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venerdì 29 settembre 2023

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 1 Ottobre 2023

 



 

Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

 

 

Nella prima lettura, vediamo che Dio ammonisce i figli d’Israele, tramite il profeta Ezechiele, e li richiama al senso della responsabilità personale di fronte alle scelte della vita: l’uomo è responsabile delle sue azioni, e queste sono strettamente connesse con la giustizia. Perciò, se vogliamo una vita autentica, non possiamo sottrarci a far propri i valori che la determinano; dobbiamo semplicemente accettarli e viverli coerentemente. Anche dal brano evangelico emerge un forte richiamo alla coerenza della vita. Servendosi, come al solito, di una parabola, Gesù parla di due figli, ai quali il padre dà lo stesso ordine: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Il primo risponde con religioso rispetto e docilità, ma non va a lavorare nella vigna come aveva promesso; il secondo figlio, invece, risponde con arroganza e insolenza in senso negativo, ma alla fine si ravvede e va in campagna a lavorare nella vigna. La morale della storia è così chiara che Gesù vuole che siano i suoi stessi ascoltatori a ricavarla: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”, domanda Gesù. Non c’è dubbio dicono tutti: l’ultimo. La parabola sottolinea il contrasto che esiste tra il dire e il fare, tra la parola e l’azione. Non basta la semplice conoscenza teorica del vangelo o l’adesione verbale ad esso, ma occorre una conversione totale in modo che l’insegnamento di Gesù sia tradotto in comportamento di vita. Il sì della bocca è insufficiente, quello decisivo è il sì dei fatti. Possiamo ben dire che non esiste affermazione di fede che non possa e non debba essere verificata nella prassi della vita quotidiana. Nel regno di Dio entra solo chi fa la volontà del Padre: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21).

 

Nella seconda lettura, san Paolo ci dà il punto di riferimento della nostra obbedienza al Padre. Siamo infatti invitati ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione divina […] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo […] umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Il brano paolino sintetizza le varie tappe del mistero di Cristo: la sua preesistenza divina, l’abbassamento alla condizione di servo nel mistero dell’incarnazione e una ulteriore umiliazione fino alla morte di croce, alla quale fa seguito l’esaltazione. A noi interessa qui sottolineare che queste tappe sono percorse da Cristo sotto il segno dell’obbedienza al Padre.            

 

Nella celebrazione eucaristica noi comunichiamo sacramentalmente proprio con il mistero della morte di Cristo e quindi della sua umiliazione e obbedienza. Notiamo però che la partecipazione sacramentale esige una coerenza esistenziale che va al di là del momento strettamente rituale.

 

 

domenica 24 settembre 2023

VISIONE PROTESTANTE DEL CULTO CRISTIANO

 



 

Ermanno Genre, Il culto cristiano. Una prospettiva protestante (Piccola Biblioteca Teologica 66), Claudiana, Torino 20222. 286 pp. (€ 19,50).

 

Il principio di una ecclesia semper reformanda non risparmia la liturgia. Oggi nelle chiese protestanti si fa strada la ricerca di un nuovo punto focale del culto evangelico per un nuovo equilibrio tra la dimensione della parola e del sacramento. Una nuova concezione del culto evangelico che moderi il “potere liturgico” tradizionalmente assunto dal sermone, a favore di uno svolgimento liturgico più coerente. La libertà liturgica che i protestanti rivendicano nei confronti di una agenda prestabilita è alla ricerca di una “partecipazione attiva” dell’assemblea celebrante per una autentica interazione rituale.

 

Prima parte. L’integrazione di tempo e spazio, tradizione e innovazione: Versus koinonia.

 

Seconda parte. Gli elementi costitutivi del culto cristiano riformato.

 

Terza parte. Articolazione e prospettiva.

 

Appendici

venerdì 22 settembre 2023

DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 24 Settembre 2023

 


 

 

Is 55, 6-9; Sal 144; Fil 1,20c-24.27a; Mt 20,1-16

 

 

Le letture bibliche di questa domenica propongono alla nostra riflessione il misterioso modo di agire di Dio nei nostri confronti. Dio non giudica gli uomini con il metro con cui noi non di rado giudichiamo i nostri simili. Perché, come dice il profeta Isaia nella prima lettura, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri e le nostre vie non sono le sue vie: è un Dio che ha misericordia e perdona largamente. Questo particolar modo di agire di Dio è illustrato da Gesù nella parabola evangelica dei lavoratori della vigna, una parabola volutamente sconcertante, per indurre gli ascoltatori, e quindi anche noi, a rettificare eventualmente la nostra idea della giustizia divina e a interrogarci sul modo in cui comprendiamo e viviamo il nostro rapporto con Dio.

 

Possiamo interpretare la parabola come una risposta di Gesù alla domanda che Pietro e i suoi discepoli gli hanno rivolto poco prima: “Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ne ricaveremo?” (Mt 19,27). Il proprietario della vigna ricompensa ugualmente operai che hanno compiuto lavori di diversa durata: alcuni hanno lavorato una giornata intera, altri un poco meno, altri poi un’ora sola; tutti però vengono retribuiti in modo uguale. Il particolare dell’uguaglianza di retribuzione nella parabola, mira a sottolineare che non c’è proporzione fra ciò che fa l’uomo e ciò che dona Dio. Il padrone della parabola distribuisce i salari non secondo la misura delle prestazioni degli operai, ma in vista del loro benessere e della loro gioia. Dio, infatti, non è un padrone che dà un “salario”, ma un padre che elargisce un “dono”. Dio non è un compagno d’affari, con cui possiamo contrattare la nostra salvezza. La salvezza non va barattata, ma accettata come dono. Il procedere così generoso di Dio ha come unica spiegazione la sua bontà infinita e la sua iniziativa libera e spontanea; la grandezza di Dio non si può misurare: “senza fine è la sua grandezza” (cf. salmo responsoriale).

 

Dio sa donare giustizia e bontà lì dove l’uomo non sa fare altro che un avvilente calcolo matematico. Noi siamo inclini a definire i reciproci rapporti in base alla prestazione effettiva, parametro che inconsciamente trasferiamo alle vicende che riguardano anche i nostri rapporti con Dio. Il Signore invece agisce secondo criteri di gratuità. Davanti alla misericordia sconfinata di Dio ogni uomo, ciascuno di noi, si trova nella medesima posizione. La grettezza del nostro cuore fa sì che sia per noi difficile capire l’amore di un Dio sempre pronto a perdonare, sempre pronto ad accogliere chiunque apra il cuore alla sua grazia, in ogni momento. Se siamo veramente discepoli di Cristo sapremo interpretare la nostra vita secondo criteri di gratuità e di donazione agli altri, i valori che nel Cristo hanno incarnato l’autentico volto del Padre.

 

L’Eucaristia esprime in modo sublime il mistero del donarsi gratuito di Dio a noi. Presentiamo al Signore un po’ di pane e di vino e abbiamo in dono un “cibo di vita eterna” e una “bevanda di salvezza”.

 

domenica 17 settembre 2023

IL MITO

 



 

Il mito è una dimensione costitutiva, essenziale dell'animo umano e della sua mente, un bisogno fondamentale e irrinunciabile, cacciato dalla porta rientra contraffatto e subdolo dalla finestra. Non è verità, non è finzione e neanche una via di mezzo. È vedere il mondo con altri occhi, sotto altra luce. Non è oscurantismo, ma diverso splendore. Non è post-verità, curiosa ossessione di un'epoca relativista che ha in disprezzo la verità, ma altra cosa dalla verità. Semmai pre-verità perché l'annuncia, la precede, è il suo epos.

Il mito è quel fondo originario che precede la storia, la politica, il pensiero, l'arte, la religione e perfino la scienza e l'economia. È da lì che traggono spunto e incanto, è lì che ritrovano impulso iniziale ed energia creativa. Ed è lì, nel mito, che si possono ritrovare ora che sono privi di spinta propulsiva, smarriti, se non morenti. Non resta che il mito, perché il mito era prima dell’inizio e sarà dopo la fine.

 

Marcello Veneziani, Nostalgia degli dèi, p. 153.

sabato 16 settembre 2023

DOMENICA XXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 17 Settembre 2023

 



 

Sir 27,33-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

 

                                                    

Il Sal 102 è un inno pieno di affetto ed entusiasmo alla misericordia di Dio; il salmista, ricordando che ha peccato ma che è stato perdonato da Dio, alla fine della sua intensa preghiera invita tutte le creature a lodare con lui il Signore. Il “Dio è amore” della prima lettera di Giovanni (4,8) trova in questa preghiera un’autentica anticipazione. L’atmosfera in cui si muove questo inno è piena di amorevolezza, serenità e luminosità. Nella liturgia della Chiesa, questo salmo è diventato un inno a Gesù Cristo; in lui si sono realizzati per noi tutti i benefici divini ricordati dal salmista. Riassume bene il tema della domenica il ritornello del salmo responsoriale: “Il Signore è buono e grande nell’amore”.

 

Il brano del Siracide ci ricorda che se conserviamo nel nostro cuore rancore, non potremo ottenere il perdono di Dio. Ecco il perché del pressante invito del saggio israelita: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”. Non possiamo chiedere ci venga applicata una logica di perdono e nello stesso tempo rifiutarci di usare questa medesima logica verso i nostri simili. Il racconto evangelico sviluppa lo stesso tema. San Pietro si rivolge a Gesù e gli domanda quante volte si deve perdonare al fratello, ci sono dei limiti? La domanda non è oziosa. Infatti, i maestri d’Israele di quel tempo affermavano generalmente che si doveva perdonare fino a tre volte. San Pietro è più generoso, e domanda: “fino a sette volte?” Ma Gesù dimostra nella sua risposta l’infinita misericordia di Dio quando afferma con un gioco di parole: “fino a settanta volte sette”, cioè sempre. E per imprimere nella mente dei discepoli questa volontà di perdono, ecco che Gesù narra, come è sua abitudine, una significativa parabola.

 

Noi ci troviamo nella condizione descritta dalla seconda scena della parabola: in mezzo alla strada, di fronte ad altri servi come noi del padrone. Come dobbiamo comportarci? Ricordando che prima di ogni nostra scelta abbiamo ricevuto da Dio il perdono gratuito di un debito impagabile. Se questo ricordo rimarrà e sarà operante nel cuore, il nostro comportamento verso gli altri sarà necessariamente fatto di perdono e di gratuità. Se invece dimentichiamo quello che Dio ha fatto per noi, allora rientreremo nella logica della stretta parità e il rapporto con gli altri tenderà a diventare uno scambio commerciale.

 

Anche il breve brano della lettera ai Romani, proposto come seconda lettura, ci invita ad assumere una logica di fede nei rapporti con gli altri. Da dove viene la difficoltà per perdonare? Dal porre se stessi al centro, dal valutarsi più di quanto noi siamo. San Paolo ci ricorda che nessuno vive per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, siamo del Signore. Si tratta in entrare con chiarezza in questo modo di ragionare proprio della fede. La parola di Dio illumina la nostra fede, ci esorta a non lasciarci travolgere dai sentimenti di odio e di vendetta, ma a vincere il male con il bene.

 

 

domenica 10 settembre 2023

L’OSPITALITÀ EUCARISTICA

 



 

Romano Penna – Giobbe Getcha – Ermanno Genre, Cena del Signore e ospitalità eucaristica. Prospettive teologiche interconfessionali, Introduzione di Angelo Lameri, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022. 155 pp. (€ 18,00).

R. Penna, L’dea cristiana di comunione. Dal battesimo all’eucaristia.

G. Getcha (Metropolita di Pisidia), Ospitalità eucaristica. La prospettiva ortodossa.

E. Genre, Tutti accolti alla mensa del Signore. Ospitalità eucaristica per le Chiese della Riforma.

 

“La condivisone della stessa mensa non può essere considerata né un diritto, né una realtà che in qualche modo possa essere meritata, né un segno di reciproca accoglienza, ma solo un dono dall’alto che prima di tutto chiede una disponibilità alla conversione e a lasciarsi trasformare nella verità” (Dall’Introduzione di A. Lameri).

 

venerdì 8 settembre 2023

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 10 Settembre 2023

 



 

Ez 33,1.7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

 

 

Nella nostra riflessione, partiamo dalla seconda lettura, in cui abbiamo ascoltato un pressante appello di san Paolo all’amore vicendevole, “perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”. Con queste parole, l’Apostolo riconduce tutti gli obblighi e tutti i rapporti con i propri simili all’amore (cf. anche 1Cor 13,1-8; Gal 5,14). Il messaggio è chiaro: alla base di ogni rapporto personale, famigliare, ecclesiale o sociale ci deve essere una logica di amore. La morale cristiana non è fondata su una serie di precetti, più o meno negativi, ma sulla responsabilità di ognuno per l’altro.

 

Questo amore per il prossimo si manifesta anche con la correzione fraterna. Un amore permissivo, incapace di denunciare il male che affligge i nostri fratelli, è un falso amore. Ce lo ricordano le altre due letture bibliche. Il profeta Ezechiele, viene affermato nella prima lettura, è stato costituito dal Signore “sentinella per la casa d’Israele”: egli ha il compito di denunciare la mancanza di fede del popolo, di smascherare gli ingiusti, di richiamare il peccatore perché si converta. Se non lo facesse sarebbe corresponsabile della sua perversione. Sappiamo bene che la presenza del male non riguarda soltanto la società di altri tempi; è un problema con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni. Esso ci coinvolge sempre personalmente.

 

Il brano evangelico riprende le stesse idee della prima lettura ed espone in modo dettagliato le tappe del processo di ricupero dell’errante, l’atteggiamento di avere nei confronti del fratello o sorella che ha sbagliato. Non si tratta di norme disciplinari in senso proprio, ma di una pressante esortazione a fare tutto il possibile per riportare il colpevole sul giusto cammino. Assumendo una posizione passiva davanti agli errori del nostro prossimo noi non perseguiamo la via dell’amore, della solidarietà e della corresponsabilità. La correzione fraterna raccomandata da Gesù comporta un atteggiamento di comprensione e di coraggio al fine di consentire al fratello o sorella che è in errore di ravvedersi. Una tale correzione non ha il carattere di azione punitiva ma è volta alla conversione del fratello. Possiamo ben dire che la correzione fraterna è anzitutto un grande esercizio di amicizia e perciò suppone che si ami l’altro come un “altro me stesso” nella consapevolezza di essere assieme fragili ma anche forti, se e in quanto uniti nella carità. Se il fratello o sorella non ci ascolta, dice Gesù: “sia per te come il pagano e il pubblicano”. Nel Vangelo il pagano e il pubblicano sono quelli da amare anche quando non ascoltano, quelli per cui si dà la vita perché è l’unico modo per toccare il loro cuore. Come Cristo ha fatto per noi.

 

Il brano evangelico riporta alla fine le parole di Gesù sull’efficacia della preghiera comune: la comunità riunita nella carità gode della presenza di Cristo e, in lui, ottiene dal Padre che progredisca la riconciliazione universale. Il Signore è presente là dove c’è un’autentica concordia nella preghiera.

 

La partecipazione all’eucaristia ha come frutto il rafforzamento della “fedeltà e della concordia” dei figli di Dio (cf. preghiera sulle offerte).

 

 

domenica 3 settembre 2023

IL VESCOVO “GRANDE SACERDOTE DEL SUO GREGGE” (SC n. 41)

 





 

1. Il vescovo è posto a capo di una Chiesa particolare e vi svolge in nome di Cristo l’ufficio di insegnare, santificare e governare (cfr. LG nn. 25, 26 ,27).

2. Sono uffici o compiti (keriygma-martyria, leiturgia, diakonia) che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro (cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est n. 25).

3. Nel suo ufficio di santificare il vescovo è ministro dei sacramenti e regolatore di tutta la vita liturgica della Chiesa particolare. Bisogna mettere in particolare evidenza la celebrazione dell’eucaristia diretta dal vescovo (cfr. LG n. 26).

4. Perciò tutti devono dare la massima importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche (cfr. SC n. 41).

5. In questo contesto, dovere del vescovo è essere un vero modello della presidenza celebrante. Egli deve fare delle celebrazioni episcopali, in particolare della celebrazione eucaristica, un tipo esemplare di partecipazione attiva e piena, che non si limiti alla doverosa osservanza formale delle norme rituali.

6. Attorno al ministero del vescovo nella Chiesa particolare si organizzano e si strutturano tutte le forme di ministerialità, di servizi e di uffici nei quali si articola la comunione ecclesiale (cfr. Caeremoniale Episcoporum n. 19).

7. Dato che l’assemblea cultuale, presieduta dal vescovo, è epifania nonché realizzazione della Chiesa, il rito cristiano è celebrato dai diversi membri dell’assemblea nella molteplicità dei ruoli e specificità delle funzioni che ognuno esercita in essa creando una sinfonia di ministeri (cfr. SC n. 28).

8. La presenza e l’attuazione nelle celebrazioni episcopali dei diversi ministeri, ordinati, istituiti e di fatto, illustra lo stretto rapporto che intercorre tra il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale dei ministri ordinati.

9. Le celebrazioni presiedute dal vescovo sono circondate in genere da una particolare solennità. San Paolo quando cerca di regolare la manifestazione comunitaria dei carismi, annuncia la regola d’oro della prassi liturgica: “Tutto avvenga decorosamente e con ordine” (1Cor 14,40). La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti possono comunicare e coinvolgere di più che l’artificiosità di parole e gesti inopportuni (cfr. SC n. 34).

10. Celebrare la liturgia secondo la sua pienezza chiede di abbandonare la logica del minimo necessario. Se davvero nella liturgia la Chiesa vive il tempo della festa e del dono, essa deve convertirsi alla logica del massimo gratuito: ha senso fare anche cose che non sono strettamente indispensabili, poiché non è sufficiente che il rito sia valido, piuttosto deve essere espressivo di tutta la ricchezza di quello che viene celebrato.

 

                                                 Matías Augé cmf

venerdì 1 settembre 2023

DOMENICA XXII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 3 Settembre 2023

 



 

 

Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

 

 

Le letture bibliche della presente domenica ci orientano verso l’accettazione del misterioso cammino della croce che hanno percorso i profeti e, in particolare, Cristo stesso. Il profeta Geremia, scelto portavoce di Dio pur non essendosi affatto proposto, diventa motivo di obbrobrio per i suoi a causa della parola di Dio che egli, sedotto dal suo Signore, proclama con libertà (prima lettura). Geremia, a causa della sua obbedienza alla volontà divina, è una commovente figura del Cristo, il Servo di Dio. Anche Gesù è stato fatto oggetto di malevoli sarcasmi e di dure contestazioni, ma è rimasto fedele alla sua missione “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Nel brano evangelico d’oggi, Gesù annuncia la sua passione che avrà luogo a Gerusalemme, e invita i discepoli a seguirlo e a prendere ciascuno la propria croce. Pietro, che si rifiuta di accettare un Cristo sofferente, denota l’incapacità dell’uomo a pensare secondo Dio. Prigioniero della logica umana, egli tenta di impedire che Gesù si conformi alla logica divina. Infatti, la logica di Dio è completamente diversa da quella dell’uomo. Ne è consapevole san Paolo quando nella seconda lettura ammonisce: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio”.

 

Le parole di Gesù ai suoi discepoli sono esigenti: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Come spiegare il paradosso della via della croce proposta da Gesù a tutti coloro che lo vogliano seguire? Dio ha scelto di salvare gli uomini non con la ostentazione della sua potenza, ma con la rivelazione del suo amore fedele, condividendo cioè da vicino la miseria dell’uomo. La via della croce percorsa da Gesù è la via dell’amore, del dono totale di sé. Quindi ciò che Gesù chiede ai suoi discepoli, a tutti noi, non è una vita segnata dalla sofferenza, ma trasformata dall’amore, una vita offerta senza condizioni al Signore. Non si tratta di mortificare la vita, ma di arricchirla in modo che, rimanendo vita pienamente umana, sia guidata dalla luce della fede che è soprattutto accettazione del mistero, comunione con l’invisibile, ricerca del progetto di Dio. Possiamo affermare che le parole di san Paolo proposte oggi dalla liturgia sintetizzano bene questo atteggiamento: “vi esorto… a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. Il corpo e le membra per Paolo sono l’intero essere umano nella sua dimensione storica, personale e relazionale. Egli parla quindi della donazione totale del credente, della sua persona con tutta la sua corporeità. È nella realtà concreta di ogni giorno e nei fatti quotidiani che si realizza questo dono di sé. E in questo modo, la nostra vita, modellandosi sull’esistenza di Gesù, diventa un vero culto gradito al Padre. Se vi è scollamento fra la condotta della vita quotidiana e il culto, la pratica religiosa scade nel formalismo e la morale si riduce a moralismo.

 

lunedì 31 luglio 2023

domenica 30 luglio 2023

LA TRADIZIONE

 



La tradizione non è il culto del passato o la nostalgia di un tempo perduto, ma è il senso della continuità e la sacra importanza del permanente. La tradizione è il bisogno di principi e fedeltà che garantiscano la durata e la persistenza. Non c'è società, non c'è umanità che si esauriscano nel mutamento incessante. La tradizione è la rivelazione dell'essere nel cuore del divenire. È insensato riferirsi attivamente a una tradizione che non sia vivente. Senza vita non c'è tradizione, anche se la tradizione non si esaurisce nella dimensione vitale. Lo spirito tradizionale è incompatibile con lo spirito reazionario che invoca l'utopia capovolta di un mondo passato che non può più tornare. La differenza che corre fra tradizione e reazione è la stessa che separa la spiritualità dallo spiritismo. L’una attiene alla vita, l'altro evoca la morte. L'elevazione del passato a principio segna la morte della tradizione e la sua evocazione medianica dall’oltretomba. È una confusione di piani elevare un periodo storico, temporale a norma metastorica e principio sovratemporale. La verità non si arresta a un tempo.

 

Fonte: Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee, Marsilio 2022, pp. 127-128.

venerdì 28 luglio 2023

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 30 Luglio 2023

 



 

 

1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,42-52

Non tutte le cose hanno la stessa importanza. Nella nostra vita quindi ci sono delle priorità da difendere. Lo ha capito Salomone, di cui parla la prima lettura. Egli, diventato re in giovane età, si sente inadeguato al grande compito di governare il popolo di Dio. Nella sua preghiera al Signore, Salomone non chiede né lunga vita, né ricchezze, né il trionfo personale, ma ciò che egli crede sia più importante: “un cuore docile perché sappia rendere giustizia” al popolo e “sappia distinguere il bene dal male”. Salomone chiede insomma la “saggezza nel governare”. Il giovane re ha fatto una scelta giusta, ha saputo discernere e scegliere ciò che è veramente prioritario.  

 

Tutta la nostra vita è una continua ricerca di qualcosa di appagante e di stabile che non riusciamo però mai a trovare pienamente e definitivamente. Viviamo in una società in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Zygmunt Baumann ha parlato di modernità o “società liquida”. Tutto è precario e tutto invecchia assai rapidamente. Cosa cerca veramente il nostro cuore? Nella prima parte del brano evangelico d’oggi, Gesù parla di un bracciante che sta lavorando un campo e vi trova un tesoro; e di un mercante, appassionato di perle, che trova la pietra preziosa che aveva sognato per tutta la vita. Due esperienze diverse; la prima casuale, la seconda preparata con una lunga ricerca. Ma l’effetto è lo stesso: “va… vende tutti i suoi averi e compra quel campo…, compra la perla”. Sono immagini eloquenti che intendono dare una risposta alla ricerca di senso che pervade la nostra vita. Come l’uomo che ha trovato un tesoro nascosto o il mercante che ha trovato una perla preziosa, noi siamo collocati dalla nostra fede di fronte all’unico Salvatore, l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’unico Nome nel quale è dato agli uomini di essere salvi, Cristo Gesù.

  

La parola di Dio in questa domenica ci invita a scegliere la strada che conduce al tesoro nascosto, a quella perla il cui grande valore non verrà mai meno per l’eternità. Come il re Salomone, anche noi siamo incoraggiati a chiedere al Signore che ci dia un “cuore saggio e intelligente” per saper discernere e scegliere i veri valori della vita, quelli che non invecchiano mai. Lo abbiamo chiesto nel salmo responsoriale: “insegnami il gusto del bene e la conoscenza, perché ho fiducia nei tuoi comandi” (v.66). Si tratta di dire sì al Signore che, come afferma la lettera ai Romani, vuol salvare gli uomini predestinandoli, chiamandoli, giustificandoli e glorificandoli. Nella ricerca di Dio e del suo regno tanti sono gli smarrimenti e tante le nostre debolezze. Ma sempre san Paolo ci ricorda che per chi ama Dio e lo cerca con cuore sincero, tutto finisce per concorrere al bene di quella vita piena alla quale siamo chiamati in Cristo. Non si tratta di una affermazione ottimistica di chi vuol vedere tutte le cose sotto un’angolazione serena; è l’affermazione di fede di chi sa che la storia non sfugge al controllo di Dio e, d’altra parte, sa che Dio ci ha amato fino a donare per noi il suo Figlio.

 

L’eucaristia è dono di sapienza, certo superiore a quello chiesto da Salomone. È la pietra preziosa che vale la pena conservare, “memoriale perpetuo” della passione di Cristo, “dono del suo ineffabile amore… per la nostra salvezza” (preghiera dopo la comunione).

 

 

domenica 23 luglio 2023

LA PRESIDENZA DELL’EUCARISTIA

 



In questi ultimi anni sono apparsi una serie di libri e di studi in diverse riviste sullo sviluppo sinodale della Chiesa promosso da papa Francesco. Mi è capitato tra le mani uno di questi libri a cura di Hervé Legrand e Michel Camdessus: Una Chiesa trasformata dal Popolo. Alcune proposte alla luce di “Fratelli tutti” (Presentazione di Andrea Grillo), Paoline, Milano 2021. Si tratta di una serie di contributi di diverse personalità che appartengono al mondo della politica e della impresa, dell’amministrazione della giustizia e della psicologia, dell’assistenza sociale e della ornitologia, del diritto internazionale e della terapia familiare. Tra di essi vi è un solo teologo H. Legrand, prete domenicano francese, che ha avuto un ruolo di coordinamento e di consulenza, oltre che di stesura della seconda parte del volume.

Riproduco in seguito quanto H. Legrand scrive su “Presidenza della Chiesa locale e presidenza della sua eucaristia”:

Una frase della commissione teologica centrale del Vaticano II chiarisce bene la questione. “Nella Chiesa primitiva i sacerdoti presiedevano l'eucaristia perché presiedevano la Chiesa”. In questo modo si deve comprendere che i ministri vengono ordinati anzitutto per essere a capo di una comunità cristiana: hanno l'incarico di presiederla, (cosa che implica la cura dei legami con le altre comunità) e di vegliare in primo luogo sulla corretta trasmissione del Vangelo; ricevono anche per questa stessa ragione il compito di presiedere la preghiera della Chiesa. La loro qualità sacerdotale non è la condizione della loro presidenza, è piuttosto la loro presidenza sulla vita della Chiesa a implicare il loro ruolo liturgico, senza che questo ruolo rituale, malgrado il vocabolario sacerdotale che lo definisce, richieda un sacerdozio diverso per essenza da quello degli altri cristiani che celebrano in comunità.

La lettura attenta dei principali testi anteriori al IV secolo, che si occupano della celebrazione eucaristica, conduce a questa conclusione. Li abbiamo studiato altrove.

La Apologia di Giustino martire (verso il 150) parla di presidenti dell'eucaristia, senza connotazioni sacerdotali. Tertulliano (verso il 230) in un'opera del suo periodo cattolico, afferma che, sebbene solo in caso di necessità, i laici possono celebrare, contestando perciò che sia richiesto un sacerdozio specifico: “Là dove non vi è un corpo di ministri ordinati, tu, come laico, celebri l'eucaristia e battezzi e sei prete per te stesso, poiché là dove ci sono due o tre fedeli, vi è una Chiesa, anche se sono tre laici (…) Tu hai la capacità di assumere poteri sacerdotali in caso di necessità”. Questa affermazione, benché insolita, rivela l'equilibrio degli antichi (pp. 135-136. Non ho riportato le note).

 

venerdì 21 luglio 2023

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) –23 Luglio 2023

 



 

 

Sap 12,13.16 –19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43

 

La prima lettura biblica, tratta dal libro della Sapienza, parla di un Dio che pur essendo “padrone della forza”, governa “con molta indulgenza” e concede dopo i peccati la possibilità di pentirsi. Sulla stessa linea, la parabola del grano e della zizzania (gramigna), riportata dalla lettura evangelica, ci mostra il volto di un Dio paziente, capace di aspettare, pronto a darci la possibilità di scegliere, di crescere, di maturare, e disposto sempre a perdonare. Dio rispetta la nostra libertà e i nostri ritmi. Egli non vuole dei burattini, docili strumenti senza cuore. Dio vuole l’amore della sua creatura e perciò rispetta la sua libertà. Le altre due brevi parabole del granello di senape e del lievito, riportate dalla pagina evangelica, adombrano la potenza di espansione del regno di Dio.

 

Siamo invitati a prendere coscienza con realismo della presenza del male nel mondo e in ognuno di noi: “Tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori. In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 827). Dinanzi a questa realtà bisogna evitare due estremi: l’esserne succubi o il volerlo stroncare ad ogni costo e in tutte le sue manifestazioni. Pretendere di cancellare radicalmente tutto il male che c’è nel mondo è lo stesso che sopprimere la libertà dell’uomo con il rischio di uccidere l’uomo stesso. Certamente la libertà non equivale al diritto di fare il male, ma apre all’uomo la possibilità di orizzonti di bene. In ogni modo, Dio non vuole limitare la nostra libertà anche se alla fine del nostro pellegrinaggio chiederà conto dell’uso che ne avremo fatto. Gesù con le sue parabole ci fa capire che il regno di Dio ha un inizio (il momento in cui il seme viene seminato nel campo del cuore dell’uomo), una fine (il tempo della mietitura), separati da un tempo di crescita. Non dobbiamo quindi essere precipitosi, fare delle discriminazioni premature.

 

La tolleranza del padrone della messe stimola anche noi a un comportamento di comprensione. La vera forza dell’uomo non si manifesta nella vendetta, ma nel perdono. I sistemi del puritanesimo, dell’integralismo, del rigorismo e del massimalismo sono estranei allo spirito del Vangelo di Gesù. Se Dio è buono e perdona (cf. salmo responsoriale), anche noi dobbiamo avere il coraggio del perdono. Come ci ricorda san Paolo nella seconda lettura, nei nostri rapporti con Dio e con gli altri dobbiamo affidarci allo Spirito che “viene in aiuto alla nostra debolezza”. Lo Spirito Santo opera in modo continuo nel nostro cuore e orienta il nostro spirito perché sappiamo crescere nella vitalità che viene dall’alto. Fonte di ogni bontà, Dio non è direttamente né indirettamente causa del male. Rispettando la libertà della sua creatura, Dio lo permette e, misteriosamente, egli sa trarre il bene anche dal male.

 

 

 

 

domenica 16 luglio 2023

IL VINO E MAOMETTO

 



 

Se adesso il vino segna una frontiera fra i due Mediterranei, quello ebraico- cristiano e quello musulmano, in origine non era così. Tant’è che i protagonisti delle Mille e una notte, la celebre raccolta di fiabe mediorientali del X secolo, brindano spesso e volentieri con il nettare fermentato dell'uva e di altri frutti. Perché, in realtà, nelle sure meccane, quelle che precedono l’Egira, cioè il trasferimento di Maometto dalla Mecca a Medina, che nel 622 d.C. dà inizio all’era musulmana, non c'è traccia della proibizione del vino. La sedicesima sura, detta An-Nahl (“Le api”), dice addirittura: “Pure dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente”.

Molte interdizioni compaiono invece nelle sure medinesi, quando l'Islam diventa religione di Stato, caricandosi di valenze politiche e identitarie. “In verità col vino e il gioco d'azzardo, - dice la quinta sura, - Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal ricordo di Allah”. Ma i musulmani del tempo non interpretano questa rivelazione come un vero e proprio divieto. Così capita di frequente che fedeli ubriachi assistano ai riti religiosi diventando molesti. Per evitare queste pericolose derive dell'ebbrezza Maometto dà un giro di vite con una ulteriore rivelazione. “Oh voi che credete, non accingetevi alla preghiera in stato di ebbrezza, ma attendete di poter sapere quello che dite” (Cor IV, 43). Ma nemmeno questa volta le persone si danno una regolata. E addirittura, alla piaga dell'alcol si somma quella del gioco d'azzardo. All'epoca i seguaci del Profeta impazziscono per il maysir, la competizione con le frecce che ha anche un tradizionale valore divinatorio. Allora Maometto si vede costretto a usare il pugno di ferro: “Oh voi che credete! In verità il vino, il gioco d'azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie, sono sozzure, opere di Satana; evitatele, così che per avventura possiate prosperare” (Ibid. V, 90). È allora che la rinuncia al vino diventa un comportamento che fa la differenza tra i credenti della Mezzaluna e tutti gli altri popoli.

Tutte le scuole coraniche del tempo e quelle che si sono susseguite convengono che con la quinta sura il Profeta abbia vietato senza appello il vino. Ma di quale vino si tratta? Molto probabilmente non quello d’uva, ma quello prodotto dalle classi popolari attraverso la fermentazione di diversi tipi di datteri. A quel tempo si producono ben cinque tipologie di vino. Con uva, datteri, miele, farina di grano e orzo. Insomma, la scure maomettana finisce per cadere anche sul semplice succo d'uva non fermentato e in particolare sugli alcolici senza eccezione. E i musulmani più rigorosi non si azzardano nemmeno a toccare le bottiglie che contengono le bevande di Satana. E tantomeno sono disposti a servirle ad altri. Perché l'impurità di queste sostanze è simbolica prima ancora che materiale. Ma anche nelle religioni esiste il lieto fine. Infatti, nella quarantasettesima sura Muhammad ci dice che dopo la morte il buon musulmano verrà premiato con il “vino paradisiaco”. Per dissetarsi, infatti, il defunto avrà a disposizione liquidi in abbondanza: “Vi saranno fiumi d'acqua incorruttibile, e fiumi di latte dal gusto immutabile, e fiumi di vino delizioso per chi beve, e fiumi di miele purissimo” (Ibid. XLVII, 15).

 

Fonte: Elisabetta Moro – Marino Niola, Mangiare come Dio comanda (Vele 213), Giulio Einaudi editore, Torino 2023, pp. 110-112.

 

venerdì 14 luglio 2023

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 16 Luglio 2023

 



 

 

Is 55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23

 

 

Il discorso centrale delle letture bibliche odierne verte sulla parola di Dio. Il breve brano della prima lettura, tratta dal profeta Isaia, esalta la potenza della parola del Signore. Essa opera ciò che il Signore desidera e compie ciò per cui egli l’ha mandata. Le parole umane sono spesso vane e inconsistenti, non impegnano sempre chi le pronuncia, non resistono alla prova del tempo. La parola di Dio, invece, non risuona mai inutilmente sulla terra, non cade a vuoto, ma realizza qualcosa in chi si dispone a riceverla. Venendo da Dio, porta la vitalità infinita di Dio ed è capace di fecondare il mondo. Il profeta compara l’azione della Parola con quella della pioggia e della neve che irrigano, fecondano e fanno germogliare la terra. Non si tratta però di una parola magica. La parola di Dio non funziona in modo automatico. Lo insegna Gesù nella parabola del seminatore che uscì a seminare, parabola con la quale iniziamo la lettura del discorso sulle parabole del Regno che ci accompagnerà anche per le due domeniche seguenti. Gesù afferma che le sorti della Parola sono anche legate alla responsabilità e collaborazione dell’uomo: occorrono certe condizioni di disponibilità, di attenzione; occorre un terreno adatto, un cuore capace di ascolto perché la parola di Dio dia frutto. Se il nostro cuore è come un terreno arido, la nostra vita sarà sterile e incapace di essere rinnovata col messaggio della parola di Dio.

 

La seconda lettura ci ricorda che la parola di Dio seminata abbondantemente nel decorso della storia, ne subisce tutti i condizionamenti. Il brano paolino può aiutarci a comprendere l’attuale travaglio della crescita del regno di Dio, e quindi anche della Parola che di questo regno è annuncio. San Paolo ci invita alla speranza: la potenza della parola di Dio apparirà in tutto il suo fulgore quando in ogni discepolo si rivelerà la “gloria futura”, quando anche il corpo mortale dell’uomo sarà trasfigurato e reso conforme al corpo glorioso del Signore. L’eventuale incredulità degli ascoltatoti non farà fallire il progetto di Dio. La salvezza in Cristo è una realtà presente (cf. 1Cor 15,1-2), ma la sua realizzazione piena attraverso la risurrezione dei corpi deve ancora venire (cf. 1Cor 15,13-34). Con il suo corpo l’uomo è in rapporto con tutto il creato. Entrambi, l’uomo e il cosmo, gemono nell’attesa di una manifestazione piena della salvezza. Avendo partecipato al travagliato destino dell’uomo, anche la creazione parteciperà alla liberazione dalla sua condizione mortale.

 

La parola di Dio, se accolta e custodita nel cuore, è luce che ci guida a capire e interpretare il significato della nostra vita nella scena di questo mondo. Questa parola, che ascoltiamo così sovente nel decorso delle nostre celebrazioni liturgiche, in particolare ogni domenica nella prima parte della celebrazione della messa, è come una semente che Dio stesso sparge nel cuore d’ognuno di noi e che porta frutto a seconda dell’ascolto e dell’accoglienza che ad essa noi offriamo. Como dice il canto al vangelo, nella celebrazione eucaristica è Cristo stesso che semina il buon seme della sua Parola.

 

domenica 9 luglio 2023

LA “VIA PULCHRITUDINIS”

 



 

Nella traduzione italiana (1972) del suo importante saggio La teologia del XII secolo apparso nel 1957, il teologo francese Marie-Dominique Chenu (1895-1990) riconosceva con rimpianto di “non aver riservato spazio più largo alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche perché esse sono, a loro modo, non soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri ‘luoghi’ teologici”.

E concludeva: “È penoso costatare che le storie correnti della teologia non riservano nessuno spazio alle grandi opere letterarie contemporanee, né alle espressioni figurative, sia pure d’origine biblica”. In verità, a distanza di decenni, questa sensibilità si è accresciuta, anche per impulso di alcuni teologi famosi, come lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988) con la sua grandiosa impresa in più volumi, a partire dal 1961, intitolata Gloria. Se, invece, vogliamo puntare più esplicitamente e specificamente sulla figura di Dio, merita una menzione il saggio suggestivo del 2008 del teologo francese che è anche storico dell’arte, François Boespflug, Le immagini di Dio. Una storia dell’Eterno nell’arte, tradotto in italiano nel 2012.

 

Citato da Gianfranco Ravasi, Tre. Divina aritmetica, Bologna 2023, 138-139.

 

venerdì 7 luglio 2023

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 9 Luglio 2023

 


 


 

Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

 

 

Il salmo responsoriale (Sal 144) è una celebrazione solenne della regalità di Dio. Il salmista celebra l’onnipotenza del Signore svelata nelle grandi gesta della storia della salvezza. Ma la potenza di Dio si manifesta nella bontà paziente, la sua forza nella tenerezza compassionevole, la sua grandezza nel chinarsi sul bisognoso.

 

Il breve brano dell’Antico Testamento, proposto come prima lettura, annuncia la venuta del Re di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re”. In queste parole emerge la promessa del nuovo Davide. Le parole profetiche evocano anche qui l’immagine mite e umile di Gesù che cavalcando un asino fa il suo trionfale ingresso in Gerusalemme. Come in altri scritti della tradizione profetica, il Messia viene annunciato non come un potente guerriero, ma come un messaggero umile e giusto che spezzerà i simboli di guerra e l’orgoglio dell’umana superbia con la forza dirompente dell’amore che si manifesta nella debolezza della croce.

 

Nel brano evangelico, Gesù si presenta come colui che realizza in pienezza le promesse profetiche. Egli si propone alle folle come alternativa di liberazione rispetto al potere opprimente dei loro capi. Al posto dell’insopportabile peso della legge e dell’oppressivo potere dei suoi interpreti, egli propone il proprio “giogo”, facile da portare. Gesù promette di dare ristoro a tutti coloro che sono affaticati e oppressi, e li invita a imparare da lui che è “mite e umile di cuore”. Gesù si presenta quindi come colui che cammina davanti a noi invitandoci a mettere i nostri piedi sulle sue orme. Dio si manifesta nel suo Figlio incarnato come un Dio umile che si rivela agli umili abbassandosi sino alle dimensioni infime dell’umanità per dare all’uomo stima di se stesso, nonché impulso e speranza di liberazione di quanto ci umilia, ci disonora e ci opprime.

 

La seconda lettura spiega in cosa consista seguire Gesù e portare il suo giogo. Paolo lo fa richiamando le due possibilità di vita che si prospettano alla libertà dell’uomo: “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Carne e Spirito sono due principi contrapposti di vita. La carne è l’uomo nella sua debolezza, caducità e fragilità. Non possiamo pretendere di costruire la propria vita sulla nostra fragilità; abbiamo bisogno dello Spirito di Dio. L’uomo che vive secondo la carne cerca se stesso e rifiuta il giogo di Cristo. Invece, l’uomo che vive secondo lo Spirito si lascia condurre dallo Spirito divino che lo libera dall’orgoglio accecante e dall’egoismo paralizzante. Assoggettarsi al giogo di Cristo significa vivere secondo lo Spirito. Infatti, la vita nello Spirito si configura come una crescente esperienza della nostra progressiva trasfigurazione nel Signore, della nostra appartenenza a Cristo, del dono della vita divina che, nel Risorto, ci è stata comunicata. Questa esperienza raggiungerà il suo compimento solo quando la potenza dello Spirito Santo trasfigurerà il nostro corpo mortale per renderlo conforme al corpo glorioso del Signore. 

 

domenica 2 luglio 2023

LA LETTERA APOSTOLICA "DESIDERIO DESIDERAVI". UN COMMENTO (UN ANNO DOPO)

 



MATIAS AUGE  

 

La Lettera apostolica Desiderio desideravi, firmata da Papa Francesco il 29 giugno dell’anno scorso, è un documento, come dice il testo, "sulla formazione liturgica del Popolo di Dio". Tuttavia, nel primo paragrafo della Lettera, viene ulteriormente precisato l'obiettivo che il Papa si propone con questa pubblicazione: "Vorrei semplicemente offrire alcuni elementi di riflessione per contemplare la bellezza e la verità della celebrazione cristiana" (n. 1). Non si tratta, quindi, di una nuova Istruzione o di un Direttorio con norme specifiche sulla formazione liturgica, ma piuttosto di una meditazione o di una catechesi per comprendere la bellezza della celebrazione liturgica e il suo ruolo nella vita cristiana e nell'annuncio del Vangelo. D'altra parte, la Carta è esplicitamente collocata "dopo la pubblicazione [un anno prima] del Motu Proprio Traditionis custodes" sull'uso della liturgia romana con i libri anteriori alla riforma del 1970, di cui il Papa conferma e approfondisce le decisioni.

I 65 paragrafi del documento sono suddivisi in 8 sezioni, più una breve introduzione (n. 1) e una lunga conclusione (nn. 61-65): nelle prime sei sezioni predomina la dimensione dottrinale e spirituale della liturgia (nn. 2-26); nelle ultime due sezioni, più lunghe, dedicate alla formazione liturgica e all'Ars celebrandi, predomina la dimensione pratica o pastorale della liturgia (nn. 27-60). In ogni modo, però, dottrina, spiritualità e prassi sono intrecciate lungo tutto il documento. Nella presentazione e commento della Lettera apostolica seguirò lo schema appena proposto, diviso in due grandi parti, sottolineando ciò che mi sembra più importante e commentando alcuni punti che lo richiedano.

 

1. La natura della liturgia vista nel contesto della storia della salvezza.

Nel discorso di questa prima parte del documento, si percepisce un itinerario che va da Cristo alla Chiesa per arrivare alla comprensione della liturgia. È lo stesso metodo che adopera la Costituzione sulla liturgia del Vaticano II (cfr. SC, nn. 5-7). La domanda chiave di questa prima parte potrebbe essere: "Che cos'è la liturgia nel contesto della storia della salvezza?"  Come prima risposta, mi piace definirla dicendo che la liturgia o, se vogliamo, l'anno liturgico è il Vangelo celebrato. Il Vangelo è la "buona notizia" dell'adempimento delle promesse fatte da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe. Queste promesse trovano compimento nel Figlio di Dio incarnato, fatto uomo, morto e risorto, cioè nel mistero pasquale di Cristo. E qui possiamo collegarci alla Lettera apostolica quando afferma: "Se non avessimo avuto l'Ultima Cena, cioè l'anticipazione rituale della sua morte [di Gesù], non avremmo potuto comprendere come l'esecuzione della sua condanna a morte potesse essere l'atto di culto perfetto e gradito al Padre, l'unico vero atto di culto" (n. 7).  Con altre parole: Gesù spezza il pane per darci una chiave di lettura di ciò che poi sarebbe successo sulla croce. Quando Gesù dice: "Questo è il mio corpo dato per voi", "Questo è il mio sangue versato per voi", possiamo comprendere il significato della sua morte. In questa morte, atto di perfetta obbedienza al Padre e di supremo amore per noi, "Dio è perfettamente glorificato e gli uomini santificati" (SC, n. 7). Questa "ultima" e irripetibile Cena è presente nella celebrazione dell'eucaristia fino al ritorno del Signore alla fine dei tempi (cfr. n. 4).  Siamo tutti invitati a questa Cena. Ma non tutti hanno ancora ricevuto l'invito e altri lo hanno dimenticato o perso nei tortuosi sentieri della vita (cfr. n. 5).  L'eucaristia, quindi, ha anche una dimensione evangelizzatrice.  "Per questo la Chiesa ha sempre custodito, come suo tesoro più prezioso, il comando del Signore: ‘Fate questo in memoria di me’ " (n. 8).

Il mistero dell’Incarnazione ci permette di farci delle domande, come, ad esempio: Chi sa come era Gesù? Il tono della sua voce, il suo sguardo, come si muoveva, come si avvicinava ai malati, e li toccava per guarirli… A questo proposito, la Lettera cita le parole di san Leone Magno, quando dice: "Ciò che era visibile di Gesù, ciò che si vedeva con gli occhi e si toccava con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, è passato nella celebrazione dei sacramenti" (n. 9).  Queste parole ci aiutano a comprendere la profondità di quello che chiamiamo la presenza “sacramentale” del Signore. Nella celebrazione liturgica incontriamo il Signore Gesù e siamo raggiunti dalla potenza della sua Pasqua (cfr. n. 11). "La fede cristiana o è un incontro con Lui o non è" (n. 10). "La forza salvifica del sacrificio di Gesù, di ogni sua parola, di ogni suo gesto, sguardo, sentimento, ci raggiunge nella celebrazione dei Sacramenti" (n. 11). Nella celebrazione liturgica c’è la potenza di Cristo che continua a raggiungerci per guarirci. Il nostro primo incontro con la Pasqua del Signore è il battesimo: "In perfetta continuità con l'Incarnazione, ci è data la possibilità, in virtù della presenza e dell'azione dello Spirito, di morire e risorgere in Cristo" (n. 12). L’Incarnazione non è solo un evento, è anche un metodo.

Il breve riferimento alla Chiesa inizia con una citazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 5, che, a sua volta, cita parole di sant'Agostino: "Dal costato di Cristo addormentato sulla croce sgorgava il mirabile sacramento di tutta la Chiesa" (n. 14). "Il soggetto che agisce nella liturgia è sempre e soltanto Cristo-Chiesa, il Corpo mistico di Cristo" (n. 15).

E ora passiamo al significato teologico della liturgia (nn. 16-26). Possiamo dividere questa parte in tre temi principali: la bellezza della verità della celebrazione cristiana; i pericoli che possono sfigurarla; e lo stupore davanti al mistero. Il Papa ricorda ancora una volta che con questa Lettera vuole invitare tutta la Chiesa a "riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana" (n. 16). La verità della bellezza della celebrazione cristiana si riferisce soprattutto al suo significato teologico come descritto al n. 7 della Costituzione sulla liturgia del Vaticano II, che la Lettera apostolica commenta con queste parole: "la liturgia è il sacerdozio di Cristo rivelato e donato a noi nella sua Pasqua, presente e operante oggi attraverso i segni sensibili [...] perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita, conformandoci sempre più a Cristo" (n. 21).

Questa è la verità della celebrazione cristiana. Quali sono i pericoli che possono sfigurarla? In primo luogo, "una comprensione superficiale e riduttiva del suo valore o, peggio ancora, la sua strumentalizzazione al servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia" (n. 16). In secondo luogo, il Papa cita due tentazioni di cui egli ha parlato in diverse occasioni: lo gnosticismo, che riduce la fede cristiana a un soggettivismo che rinchiude l'individuo nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti; e il neo-pelagianesimo, che annulla il valore della grazia per confidare solo nelle proprie forze (cfr. n. 17). La liturgia può essere sfigurata se cade in queste tentazioni, ma, ben compresa, è essa stessa un antidoto efficace contro tali tentazioni. Contro il soggettivismo dello gnosticismo, la celebrazione liturgica, che non appartiene all'individuo ma a Cristo-Chiesa, ci libera dalla prigione dell'autoreferenzialità (cfr. n. 19). Contro il neo-pelagianesimo, che presuppone una salvezza conquistata con le proprie forze, la celebrazione liturgica ci purifica proclamando la gratuità del dono della salvezza accolta nella fede (cfr. n. 20). Infine, un altro pericolo che può deturpare la liturgia è "la ricerca di un estetismo rituale, che si compiace solo nella cura della formalità esteriore di un rito, o si appaga di una scrupolosa osservanza rubricale" (n. 22). Naturalmente, le rubriche devono essere osservate "per non privare l'assemblea di ciò che le è dovuto, vale a dire il mistero pasquale celebrato nel modo rituale che la Chiesa stabilisce" (n. 23). Le parole e i gesti della liturgia ci vengono dati dalla Chiesa, non è roba nostra.

Infine, questa prima parte, secondo la divisione che abbiamo proposto della Lettera apostolica, si conclude con l'invito a "stupirsi" davanti al mistero pasquale celebrato. Questo stupore non si riferisce alla vaga espressione "senso del mistero", citato da alcuni, contro la riforma liturgica che l'avrebbe eliminato.  Lo stupore di cui parla il Papa non è una sorta di disorientamento di fronte a una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è proprio il contrario: è l’ammirazione per il fatto che il disegno salvifico di Dio ci è stato rivelato nella Pasqua di Gesù, la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei sacramenti. Possiamo, quindi, affermare che liturgia è per noi l'oggi della storia della salvezza. Se la riforma avesse eliminato questo "senso del mistero", piuttosto che un'accusa, sarebbe stato un merito. Quando lo stupore è vero, non c'è rischio che non si percepisca l'alterità della presenza di Dio. La bellezza, come la verità, genera stupore e spinge oltre il senso fisico delle cose, oltre l’estetica e, riferendosi al mistero di Dio, conduce all'adorazione (cfr. n. 25).  È attribuita a Platone l'affermazione, ripresa in seguito dalla Scolastica: "pulchritudo est splendor veritatis", la bellezza è lo splendore della verità. È in questo contesto che dobbiamo comprendere la bellezza della liturgia.

 

2. La necessità della formazione liturgica e l'arte della celebrazione.

In questa seconda parte del documento si incontrano due grandi sezioni: la necessità di una seria e vitale formazione liturgica (nn. 27-47) e l'Ars celebrandi (nn. 48-60).

2.1. All'inizio della prima sezione, dedicata alla formazione, il Papa si domanda: come recuperare la capacità di vivere pienamente l'azione liturgica? (cfr. n. 27). E più avanti al n. 31, citando SC n. 10, afferma: se la liturgia è "il culmine a cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui scaturisce tutta la sua forza", si comprende la posta in gioco nella questione liturgica. E qui vale la pena citare la seguente parte di questo numero del documento: “Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica. Non vedo come si possa dire di riconoscere la validità del Concilio – anche se un po’ mi stupisce che un cattolico possa presumere di non farlo – e non accogliere la riforma liturgica nata dalla Sacrosanctum Concilium che esprime la realtà della Liturgia in intima connessione con la visione di Chiesa mirabilmente descritta dalla Lumen gentium. Per questo – come ho spiegato nella lettera inviata a tutti i Vescovi – ho sentito il dovere di affermare che “i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano” (Motu Proprio Traditionis custodes, art. 1)”.

Si tratta, quindi, di un problema ecclesiologico. Ci possiamo domandare: Quale visione di Chiesa ha il Vaticano II? In poche, scarne ed essenziali parole, possiamo affermare che la Chiesa è un mistero di comunione. In questo contesto, la celebrazione liturgica è un atto comunitario e, al tempo stesso, personale, che richiede la partecipazione libera e responsabile dei battezzati all'azione cultuale.

La non accettazione della riforma, così come una comprensione superficiale di essa, non favorisce la ricerca delle risposte adeguate alla domanda: come crescere nella capacità di vivere pienamente l'azione liturgica? Abbiamo bisogno di una formazione liturgica seria e vitale. La Lettera apostolica distingue e analizza poi i due aspetti strettamente connessi di questa formazione: la formazione alla liturgia e la formazione dalla liturgia (cfr. n. 34).

La formazione alla liturgia deve superare l'ambito accademico, da lungo tempo fiorente, e trovare forme accessibili a tutti i fedeli, affinché acquisiscano la capacità di comprendere i testi delle preghiere, il dinamismo rituale e il loro valore antropologico (cfr. n. 35). Ma la conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo per poter entrare nel mistero celebrato. I ministri che presiedono le assemblee liturgiche hanno una particolare responsabilità in questo compito formativo, che potranno svolgere adeguatamente se vivranno essi stessi la celebrazione come esperienza di fede e conformeranno la loro vita al mistero che celebrano (cfr. n. 36).

Poi, e in questo contesto, il Papa sottolinea l'importanza della formazione liturgica nei seminari. Oltre allo studio, i seminaristi dovrebbero avere l'opportunità di sperimentare celebrazioni esemplari anche dal punto di vista rituale che permettano loro di vivere la vera comunione con Dio. “Tale esperienza è fondamentale perché una volta divenuti ministri ordinati, possano accompagnare le comunità nello stesso percorso di conoscenza del mistero di Dio” (n. 39).

E ora ci riferiamo alla formazione liturgica dalla liturgia stessa o attraverso la liturgia, che è quella che occupa più spazio nella Lettera apostolica. La conoscenza del mistero di Cristo non consiste nell'assimilazione mentale di un'idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con una persona, Cristo (cfr. n. 41). Questa implicazione esistenziale avviene – in continuità e coerenza con il metodo dell'Incarnazione – attraverso la via sacramentale. La liturgia è fatta di cose, non di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, suoni, luci, odori, gesti, silenzi, ecc. Possiamo dire che è tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, e asceso al Padre (cfr. nn. 42-43).

La riforma liturgica è stata necessaria, ma non è sufficiente. Occorre mettere in atto una formazione che educhi a celebrare. In questo contesto, si ricorda che Romano Guardini affermava che il primo compito della formazione liturgica è che l’uomo diventi nuovamente capace di simboli, capace di leggere i simboli, qualcosa in cui l'uomo moderno è analfabeta. È un impegno che riguarda tutti, ministri ordinati e fedeli. Il compito non è facile perché l’uomo moderno non solo non sa più leggere i simboli, ma quasi non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Ciò accade anche con il nostro corpo, che è il primo ad essere coinvolto nell’azione simbolica. Il corpo è simbolo perché è visibilità dell’anima spirituale nell’ordine del corporeo. La nostra apertura al trascendente, a Dio, è costitutiva: non riconoscerla ci porta inevitabilmente ad una non conoscenza oltre che di Dio, anche di noi stessi. Basta vedere il modo paradossale con il quale viene trattato il corpo, ora curato in modo quasi ossessivo inseguendo il mito di una eterna giovinezza, ora ridotto ad una materialità alla quale è negata ogni dignità. Il fatto è che non si può dare valore al corpo partendo solo dal corpo. Ogni simbolo è nello stesso tempo potente e fragile: se non viene rispettato, se non viene trattato per quello che è, si infrange, perde di forza, diventa insignificante. Non abbiamo lo sguardo di Francesco d'Assisi che guardava il sole e lo chiamava fratello. Si tratta di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della liturgia. L’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno. Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo (cfr. n. 44). La lettura simbolica non è una questione di conoscenza mentale, è invece un'esperienza vitale (cfr. n. 45). Se le cose create sono parte indispensabile dell'azione sacramentale, dobbiamo porci davanti ad esse con uno sguardo nuovo, non superficiale, rispettoso, grato (cfr. n. 46). La liturgia educa a una sana visione ecologica del mondo

Vorrei commentare la grave affermazione di Guardini che ho appena citato, secondo cui l'uomo moderno è “analfabeta" nella lettura dei simboli. Un filosofo di origine coreana Byung-Chul Han, professore in una università di Berlino, ha recentemente scritto un piccolo libro tradotto in diverse lingue, il cui titolo in italiano è La scomparsa dei riti. I riti, dice l’autore, sono azioni simboliche, che trasmettono e rappresentano quei valori e quegli ordini che mantengono coesa una comunità. Il mondo di oggi soffre di una forte scarsità del simbolico. E nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e metafore generatrici di significato che danno stabilità alla vita. Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile, non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose (edizione italiana edita da Nottetempo, Milano 2021, cfr. pp. 11-27).

Il Papa pensa che nell'educazione ad acquisire questa sintonia con i simboli della liturgia, i genitori, i nonni, così come i parroci e i catechisti possano avere un ruolo importante. Molti di noi hanno imparato da loro la forza dei gesti liturgici, come il segno della croce, l'inginocchiarsi o le formule della nostra fede (cfr. n. 47).

2.2. L'ars celebrandi è un modo per salvaguardare e crescere nella comprensione dei simboli della liturgia. Ci muoviamo sempre nel settore del simbolico. E presupponiamo sempre ciò che abbiamo detto sulla natura teologica della liturgia. Infatti, l'ars celebrandi “non può essere ridotta alla mera osservanza di un apparato di rubriche, né può essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole" (n. 48).

Come ogni arte, l'ars celebrandi richiede alcune conoscenze: la comprensione del dinamismo descritto dalla liturgia (memoriale, presenza del mistero, per viverlo nella vita); l'armonia con l'azione dello Spirito; la conoscenza delle dinamiche del linguaggio simbolico (cfr. n. 49). Senza trascurare tutte le conoscenze tecniche, che possono sempre essere utili, come, ad esempio, le tecniche di comunicazione persuasiva, è necessario soprattutto rispettare la natura della liturgia e l'azione dello Spirito in essa. Secondo R. Guardini, citato più volte dal Papa, l'arte di celebrare è una "disciplina, la rinuncia ad una sentimentalità morbida; un serio lavoro, svolto in obbedienza alla Chiesa, in rapporto al nostro essere e al nostro comportamento religioso”.  È così che si impara l’arte del celebrare. (cfr. n. 50).

L'ars celebrandi non riguarda solo i ministri ordinati che presiedono la celebrazione. È una realtà alla quale sono chiamati tutti i battezzati. La liturgia ci offre gesti e parole che mettono ordine nel nostro mondo interiore, facendoci sperimentare sentimenti, emozioni, atteggiamenti, comportamenti. La celebrazione liturgica è un'azione che coinvolge il corpo nella sua totalità (cfr. n. 51). Il Papa ricorda che tra questi gesti rituali che appartengono a tutta l'assemblea, il silenzio occupa un posto molto importante. Non è un rifugio per nascondersi in un intimo isolamento, come se la ritualità fosse una distrazione. Il silenzio liturgico è il simbolo della presenza e dell'azione dello Spirito Santo, che anima ogni azione celebrativa. Il silenzio ci aiuta a interiorizzare il mistero celebrato (cfr. n. 52). Ogni gesto e ogni parola della celebrazione espressa con "arte" forma la personalità cristiana del singolo e della comunità (cfr. n. 53).

A questo proposito, mi piace citare il filosofo francese Paul Ricoeur, il quale, parlando di una particolare esperienza liturgica alla quale aveva partecipato, affermava: "mi strappa dalla mia soggettività e mi offre non le mie parole o i miei gesti, ma quelli della comunità"; e proseguiva: "Sono contento di questa oggettivazione dei miei sentimenti: quando entro nell'espressione cultuale [...] entro nella forma che mi forma"; e conclude: "Sì, grazie alla liturgia vengo fondamentalmente strappato dalla preoccupazione di me stesso" (Paul Ricoeur, La logica di Gesù.  Testi scelti a cura di Enzo Bianchi, Qiqajon, Magnano [BI] 2009, 87).  Questa esperienza è possibile se la mente concorda con la voce, se ci lasciamo guidare dal rito, parole e gesti, non dalle nostre fantasie (cfr. SC, n. 90).

La Lettera apostolica si concentra poi sulla responsabilità specifica che i ministri ordinati hanno nell'ars celebrandi. Molte volte, il modo di vivere la celebrazione delle comunità è condizionato – nel bene, e purtroppo anche nel male – dal modo in cui i parroci presiedono la celebrazione: con austera rigidità o creatività smodata, frettolosi o lenti, spensierati o eccessivamente raffinati, affabili o ieratici, ecc. L'inadeguatezza di questi e di altri modelli ha una radice comune: "un personalismo esagerato nello stile celebrativo che, a volte, esprime una malcelata mania di protagonismo" (n. 54).  Come dice il Vaticano II, “la liturgia è azione sacra per eccellenza” (SC, n. 7). Se la liturgia è “actio”, fa quello che dice, non dice quello che fa: avanzano, quindi, gli interventi esplicativi. I tentativi di alcuni, poi, di trasformare i riti della liturgia in riti "stravaganti", non funziona: festeggiare con paramenti barocchi in latino o con il naso del clown e musica pop. Si tratta di iniziative rituali opposte, ma con la stessa matrice: l'illusione che il problema siano "questi" riti proposti dal libro liturgico. La soluzione cambia secondo i gusti personali: alcuni preferiscono "fughe retrò", all'indietro, e altri "sfoghi da cabaret", ma sono solo due facce della stessa medaglia.

Sul tempo del Covid-19 è stato scritto: "molti sacerdoti hanno scoperto la celebrazione [dell'Eucaristia] senza la presenza del popolo. In questo modo, hanno sperimentato che la liturgia è primariamente e soprattutto il culto della maestà divina [...] Celebrando da soli non avevano più davanti agli occhi il popolo cristiano, e così hanno potuto prendere coscienza che la celebrazione della Messa è sempre rivolta a Dio Trinità" (https://www.hommenouveau.fr/3199/religion/exclu---covid-19-et-culte-chretien--br-une-lettre-du-cardinal-sarah.htm). Meraviglia questa esaltazione della celebrazione eucaristica senza la presenza del popolo. Noto che il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1329), tra i nomi dati all'Eucaristia, cita quello di "Assemblea eucaristica [sinassi], in quanto l'Eucaristia viene celebrata nell'assemblea dei fedeli, espressione visibile della Chiesa". Il servizio dei ministri non va inteso separatamente o al di sopra di quello di tutta l'assemblea, ma va inteso in una visione unitaria e globale: nella Chiesa riunita che celebra, ciascuno interviene secondo ruoli diversi (cfr. 1 Cor 12,4-11.28-30; Rm 12,6-8). Il sacerdote che deve celebrare da solo per capire il senso della messa probabilmente non ha capito il significato del suo sacerdozio che è "ministeriale". Il ministero ordinato, nella comunità e davanti alla comunità, non esiste come struttura parallela rispetto alla ministerialità di alcuni e alla partecipazione di tutti. È giusto, anzi necessario, distinguere le rispettive competenze, ma allo stesso tempo va sottolineata l'unità dell'azione rituale.

A questo proposito, il Papa dice: “Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza” (n. 56). Perché questo servizio sia fatto bene – con arte – è di fondamentale importanza che il sacerdote sia accuratamente consapevole di essere una presenza particolare del Risorto (cfr. SC, n. 7). Il Risorto è il protagonista e non la nostra immaturità. E il Papa aggiunge qui una bella affermazione: “Presiedere l'Eucaristia è immergersi nella fornace dell'amore di Dio. Quando questa realtà è compresa o anche solo intuita, non abbiamo certo più bisogno di un direttorio che ci imponga un comportamento corretto" (n. 57).

E ormai verso la fine del documento, si afferma: “Divenuti strumenti per far divampare il fuoco del suo amore sulla terra, custoditi nel grembo di Maria, Vergine fatta Chiesa (come cantava san Francesco), i presbiteri si lasciano lavorare dallo Spirito che vuole portare a compimento l’opera che ha iniziato nella loro ordinazione" (n. 59). Il sacerdote che presiede: non siede su un trono; non ruba la centralità dell'altare, segno di Cristo; non può vantarsi del ministero che gli è stato affidato; “non può narrare al Padre l’ultima Cena senza esserne partecipe. Non può dire: ‘Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi’, e non vivere lo stesso desiderio di offrire il proprio corpo, la propria vita per il popolo a lui affidato. È ciò che avviene nell’esercizio del suo ministero” (n. 60). Parole forti e chiare che ci interpellano e ci fanno capire che la liturgia ben celebrata è la fonte primaria della spiritualità sacerdotale come lo è di tutti i battezzati.

In conclusione, possiamo dire che il Papa colloca in qualche modo quanto detto nel testo della Lettera nel contesto dell'anno liturgico e della celebrazione domenicale: "Vi invito a riscoprire il senso dell'anno liturgico e del giorno del Signore" (n. 63). E chiude il documento invitando anche ad abbandonare le polemiche e mantenere la comunione.

Come abbiamo visto, la Lettera apostolica Desiderio desideravi non è un trattato teologico, giuridico o disciplinare, ricco di norme e rubriche, né è un trattato sugli abusi liturgici. Si tratta, invece, di un documento fresco, dal tono pastorale e spirituale, anche meditativo, una sintesi vera e adeguata di ciò che la liturgia è nella vita della Chiesa e di ciascuno di noi. Con questo documento siamo invitati a recuperare il gusto del celebrare insieme, lasciandoci trasformare dallo Spirito Santo che opera nella liturgia. In tal modo saremo capaci di innalzare con la voce di Cristo la lode, la supplica e il rendimento di grazie al Padre.