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mercoledì 30 agosto 2017

Summus Pontifex al di là di Summorum Pontificum: le ragioni di una svolta





Pubblicato il 31 agosto 2017 nel blog: Come se non
Nel discorso tenuto per la celebrazione dei 70 anni del CAL, papa Francesco ha pronunciato parole importanti sulla tradizione liturgica cattolica e sul modo di comprenderla oggi da parte del magistero ecclesiale. Un bravo interprete americano, il gesuita John Baldovin, ha riassunto in “cinque ragioni” la rilevanza di questo discorso: (https://www.americamagazine.org/faith/2017/08/28/five-reasons-pope-francis-embraces-vatican-ii-liturgy).
Queste ragioni sono assai rilevanti e vorrei subito presentarle. Ma ancora più rilevante è, a mio avviso, la ermeneutica storica che Baldovin propone, perché in tal modo mette in chiaro che cosa è accaduto nella Chiesa cattolica negli ultimi 60 anni.
Le cinque ragioni
Il discorso di papa Francesco può dunque essere riassunto secondo Baldovin in 5 affermazioni chiave:
- primo, si ribadisce la rilevanza della partecipazione attiva, che rifiuta la riduzione dei fedeli a “estranei e muti spettatori”
- secondo, il Vaticano II ha voluto favorire la sana tradizione e il legittimo progresso
- terzo, per rispettare il Vaticano II occorre la pazienza di un lungo lavoro educativo
- quarto, la liturgia è presenza viva di Cristo, nelle diverse forme con cui il rito la realizza e che ha al centro l’altare, verso cui tutta la attenzione si dirige
- quinto, la liturgia è una azione non solo per il popolo, ma del popolo.
Queste cinque affermazioni, unite alla assunzione magisteriale della irreversibilità del Concilio Vaticano II, pongono fine alla recente oscillazione – iniziata formalmente dal 1988, ma culminata nel 2007 – tra queste linee fondamentali della Riforma liturgica, e le loro antitesi (riforma della riforma) che ora trovano fine. Ma ancor più interessante, nell’articolo di Baldovin, è la ricostruzione della storia che ha portato, finalmente, a questo pronunciamento.
 Una preziosa ermeneutica storica
 Nel suo articolo, J. Baldovin inizia da una preziosa ricostruzione storica. In sintesi egli presenta le opposizioni alla Riforma liturgica come scaturite immediatamente dopo il Concilio. Ecco le sue parole:
It is not news that the liturgy has been a contested field in Catholic life over the past few decades. Opposition to liturgical reform began even before the conclusion of the Second Vatican Council, and increased from 1964 onward, when reforms like the use of English and the practice of the priest facing the people while presiding at the Eucharist began to be implemented.
In its most extreme form this rejection of Vatican II’s reform found a base in the traditionalist movement founded by Archbishop Marcel Lefebvre, which eventually split off in schism from the Catholic Church after he ordained bishops on his own. Part of that movement remained within the church and was greatly encouraged by Pope Benedict XVI’s motu proprio “Summorum Pontificum” ten years agowhich greatly liberalized permission to celebrate the traditional Latin Mass, now called the “Extraordinary Form.”
The opposition was not limited to this extreme, however. Another group characterized as the “Reform of the Reform” advocated modifications of the post-Vatican II reforms, such as a return to one Eucharistic Prayer (Prayer I, the Roman Canon) recited in Latin and in a low voice with the priest and people facing in the same direction (ad orientem). That movement’s most notable champion was Cardinal Joseph Ratzinger, but it had supporters among at least the past four prefects of the Congregation for Divine Worship and Discipline of the Sacraments : Cardinals Jorge Arturo Medina Estévez, Francis Arinze, Antonio Cañizares and (currently) Robert Sarah. These opposition movements also found support among some younger Catholics searching for a more transcendent experience of liturgy than they customarily experienced.


Con lucidità Baldovin individua non solo le concessioni fatte ai lefebvriani con il MP Summorum Pontificum, ma anche il lavoro di opposizione alla riforma sollevato dagli ultimi 4 Prefetti della Congregazione del culto (oltre che, in modo determinante, dal Prefetto J. Ratzinger). Questa ricostruzione non solo appare del tutto corretta, ma invita anche a trarre le conseguenze ultime del ragionamento, procedendo ad un inevitabile avvicendamento del Prefetto Sarah, la cui preoccupazione dominante appare francamente incompatibile con questo disegno chiaro e determinato di ripresa del cammino della Riforma voluta dal Concilio Vaticano II, sulla quale papa Francesco ha chiesto di continuare a lavorare con coerenza e senza divagazioni o nostalgie. Con questo discorso papa Francesco, da figlio del Concilio, ha superato ogni residua esitazione: come Summus Pontifex si è posto nettamente al di là di Summorum Pontificum.

sabato 26 agosto 2017

“RIFORMA LITURGICA IRREVERSIBILE” PER CHI SUONA LA CAMPANA?





Il discorso di papa Francesco, del 24 agosto scorso, ai partecipanti al Convegno del CAL ha avuto una vasta eco nei media. La quasi totalità dei titoli hanno ripreso le parole del papa: “la riforma liturgica è irreversibile”. Parole chiare e di peso, soprattutto se lette nel contesto in cui si trovano: “… dopo questo magistero, dopo questo lungo cammino possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile”. Alla luce di queste parole, qualcuno ha interpretato il discorso come fosse il “Quo primum tempore” del Novus Ordo, alla stregua della bolla “Quo primum tempore” con cui Pio V “blindò” il suo Missale Romanum. Non credo che il Novus Ordo abbia bisogno di essere “blindato”; basta la Costituzione Apostolica “Missale Romanum” di Paolo VI e il magistero di questo papa al riguardo fino alla fine della sua vita.  

Non c’è dubbio che il discorso di Francesco è rivolto a coloro che in diversi modi parlano della “riforma della riforma (montiniana)”. Costoro intendono ripensare e rivedere la riforma di Paolo VI, giudicata non fedele al dettato della Sacrosanctum Concilium e alla tradizione del Rito romano. Papa Francesco afferma invece che “la direzione tracciata dal Concilio trovò forma, secondo il principio del rispetto della sana tradizione e del legittimo progresso (cf. SC, 23), nei libri liturgici promulgati dal Beato Paolo VI”.

Il discorso è rivolto anche alle Conferenze episcopali e ai Pastori in genere, invitati a guidare l’applicazione pratica della riforma montiniana. “Non basta riformare i libri liturgici per rinnovare la mentalità”, si richiede quindi l’educazione liturgica di Pastori e fedeli, è questa “una sfida da affrontare sempre di nuovo”. Perciò il papa invita a riscoprire “i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano”.

Alcuni hanno affermato che il grande escluso dal discorso è Benedetto XVI. Nell’excursus storico iniziale, papa Francesco cita solo Pio X che istituì una commissione per la riforma generale della liturgia; Pio XII che riprese il progetto riformatore e prese decisioni concrete al riguardo; e Paolo VI che promulgò i nuovi libri liturgici, “ben accolti dagli stessi vescovi che furono presenti al Concilio”. La scelta ha una sua logica. Sarebbe meschino  contrapporre papa Francesco a Benedetto XVI che, da Sommo Pontefice non ha parlato mai di “riforma della riforma” e nella Lettera che accompagna il motu proprio Summorum Pontificum parla del “valore e santità del nuovo rito” nonché della “ricchezza spirituale e la profondità teologica del Messale di Paolo VI”. 

Come ha scritto Cesare Giraudo in facebook, «riforma irreversibile», poiché ogni riforma liturgica ha sempre puntato in avanti (una riforma liturgica "in retromarcia" o con inversione a "U" è un controsenso). E io aggiungo, la irreversibilità della riforma di Paolo VI, come di ogni riforma, non significa che i libri liturgici montiniani rimangono “blindati” e “immutati” per sempre. La Chiesa ha sempre bisogno di purificazione (cf. LG, 8) e, in questo contesto, anche la liturgia è sottoposta ad un processo di purificazione o di riforma.


Matias Augé

DOMENICA XXI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 27 Agosto 2017

 

Is 22,19-23; Sal 137 (138); Rm 11,33-36; Mt 16,13-20

L’autore del Sal 137 rende grazie a Dio al cospetto dei suoi angeli (evocati con la locuzione arcaica degli “dei”) e prostrato verso l’aula sacra del tempio, per la benevolenza e fedeltà dimostrata nel concedergli l’aiuto da lui invocato. La preghiera termina con un’espressione di fiducia e con il desiderio che il Signore non abbandoni colui che ha salvato, ma porti a compimento ciò che per lui ha benevolmente iniziato: l’amore del Signore è per sempre. Con grande umiltà e fiducia riprendiamo il Sal 137, che riecheggia il Magnificat di Maria, e innalziamo a Dio la nostra preghiera. La fede ci insegna che Dio non crea l’uomo per abbandonarlo ai bordi di una strada, ma lo segue sempre con amore paterno e premuroso, portando avanti l’iniziativa di salvezza nei suoi confronti, così come fa capire san Paolo nel brano della lettera ai Romani, proposto come. seconda lettura.

Nella prima lettura si parla di un tale Sebna, alto funzionario di corte, uomo disonesto e megalomane. Per mezzo del profeta Isaia viene esautorato da Dio e il suo posto dato ad un umile servo di nome Eliakìm, a cui viene consegnata come simbolo di autorità “la chiave della casa di Davide” e affidato il compito di essere un “padre per gli abitanti di Gerusalemme”. Questo episodio insegna che il potere è dato non per il prestigio e il tornaconto personali, ma per l’utilità comune e il servizio del popolo di Dio. Non c’è dubbio che questo brano di Isaia è stato scelto dalla liturgia odierna a motivo dell’immagine delle “chiavi”, segno di potere, per la chiara corrispondenza con le parole di Gesù a san Pietro riportate dalla lettura evangelica odierna. Gesù si rivolge a san Pietro con queste parole: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa... A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Queste parole Gesù le pronuncia dopo la professione di fede dell’Apostolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. In forza dell’accoglienza del dono di Dio, sulla base di questa fede, Pietro è costituito fondamento, roccia della Chiesa di Gesù. Ma insieme a lui tutti i cristiani siamo “impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1Pt 2,5; cf. colletta alternativa).

Riprendiamo il simbolismo delle chiavi, presente anche nella prima lettura. Chi possiede la chiave di una casa o di una città ne ha la custodia e la responsabilità. Nel caso di Pietro, si tratta di poteri amministrativi e di governo sul piano spirituale. Il dono fatto al principe degli apostoli è in definitiva un dono fatto a vantaggio di ogni battezzato. La Chiesa è di Cristo (Gesù dice infatti: “edificherò la mia Chiesa”). In essa ci sono uomini e donne di poca fede che hanno sempre bisogno del perdono, dell’amore e della verità per crescere verso il Regno. Il legare e lo sciogliere della Chiesa ci rimanda in definitiva a prendere coscienza che il vero e unico “fedele” di cui ci possiamo fidare è proprio Dio, manifestato nel Figlio Gesù Cristo, e che continua ad agire nel tempo per mezzo dell’umanità di Pietro e dei suoi successori. Nella logica del brano evangelico e nel contesto della prima lettura oggi proposta, il potere conferito a Pietro non è quindi un potere di dominio, ma una investitura con cui Pietro è destinato al servizio dell’uomo in cammino verso il Regno, ad essere un “padre” per i figli di Dio. Il Signore nella sua sapienza imperscrutabile, di cui parla la seconda lettura, non ci abbandona mai. La comunità cristiana non è lasciata sola, ma è sempre vivificata dalla presenza del Cristo risorto. Egli continua ad essere presente in mezzo a noi attraverso molti modi tra cui il servizio di Pietro e dei suoi successori.


giovedì 24 agosto 2017

PAPA FRANCESCO "LA RIFORMA LITURGICA E' IRREVERSIBILE"



Udienza ai partecipanti alla 68esima Settimana Liturgica Nazionale, per i 70 anni della fondazione del CAL: «C'è da lavorare nella direzione del Concilio superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano». «La Chiesa è viva se non insegue poteri mondani»


Di SALVATORE CERNUZIO

«La riforma liturgica è irreversibile». Con sicurezza e con «l’autorità magisteriale» frutto del cammino sgorgato dal momento storico che fu il Vaticano II, Papa Francesco lo afferma nel suo discorso ai partecipanti alla 68esima Settimana Liturgica Nazionale, riuniti a Roma nella ricorrenza dei 70 anni di fondazione del Centro di Azione Liturgica

Concilio e riforma «sono due eventi direttamente legati», «non fioriti improvvisamente ma a lungo preparati», sottolinea il Papa rammentando tutte le tappe, «sostanziali e non superficiali», ripercorse in questo arco di tempo nella storia della Chiesa. A partire dalle risposte date dai suoi predecessori «ai disagi percepiti nella preghiera ecclesiale» che diedero vita al cosiddetto «movimento liturgico». «Quando si avverte un bisogno, anche se non è immediata la soluzione, c’è la necessità di mettersi in moto», dice Bergoglio.  

Ecco allora che san Pio X «dispose un riordino della musica sacra e il ripristino celebrativo della domenica, ed istituì una commissione per la riforma generale della liturgia». E Pio XII abbracciò il progetto riformatore con l’enciclica Mediator Dei, prendendo anche «decisioni concrete circa la versione del Salterio, l’attenuazione del digiuno eucaristico, l’uso della lingua viva nel Rituale, l’importante riforma della Veglia Pasquale e della Settimana Santa».  

Poi arrivò la Sacrosanctum Concilium, «buon frutto dall’albero della Chiesa» le cui linee di riforma generale «rispondevano a bisogni reali e alla concreta speranza di un rinnovamento: si desiderava una liturgia viva per una Chiesa tutta vivificata dai misteri celebrati».   

Si trattava, sottolinea Francesco richiamando le parole di Paolo VI nello spiegare i primi passi della riforma annunciata, «di esprimere in maniera rinnovata la perenne vitalità della Chiesa in preghiera, avendo premura “affinché i fedeli non assistano come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente, attivamente”».  

Proprio nei libri liturgici promulgati dal Beato Montini trovò forma la direzione tracciata dal Concilio, «secondo il principio del rispetto della sana tradizione e del legittimo progresso», che fu ben accolta dagli stessi vescovi presenti all’assise e ormai da quasi 50 anni «universalmente in uso» nel Rito Romano. Tuttavia, osserva il Pontefice, «l’applicazione pratica è ancora in atto», poiché «non basta riformare i libri liturgici per rinnovare la mentalità».  

Il processo innestato dai libri riformati dai decreti conciliare richiede ancora «tempo, ricezione fedele, obbedienza pratica, sapiente attuazione celebrativa da parte, prima, dei ministri ordinati, ma anche degli altri ministri, dei cantori e di tutti coloro che partecipano alla liturgia», spiega Francesco. «L’educazione liturgica di Pastori e fedeli» è dunque una «sfida» da affrontare «sempre di nuovo».  

Il lavoro è tanto: bisogna riscoprire «i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano», afferma il Papa. «Non si tratta - aggiunge - di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola». Perché «la riforma liturgica è irreversibile».   

Papa Francesco si sofferma quindi sul tema che ha animato i lavori del CAL, “Una Liturgia viva per una Chiesa viva”«La liturgia è “viva”», evidenzia Bergoglio, in ragione della «presenza reale del mistero di Cristo». Senza quella «non vi è nessuna vitalità liturgica». «Come senza battito cardiaco non c’è vita umana, così senza il cuore pulsante di Cristo non esiste azione liturgica».  

Tra i segni visibili di questo invisibile Mistero vi è «l’altare», segno «di Cristo pietra viva», sottolinea il Pontefice. Perciò «l’altare, centro verso cui nelle nostre chiese converge l’attenzione, viene dedicato, unto con il crisma, incensato, baciato, venerato: verso l’altare si orienta lo sguardo degli oranti, sacerdote e fedeli, convocati per la santa assemblea intorno ad esso; sopra l’altare viene posta l’offerta della Chiesa che lo Spirito consacra sacramento del sacrificio di Cristo». 

La liturgia, inoltre, aggiunge Papa Francesco, «è vita per l’intero popolo della Chiesa» perché per sua stessa natura essa è «popolare e non clericale». È, cioè, «un’azione per il popolo, ma anche del popolo», «l’azione che Dio stesso compie in favore del suo popolo, ma anche l’azione del popolo che ascolta Dio che parla e reagisce lodandolo, invocandolo, accogliendo l’inesauribile sorgente di vita e di misericordia che fluisce dai santi segni».  

Questa Chiesa orante «raccoglie tutti coloro che hanno il cuore in ascolto del Vangelo, senza scartare nessuno». Sono convocati «piccoli e grandi, ricchi e poveri, fanciulli e anziani, sani e malati, giusti e peccatori», e non vi è alcun ostacolo di «età, razza, lingua e nazione». «La portata “popolare” della liturgia ci ricorda che essa è inclusiva e non esclusiva, fautrice di comunione con tutti senza tuttavia omologare, poiché chiama ciascuno, con la sua vocazione e originalità, a contribuire nell’edificare il corpo di Cristo», annota il Papa. «L’Eucaristia non è un sacramento “per me”, è il sacramento di molti che formano un solo corpo, il santo popolo fedele di Dio». Non va dimenticata, allora, la «pietas» di tutto il popolo di Dio espressa nella liturgia che si prolunga in «pii esercizi e devozioni» che - raccomanda il Papa - bisogna «valorizzare e incoraggiare in armonia con la liturgia». 

Non va dimenticato anche che «la liturgia è vita e non un’idea da capire»: essa «porta a vivere un’esperienza iniziatica, ossia trasformativa del modo di pensare e di comportarsi, e non ad arricchire il proprio bagaglio di idee su Dio». Le «riflessioni spirituali» sono perciò ben altra cosa: «C’è una bella differenza tra dire che esiste Dio e sentire che Dio ci ama, così come siamo, adesso e qui. Nella preghiera liturgica sperimentiamo la comunione significata non da un pensiero astratto ma da un’azione che ha per agenti Dio e noi, Cristo e la Chiesa», chiarisce Bergoglio.  

Riti e preghiere diventano pertanto «una scuola di vita cristiana» «per quello che sono e non per le spiegazioni che ne diamo». «La Chiesa - aggiunge Papa Francesco - è davvero viva se, formando un solo essere vivente con Cristo, è portatrice di vita, è materna, è missionaria, esce incontro al prossimo, sollecita di servire senza inseguire poteri mondani che la rendono sterile».  

Il Vescovo di Roma allarga infine lo sguardo e rimarca che «la ricchezza della Chiesa in preghiera in quanto “cattolica” va oltre il Rito Romano, che, pur essendo il più esteso, non è il solo». «L’armonia delle tradizioni rituali, d’Oriente e d’Occidente, per il soffio del medesimo Spirito dà voce all’unica Chiesa orante per Cristo, con Cristo e in Cristo, a gloria del Padre e per la salvezza del mondo».  

Di qui un incoraggiamento ai responsabili del Centro di Azione Liturgica a proseguire il proprio lavoro di «servire la preghiera del popolo santo di Dio» tenendo fede all’ispirazione originale, insieme al mandato di «aiutare i ministri ordinati, come gli altri ministri, i cantori, gli artisti, i musicisti, a cooperare affinché la liturgia sia “fonte e culmine della vitalità della Chiesa”»


Fonte: http://www.lastampa.it/2017/08/24/vaticaninsider/ita/vaticano/ilpapala-riforma-liturgica-irreversibile-5fhcOykrmwpUmpz2u5bt2L/pagina.html

Il testo del discorso sull'Osservatore Romano: 
http://www.osservatoreromano.va/vaticanresources/pdf/QUO_2017_193_2508.pdf

mercoledì 23 agosto 2017

San Giuseppe di Calasanzio, prete (25 agosto)



Giuseppe Calasanzio nacque a Peralta de la Sal, Aragona settentrionale, nell’anno 1557, ed è morto a Roma il 25 agosto 1648. E’ stato ordinato sacerdote a ventotto anni. Dopo un tentativo di vita eremitica, si recò a Roma con l’incarico di teologo del cardinale Marco Aurelio Colonna. Colpito dalla ignoranza e dall'abbandono, in cui vivevano i ragazzi di Trastevere, aprì nella parrocchia di santa Dorotea la prima scuola gratuita. Non tardò a incontrare collaboratori e fondò la Congregazione dei Chierici Regolari delle Scuole Pie. In seguito, dopo diverse vicende, la Congregazione si trasformò in Ordine dei Chierici Regolari dei Poveri della Madre di Dio e delle Scuole Pie (Scolopi). Il Messale Romano 1962 venera il santo educatore il 27 agosto; il Messale Romano 2002 ne fa memoria nel suo “dies natalis”, il 25 agosto.

Colletta del MR 1962:
Deus, qui per sanctum Iosephum Confessorem tuum, ad erudiendam spiritu intelligentiae ac pietatis iuventutem, novum Ecclesiae tuae subsidium providere dignatus es: praesta, quaesumus; nos eius exemplo et intercessione, ita facere et docere, ut praemia consequamur aeterna.

Colletta del MR 2002:
Deus, qui beatum Iosephum presbyterum tanta caritate et patientia decorasti, ut pueris erudiendis omnique virtute exornandis constanter incumberet, concede, quaesumus, ut, quem sapientiae praeceptorem colimus, veritatis cooperatorem iugiter imitemur.

“O Dio, che hai dato al tuo sacerdote san Giuseppe Calasanzio doni straordinari di carità e di pazienza per consacrare la sua vita all’insegnamento e all’educazione dei giovani, concedi a noi, che lo veneriamo maestro di sapienza, di essere come lui cooperatori della tua verità”.


La nuova colletta del MR 2002 è costruita con parole tratte dalle pagine degli “Scritti” di san Giuseppe Calasanzio sull’educazione dei fanciulli, riportate dall’Ufficio delle letture. Infatti il santo dice che “la missione educatrice richiede molta carità, pazienza a tutta prova”, e più avanti afferma che l’educatore si sente, tra l’altro, scelto da Dio “come cooperatore della verità”. Carità e pazienza le dimostrò il santo in modo particolare anche di fronte alle invidie e calunnie quando finì per essere destituito dall’incarico  di superiore generale del suo Ordine.

domenica 20 agosto 2017

LE ARTI SACRE




Jean-Yves Hameline, Poetica delle arti sacre, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2017. 200 pp.


Questo insieme di testi rappresenta un notevole e originale contributo alla ricerca nell’ambito dell’antropologia rituale. In una vera e propria escursione poetica nell’universo della liturgia, questi scritti colgono la complessità dell’esperienza liturgica accostandola come una dinamica che si gioca a più livelli e nella quale si intrecciano riferimenti di tempo e di spazio, aspetti sensoriali, visivi, sonori, olfattivi. Sostando sui riti, sui gesti, sulle cose con uno sguardo rinnovato dal concorso delle scienze umane, l’autore ci aiuta a ripensare l’esperienza liturgica in quanto pratica della fede.

(Quarta di copertina)

sabato 19 agosto 2017

DOMENICA XX DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 20 Agosto 2017

 

Is 56,1.6-7; Sal 66 (67); Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28

Il Sal 66, composto in epoca postesilica, esprime la gioia primitiva del contadino palestinese che, da una terra avara, ha ottenuto il dono delle messi, segno sperimentabile della benedizione divina. A questa felicità spontanea è chiamato a partecipare il mondo intero che dal Creatore attende il sostentamento fisico e la guida in mezzo alle stagioni della storia. Nel testo salmico compare una specie di ritornello, in cui tutte le nazioni sono invitate a lodare Iddio. Si tratta quindi di un salmo che ha una chiara visione universalistica, una preghiera a dimensioni planetarie. La liturgia della Parola orienta la nostra riflessione verso la presa di coscienza che la salvezza donata da Cristo è per tutti i popoli.

La prima lettura, è il brano iniziale del cosiddetto Terzo Isaia (cc. 56-66) che risale al periodo del ritorno di Israele in patria dopo la dolorosa esperienza dell’esilio in Babilonia. Si tratta di uno degli passaggi dell’Antico Testamento che meglio esprime la nuova coscienza religiosa venutasi a formare in Israele: non più la rivendicazione di un Dio nazionale, ma di un Dio che vuol far giungere a tutti i popoli la salvezza. Ecco allora che il tempio, da segno di identità religiosa nazionale diventa per il profeta la “casa di preghiera per tutti i popoli”, per tutti quegli uomini che amano e servono il Signore, anche senza conoscerlo, ma che praticano la sua giustizia, a qualunque razza, popolo o gruppo appartengano. Anche se Isaia esige la “non profanazione del sabato” e il pellegrinaggio al “monte santo” di Sion, atti tipicamente appartenenti al patrimonio culturale e tradizionale ebraico, il testo del profeta lascia intravedere come nel rapporto con Dio ciò che conta veramente è l’alleanza con lui e non steccati e pregiudizi umani

Il brano evangelico illustra e approfondisce lo stesso tema della prima lettura. L’episodio narrato è quello della donna cananea, quindi non appartenente al popolo eletto, che si presenta a Gesù per chiedere la guarigione della propria figlia. Il racconto, nonostante certe asprezze nel dialogo tra Gesù e la cananea, volute appositamente da san Matteo per sottolineare la fede della donna e la precedenza di Israele nel piano della salvezza, indica chiaramente in Gesù la piena disponibilità al dialogo con ogni persona, anche con i pagani, le persone più disprezzate dai suoi connazionali. In questo racconto, Matteo si rende interprete della mentalità circolante in una Chiesa giudeo-cristiana. In essa il senso della priorità di Israele rimane alto, tuttavia deve essere educata a riconoscere, senza riserve, la possibilità per i pagani di essere inclusi nell’orizzonte della salvezza. Per entrare nel regno dei cieli, per appartenere al nuovo popolo di Dio ciò che conta è la fede viva, attiva, perseverante e non l’appartenenza etnica o genealogica, perché la salvezza che Dio offre è destinata a raggiungere tutti i popoli della terra.

San Paolo ci ricorda nella seconda lettura che neppure il popolo di Israele, che non ha riconosciuto in Gesù il Messia, è escluso dalla salvezza. Anzi, questo popolo, scelto da Dio per attuare il suo piano salvifico, è destinato ad essere oggetto particolare della misericordia di Dio. Infatti, la salvezza è offerta a tutti senza eccezioni. Essa si configura quindi come una esperienza di unità e di pace fra gli uomini e non di lotte e divisioni. Tutti sono chiamati alla salvezza, perché essa è opera di Dio, dono gratuito della sua misericordia. L’universalità della salvezza, intuita nell’Antico Testamento, viene chiaramente affermata dall’azione di Gesù a favore della cananea  e applicata in modo più esteso da Paolo nel suo impegno missionario.


martedì 15 agosto 2017

QUESTO MALE-DETTO “NOVUS ORDO”…



Luigi Martinelli, “Missa” in scena. Riflessioni teatrale sulla liturgia, Cavinato Editore International, Brescia 2017. 360 pp.


Il giovane Autore Luigi Martinelli, laureato in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo, attraverso una comparazione con il mondo del teatro e dello spettacolo, intende suggerire alla liturgia proposte di cambiamento e di riforma perché, secondo lui, “la crisi liturgica contemporanea ha imbrigliato la liturgia cattolica nel verbalismo, nella sovraesposizione fonetica e nel creativismo”.

Pur riconoscendo la validità del discorso che riguarda il rapporto tra rito e teatro, qui mi soffermo solo su ‘alcuni’ aspetti della parte propriamente liturgica del volume. L’Autore, pur non proponendo il ritorno al Vetus Ordo (VO), ne esalta la performance probabilmente perché il volume è anche il racconto della propria esperienza; infatti egli afferma che dopo aver “sperimentato la noia e l’inespressività di certe liturgie cattoliche post-conciliari”, si è sentito “sfiorato potentemente dal senso del Sacro, dalla grazia salvifica di Cristo” nella partecipazione al VO (pp. 244-246).

Come ha scritto Loris Della Pietra, “di fronte agli accenti polemici di chi lamenta la sparizione di un presunto 'senso del mistero', occorre ribadire che esso non può essere confinato in una fase evolutiva del rito romano e tanto meno in quegli aspetti che tendono piuttosto a occultare che a mostrare, ma è dato e mediato dalla partecipazione alle modalità 'linguistiche' proprie del rito” (Una Chiesa che celebra, Messaggero, Padova 2017, p. 57). Credo che le modalità linguistiche del Novus Ordo (NO) possono introdurre in una vera esperienza del mistero celebrato. 

Come dice Tommaso d’Aquino, “il culto esterno è sempre ordinato principalmente a disporre gli uomini al rispetto verso Dio” (totus exterior cultus Dei ad hoc praecipue ordinatur ut homines Deum in reverentia habeant). (Iª-IIae q. 102  a. 4 co.). Noto che lOrdinamento generale del Messale Romano (OGMR) fa sovente riferimento alla “riverenza” con cui si devono gestire i diversi momenti della celebrazione (al riguardo, si può leggere M. Brulin, Requête de sacralité ou entrée dans le Mystère? L’aport de la PGMR 2002, in La Maison-Dieu, n. 257, 2009/1, 99-129).

Il nostro Autore, dopo affermare che il NO ha il difetto di essere troppo verboso, dice che “un grande esempio di come disporre il silenzio ‘attivo’ nella liturgia ci viene dato dalla liturgia romana nella forma straordinaria”. Non c’è dubbio che la forma ordinaria e piuttosto verbosa, in modo particolare quando alle parole del libro liturgico vengono aggiunte altre dal celebrante o dagli eventuali commentatori.  

Quando parliamo di silenzio, però, nella celebrazione liturgica, quindi anche nella celebrazione col NO, non parliamo solo dei momenti di silenzio in senso stretto, che sono pur previsti (e gestiti bene, non sono semplici pause), ma parliamo anche e soprattutto di un atteggiamento ‘silenzioso’, che può permeare l’intera celebrazione se gestita in modo dovuto. Infatti anche le parole del rito sono in qualche modo silenziose, perché non nascono dalle nostre chiacchiere quotidiane che si moltiplicano con la stessa rapidità con cui svaniscono, ma permangono di generazione in generazione e si dispongono sulla bocca dei celebranti (presbiteri o laici) per aiutarli a dialogare con Dio (cf. SC 33). Quando il lettore proclama i testi biblici, non pronuncia parole proprie; potremmo dire che egli non parla affatto: dicendo la Parola di Dio, il lettore fa silenzio, poiché fa tacere le proprie parole. Ma anche compiendo il gesto di Cristo, il presbitero all’altare fa silenzio, ossia sospende il suo gesticolare quotidiano. Il chiacchierare e il gesticolare lasciano il posto alla parola e al gesto in cui l’uomo non si disperde ma ritrova se stesso, la parola e il gesto in cui riposano le radici dell’esistenza umana e in cui si può scorgere Dio: “quando la Chiesa prega o canta o agisce, la fede dei partecipanti è alimentata, le menti sono elevate verso Dio per rendergli un ossequio ragionevole e ricevere con più abbondanza la sua grazia” (SC 33). (Su questo argomento, invito a leggere Giorgio BonaccorsoLiturgia e comunicazione, in F. Lever – P. C. Rivoltella – A. Zanacchi, edd., La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (11/08/2017).

Luigi Martinelli dirà forse che queste mie parole sono “dichiarazioni roboanti dei teorizzatori, dei creatori e dei sostenitori della liturgia postconciliare” (p. 156). Nulla di tutto ciò. La forma ordinaria del rito romano, celebrata bene, funziona. Ciò non toglie che l’esperienza di questi ultimi decenni possa anche raccomandare qualche ritocco per renderla meno verbosa e dare il posto dovuto alla dimensione corporale, al gesto, insomma alla dimensione rituale. Al tempo stesso però è evidente che il contenuto ha una sua importanza; la dottrina dei testi ha conosciuto nel NO un arricchimento che va conservato. La partecipazione è “per ritus et preces”.

L’Autore afferma che “la forma ordinaria del rito romano allo stato attuale non riesce ad appagare la fame di sacro e la sete di mistero…” (p. 141) e quindi ciò spinge talvolta ad una creatività selvaggia che rischia di svuotare la liturgia dalle sue peculiarità originali. Purtroppo sono situazioni abusive documentate anche se non generalizzate. Per superarle basterebbe, ripeto, celebrare in modo dignitoso secondo le norme dell’OGMR. Se i rischi del NO sono questi e altri simili, noto che anche il VO ha i suoi rischi ampiamente documentati negli anni passati, di cui sono testimone per avervi partecipato nei 14 anni di seminario e nei primi dieci anni di sacerdote.

Mi sono abituato a sentir parlare male del NO e, pur prendendo sul serio le critiche che gli si rivolgono, ogni volta sono più convinto che questo male-detto NO ha delle possibilità immense di introdurmi in una vera esperienza del Mistero.

M.A.



domenica 13 agosto 2017

ASSUNZIONE DELLA B. V. MARIA – Messa del giorno






Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44 (45); 1Cor 15,20-27°; Lc 1,39-56

Nella molteplicità di spunti per la nostra riflessione che offrono le tre letture bibliche di questa festività, ci limitiamo qui a far emergere alcuni elementi che mettono in stretto rapporto il  mistero della Chiesa con Maria nel mistero della sua assunzione.

Nella visione, tratta dall’Apocalisse, che riporta la prima lettura, si contrappongono due immagini o “segni”, come dice il testo di Giovanni: la “donna” e il “drago”. Da un lato, la donna vestita di sole che partorisce “un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro”; il figlio è rapito “verso Dio e verso il suo trono”. Sembra chiaro che qui si parla di Cristo che, in virtù della risurrezione e ascensione al cielo, si è assiso alla destra di Dio. La donna invece è in primo luogo segno della Chiesa nella sua dimensione trascendente e terrena che, storicamente, dà alla luce Cristo. Ma il testo fa riferimento anche a Maria, la madre di Gesù, facendone come l’immagine e il “tipo” della Chiesa. Ciò è provato da una lunga tradizione ecclesiale e dal fatto che la liturgia abbia scelto questo brano per la festa odierna: con la sua assunzione in corpo e anima al cielo, Maria partecipa pienamente alla gloria del Figlio; con lui, che siede alla destra del Padre, anche lei è avvolta dallo stesso splendore di gloria.  

L’altro segno è l’ “enorme drago rosso”, che si colloca davanti alla donna, che sta per partorire, in modo da divorare il bambino appena sia nato. Questo drago è simbolo di una forza antagonista di origine demoniaca e di carattere dissacratore che, incarnandosi in fatti e personaggi storici, perseguita la Chiesa e cerca di impedirne la sua missione. L’esito della lotta sarà positivo: il figlio è rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fugge nel deserto, dove Dio le ha preparato un rifugio. Da parte sua, Maria ai piedi della croce perde e acquista il Figlio, divenendo simbolo della Chiesa. Il testo conclude affermando: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo”. Il cammino della salvezza è simile al travaglio di un parto.

Nel brano evangelico, notiamo le parole che Elisabetta indirizza a Maria: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. E’ la prima beatitudine che risuona nel vangelo. Maria è lodata perché ha creduto, cioè ha fatto sua la parola del Signore. Come Abramo per la sua fede diedi inizio al popolo di Dio ed è chiamato “Padre dei credenti”, così Maria per la sua fede è diventata la “Madre dei credenti”. La fede di Maria è icona perfetta della fede della Chiesa. Tra  Maria e la Chiesa c’è un parallelo fecondo e ammirevole: entrambe accolgono la parola di Dio, vivono di fede, portano intorno la gioia della fede, partecipano della vita di Cristo. Quello che la Chiesa attende si compia in lei (la risurrezione con Cristo) è già una realtà nell’Assunta.


Il prefazio della Messa riassume bene il rapporto tra la Chiesa e Maria nel mistero della sua assunzione: “In Maria, primizia e immagine della Chiesa, hai rivelato il compimento del mistero di salvezza e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza”. L’assunzione di Maria non riguarda soltanto lei, le grandi opere compiute da Dio nella sua umile serva (cf. il Magnificat riportato dal vangelo), ma è segno di sicura speranza  per tutto il popolo di Dio.

venerdì 11 agosto 2017

DOMENICA XIX DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 13 Agosto 2017

1Re 19,9a.11-13°; Sal 84 (85); Rm 9,1-5; Mt 14,22-33


Il Sal 84 è una preghiera che fa riferimento al “ritorno” di Israele alla sua terra e al suo Dio e al ritorno  di Dio verso Israele. In questo contesto, l’orante proclama che la presenza di Dio è fonte di serenità e di pace. Il testo, che è anche un oracolo profetico, lascia presagire una manifestazione di Dio stesso sulla terra e il rinnovamento dell’universo in questo incontro tra Dio e gli uomini: si profila all’orizzonte della storia d’Israele l’avvento imminente del Messia. Quando noi quindi ripetiamo il ritornello “Mostraci, Signore, la tua misericordia”, sappiamo che questa supplica ha trovato nell’avvento di Cristo nel mondo il suo compimento. Solo però con l’avvento finale di Cristo la pace e la giustizia raccoglieranno, in un unico abbraccio, il cielo e la terra.

Oggi, come di solito nelle altre domeniche del Tempo ordinario, il brano dell’Antico Testamento e quello evangelico del Nuovo Testamento coincidono tematicamente. Non è ozioso rammentare che la nostra fede professa l’unità dei due Testamenti, di cui lo stesso e unico Dio è ispiratore e autore. Nella seconda lettura odierna, san Paolo ricorda ai romani che l’esperienza cristiana non si pone in linea di totale rottura rispetto all’esperienza di Israele, anzi ne è la prosecuzione e il compimento. Vediamo quindi quale sia il messaggio unitario delle letture prima e terza.

La prima lettura narra la manifestazione di Dio ad Elia. L’episodio va collocato nel suo contesto. Dopo che Elia aveva vinto la sfida del Carmelo con i falsi profeti di Baal e li aveva anche fatto uccidere, la regina Gezabele venuta a conoscenza del fatto fece ricercare Elia per ucciderlo. Ecco quindi che il profeta, per evitare le ire di Gezabele, fugge nel deserto, con il cuore carico di amarezza. In questo momento tragico della sua vita avviene l’incontro di Elia con Dio, il quale si manifesta al profeta nel “sussurro di una brezza leggera”. Dio si rivela non tanto nel prodigioso e nel sensazionale, ma piuttosto nel silenzio, nell’interiorità del rapporto con lui. Dio ha dato prova della sua vicinanza al profeta in un momento difficile, ma anche lo invita a riprendere la via del deserto, a rimettersi senza paura nella sua missione.

Anche l’episodio narrato dal vangelo parla di Dio che si rivela in Gesù Cristo. Gesù si manifesta ai discepoli come il Signore che si muove liberamente tra le forze del mare e questo serve a educare la loro fragile fede, a fidarsi di lui. Il fantasma che fa gridare dalla paura i discepoli, quello è Gesù. Il significato dell’episodio è chiaro: Gesù si rivela come colui che è presente per salvare i suoi nei momenti di pericolo, quando tutte le energie sono ormai state spese. Dio è presente, attivo, specialmente nei momenti di difficoltà e di lotta. E’ la fede che apre i nostri occhi alla presenza di Dio nella nostra vita: essa rompe ogni paura, ci fa uscire dalle nostre sicurezze per mandarci incontro a lui. 

Gesù ripete anche a noi le parole indirizzate ai discepoli: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. Il Signore che domina tutto il creato rafforza la nostra fede così che possiamo riconoscerlo presente in ogni avvenimento della storia, in ogni circostanza della nostra vita, per affrontare serenamente ogni prova, camminando con lui nella pace. La promessa di Cristo di essere presente nella sua Chiesa, si compie in molte maniere, ma soprattutto quando riuniti in assemblea celebriamo e partecipiamo all’eucaristia.


lunedì 7 agosto 2017

COSA ABBIAMO IMPARATO A 10 ANNI DAL MOTU PROPRIO SP DI BENEDETTO XVI



Massimo Faggioli insegna storia del cristianesimo nel Dipartimento di Teologia della University of St. Thoma, a St.Paul-Minnneapolis, in Minnesota. “Il Regno. Attualità e Documenti”, n. 1262 (15 luglio 2017), ha pubblicato un suo intervento dal titolo “Summorum Pontificum”. Tradizione e tradizionalismo, Che cosa abbiamo imparato a 10 anni del Motu proprio di Benedetto XVI (pp. 389-390). In seguito riproduco la parte centrale del testo.


[…]
«Non ci sono dubbi che Benedetto XVI abbia espresso e incarnato un chiaro spostamento da un magistero che vedeva il Vaticano II come parte della tradizione della Chiesa verso un magistero che vedeva il rapporto tra la tradizione della Chiesa e il Vaticano II in termini molto più complessi e problematici.

Su alcuni temi come la riforma liturgica Benedetto XVI non ha esitato ad esprimersi, sia prima della sua elezione al pontificato sia dopo, come sugli elementi che a suo parere pongono il Concilio e la tradizione della Chiesa in un rapporto di tensione, se non di contrasto. Anche se è certo troppo presto per valutare gli effetti a lungo termine di Summorum Pontificum, è necessario iniziare questo sforzo.

Ad esempio, dopo dieci anni è sorprendente rileggere il tentativo precipitoso, e fallito, di Benedetto di interrompere la tendenza a interpretare il motu proprio come denuncia del Vaticano II, cosa che, di fatto, è diffusa nei circoli cattolici tradizionalisti. “In primo luogo, c’è il timore che qui venga intaccata l’autorità del concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali – la riforma liturgica – venga messa in dubbio” scriveva il papa emerito nella lettera che accompagna Summorum Pontificum.

Tuttavia, aggiungeva: “Tale timore è infondato”. Inoltre, Benedetto esprimeva la convinzione che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Su entrambi gli aspetti, però, la realtà di questi ultimi dieci anni ha prodotto qualcosa di molto diverso dalle intenzioni dichiarate dal papa. Anzi, la polemica contro il Vaticano II è stata una componente chiave dell’entusiasmo (e, ora, della nostalgia) per il suo pontificato, mentre la coesistenza delle due forme del rito romano all’interno di particolari comunità rimane una chimera.

Tuttavia, esistono due fenomeni che sono parte del paesaggio ecclesiale e teologico del cattolicesimo romano post-Summorum Pontificum e che sono difficilmente separabili dal pontificato di Benedetto XVI. Il primo fenomeno è che Summorum Pontificum ha rafforzato il mondo preesistente e sociologicamente limitato del tradizionalismo liturgico e lo ha proiettato sul più vasto mondo della Chiesa cattolica, specialmente nei contesti di lingua inglese.

Ha dato legittimità teologica a punti di vista tradizionalisti sulle riforme liturgiche del Vaticano II. Ha accresciuto la visibilità della liturgia tradizionalista negli spazi virtuali della Chiesa cattolica. Negli ultimi dieci anni, i social media sono diventati sempre più un forum dove il popolo di Dio può far sentire la propria voce. Le immagini di paramenti elaborati utilizzati per le celebrazioni liturgiche pre-Vaticano II sono diventati parte della dieta quotidiana di coloro che seguono la vita delle Chiese locali e anche di importanti leader della Chiesa.

Questo ha avuto un impatto significativo su parti consistenti del cattolicesimo romano contemporaneo e di quello futuro, soprattutto sui giovani cattolici impegnati e sui convertiti di recente da altre tradizioni cristiane (specialmente dalle Chiese della Riforma protestante), nonché sui seminaristi e giovani sacerdoti.

Il secondo fenomeno è stato la riduzione a tradizionalismo della teologia di Joseph Ratzinger. In effetti, Summorum Pontificum ha contribuito a distorcere notevolmente l’eredità teologica complessiva di uno dei più importanti teologi del XX secolo. Se l’enfasi di Joseph Ratzinger è stata sulla tradizione della Chiesa (“continuità e riforma”), il pontificato di Benedetto XVI è stato ridotto, soprattutto in questi ultimi anni, a un’icona del tradizionalismo (contro ogni tipo di sviluppo teologico, visto come “discontinuità e rottura”).

Il tradizionalismo liturgico ha contribuito a una comprensione tradizionalistica del cattolicesimo fino a diventare un problema e una sfida per papa Francesco, al punto che l’anno scorso (11 luglio 2016) ha sentito la necessità di intervenire. In un comunicato diffuso dalla Sala Stampa della Santa Sede, ha smentito la cosiddetta “riforma della riforma liturgica”, che il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, aveva sostenuto ancora una volta, pochi giorni prima, durante una conferenza (“Towards an Authentic Implementation of Sacrosanctum Concilium”) al III convegno dedicato alla “Sacra Liturgia” in svolgimento a Londra.

La dichiarazione vaticana avvertiva del fatto che l’espressione “riforma della riforma” poteva essere “fonte di equivoci”, ma ha anche chiarito che Francesco non aveva intenzione di eliminare il tradizionalismo liturgico cattolico. Piuttosto voleva che rimanesse nello spazio limitato e specifico che il suo predecessore gli aveva assegnato.

La forma straordinaria che è stata permessa dal papa Benedetto XVI per le finalità e con le modalità da lui spiegate nel motu proprio Summorum Pontificum, non deve prendere il posto di quella ordinaria, diceva il comunicato. L’intervento di papa Francesco è notevole, anche perché il suo pontificato certamente non può essere accusato di progressismo liturgico, alla luce dell’enfasi sulle devozioni, e in particolare sulla devozione mariana, e sui santuari»

[…]

domenica 6 agosto 2017

INIZIAZIONE ALLA VITA CRISTIANA



Manlio Sodi – Alessandro Toniolo, Descendit Christus, descendit et Spiritus. L’Iniziazione alla vita cristiana in Ambrogio di Milano. Spiegazione del Credo – i Sacramenti – i Misteri – Explanatio Symboli – De Sacramentis – De Mysteriis – Textus et Concordantia (Veritatem inquirere 2), Presentazione di Cesare Alzati, Lateran University Press 2016. 373 pp.

L’opera è articolata in tre parti, precedute da una preziosa “Presentazione” del prof. Cesare Alzati che inquadra il senso della pubblicazione ambrosiana.

La prima parte offre un’adeguata “Introduzione” che permette di cogliere la logica e i contenuti dell’iniziazione cristiana quale si attuava ai tempi di S. Ambrogio. Sono pagine determinanti per entrare nello specifico dell’opera che nella seconda parte racchiude i testi dell’Explanatio Symboli, del De Sacramentis e del De Mysteriis, predisposti con numerazione marginale unitaria in modo da elaborare con precisione la Concordantia.

E la terza parte, la più sviluppata ovviamente, è costituita dalla Concordanza verbale delle tre opere. In tal modo si offre una strumentazione adeguata per entrare nello specifico del linguaggio liturgico usato da Ambrogio, e completare in tal modo una pagina di terminologia che può dialogare con i linguaggi dei sacramentari che nei secoli immediatamente successivi costituiranno il patrimonio eucologico più ricco che abbia mai avuto l’Occidente.

(Quarta di copertina)