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domenica 19 marzo 2023

NOSTRA SIGNORA “DEL TELEFONINO”

 



 

I titoli con cui i fedeli venerano la Madonna sono tanti. Oltre a quelli con cui la si invoca nelle Litanie Lauretane e nelle Litanie per il rito di incoronazione della beata Vergine Maria, litanie contenute nei libri liturgici del Rito Romano, la pietà popolare ne ha sfornato molti altri. La nota enciclopedia Wikipedia ne offre un corposo elenco alla voce “Titoli mariani”: titoli legati ai dogmi; titoli antichi; titoli legati ad apparizioni o icone miracolose; altri titoli legati all’iconografia; altri titoli derivati da apparizioni; altri titoli locali.

Nel secolo XVI si moltiplicarono i formulari litanici, non solo mariani, che non di rado erano di cattivo gusto e frutto di una pietà poco illuminata. Giustamente il Direttorio su pietà popolare e liturgia, avverte che “una proliferazione di formulari litanici non sarebbe utile dal punto di vista pastorale come, d’altra parte, una limitazione rigorosa mostrerebbe di non tenere sufficientemente conto delle ricchezze di alcune Chiese locali o famiglie religiose” (n. 203).

In questi giorni mi è capitato di scoprire un quadro della Madonna col telefonino, trovato in una piccola esposizione di opere pittoriche di diverso genere. L’immagine è dignitosa, ma… tutto qui. Ci può invitare ad usare il cellulare con discrezione.

 

 

venerdì 17 marzo 2023

DOMENICA IV DI QUARESIMA ( A ) – 19 Marzo 2023

 


 

 

1Sam 16,1b.6-7.10-13; Sal 22; Ef 5,8-14; Gv 9,1-41

 

Il racconto della guarigione del cieco nato operata da Gesù e riportata dal brano evangelico odierno è un miracolo in due tempi caratterizzati da due incontri dell’uomo cieco con Gesù: nel primo incontro Gesù, dopo aver spalmato del fango sugli occhi del cieco, lo invia a lavarsi alla piscina di Siloe. Quegli va, si lava e torna che ci vede. L’uomo ormai guarito della cecità ha un secondo incontro con Gesù. Questo nuovo incontro è collocato alla fine di un itinerario di prove e di incomprensioni che porta il nostro uomo a riscoprire un’altra luce, quella di Cristo che egli esprime con la professione di fede: “Credo, Signore”, e con il gesto dell’adorazione: “E si prostrò dinanzi a lui”. Nel racconto di san Giovanni, il dono della vista del corpo è simbolo del dono della fede. Notiamo che nei due casi è Gesù che ha l’iniziativa: è lui che, passando, vede il cieco; ed è ancora lui che, avendo saputo che era stato cacciato dai farisei, lo incontra per guidarlo alla fede.

 

San Paolo ci ricorda nella seconda lettura che non basta incontrare la luce della fede in Cristo. Essa deve permeare la nostra vita. Se siamo stati illuminati con la luce della fede, dobbiamo comportarci “come i figli della luce”, il cui frutto “consiste in ogni bontà, giustizia e verità”. Si tratta di tre dimensioni che abbracciano l’intera esistenza umana. Da parte sua, la prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, illustra le caratteristiche che deve avere il nostro sguardo di credenti. C’è modo e modo di vedere; c’è un vedere che si ferma alla superficie delle cose e degli avvenimenti, e un vedere che va oltre le apparenze. Nella scelta di Davide, il più piccolo dei figli di Iesse, si manifesta il criterio della fede. Dice il Signore a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”.

 

Ritornando al brano evangelico, il racconto della guarigione miracolosa del cieco nato, ci fa capire che la fede è un itinerario. Il cieco, come il catecumeno, arriverà ad essa per tappe. Il progressivo avvicinarsi del cieco alla luce è in parallelo contrasto con la progressiva cecità dei farisei. Tre volte il cieco dichiara di non sapere (vv. 22.25.36): riconosce dunque la sua cecità. Tre volte invece i farisei dichiarano di sapere (vv. 16.24,29): è questa pretesa di sapere che giustifica il duro giudizio nei loro confronti (v. 41). I farisei presumono di sé, sono chiusi nella loro verità, credono di avere già la luce: per questo non sono aperti alla novità di Gesù.

 

Come il cieco del racconto, possiamo e dobbiamo approfondire sempre di più il nostro incontro con Cristo. Si tratta di un itinerario impegnativo. Confessare la propria adesione a Cristo può comportare l’opposizione del mondo, come nel caso del cieco nato, che non viene difeso neppure dai suoi parenti ed è escluso dalla comunità. Questo itinerario laborioso e impegnativo lo si compie guidati dallo stesso Cristo che, per primo, si rivela a noi. Illuminati dalla luce che è Cristo, la nostra esistenza diventa luminosa e siamo capaci di interpretare le vicende della vita con gli occhi della fede. L’eucaristia a cui partecipiamo è “mistero della fede”. Il cammino di fede iniziato nel battesimo ci conduce all’eucaristia, come al suo termine logico. E’ nell’eucaristia che viviamo in pienezza il nostro incontro con Cristo e con i fratelli.

 

domenica 12 marzo 2023

LA SIMBOLOGIA DEL NUMERO 3

 



 

Gianfranco Ravasi, Tre. Divina aritmetica (Storie di numeri), il Mulino, Bologna 2023, 175 pagine (€ 13,00).

 

Tre Cantiche della Divina Commedia, tre Grazie, tre Parche, tre volte Sanctus è Dio nel canone della messa; ma sono tre anche gli atti di un’opera lirica e i movimenti di un concerto; senza dimenticare le trilogie amicali della letteratura, come i moschettieri di Dumas o gli uomini in barca di Jerome. Tre è la cifra che ci riporta subito alla Trinità cristiana, ma che è norma regolatrice di perfezione per tante altre realtà. Una presenza ubiqua, una vera e propria ossessione ternaria dove anche il sapere popolare ci ricorda che “non c’è due senza tre”. Addentriamoci dunque nella sala di quell’ideale castello che reca sull’architrave il numero tre, passando attraverso la musica, le triadi bibliche e classiche, naturali e scientifiche, poetiche, letterarie e sacre. Alla scoperta di un numero che trascende la semplice aritmetica.

(risvolto del libro)

 

Premessa.

I. I tre, molto più di un numero.

II. Le triadi naturali.

III. La triade antropologica.

IV. Le triadi letterarie.

V. Triadi sacre.

VI. Triadi bibliche.

VII. La trinità.

Concludendo.

Nota bibliogafica.

 

venerdì 10 marzo 2023

DOMENICA III DI QUARESIMA ( A ) – 12 Marzo 2023

 



 

 

Es 17,3-7; Sal 94; Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

 

 

La liturgia di questa domenica e delle due successive ci invita a rivivere le grandi tappe attraverso le quali i catecumeni erano (e sono) condotti alla riscoperta delle esigenze profonde della conversione a Cristo per mezzo dei simboli dell’acqua, della luce e della vita. In questa domenica ci viene proposta l’immagine di Gesù come acqua viva capace di dissetare ogni desiderio umano e di donare la vita piena ed eterna a coloro che chiedono di attingere alla sua fonte.

 

La sete di Israele nel deserto, di cui parla la prima lettura, e la sete di Gesù a Sicar, di cui parla il brano evangelico, ci illustrano il tormento dell’umanità che cerca la verità, che cerca Dio. Nel dialogo con la Samaritana Gesù promette un’acqua che disseta per sempre. Attraverso l’immagine dell’acqua viva, cioè di sorgente, Gesù intende sottolineare la sua capacità di comunicare all’uomo reali valori di vita, che siano in grado di salvarlo. Infatti, la sete, come la fame e forse di più, oltre ad essere uno specifico bisogno corporale dell’uomo, rappresenta un “simbolo” totalizzante dei diversi e numerosi desideri e aspirazioni dell’uomo. In ciascuno di noi ci sono molteplici desideri, bisogni, aspirazioni. Si potrebbe dire che la nostra vita è fatta più da desideri che da realtà possedute. Ci portiamo dentro un vuoto che non riusciamo a riempire. Naturalmente, non è sbagliato avere dei desideri; sbagliato è restringere i desideri del nostro cuore a oggetti troppo limitati, meschini. Dio ci offre un dono, l’unico in grado di appagare la nostra sete di felicità.

 

Gesù ci toglie la nostra sete rinnovando i rapporti interpersonali, insegnandoci la verità del nostro rapporto con Dio e donandoci lo Spirito che rende autentici l’uno e gli altri. La vita e la salvezza che dona Gesù crescono in noi nella misura in cui accogliamo la sua parola. D’altra parte, l’Apostolo Paolo ci ricorda, nella seconda lettura, il carattere assolutamente gratuito del dono della salvezza, da noi immeritata, ma ora a nostra piena disposizione se accolta nella fede. Nel dialogo con la Samaritana, Gesù cerca di condurre la sua interlocutrice a questa stessa consapevolezza quando le dice: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere!” Conoscere il dono di Dio significa che al di là dei nostri bisogni immediati e dei nostri desideri c’è qualcosa di più grande che possiamo solo ricevere come un dono dalla mano di Dio.

 

La sete di salvezza si soddisfa nell’eucaristia. San Giovanni Crisostomo afferma: “Mosè percosse la roccia e ne ricavò torrenti d’acqua, (Cristo) tocca la mensa eucaristica, batte la tavola spirituale e fa scaturire le fonti dello Spirito” (Catechesi II).

 

domenica 5 marzo 2023

LE TRE DIMENSIONI DEL TEMPO E L’ANNO LITURGICO

 



 

Si può affermare che l’Anno liturgico è una realtà che proprio nel tempo trova il parametro per definirsi. Appare quindi del tutto ovvio che nell’affrontare la natura del ciclo delle celebrazioni annuali della liturgia ci si riferisca alla categoria “tempo” come valore teologico, cioè non al tempo come tale, ma a ciò che in esso avviene in conformità al piano salvifico di Dio e che qualifica l’esperienza dei credenti. Così fa la Costituzione Sacrosanctum Concilium, al n.102, quando parla del senso dell’Anno liturgico, afferma che la Chiesa nel ciclo annuale fa memoria dei misteri della redenzione in modo da renderli presenti a tutti i tempi a beneficio dei fedeli in attesa della beata speranza e del ritorno del Signore.

 

In questa descrizione dell’Anno liturgico, vengono individuate tre dimensioni temporali: presente, passato e futuro. Il presente della celebrazione dei misteri della redenzione (ut omni tempore quodammodo praesentia reddantur);  il passato storico di cui si fa memoria (opus salutiferum...sacra recordatione celebrare - mysteria redemptionis ita recolens); il futuro atteso del compimento (ad exspectationem beatae spei et adventus Domini). Si noti però che il passato è presente nella memoria e il futuro lo è nell’attesa. Si potrebbe quindi affermare, con sant’Agostino, che le tre dimensioni temporali sono sempre dimensioni del presente: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. L’oggi porta con sé lo spessore della memoria e la speranza del domani. Nell’esperienza religiosa il presente acquista un particolare valore perché è lo spazio dove possiamo giungere a quella soglia liminare della nostra persona attraverso la quale la Vita fluisce, oltre la quale perciò, percepiamo un Bene che rimane, una Verità che ci trascende, una Presenza che ci alimenta. Perciò la forma più ricca dell’esperienza religiosa si ha quando siamo in grado di abbandonarci a questa Presenza immergendovici totalmente.

 

Non ci sono due presenti, uno divino e uno umano, come non c’è una storia umana e una storia di salvezza; esiste un’unica storia sacra, dove il disegno di Dio trova attuazione umana; c’è quindi un solo presente che può essere vissuto secondo dinamiche di eternità. Vivere il presente è consentire al Presente eterno di esprimersi nel nostro piccolo spazio temporale secondo la successione degli eventi. L’hodie dei testi della liturgia appartiene quindi più alla sfera di Dio, alla sfera del Presente eterno, che a quella dell’uomo storico. La celebrazione liturgica, infatti, non è tanto una azione che parte dall’uomo verso Dio, quanto piuttosto un momento dell’azione salvifica di Dio che si rivela e si rende presente all’uomo. È un presente pneumatico. L’hodie è la categoria celebrativa per eccellenza che contiene e celebra la presenza, per opera dello Spirito, del mistero pasquale di Cristo per noi. In quanto collocata nella storia, la singola celebrazione è qualcosa di “nuovo” rispetto a ciò che la precede, qualcosa di unico e irripetibile rispetto a tutti gli altri eventi. In questo “nuovo” si colloca l’azione imponderabile dello Spirito che agisce sull’assemblea concretamente riunita in un tempo e in uno spazio specifici.

 

Si noti che la memoria può essere strumentalizzata a discapito della storia. Certi riti “memoriali” intralciano non di rado la comprensione equilibrata dei fatti storici. Pensiamo all’abuso che della storia hanno compiuto i regimi totalitari, per distorcere o cancellare a proprio vantaggio la memoria. L’hodie liturgico, invece, riconcilia memoria e storia. Proclamando nel rito l’hodie dell’evento storico, la liturgia lo sottrae ad eventuali manipolazioni della memoria: il tempo di Gesù, infatti, anche se mantiene intatta tutta la sua pregnanza storica, ha acquistato la funzione di un tempo primordiale fondante e permanente, che sostiene, dà vita e vigore al presente. L’hodie liturgico è fondato da questo evento unico e irripetibile e solo in questo evento trova consistenza. Il rito, quindi, non è manipolazione del tempo, ma memoriale di quel che è avvenuto una volta, espressione di fedeltà al manifestarsi di Dio nella storia e segno di speranza nel futuro adempimento di questo manifestarsi salvifico di Dio. 

 

Di qui l’importanza della Parola di Dio e, in particolare, della proclamazione del Vangelo, nella celebrazione liturgica. L’espressione in illo tempore, presente nelle pericopi evangeliche proclamate dalla liturgia, non esprime alcun ricordo storico di qualcosa di passato, ma ha la capacità di dischiudere il tempo e di rendersi presente in ogni momento. La celebrazione è il punto di incontro tra l’esperienza religiosa, che si basa sull’evento fondante, e il linguaggio simbolico, che rivela quell’evento e ne mantiene il senso lungo la storia. Non si ripete il tempo salvifico di un determinato evento storico, ma è l’uomo, vivente all’interno delle leggi dello spazio e del tempo, che si ripete entrando in comunicazione con ciò che permane quale perenne presente dietro il tempo che fugge: l’invito di Dio alla salvezza. Dietro a tutti gli avvenimenti, che la Scrittura racconta, c’è il vivo fluire della corrente della vita divina, che non conosce interruzione alcuna. Nel presente di Dio, che una volta ha salvato, quel che la liturgia celebra diventa “oggi” presente.

 

venerdì 3 marzo 2023

DOMENICA II DI QUARESIMA ( A ) – 5 Marzo 2023

 



 

Gen 12,1-4a; Sal 32 (33); 2Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9.

 

La Bibbia non vede l’universo come semplice “natura” ma come realtà “creata”, e la storia non la considera come ineluttabile “destino” ma come “progetto” di Dio in cui l’uomo è chiamato a collaborare. Dio è fedele alle sue promesse. Chi confida in lui non deve temere il caos, perché “egli è nostro aiuto e nostro scudo”. Perciò il ritornello del salmo reponsoriale ci invita a ripetere: “Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo”. Nel cammino di conversione iniziato con la Quaresima, questo salmo ci esorta ad aprire il cuore alla speranza fondata sulla certezza che Dio è con noi per confortare i nostri passi incerti e timorosi sulla strada del vangelo di Gesù e liberarci da tutto ciò che conduce alla morte.

 

La prima lettura ci propone la figura del patriarca Abramo, chiamato da san Paolo “padre di tutti i credenti” (Rm 4,11). Il Signore si rivolge al santo patriarca e gli dice: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò...” Abramo obbedisce all’ordine divino. Egli ha il coraggio di rompere con le proprie sicurezze per rischiare un futuro umanamente incerto. La Lettera agli Ebrei dice che Abramo partì per fede “senza sapere dove andava” (Eb 11,8). La forza per intraprendere questo cammino di fede, nel quale non sono assenti le oscurità, gli viene dalla fiducia che ha nella parola di Dio. Anche noi, come Abramo, siamo chiamati a manifestare la nostra fiducia nel Signore sradicandoci giorno per giorno dalla terra del nostro egoismo, dalle proprie idolatrie, per metterci sulla strada di un’altra terra, quella indicata da Dio. Possiamo dire che è anche questo il senso del digiuno a cui la Chiesa ci invita durante la Quaresima: siamo chiamati a compiere dei gesti che ci liberino dalle nostre debolezze e ci rendano più disponibili a compiere nuovi passi nel cammino della coerenza evangelica.

 

Il brano del vangelo può essere interpretato nella stessa prospettiva. Domenica scorsa abbiamo visto Gesù uscire vittorioso dalle insidie del tentatore perché si è fidato di suo Padre, perché non ha avuto paura di sottomettere la propria libertà, i propri progetti alla volontà e al progetto che Dio ha su di lui. Tutto questo significa, implicitamente, per Gesù iniziare il cammino verso la passione. L’esperienza della trasfigurazione che ci narra il vangelo è da leggersi in questo contesto. La meta del cammino intrapreso da Gesù è la risurrezione, di cui la trasfigurazione è anticipo, ma la strada passa attraverso l’esperienza dolorosa della passione e della morte. Questa è la verità che Gesù intende far capire ai tre discepoli che l’hanno accompagnato. Perciò, dopo averli resi testimoni della gloria della trasfigurazione, Egli annuncia la sua morte e risurrezione. Nella seconda lettura, san Paolo ci rassicura: nella vita dobbiamo fare i conti con la sofferenza e anche con la morte, ma non sono queste le realtà che avranno il sopravvento. Grazie a Cristo, Dio ci chiama e ci dona l’immortalità: Cristo Gesù “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità...”  E in un’altra parte, lo stesso Apostolo ritiene che “le sofferenze del momento presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18 – cf. Ufficio delle letture, seconda lettura tratta dai Discorsi di san Leone Magno).

 

La conversione è un cammino verso una vita rinnovata ad immagine di Cristo risorto. In questo cammino ci guida la luce della stessa parola di Gesù, a cui il Padre ci ha detto di ascoltare: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!” (canto al vangelo - cf. Mc 9,7), e ci nutre l’eucaristia cibo del nostro pellegrinaggio (cf. orazione dopo la comunione).

 

domenica 26 febbraio 2023

UNA SPIRITUALITÀ DELLA QUARESIMA



 

Nella tradizione della Chiesa romana, la Quaresima ha tre aspetti fondamentali: è preparazione alla Pasqua, è un tempo penitenziale e ha anche un carattere battesimale.

Oggi però sembra che sia rimasto in evidenza solo il primo aspetto, mentre gli altri due non hanno più il rilievo che avevano nei primi secoli del Cristianesimo. A quei tempi era la norma farsi battezzare da adulti, e questo avveniva nella Veglia pasquale, dopo il lungo periodo quaresimale di preparazione con catechesi, con digiuni e preghiere, chiamato catecumenato. L’intera comunità cristiana accompagnava i candidati al battesimo partecipando anch’essa ai digiuni e preghiere.

La Quaresima era un periodo penitenziale per coloro che si riconoscevano colpevoli di peccati gravi. Chi si dichiarava pubblicamente peccatore, confessava in privato il suo peccato al Vescovo, e iniziava il Mercoledì delle Ceneri un percorso pubblico di penitenza che durava l’intera Quaresima.  Anche in questo caso, la comunità cristiana era solidale con i penitenti e li sosteneva con la preghiera.

Dopo il concilio Vaticano II, la Chiesa ci propone di ricuperare tutti e i diversi aspetti della Quaresima: nella Costituzione sulla sacra liturgia, al n. 109, si ricorda il duplice carattere battesimale e penitenziale di questo periodo e si insiste su una duplice linea di “ascolto più attento della parola di Dio” e di un impegno “più a fondo nella preghiera”. Per la prima dimensione, quella battesimale, si raccomanda il ricupero degli elementi battesimali; per la seconda, quella penitenziale, si insiste nel senso personale e sociale del peccato. Nel n. 110 dello stesso documento si parla della penitenza quaresimale che non deve essere soltanto interna e individuale, ma anche esterna e sociale. Si raccomanda in una maniera speciale il digiuno pasquale nel venerdì e sabato santi “in modo da giungere con cuore aperto ed esultante ai gaudi della domenica di Risurrezione”. In questo caso, il digiuno esprime l’antico senso di attesa del Risorto.

San Pietro Crisologo (ca. 380 – 450), vescovo di Ravenna e dottore della Chiesa, illustra con poche parole il rapporto che intercorre tra preghiera, digiuno ed elemosina (= misericordia) nel modo seguente: “Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia” (Disc. 43: PL 52,320). Le tre pratiche quaresimali sono quindi strettamente collegate, una richiama l’altra, come le tre virtù teologali di fede speranza e carità. Possiamo affermare che la preghiera nutre la fede, l’elemosina alimenta la carità e il digiuno accresce la speranza, orienta verso i beni definitivi.

Non c’è dubbio che è il digiuno l’elemento costante e quindi tradizionale della prassi quaresimale. Parlare oggi di digiuno in una società in cui molti popoli vivono nella miseria e i loro cittadini muoiono di sete e di fame, può sembrare una provocazione. Ma anche nella nostra vecchia Europa che, nonostante la perdurante crisi economica continua a godere un alto livello di benessere, il digiuno quaresimale può configurarsi come un formalismo inaridente o un moralismo ritualistico, insomma una prasi irrilevante, forse inutile, che non sta più al passo coi tempi. Come possiamo dare a questa prassi un senso che sia al tempo stesso tradizionale e adatto ai tempi?

Si potrebbe praticare il digiuno nello spirito di una contestazione radicale della società dei consumi. Questa contestazione può esprimersi in un atteggiamento più critico e più libero nei confronti delle molteplici seduzioni di questa società. Ad esempio, in un uso più sobrio e in una scelta più accurata della quantità e qualità dei programmi televisivi. O anche in una disciplina di quel registro orale che è la parola, soprattutto in culture loquaci come la nostra, dove le parole sono trattate come una materia da consumare in vista di un’affermazione di sé dinanzi agli altri. Il nostro mondo è incredibilmente verboso e noi siamo costantemente sommersi da parole che hanno perso il loro significato e, quindi, la loro forza. Il cristianesimo proclama la sacralità della parola, vero dono fatto da Dio all’uomo. È per questa ragione che il nostro parlare è dotato di un potere tremendo, sia positivo che negativo, ed è per questa ragione che saremo giudicati sulle nostre parole, come dice Gesù: “Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio” (Mt 12, 36). Ecco, quindi, che un’ascesi parallela a quella del digiuno, e a lei complementare, può consistere nell’iniziazione al silenzio in modo di liberarsi dal verbalismo e dalla chiacchiera e farci riscoprire la parola come dono divino e come responsabilità nei confronti degli altri. Il silenzio favorisce l’ascolto: nella tradizione cristiana la Quaresima è anche, dicevamo, un tempo in cui siamo invitati ad un più assiduo ascolto della parola di Dio. Il filosofo Epitteto diceva: “Dio ci ha dato due orecchie, ma soltanto una bocca, proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà”.

Si può, poi, rivalutare la pratica, confermata dalla Bibbia e dalla prima tradizione cristiana, della “Quaresima di condivisone” dei nostri beni, del nostro cibo, del nostro tempo e anche delle nostre conoscenze. La Quaresima di condivisione può esprimersi pure in un gesto di riconciliazione con i fratelli da cui ci separano idee politiche o divergenze confessionali, che troppo spesso ci induriscono in esclusione reciproca, odio e anche scontri violenti. Elisabetta di Ungheria, chiamata la santa della carità, diceva ai poveri da lei beneficati: “Fale anche voi la carità”. A loro che le rispondevano: “Ma come fare, se siamo poveri?”, la santa regina replicava: “Non è sempre comandato di aprire le borse; è sempre comandato di aprire il cuore, e quando non abbiamo denaro, possiamo sempre avere un cuore per compatire i bisognosi, due occhi per vederli, due orecchi per ascoltarli, due piedi per visitarli, due mani per servirli, una lingua per consolarli, incoraggiarli, istruirli, esortarli, correggerli…” Sono alcuni esempi di un digiuno che sta al passo con i tempi. È stato detto che la castità vale quel che vale l’amore in nome del quale viene serbata. Si potrebbe dire la stessa cosa del digiuno: il digiuno può essere vissuto con autenticità solo in un contesto di comunione. Ridurre il digiuno quaresimale alla consumazione di un pasto più sobrio o all’astinenza della carne il Mercoledì delle Ceneri e i venerdì quaresimali, non basta. Il rapporto con il cibo di chi digiuna può essere pienamente compreso solo se oltrepassa, se va oltre la funzione biologica del cibo stesso. Bisogna domandarsi perché molti mettono con facilità in pratica i consigli del medico e considerano sorpassate le concezioni religiose in materia. Se il digiuno lo propone il prete, è una imposizione anacronistica. Se è il dietologo a proporlo, è legge sacrosanta da osservare quotidianamente con scrupolosità e con controlli periodici. Se la cuoca prepara una bistecca, tutti sbuffano: uffa… la solita carne! Se la Chiesa dice è venerdì di Quaresima: c’è astinenza dalla carne; magari ci viene voglia di bistecca.   

  

venerdì 24 febbraio 2023

DOMENICA I DI QUARESIMA ( A ) – 26 Febbraio 2023

 



 

Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

 

Nella prima domenica di Quaresima, recitiamo il Sal 50, salmo penitenziale per eccellenza, che abbiamo trovato già nel Mercoledì delle Ceneri e ritroveremo ancora in seguito. Si tratta di una delle più belle suppliche del salterio per la spontaneità e la profondità dei sentimenti che in esso sono espressi. All’inizio del cammino quaresimale, questo salmo diventa il segno della nostra sincera volontà di conversione. Se il senso della colpa che il testo esprime è vivissimo, più intensa è, però, l’esperienza del perdono, della novità dello spirito, della gioia di sentirsi salvato dal Dio misericordioso. Perciò si potrebbe ben dire che più che un canto penitenziale, il Sal 50 è la celebrazione della risurrezione alla vita nello spirito della parabola del figlio prodigo che ritorna alla casa del padre.

 

La prima lettura racconta il peccato di Adamo ed Eva, i quali disobbediscono al progetto che Dio ha su di loro. Il brano del vangelo, invece, ci propone l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto secondo la versione di san Matteo. Dalle tentazioni Gesù esce vittorioso accettando fino in fondo la volontà del Padre. Ecco, quindi, che alla disobbedienza di Adamo si contrappone l’obbedienza di Cristo, due personaggi che fanno scelte opposte; scelte nelle quali noi tutti siamo coinvolti. Ce lo fa capire san Paolo nella seconda lettura, quando stabilisce un confronto fra Adamo, responsabile della prima caduta umana che ha scatenato nel mondo la forza ostile del peccato, e Gesù Cristo, grazie al quale si riversa su tutti gli uomini la giustificazione. Gesù ha il potere di salvare l’uomo, perché ha, nella sua umanità, la capacità di ricollegare validamente l’uomo con Dio.

 

Come in Adamo e come in Gesù, la tentazione ci pone di fronte alla continua necessità di decidere e di scegliere. Le tre tentazioni subite da Gesù nel deserto possono essere considerate paradigmatiche di quelle a cui noi tutti siamo continuamente esposti. Gesù è tentato dal potere, dal successo e dal desiderio di usare per il proprio vantaggio le doti che ha ricevuto per il servizio degli altri e, in questo modo, sganciarsi dalla propria missione. Egli vince le tentazioni contrapponendo al tentatore la parola di Dio, e cioè il progetto che il Padre ha su di lui: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (canto al vangelo - Mt 4,4). Adamo ha voluto gestire in proprio, in assoluta autonomia il suo destino, e ha incontrato la morte. Cristo invece ha riconosciuto la propria dipendenza da Dio, e ha incontrato la vita: Egli non ha avuto paura di sottomettere la sua libertà al volere di Dio, perché ha capito che la sottomissione a Dio libera l’uomo della sottomissione agli idoli.

 

mercoledì 22 febbraio 2023

RESCRIPTUM EX AUDIENTIA SULL'IMPLEMENTAZIONE DEL MOTU PROPRIO "TRADITIONIS CUSTODES"


 


RESCRIPTUM EX AUDIENTIA SS.MI, 21.02.2023

 

[B0150]

 

Il Santo Padre, nell’Udienza concessa il 20 febbraio u.s. al sottoscritto Cardinale Prefetto del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha confermato quanto segue circa l’implementazione del Suo Motu Proprio Traditionis custodes del 16 luglio 2021.

Sono dispense riservate in modo speciale alla Sede Apostolica (cfr. C.I.C. can. 87 §1):

­l’uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962 (cfr. Traditionis custodes art. 3 §2);

­la concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del Motu proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962 (cfr. Traditionis custodes art. 4).

Come stabilito dall’art. 7 del Motu proprio Traditionis custodes, il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti esercita nei casi sopra menzionati l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di quanto disposto.

Qualora un Vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi.

Inoltre, il Santo Padre, conferma – avendo già manifestato il suo assenso nell’udienza del 18 novembre 2021 – quanto stabilito nei Responsa ad dubia con le annesse Note esplicative del 4 dicembre 2021.

Il Santo Padre ha altresì ordinato che il presente Rescritto sia pubblicato su L’Osservatore Romano e, successivamente, nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.

Dal Vaticano, 20 febbraio 2023

Arthur Card. Roche

Prefetto

[00323-IT.01] [Testo originale: Italiano]

martedì 21 febbraio 2023

LA QUARESIMA OGGI

 



 

Per rendere più efficace il messaggio quaresimale, nel Medioevo si era soliti raffigurare allegoricamente la battaglia fra il Carnevale e la Quaresima, dove il Carnevale era rappresentato da persone paffute e gioiose seguite da una schiera di prosciutti, lardi, salami, mentre la Quaresima era rappresentata da personaggi magri e pallidi, seguiti da sardine, pesci e baccalà. Alla fine, la vittoria era sempre della Quaresima. E’ famosa al riguardo la Battaglia fra il Carnevale e la Quaresima del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio (sec. XVI). Oggi invece qualcuno ha scritto: “Sta morendo il Carnevale perché la Quaresima è già morta da un pezzo” (F. Cardini, Il libro delle feste. Il cerchio sacro dell’anno, Il Cerchio SRL, Firenze 2011, 201).

Si può quindi parlare ancora di Quaresima? Si può parlare ancora di Quaresima e di penitenza per l’uomo di oggi? Il tempo quaresimale, pur essendo un periodo importante dell’anno per l’incremento della vita cristiana, oggi la maggior parte dei battezzati non la avverte come una volta. Quando la Quaresima era sentita e osservata (magari con spirito legalistico, ma osservata) dai cristiani come un tempo contrassegnato da rinunce e pratiche penitenziali, vi era un’espressione popolare per indicare qualcosa di difficile e noioso: “lungo come una Quaresima”. Oggi quasi nessuno ricorre a questa esclamazione, semplicemente perché la Quaresima non è più vissuta “a caro prezzo”. Nel passato, le nostre chiese avevano un assetto adatto alla circostanza, si comprendeva che era Quaresima, oggi invece passa quasi inosservata. Occorre quindi riscoprire il significato e il valore della Quaresima alla luce della tradizione bimillenaria della Chiesa e nel contesto delle attuali circostanze in cui ci troviamo. Il fenomeno del secolarismo in cui è immersa la società ci conduce a un’autentica “schizofrenia” religiosa, che divide la nostra vita in due parti: la parte religiosa e la parte secolare, tra loro sempre meno interdipendenti. Bisogna fare uno sforzo spirituale per riscoprire, ricuperare e aggiornare i costumi e i richiami ereditati dalla tradizione, che costituiscono i mezzi del nostro sforzo quaresimale.

domenica 19 febbraio 2023

25 ANNI DOPO

 




 


 

Roma, 16 novembre 1998

 

 

Eminenza Reverendissima,

 

          Mi perdoni se ardisco di scrivere questa lettera. Lo faccio con semplicità, e anche con grande sincerità. Sono professore di liturgia al Pontificio Istituto Liturgico di S. Anselmo e alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense nonché Consultore della Congregazione per il Culto Divino. Ho letto la Conferenza che Lei ha tenuto poco tempo fa con occasione dei “Dix ans du Motu Proprio ‘Ecclesia Dei’”. Confesso che il suo contenuto mi ha lasciato profondamente perplesso. Mi hanno colpito, in particolare, le risposte che Lei dà alle obiezioni fatte da coloro che non approvano “l’attaccamento all’antica liturgia”. È su queste che vorrei soffermarmi in questa lettera che Le invio.

 

L’accusa di disobbedienza al Vaticano II viene respinta dicendo che il Concilio non ha riformato esso stesso i libri liturgici, ma ha semplicemente ordinato la loro revisione. Verissimo! e l’affermazione non può essere contraddetta. Le faccio notare però che neppure il Concilio di Trento ha riformato i libri liturgici, avendo dato solo dei principi molto generali al riguardo. La riforma come tale, il Concilio l’ha demandata al papa, e Pio V e i suoi successori l’hanno fedelmente attuata.

 

 Non riesco a capire, poi, come i principi del Concilio Vaticano II concernenti la riforma della messa presenti nella Sacrosanctum Concilium, nn.47-58 (quindi non solo i nn. 34-36 da Lei citati) possano andare d’accordo con il ripristino della cosiddetta messa tridentina. Se prendiamo inoltre per buona l’affermazione del Cardinale Newman da Lei ricordata, e cioè che la Chiesa non ha mai abolito o proibito “forme liturgiche ortodosse”, allora mi domando se, ad esempio, i notevoli cambiamenti introdotti da Pio X nel salterio romano o da Pio XII nella Settimana Santa abbiano o meno abolito gli antichi ordinamenti tridentini. Il suddetto principio potrebbe indurre alcuni, ad esempio in Spagna, a pensare che è permesso celebrare l’antico rito ispano - visigotico, ortodosso e rimesso a nuovo dopo il Vaticano II. Parlare poi del rito tridentino come diverso dal rito del Vaticano II non mi sembra esatto, anzi direi che è contrario alla nozione stessa di ciò che s’intende qui per rito. Sia il rito tridentino che quello attuale sono un solo rito: il rito romano, in due diverse fasi della sua storia.

 

          La seconda obiezione che si fa è che il ritorno all’antica liturgia rischia di rompere l’unità della Chiesa. Questa obiezione viene affrontata da Lei distinguendo tra l’aspetto teologico e pratico del problema. Posso condividere molte delle considerazioni che Lei fa a questo proposito, eccetto alcuni dati storicamente non sostenibili, come ad esempio l’affermazione che fino al Concilio di Trento esistevano i riti mozarabico di Toledo e altri, da esso soppressi. Il rito mozarabico, infatti, era stato soppresso già da Gregorio VII con esclusione di Toledo, dove rimane in vigore. Il rito ambrosiano, da parte sua, non è stato mai soppresso. Ciò che al riguardo non riesco a capire è che si dimentichi quanto Paolo VI afferma nella Costituzione apostolica del 3.4.1969, con cui promulga il nuovo Messale, e cioè: “...confidiamo che questo Messale sarà accolto dai fedeli come mezzo per testimoniare e affermare l’unità di tutti, e che per mezzo di esso, in tanta varietà di lingue, salirà al Padre celeste... una sola e identica preghiera”. Paolo VI vuole quindi che l’uso del nuovo Messale sia espressione di unità della Chiesa; e aggiunge poi concludendo: “Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere di contrario nelle Costituzioni e negli Ordinamenti Apostolici dei nostri predecessori e in altre disposizioni, anche degne di particolare menzione e deroga”.

 

Conosco le sottili distinzioni avanzate da alcuni giuristi o ritenuti tali. Credo però che si tratti semplicemente di “sottigliezze” che, in quanto tali, non meritano grande attenzione. Si potrebbero citare diversi documenti in cui si dimostra chiaramente la volontà di Paolo VI al riguardo. Ricordo solo la lettera che l’11 ottobre 1975 il Card. J. Villot scriveva a Mons. Coffy, presidente della Commissione episcopale francese di liturgia e di pastorale sacramentaria (Segreteria di Stato n.287608), in cui diceva tra l’altro: “Par la Constitution Missale Romanum, le Pape prescrit, comme vous le savez, que le nouveau Missel doit remplacer l’ancien, nonobstant les Constitutions et Ordonnances apostoliques de ses prédécesseurs, y compris par conséquent toutes les dispostions figurant dans la Constitution Quo Primum et qui permettrait de conserver l’ancien missel [...] Bref, comme dit la Constitution Missale Romanum, c’est dans le nouveau Missel romain et nulle part ailleurs que les catholiques de rite romain doivent chercher le signe et l’instrument de l’unité mutuelle de tous...”

 

          Eminenza, come professore di liturgia io mi trovo a insegnare delle cose che mi sembrano diverse da quelle da Lei espresse nella conferenza suddetta. E credo di dover continuare su questa strada in obbedienza al magistero pontificio. Lamento anch’io gli eccessi con cui alcuni dopo il Concilio hanno celebrato o celebrano ancora la liturgia riformata. Ma non riesco a capire perché alcuni Eminentissimi Cardinali, non solo Lei, abbiano creduto opportuno porvi rimedio mettendo “di fatto” in discussione una riforma approvata dopo tutto dal sommo pontefice Paolo VI e aprendo sempre di più le porte all’uso dell’antico Messale di Pio V. Con umiltà, ma anche con parresia apostolica, sento il bisogno di affermare la mia contrarietà a simili orientamenti. Ho preferito dire apertamente ciò che molti liturgisti e non, che ci sentiamo figli obbedienti della Chiesa, diciamo nei corridoi degli Atenei romani.

 

          Suo dev.mo in Cristo

 

 

 

                                                 Matias Augé cmf

 

 

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Em.za Rev.ma Cardinale Joseph Ratzinger

Prefetto della Congregazione della Fede

CITTA’ DEL VATICANO

Joseph Cardinal Ratzinger

 

 

                                                                                                 

 

 

 

 

 

 

                                                           18 febbraio 1999

 

Reverendo Padre

P. Prof. Matias Augé, CMF

Istituto “Claretianum”

L.go Lorenzo Mossa, 4

00165 Roma

 

 

 

Reverendo Padre,

 

ho letto con attenzione la Sua lettera del 16 novembre u.s., nella quale Lei ha formulato alcune critiche alla Conferenza da me tenuta il giorno 24 ottobre 1998, in occasione del 10o anniversario del Motu proprio “Ecclesia Dei”.

 

Capisco che Lei non condivida le mie opinioni sulla riforma liturgica, la sua attuazione, e la crisi che deriva da talune tendenze in essa nascoste, come la desacralizzazione.

 

Mi sembra, però, che la sua critica non prenda in considerazione due punti:

 

1. è il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che ha concesso, con l’Indulto del 1984, l’uso della liturgia anteriore alla riforma paolina, sotto certe condizioni; in seguito, lo stesso Pontefice ha pubblicato, nel 1988, il Motu proprio “Ecclesia Dei”, che manifesta la sua volontà di andare incontro ai fedeli, che si sentono attaccati a certe forme della liturgia latina anteriore, e pertanto chiede ai vescovi di concedere “in modo ampio e generoso” l’uso dei libri liturgici del 1962.

 

2. una parte non piccola dei fedeli cattolici, anzitutto di lingua francese, inglese e tedesca, rimangono fortemente attaccati alla liturgia antica, e il Sommo Pontefice non intende ripetere nei loro confronti ciò che era accaduto nel 1970, dove si imponeva la nuova liturgia in maniera estremamente brusca, con un tempo di passaggio di soli 6 mesi, mentre il prestigioso Istituto liturgico di Treviri, infatti, per tale questione, che tocca in maniera così viva il nervo della fede, giustamente aveva pensato ad un tempo di 10 anni, se non sbaglio.

 

Sono dunque questi due punti, cioè l’autorità del Sommo Pontefice regnante e il suo atteggiamento pastorale e rispettoso verso i fedeli tradizionalisti, che sarebbero da prendere in considerazione.

 

Mi permetta, pertanto, di aggiungere alcune risposte alle Sue critiche circa il mio intervento.

 

1. Quanto al Concilio di Trento non ho mai detto che esso avrebbe riformato i libri liturgici, al contrario ho sempre sottolineato che la riforma postridentina, situandosi pienamente nella continuità della storia della liturgia, non ha voluto abolire le altre liturgie latine ortodosse (i cui testi esistevano da più di 200 anni) e neppure imporre una uniformità liturgica.

 

Quando ho detto che anche i fedeli, che fanno uso dell’Indulto del 1984, devono seguire gli ordinamenti del Concilio, volevo mostrare che le decisioni fondamentali del Vaticano II sono il punto d’incontro di tutte le tendenze liturgiche e che quindi sono anche il ponte per la riconciliazione in campo liturgico. Gli ascoltatori presenti hanno, in realtà, capito le mie parole come un invito all’apertura al Concilio, all’incontro con la riforma liturgica. Penso che chi difende la necessità ed il valore della riforma, dovrebbe essere pienamente d’accordo con questo modo di avvicinare i “tradizionalisti” al Concilio.

 

2. La citazione di Newman vuole significare che l’autorità della Chiesa non ha mai abolito nella sua storia con un mandato giuridico una liturgia ortodossa. Si è verificato invece il fenomeno di una liturgia che scompare, e poi appartiene alla storia, non al presente.

 

3. Non vorrei entrare in tutti i dettagli della Sua lettera, anche se non sarebbe difficile rispondere alle Sue diverse critiche dei miei argomenti. Mi sta però a cuore quello che riguarda l’unità del Rito Romano. Questa unità oggi non è minacciata dalle piccole comunità che fanno uso dell’Indulto e si trovano spesso trattati come lebbrosi, come persone che fanno qualcosa di indecoroso, anzi di immorale; no, l’unità del Rito Romano è minacciata dalla creatività selvaggia, spesso incoraggiata da liturgisti (per esempio in Germania si fa la propaganda del progetto “Missale 2000”, dicendo, che il Messale di Paolo VI sarebbe già superato). Ripeto quanto ho detto nel mio intervento, che la differenza tra il Messale di 1962 e la messa fedelmente celebrata secondo il Messale di Paolo VI è molto minore che la differenza fra le diverse applicazioni cosiddette “creative” del Messale di Paolo VI. In questa situazione la presenza del Messale precedente può divenire una diga contro le alterazioni della liturgia purtroppo frequenti, ed essere così un appoggio della riforma autentica. Opporsi all’uso dell’Indulto del 1984 (1988) in nome dell’unità del Rito Romano è, secondo la mia esperienza, un atteggiamento molto lontano dalla realtà. Del resto, mi rincresce un po’, che Lei non abbia percepito, nel mio intervento, l’invito rivolto ai “tradizionalisti” ad aprirsi al Concilio, a venirsi incontro verso la riconciliazione, nella speranza di superare, col tempo, la spaccatura tra i due Messali.

 

Tuttavia, La ringrazio per la Sua parresia, che mi ha permesso di discutere francamente su una realtà che ci sta ugualmente a cuore.

 

Con sentimenti di gratitudine per il lavoro che Lei svolge nella formazione dei futuri sacerdoti, La saluto

 

 

                                                                           Suo nel Signore

 

                                                                 + Joseph Card. Ratzinger

  

 

 

 

 


venerdì 17 febbraio 2023

DOMENICA VII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) 19 febbraio 2023

 


 

 

Lev 19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

 

 

Possiamo soffermarci sulle ultime parole del brano evangelico. Gesù afferma: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Un ideale immenso che però è già proposto nell’Antico Testamento come ci ricorda la prima lettura d’oggi presa dal libro del Levitico: “Il Signore parlò a Mosè e disse: Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”. Il fatto che Gesù esiga da noi la perfezione del Padre significa che esiste in noi questa capacità, avendoci trasformati in veri figli di Dio. Possiamo dire che in noi c’è il DNA di Dio Padre e del suo Figlio Gesù Cristo.

 

Gesù esige da noi la perfezione e la santità di Dio in un contesto ben preciso. Lo fa parlando della paternità e tenerezza di Dio che ama tutti i suoi figli, e fa sorgere il suo sole anche sui cattivi e fa piovere anche sugli ingiusti, beneficando con i suoi doni anche i peccatori. Orbene Dio vuole che lo imitiamo, soprattutto in questo suo amore. Perciò dobbiamo impegnarci ad astenerci dall’odio, dalla vendetta e dal rancore verso il prossimo.

 

Il male, per quanto grande sia, moltiplica il suo effetto se la vittima si lascia imbrigliare da esso attraverso la rabbia, il rancore o la vendetta che ne seguirebbe; l’esercizio del perdono, ovvero della libertà di accogliere quel male e di restituirlo trasformandolo in un’offerta di presa di coscienza, rimette al mal-fattore la scelta di riconoscere quanto ha fatto e di rimediare, o di rimanere legato al suo stesso male. Dato che il perdono lo si può solo offrire, ma aspetta poi al “perdonato” accoglierlo o meno.

 

Nella nostra società, attraversata tuttora dall’odio e dalla violenza, il messaggio della fraternità universale esercita sempre un certo fascino. Non di rado però in nome della decantata fraternità universale si calpestano i valori più sacrosanti della coscienza cristiana e religiosa in genere predicando e imponendo di fatto un relativismo etico, che induce a ritenere inesistente un criterio oggettivo e universale per stabilire il fondamento e la corretta gerarchia di valori. Non essendo riconosciuta a priori alcuna verità come unico criterio pratico di discernimento dei valori, ci si affida all’opinione della maggioranza per stabilire le norme della convivenza pacifica tra gli uomini. Ogni scelta che riesce ad avere il consenso dei più diventa vincolante per tutti. Non è questa la fraternità universale proposta dal Vangelo. Essa svanisce se non è fondata nella verità della nostra comune figliolanza nei riguardi di Dio Padre di tutti. Non si può costruire una società fraterna che non rispetti la coscienza religiosa di ogni singola persona e il suo diritto a manifestarla. 

 

domenica 12 febbraio 2023

LA DERIVA CLERICALE DELLA MESSA CRISMALE

 



 

Il 16 ottobre dell’anno scorso ho presentato in questo blog l’opera del Prof. Giovanni Zaccaria sulla Messa crismale (Sacerdoti, re, profeti e martiri. Teologia della Messa crismale). L’autore, dopo aver parlato a pp. 146-148 della “deriva clericale” che rappresenta l’introduzione nella Messa crismale del rinnovo delle promesse sacerdotali e di un nuovo prefazio, a p. 151 propone quanto segue:

“Allo stato attuale delle cose ci troviamo di fronte ad un’introduzione che risente di una lettura riduzionistica della celebrazione e che non tiene conto del senso del Giovedì santo di cui abbiamo detto più sopra. Tale introduzione dovrebbe essere rivista in modo di prendere in considerazione il sacerdozio ministeriale nel contesto più ampio dell’unzione di Cristo: potrebbe segnalare il fatto che tutti i battezzati rinnovano le loro promesse battesimali nella Veglia pasquale, mentre alcuni – i fedeli ordinati – rinnovano anche le promesse fatte il giorno della loro ordinazione, e lo fanno nel contesto di questa celebrazione.

Inoltre, potrebbe essere importante dotare questa Messa di una orazione universale significativa. Si tratta di un segmento rituale rilevante per l’esercizio del sacerdozio regale: in esso si manifesta la risposta orante dell’assemblea storica alla parola di Dio che è stata proclamata. Ciononostante, l’attuale sistemazione non prevede una vera e propria preghiera universale; ci si “accontenta” di una serie di intenzioni intorno al rinnovo delle promesse sacerdotali. Riteniamo invece che una chiarificazione di tutto il segmento rituale del rinnovo delle promesse sacerdotali e della preghiera universale gioverebbe ad una migliore comprensione del senso della celebrazione e del ruolo centrale di ogni fedele per la vita della Chiesa”.