma riempie il mondo intero.
Le soglie cristiane perciò non trattengono e non
separano. Ma collegano e modulano. Come il vero tempio in cui Dio trova casa è
la comunità dei discepoli convocati dalla sua memoria, così le soglie che
introducono in esso sono figura di un cammino iniziatico che simbolicamente
continua a rinnovarsi. Attraversando le sue forme, in una qualsiasi delle
nostre chiese, si ritualizza il cammino che introducendo nella comunità ha
portato nella pienezza della vita cristiana. Si è ogni volta come introdotti di
nuovo.
Fonte: Giuliano Zanchi, Luoghi della grazia. La liturgia e i suoi spazi (Grammatica della liturgia), Cinisello Balsamo, San Paolo
2018, pp. 47-48.
venerdì 22 marzo 2019
DOMENICA III DI QUARESIMA (C) – 24 Marzo 2019
Es 3,1-8a.13-15; Sal
102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Nelle
domeniche III, IV e V di Quaresima, il ciclo C di letture bibliche di
quest’anno si configura come una catechesi sulla riconciliazione, tema che
trova il suo vertice nella celebrazione della Pasqua, segno supremo della
nostra riconciliazione con il Padre.
Nel
cuore della Quaresima risuona l’invito pressante alla conversione. Possiamo
illustrarlo partendo dalla prima lettura: Dio ha compassione delle sofferenze
del popolo d’Israele che vive sotto il giogo della schiavitù in Egitto. Ecco
quindi che il Signore sceglie Mosè e gli comunica che intende liberare il suo
popolo dal potere dell’Egitto per farlo uscire da questo paese verso un paese
bello e spazioso. Sappiamo il resto della storia. Israele, guidato da Mosè,
intraprende il suo grande esodo attraverso il deserto verso la terra promessa.
Nella seconda lettura, san Paolo ci ricorda che la maggior parte di coloro che
hanno lasciato l’Egitto non hanno raggiunto il traguardo della terra promessa,
perché si sono ribellati al loro Dio, ed Egli li ha puniti. Infatti liberati
dalla schiavitù e divenuti popolo eletto di Dio, gli israeliti hanno tradito
l’amicizia e la fiducia del Signore e sono tornati ad essere schiavi, questa
volta degli idoli e della loro superbia. E conclude Paolo: “tutte queste cose
accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento”.
Infatti anche noi continuiamo,
nonostante l’amore con cui Dio ci ha salvati e seguita a circondarci, a fare
l’esperienza del peccato.
Nel
brano evangelico vediamo come Gesù interpreta due fatti di cronaca (alcuni
morti in una rivolta contro i Romani e l’improvviso crollo della torre di Siloe
che seppellisce diciotto persone). Dinanzi a simili fatti la tentazione di
sempre è quella di applicare uno schema di interpretazione abbastanza
rudimentale: un castigo di Dio e, naturalmente un castigo meritato per qualche
colpa più o meno grave. Gesù rifiuta questa interpretazione, dice infatti di
non credere che quei morti fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di
Gerusalemme. Tuttavia Gesù non può fare a meno di mettere in evidenza ciò che
conduce a disastri ben peggiori di quelli evocati: l’indurimento del cuore, il
rifiuto di accogliere la sua Parola, l’ostinazione con cui restiamo talvolta attaccati
agli sbagli di sempre hanno come esito una situazione ben peggiore di quella
toccata alle vittime della repressione o di una sciagura imprevedibile.
In
ogni caso, la pazienza di Dio, la sua misericordia sono fuori dubbio, come
spiega la parabola con cui si conclude il brano. La parabola parla del fico che
non porta frutto e che si vorrebbe tagliare, ma che invece viene lasciato con
la speranza di una maturazione ulteriore. Con questa parabola, Gesù non si
propone di indicare i limiti della misericordia di Dio, ma di affermare con
assoluta chiarezza che egli, nella sua bontà, accorda a tutti il tempo per
accogliere il suo invito alla conversione; è un messaggio di consolazione e un
invito a non ritardare il tempo per portare frutti degni di conversione.
La
conversione è uno dei punti nodali della predicazione di Gesù, e quindi un
elemento costitutivo e costante dell’esistenza cristiana: anzi, si può ben dire
che l’esistenza cristiana trae origine dalla conversione e si sviluppa
attraverso un continuo cammino di conversione, che la Quaresima esprime in modo
simbolico come tempo di preparazione alla Pasqua. Ricordiamo però che la
conversione diventa effettiva solo se la nostra vita cambia, se la parola di
Dio, ascoltata e accolta, diventa in noi comportamento di vita.
domenica 17 marzo 2019
LA LITURGIA E I SUOI SPAZI
Giuliano Zanchi, Luoghi
della grazia. La liturgia e i suoi spazi (Grammatica della liturgia), Cinisello Balsamo, San Paolo
2018. 157 pp. (€ 15,00).
Dopo una breve Introduzione, il libro è diviso in otto
capitoli:
-Il corpo. Toccare la carne, modellare lo spirito.
-L’assemblea. Il secondo corpo umano di Gesù.
-Le soglie. Entrare nel mistero cristiano.
-L’ambone. La rivelazione che risuona nel presente.
-L’altare. Cristo presente nella Chiesa.
-Il battistero. Rinascere dallo Spirito.
-La luce. Profezia del corpo spirituale.
-Le immagini. Stare nel sensibile, vedere l’invisibile.
Chiude il tutto una ricca bibliografia sul tema.
venerdì 15 marzo 2019
DOMENICA II DI QUARESIMA (C) – 17 Marzo 2019
Gn 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36
Vale
la pena fidarsi di Dio perché egli è fedele alle sue promesse. Questo messaggio
riprende e sviluppa uno degli aspetti del messaggio della domenica scorsa
invitandoci ad una fede che si apre alla speranza.
Un
nomade dell’antico Oriente non poteva avere desiderio maggiore di una dimora
fissa e di una numerosa discendenza. Sono le grandi aspirazioni di Abramo, di
cui parla la prima lettura. Dio gli promette un figlio e una sconfinata
discendenza, ma egli è anziano e sua moglie Sara è sterile; Dio gli promette
una terra, ma la terra su cui Abramo cammina è occupata dai cananei. La fede di
Abramo non ha un appiglio umano a cui potersi attaccare. Ciò nonostante, “egli
credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”. San Paolo ha
chiamato Abramo “padre di tutti noi” (Rm 4,16), cioè capostipite di tutti noi
che crediamo e che per mezzo della fede veniamo giustificati da Dio.
Il
vangelo riporta il brano della trasfigurazione. Gesù offre ai tre discepoli
prediletti una visione anticipata della sua gloria di risorto, che culmina
nella testimonianza del Padre che rivela l’identità profonda di Gesù: “Questi è
il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. E’ da sottolineare l’invito all’ascolto,
ripreso dalla colletta del giorno. Come ricorda il prefazio, poco prima
dell’evento della trasfigurazione, Gesù fa il primo annuncio della sua passione
e morte e, in seguito, indica le condizioni per seguirlo: “Se qualcuno vuol
venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi
segua” (Lc 9,23). In questo contesto, l’invito ad ascoltare Gesù acquista un
senso preciso e particolare: ascoltate Gesù perché è mio Figlio; ascoltatelo
nonostante le parole che dice siano paradossali. Fidatevi anche se vi propone
un cammino di sofferenza; seguitelo anche se dovete passare per sentieri
stretti e disagevoli. La trasfigurazione è la grande rivelazione di Gesù, la
scoperta piena della sua realtà a cui si è invitati attraverso l’ingresso
nell’oscurità della fede che ci conduce attraverso la via della croce, sorretti
dalla speranza, all’esperienza della risurrezione.
La
seconda lettura è un’esortazione alla speranza, non in una terra o in una
discendenza, come per Abramo, ma in Dio stesso che si pone come terra promessa,
come futuro capace di appagare pienamente le nostre attese: “La nostra
cittadinanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù
Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo
corpo glorioso”. La contemplazione anticipata della gloria di Gesù non ci
risparmia lo scandalo della croce, ma lo sostiene nella speranza.
La
pienezza perpetua e stabile della nostra trasfigurazione in Cristo avverrà
nella vita eterna, ma si prepara e anticipa qui e ora. La celebrazione
eucaristica è prefigurazione e anticipazione del banchetto eterno nel quale
contempleremo il volto glorioso del Cristo, quel volto trasfigurato di cui i discepoli
Pietro, Giovanni e Giacomo ebbero sul monte Tabor un saggio transitorio.
domenica 10 marzo 2019
QUALE LINGUAGGIO NELLA LITURGIA?
Nel servizio religioso non si deve evitare soltanto il
linguaggio sacro impettito,
altisonante, ma anche il gergo della strada, le
smancerie intellettuali e la boria modernistica. Qui il linguaggio deve essere
sobrio e insieme commovente, tale da esprimere l’esperienza della comunità
orante alla presenza di Dio. Ciò può avvenire, a seconda del tempo, del luogo e
della situazione, in base a un valido formulario prestabilito o mediante la
preghiera libera. Entrambi i modi possono essere utili. Milioni di persone
dicono il Padre nostro, e ciascuna vi
immette quanto le è più proprio. Il Kyrie,
il Gloria, il Sanctus della messa romana rendono possibili stati d’animo comuni e
possono raggiungere un’attualità e risonanza, che manca a certi testi
spontanei. In alcune ore il singolo è felice di servirsi di preghiere già
formulate come la comunità di servirsi di preghiere spontanee. In ogni caso nel
servizio religioso della comunità non deve venire vietata la preghiera libera,
spontanea, e ciò pienamente nel senso di Paolo, che alla comunità della greca
Tessalonica scriveva: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie,
esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1Ts 5,19-21).
Le preghiere libere e tradizionali possono perciò
fecondarsi reciprocamente, e in un buon servizio religioso staranno
indubbiamente entrambe in un giusto rapporto.
Fonte: Hans Küng, La
preghiera e il problema di Dio, Morcelliana Brescia 2018, p. 66.
venerdì 8 marzo 2019
DOMENICA I DI QUARESIMA (C) – 10 Marzo 2019
Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13
Le
letture odierne sono incentrate sulla fede, che è anche un atteggiamento
interiore di fiducia nelle promesse divine. Il brano del Deuteronomio riporta
una lunga preghiera che, per ordine di Mosè, l’israelita doveva pronunciare nel
momento in cui egli offriva le primizie dei frutti del suolo per ringraziare il
Signore di avergli donato la terra. Questa preghiera è la più antica
professione di fede in Dio del popolo d’Israele, in un Dio fedele alle sue
promesse. Infatti il dono della terra è visto come l’ultimo di una serie di
doni, di interventi salvifici che Dio ha compiuto lungo la storia del suo
popolo, da Abramo in poi. Con il gesto dell’offerta delle primizie e la professione
di fede che l’accompagna, Israele riconosce che tutto quanto è e possiede è
dono di Dio. Anche il brano di san Paolo è una professione di fede, in questo
caso di fede cristiana in Gesù quale “Signore”, fonte di salvezza per tutti:
chi riconosce e proclama che Gesù Cristo, il crocifisso, è il Signore risorto
dai morti, approda alla salvezza che è il dono di Dio promesso ai credenti.
L’evento
delle tentazioni di Gesù, riportato dal vangelo, episodio che tradizionalmente
apre la Quaresima, può anch’esso essere considerato una vera professione di
fede. La fede è messa alla prova dalla tentazione, la quale non risparmia
neppure il Cristo. Ma vediamo come egli affronta questa prova. Tutte le
risposte che Gesù dà al tentatore sono ispirate nelle parole della Scrittura.
Satana cerca in modo subdolo, usando anche lui le parole della Scrittura, di
indurre Gesù a fare delle scelte personali e comode contrarie al disegno di Dio
su di lui. Ma Gesù, rispettando la libertà sovrana del disegno salvifico, al
cui compimento è votato, pronuncia il suo “sì” definitivo al Padre e si
abbandona totalmente al suo destino. In questo modo, “vincendo le insidie
dell’antico tentatore” (prefazio), Gesù diventa per noi l’emblema luminoso
della fede in Dio, cioè dell’adesione piena e totale a Dio e al suo piano
tracciato nel cosmo e nella storia. “La vittoria di Gesù sul tentatore nel
deserto anticipa la vittoria della passione, suprema obbedienza del suo amore
filiale per il Padre” (Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 539). Come per Cristo, anche la nostra strada di
fedeltà alla parola di Dio è cosparsa di ostacoli e tentazioni. Dio però ci
assicura il suo aiuto e la sua forza per superare ogni prova. Abbiamo la
certezza che Cristo ha vinto le forze del male e la sua vittoria è anche di
tutti coloro che si uniscono a lui per mezzo della fede e dei sacramenti.
La
Quaresima si apre con un forte appello alla riscoperta della purezza della fede
liberata da tutte le ignoranze, i surrogati e le escrescenze abitudinarie e
magiche. Bisogna prendere chiara coscienza di tutto ciò che nella nostra vita
contraddice la scelta fondamentale fatta nel battesimo abbracciando i valori
del vangelo, scelta che deve orientare l’intero corso della nostra esistenza.
Di fronte alla tentazione costante, che per la nostra naturale fragilità
avvertiamo, di emanciparci da Dio e di prostituirci agli “idoli”, occorre
riaffermare la fedeltà alla parola di Dio e la fede nella potenza salvatrice
del Signore.
domenica 3 marzo 2019
L’ISTANTE DELLA CONSACRAZIONE COME TEMPO SACRAMENTALE
Tra le tesi che figurano nei manuali di teologia scolastica ve n’è una che afferma l’istantaneità della transustanziazione. La possiamo leggere nella formulazione stessa di san Tommaso: “[…] questa trasformazione si compie per mezzo delle parole di Cristo pronunciate dal sacerdote, di modo che l’ultimo istante in cui sono pronunciate le parole è il primo istante in cui il corpo di Cristo è presente nel sacramento […]; è allora infatti che si completa il significato delle parole, che è efficace nelle forme dei sacramenti. Da ciò consegue che questa trasformazione non avviene in maniera successiva” (Sum. Theol. 3, q. 75, a. 7, ad 1 et 3).
Qui san Tommaso è preoccupato di mettere in guardia contro la tentazione di concepire la transustanziazione sulla falsariga di un’eclissi dove, a misura che un corpo celeste svanisce ai nostri occhi, un altro ne perde il posto. Se così avviene per la trasformazione eucaristica questa progressiva sostituzione tra due sostanze comprenderebbe inevitabilmente, sia pure per un breve momento, la compresenza di entrambe, con il conseguente rischio di cadere nella teoria della consustanziazione. Ma non è così per la presenza eucaristica. Questa infatti si compie in un istante, che san Tommaso coerente con l’assolutizzazione esclusiva dell’efficacia delle parole istituzionali, fa culminare con l’ultimo istante in cui si completa la loro proclamazione.
Un’analoga riflessione sull’istante della trasformazione eucaristica, ma interiore di vari secoli a quella di Tommaso d’Aquino, si trova già in quell’antesignano della teoria ortodossa che fu Babai il Grande (+ 628). Nel suo trattato di cristologia nestoriana così egli afferma: “[…] all’invocazione del sacerdote, nella supplica sopra i misteri della nostra salvezza, quando il sacerdote dice: ‘Venga la grazia dello Spirito Santo e dimori sopra questo pane e sopra questo calice, e li faccia corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo’, allora, alla voce del sacerdote, subito, in un batter d’occhio, crediamo che il sacramento esiste, e che la grazia dello Spirito Santo dimora e porta a pienezza i misteri della nostra salvezza, affinché siano il corpo e il sangue di Cristo […]”.
Pur prendendo atto che la trasformazione che la trasformazione eucaristica avviene in un istante, resta il fatto che qui gli istanti sono due: quello cattolico delle parole istituzionali e quello ortodosso dell’epiclesi, peraltro esclusivi l’uno dell’altro. Rinunciando a contrapporre questi due istanti, preferiamo tentare la via della composizione, prendendo spunto da un autorevole pronunciamento tridentino. Nel caso nostro dovremo avvalerci, rispetto alla categoria tempo, di una considerazione analoga a quella che, in riferimento alla categoria spazio, il Concilio di Trento fa intervenire per spiegare i due modi della presenza di Cristo, sempre assiso alla destra del Padre e nondimeno realmente presente sui nostri altari (cfr DS 1636). Al fisicista, che in nome della sua logica sarebbe tentato di ribellarsi all’idea di due distinte presenze reali di un medesimo corpo, la fede tridentina risponde dicendo che la categoria di spazio fisico è inadeguata per spiegare il mistero, giacché in questo caso non si tratta di due presenze fisiche, bensì di due diversi modi dell’unica reale presenza di Cristo: quella fisica o naturale alla destra del Padre e quella sacramentale sui nostri altari.
Analogamente, se vogliamo comprendere come l’efficacia assoluta delle parole della consacrazione si componga con l’efficacia dell’epiclesi consacratoria e viceversa, dobbiamo riconoscere che qui non si tratta di due trasformazioni successive e distinte nel tempo, bensì di due momenti congiunti e reciprocamente ordinati dell’unica transustanziazione. In altri termini: come la categoria di spazio fisico è inadeguata per spiegare la modalità della presenza sacramentale, così pure la categoria di tempo fisico è inadeguata per spiegare la produzione del corpo sacramentale.
Perciò, in analogia con Trento, che respinge l’alternativa “o tutto in cielo o tutto sull’altare”, diremo: non vi è alcuna contraddizione nell’affermare che il mistero della transustanziazione si compie tutto quanto nel momento delle parole istituzionali e tutto quanto nel momento dell’epiclesi, giacché il tempo sacramentale non è un tempo fisico, bensì è tempo meta ta physika, un tempo cioè che sfugge alle misurazioni del cronometro. Inoltre, sempre in analogia con Trento, di questo tempo sacramentale diremo: anche se a stento lo possiamo esprimere con parole, tuttavia con una riflessione illuminata dalla fede lo possiamo riconoscere come possibile a Dio, e dobbiamo fermamente credere nella modalità operativa ad esso propria.
Fonte: Cesare Giraudo S.I., Preghiera eucaristica e teologia. Per una soluzione della controversia sull’epiclesi, in “La Civiltà Cattolica”, n. 4017 (2/16 febbraio 2019), pp. 236-249 (qui, pp. 244-246).
venerdì 1 marzo 2019
DOMENICA VIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 3 Marzo 2019
Sir
27,5-8; Sal 91; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45
L’inizio
del Sal 91 è un inno di lode al Signore per il suo amore e la sua fedeltà. Il
seguito del testo è, invece, occupato da un confronto tra il giusto e l’empio
davanti a Dio. Di questo confronto la liturgia odierna ci propone solo gli
ultimi versetti del salmo in cui viene tracciato il ritratto del giusto. Questi
versetti sono ripresi frequentemente dalla liturgia della Chiesa per celebrare
la gloria dei Santi. La robustezza, la fecondità e la longevità dei cedri e
delle palme, le piante più rigogliose della Palestina, sono un simbolo espressivo
della ricchezza della vita interiore degli uomini giusti.
La
liturgia odierna è un pressante invito a rientrare in se stessi per arricchire
il cuore e trasformare la propria vita in un “albero di frutti buoni”. Il breve
brano del libro del Siracide, proposto come prima lettura (Sir 27,4-7) mette in
risalto l’importanza e la funzione della parola: essa prova quanto valga una
persona e rivela i sentimenti più intimi del suo cuore. Soltanto chi ha un
cuore ricco di Dio potrà dire parole di vero amore che infondano gioia e
speranza.
Nel
brano evangelico (Lc 6,39-45) Gesù con un linguaggio semplice e concreto, a
portata di coloro che lo ascoltano, allarga il discorso e parla della vera
ricchezza dell’uomo che, radicata nel suo cuore, e si manifesta nelle sue
opere: “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore”. Parole,
intenzioni, programmi, non bastano. Si richiedono i frutti, che a loro volta
rivelano la natura buona o cattiva dell’albero. Per l’uomo quello che conta è
il cuore, il centro dei suoi pensieri e delle sue scelte, dove la libertà
esprime se stessa: il cuore “è il luogo della decisione… È il luogo della
verità, là dove scegliamo la vita o la morte” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2563). Quando le parole e le
opere non sono in sintonia, allora il nostro cuore è diviso. E’ l’ipocrisia di
cui parla Gesù. L’epiteto “ipocrita” nella lingua classica greca designa
l’attore che recita una parte mettendosi la maschera. Chi si comporta con la
presunzione di condannare gli altri si rivela un ipocrita, che per dissimulare
le proprie miserie si mostra zelante della perfezione altrui. Dio solo è il
giudice perché soltanto lui conosce veramente le profondità del cuore umano.
All’ipocrisia si oppone la sincerità del cuore.
In una
società, come la nostra, fondata sulla comunicazione orale, le parole non
mancano mai. Possiamo ben dire però che oggi troppe parole si vendono a buon
mercato. E’ un chiasso assordante! Si ha poi la sensazione che le parole non
hanno valore per quel che esprimono ma per come si dicono. Sembra addirittura
che abbia ragione chi grida di più. La parola è svalutata perché non è in
armonia col cuore e con la vita. La parola ritroverà tutto il suo valore a
condizione che diventi espressiva di fatti, di autentici valori di vita, e ciò
è possibile solo se la nostra parola viene ricollegata alla Parola di verità
che è Cristo. Si tratta di accogliere questa Parola nel cuore e attuarla nella
vita. E’ un impegno quotidiano del discepolo di Gesù, una fatica che, come dice
san Paolo nella seconda lettura (1Cor 15,54-58) non è vana, perché nel Signore
Gesù Cristo Dio ci dà la vittoria.
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