La liturgia è “l’esercizio della funzione (munus) sacerdotale di Cristo” (SC 7); è anche opera della Chiesa, in cui “ciascuno, svolge il proprio ufficio (munus)” (SC 28). I pastori “esercitano in essa la funzione (munus) di dispensatori dei misteri di Dio” (SC 19). Partecipando alla liturgia il Signore “fa di noi stessi un’offerta (munus) eterna a lui” (SC 12). “Munus” può esprimere bene il mistero liturgico nella sua globalità.
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lunedì 30 settembre 2019
MOTU PROPRIO “APERUIT ILLIS”
Papa Francesco,
col Motu proprio “Aperuit illis” di quest’oggi (30 settembre 2019) ha stabilito
che “la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione,
riflessione e divulgazione della Parola di Dio”
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190930_aperuit-illis.html
La scelta di
questa Domenica sembra opportuna dato che le due prime Domeniche del Tempo
Ordinario prolungano in qualche modo il Tempo della manifestazione del Signore:
La I Domenica celebra
il Battesimo del Signore, in cui una voce dal cielo proclama: “Questi è il
Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”.
Nella II Domenica si legge: Gv 1,29-34 (Anno A), Gv
1,35-42 (Anno B), in cui il Battista, vedendo Gesù venire verso di lui, lo
indica ai suoi discepoli come “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato
del mondo”; nell’Anno C si legge Gv 2,1-11 sulle nozze di Cana, in cui “Gesù
manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.
A partire
dalla III Domenica inizia la lettura semicontinua dei Vangeli sinottici.
domenica 29 settembre 2019
SCAMBIARSI UN SEGNO DI PACE
IL FATTO. La
messa è divisa in tante parti – almeno tre – e si svolge sempre secondo lo
stesso schema ben noto a tutti, anche a voi che non ci andate più dai tempi
della cresima (no, il vostro matrimonio non vale). A un certo punto succede che
il prete dica questa frase: “Scambiatevi un segno di pace!” Ehi, tu che stai là
in fondo e che non vedo mai, girati a destra e sinistra e porgi la mano al tuo
vicino di panca dicendo una cosa semplice: “La Pace sia con te”. Più facile di
così. Tu ti giri e allunghi la mano verso la minuta signora anziana al tuo
fianco; lei fa la stessa cosa e mentre dice “la pascc”, o anche solo “ascc”,
non stringe la tua mano ma la sfiora con diffidenza e ti guarda dritto sotto il
pomo d’Adamo. L’operazione dura circa due secondi e mezzo. I più motivati si
voltano anche verso chi è seduto dietro. Scambio della pace finito, la messa
continua. Quell’anziana signora non la rivedrai mai più.
IL PERICOLO. Il
pericolo è credere che così la pace sia stata effettivamente scambiata. Il
pericolo è pensare che quei due secondi e mezzo ti abbiano riconciliato con
tutta una comunità che in realtà nemmeno conosci. In un piccolo gesto dovrebbe
esplodere la fraternità di persone amiche nel senso evangelico, fratelli e
sorelle che ti aiutano a portare i tuoi pesi. Un gesto è un segno di qualcos’altro
che però non c’è (CCC 1145). E la riprova è che finita la messa te ne esci di
corsa per andare a infornare l’arrosto e gli altri fanno lo stesso. Il precetto
è assolto. Buon appetito a tutti.
LE TATTICHE. Qui
è facile. Al momento giusto, prima di dire “La pace sia con te”, prendete la
mano della vecchietta e tenetela ben stretta. Non mollare la presa e iniziate a
fare domande. Come si chiama signora? Dove abita? Suo marito non c’è? Io abito
qui vicino e questa è mia moglie Pippa. Abbiamo cinque figli ma non riusciamo
più a portarli a messa. Lei ha figli? E oggi cosa cucina di buono? Alla fine
chiudete con la formula magica, completa e arricchita: “La pace sia con te e
buona domenica!” Magari le prime volte vi prenderanno per matti e si passeranno
la voce per non sedersi acconto a voi; poi però piano piano la faccenda
dilagherà e vedrete gente che si ferma a chiacchierare, magari si siede anche,
mostra la foto dei figli e si passa la ricetta dell’arrosto. Pensate che
differenza. In poco tempo tutti sapranno qualcosa in più degli altri e forse,
se si incontreranno nel salumiere o in pasticceria, riprenderanno allegramente
il discorso. Si chiama “simpatia”, da syn = con, insieme, e pathos
= affezione, sentimento. Sentire insieme, trovarsi bene con un altro essere
umano, anche se basso e anziano. In una parola, essere comunità. Forse chi si è
inventato il gesto dello scambio della pace a messa voleva proprio questo.
Fonte: Alberto Porro, Come sopravvivere alla Chiesa cattolica
e non perdere la fede, Bompiani 2019, pp. 27-29.
Con questo
stile provocatore, non esento di umorismo, l’autore di questo piccolo libro
tratta i seguenti temi: Andare a Messa la domenica; Ascoltare la predica; Scambiarsi
il segno di pace; Partecipare al corso fidanzati; Sposarsi in chiesa;
Partecipare a un gruppo familiare; Invitare il prete a cena a casa vostra;
Battezzare i figli; Mandare i figli a catechismo; Possedere una Bibbia; Dare
una mano al prete; Parlare con le Suore; Obbligare i figli ad andare a Messa;
Obbedire ciecamente al parroco; Fare la carità.
sabato 28 settembre 2019
DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 29 Settembre 2019
Am 6,1a.4-7; Sal 145 (146); 1Tm
6,11-16; Lc 16,19-31
La
parola di Dio ripropone il tema della domenica scorsa sull’uso dei beni
terreni. Gesù ci invitava a dare ad essi un valore relativo guardando ai beni
definitivi e ci premuniva sull’abbaglio di cui possiamo essere vittime in
questa materia quando ci ricordava che non è possibile “servire a Dio e alla
ricchezza”. In questa domenica c’è un elemento in più, l’invito a condividere i
nostri beni con gli altri. Il profeta Amos (prima lettura) pronuncia parole
dure contro i grassi borghesi di Samaria che si godono la vita incuranti della
povertà e miseria degli altri. Contro questi gaudenti il profeta prende una
chiara posizione di condanna, annunciando la fine delle feste spensierate
nonché il sopraggiungere della deportazione e dell’esilio. Non si tratta di una
condanna della ricchezza in se stessa, ma di un severo giudizio di coloro che
si servono di essa per farne strumento di corruzione e di oppressione. In
questo caso, la ricchezza diventa sorgente del potere che sfrutta e opprime.
Sullo
sfondo della dura denuncia del profeta Amos si colloca la nota parabola del
ricco epulone e del povero Lazzaro, narrata dal vangelo d’oggi. Vi troviamo
descritte due figure contrapposte. L’uomo ricco sdraiato sui divani che
banchetta lautamente. Il povero che
giace alla sua porta, bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla mensa del
ricco. I cani si sono accorti della presenza del povero e vanno a leccargli le
piaghe. L’epulone, invece, fa come se non esistesse. Il ricco non ha nome.
Nella cultura ebraica, il nome esprime la realtà profonda delle persone,
riassume la loro storia; egli non ha nome perché non ha storia. Il povero ha un
nome quanto mai significativo: “Dio aiuta”. I due personaggi del racconto
muoiono, e la loro sorte si capovolge: l’epulone si trova nell’inferno tra i
tormenti, e Lazzaro invece viene trasferito nel banchetto celeste presieduto da
Abramo. La morte non fa altro che sancire in modo definitivo e irreversibile il
destino finale degli esseri umani, quel destino che ognuno di noi costruisce
nella sua vita terrena. La logica di Dio non è quella del potere e del
successo, ma quella della misericordia, della giustizia, dell’amore. Chi lotta
per la giustizia non compie solo un’opera filantropica ma un vero e proprio
atto religioso. Il castigo che il ricco epulone si merita è dovuto proprio al
fatto che il suo comportamento contrasta radicalmente con la carità che è Dio.
Anche san Paolo nella seconda lettura (1Tm 6,11-16) ammonisce il suo discepolo
Timoteo: “tendi alla giustizia […], alla carità”.
Il
ricco epulone e Lazzaro sono il simbolo di due ordini di persone: i gaudenti
materialisti ed egoisti che limitano il loro orizzonte alla sfera presente, e
quelli invece che, nella loro povertà, conducono una vita orientata verso il
vero destino dell’uomo. La colletta della messa ci invita a essere come questi
ultimi quando ci fa chiedere a Dio la grazia affinché, camminando verso i beni
da lui promessi, “diventiamo partecipi della felicità eterna”. E l’orazione
sulle offerte afferma che la “sorgente di ogni benedizione”, non è da
ricercarsi nei beni materiali, ma nell’eucaristia.
giovedì 26 settembre 2019
Lettera e spirito del Vaticano II di fronte al Vetus Ordo. Due interviste e due “motu proprio”
Pubblicato il 26 settembre
2019 nel blog: Come se non
Negli ultimi giorni, due interviste, rilasciate rispettivamente dal Superiore generale della FSSPX (qui), sulla quale ho già scritto alcuni giorni fa (qui) e dal Prefetto della Congregazione del culto (qui) hanno chiarito molto bene le progressive difficoltà con cui la Chiesa cattolica può sopportare il permanere di un accesso al Vetus Ordo tridentino accanto e in parallelo a quel Novus Ordo, voluto dal Concilio Vaticano II e realizzato dalla Riforma liturgica ad esso successiva. Proprio il rapporto con il Concilio Vaticano II sta al centro delle opinioni espresse dai due esponenti ecclesiali:
a) Don Davide Pagliarani, nella sua lunga intervista, ha chiarito che, sulla
base del rifiuto più completo della lettera e dello spirito del Concilio
Vaticano II, solo il VO può garantire la identità cattolica. Per questo, ad
avviso del capo dei lefebvriani, non ha alcun senso tentare una riconciliazione
con la Chiesa di Roma, finché essa difende i documenti del Concilio Vaticano
II. Pertanto celebrare con il VO implica, necessariamente, la condanna sia
della lettera, sia dello spirito del Vaticano II.
b) Con una posizione diversa, ma profondamente consonante con la prima, il
card. R. Sarah ha censurato chi ritiene di ostacolare il VO e ha sostenuto che,
se interpretato “nello spirito del Vaticano II”, il VO possa offrire ancora
frutti di pastorale e di spiritualità ingenti. A suo avviso non vi sarebbe
alcuna contraddizione tra lo “spirito del Vaticano II” e la celebrazione col
VO.
Mi pare che entrambe queste posizioni, pur nella loro differenza, vivano un
problema insormontabile con il Concilio Vaticano II: il primo ne contesta
apertamente la lettera e lo spirito, mentre il secondo pretende di “onorarne lo
spirito”, ma ne dimentica e ne rimuove la lettera. Infatti il Concilio Vaticano
II ha chiesto, esplicitamente e autorevolmente, di superare il VO, perché
inadeguato alla esperienza di Cristo e della Chiesa di cui vive la fede cristiana.
Tutti coloro che, in modo poco riflettuto, pensano di poter “conciliare” NO e
VO debbono fare i conti, esplicitamente, con questa espressa volontà del
Concilio, che ha chiesto di “riformare il rito romano in vista della
partecipazione attiva dei suoi membri”, superando la loro qualità di “muti
spettatori”. E per questo ha preteso una riforma profonda degli Ordines
rituali. Il VO è apertamente e dettagliatamente contestato dal Concilio
Vaticano II, soprattutto da SC48 e seguenti.
L’azzardo voluto, in modo contingente, dal MP “Summorum Pontificum” nel
2007 mirava ad una riconciliazione con il mondo del tradizionalismo. In realtà,
come è evidente dopo 12 anni, questa generale liberalizzazione del VO ha solo
fomentato ostilità verso il Concilio Vaticano II, ha aperto lotte piuttosto che
portato pace. Ciò è dovuto ad un equivoco di fondo: non solo lo spirito, ma la
lettera del Concilio non permette di essere aggirata per troppo tempo. Se si
lascia ancora in piedi una forma rituale che è stata ufficialmente superata da
una nuova, si illude una parte del corpo ecclesiale che sia aggirabile il
Concilio e tutto ciò che questo significa. Fino ad incitare alla aperta
ribellione contro un papa come Francesco, che fa del Concilio Vaticano II
l’orizzonte ordinario del suo magistero. Vi è un legame molto più profondo di
quanto non si creda tra resistenza a Francesco e frequentazione abituale del
Vetus Ordo.
Pertanto è giunto il momento di trarre le conseguenze da questa
imbarazzante situazione di equivoco. Il cammino della Chiesa esige, oggi in
modo ancora più forte di ieri, che la liturgia cattolica si riconosca, in modo
universale, solo in una forma, quella ordinaria. L’accesso a forme superate del
rito cristiano deve essere subordinato, caso per caso, al giudizio dei vescovi
locali, che possono valutare le singole circostanze eccezionali e concedere in
forma limitata un accesso ad esse.
Questa verità, che negli ultimi 12 anni si è cercato in tutti i modi di
negare, trova il suo fondamento non solo nella “contingenza” e nella
“occasionalità” del Motu Proprio del 2007 (Summorum Pontificum, di papa
Benedetto XVI), ma anche nelle solenni dichiarazioni del Motu Proprio del 1960
(Rubricarum Instructum, di papa Giovanni XXIII). Infatti, la correzione che il
MP del 1960 è oggi in grado di offrire al dibattito distorto dell’ultimo
decennio consiste in una limpida logica di “senso comune”. Quando fu fatta
l’ultima edizione del “messale di Pio V”, nel 1962, la si fece in modo
interlocutorio, in attesa che il Concilio – che allora era già indetto anche se
non era ancora iniziato – delineasse quegli “altiora principia” in base ai
quali sarebbe stata fatta la vera riforma del messale. Pertanto non solo la
lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II non può concepire una “vigenza parallela”
tra NO e VO, ma lo stesso documento che ha prodotto il Messale del 1962, che
oggi si pretenderebbe vigente “per sempre”, lo intende come “provvisorio” a “ad
tempus”.
Grazie alle due interviste pubblicate di recente, e grazie al preciso ricordo dei due “motu proprio”, da correlare l’uno all’altro, possiamo oggi scoprire che il cammino del Vaticano II non permette di concepire un normale accesso al VO, se non mettendo in questione il Vaticano II, non solo nel suo spirito, ma anche nella sua lettera. Se possiamo capire che il Superiore dei Lefebvriani possa essere tanto critico con il Vaticano II da negarne tanto la lettera quanto lo spirito, cercando un sollievo e una resistenza soltanto nel VO, più difficile è comprendere come un Prefetto di congregazione possa dire di difenderne lo spirito, ma ne contraddica in modo tanto sconcertante la lettera.
Il “magnum principium” della riforma liturgica affermato dal Vaticano II – ossia la “actuosa participatio” – impedisce un accesso indifferenziato e incontrollato al VO. A maggior ragione con i più giovani. Questa verità oggi deve essere ripristinata con urgenza e con fermezza. Essa è decisiva per quel disegno di “chiesa in uscita” che il magistero di Francesco ha tratto, con limpida consequenzialità, dalle parole del Concilio Vaticano II. Le stesse parole che, con altrettanta consequenzialità, prendono congedo dalle forme tridentine di Chiesa e di vita cristiana.
venerdì 20 settembre 2019
Don Davide e la continuità con il Vaticano II di Amoris Laetitia e del Sinodo sulla Amazzonia
Credo che si debba ringraziare l’Abbé Davide Pagliarani, Superiore Generale
della FSPX, per la lunga intervista che si può leggere qui . La importanza di questo lungo testo può essere racchiusa in una
frase: sia pure da un punto di vista radicalmente critico, e per me del tutto
inaccettabile, apprezzo la chiarezza con cui Don Davide riconosce con estrema
chiarezza la logica di continuità tra il Concilio Vaticano II e il magistero di
papa Francesco, così come si è espresso in Amoris Laetitia e
nel Sinodo sulla Amazzonia.
Ovviamente si tratta di una lettura “catastrofica”, che legge le tappe del
pontificato di Francesco come “bombe atomiche”, come distruzioni della
tradizione, come negazioni della identità cattolica. Ma il valore esemplare
della intervista consiste nel ricondurre, con estrema linearità, tutta questa
vicenda attuale alla sua vera radice, ossia al Vaticano II, alla sua
ecclesiologia e alla sua teorizzazione del rapporto col mondo. Non si
tratta della stravaganza di un papa originale, ma della lineare conseguenza del
Vaticano II.
Di qui deriva il tono reciso e duro di negazione di ogni pluralismo, di
ogni dialogo, di ogni aggiornamento. Per questo, in Don Davide, appare del
tutto comprensibile che il simbolo del Concilio e di tutti i suoi “errori” sia
la Riforma Liturgica. Per questo, nella parte conclusiva della sua intervista,
dopo aver enumerato tutte le catastrofi che discendono dalla ecclesiologia e
dalla liturgia conciliare. egli fa della “messa tridentina” il principio di una
resistenza ad oltranza. E dice così:
“Concrètement, il faut passer à la Messe tridentine et à tout ce que cela
signifie ; il faut passer à la Messe catholique et en tirer toutes les
conséquences ; il faut passer à la Messe non œcuménique, à la Messe de toujours
et laisser cette Messe régénérer la vie des fidèles, des communautés, des
séminaires, et surtout la laisser transformer les prêtres. Il ne s’agit pas de
rétablir la Messe tridentine, parce qu’elle est la meilleure option théorique ;
il s’agit de la rétablir, de la vivre et de la défendre jusqu’au martyre, parce
qu’il n’y a que la Croix de Notre-Seigneur qui puisse sortir l’Eglise de la
situation catastrophique dans laquelle elle se trouve.”
La lettura della intervista aiuta a comprendere in modo più chiaro la
sequenza argomentativa: i disastri attuali hanno la loro radice nel Concilio
Vaticano II, il cui emblema è la Riforma Liturgica. Perciò, per resistere nella
“chiesa di sempre”, per contestare ogni pluralismo, ogni democrazia, per
opporsi al cedimento al divorzio di Amoris Laetitia e per non cadere nel
paganesimo del Sinodo sulla Amazzonia occorre “passare alla messa tridentina” e
fare del Vetus Ordo la linea di resistenza contro il Concilio e contro la sua
attuazione in mezzo a noi.
A leggere queste parole non si può non guardare alla ingenuità di una
Chiesa così tiepidamente conciliare, da aver permesso di fare di questo
programma reazionario una “possibilità pastorale” aperta ad ogni parrocchia.
Solo quando avremo capito la gravità dell’errore commesso nel 2007, con una
“liberalizzazione del rito di Pio V” sapremo correre ai ripari e rispettare
quella riforma liturgica che costituisce parte integrante del nostro rispetto
verso il Concilio Vaticano II.
Forse proprio questa intervista di Don Davide, con tutta la sua prepotente
anticonciliarità, saprà aprire gli occhi di chi non vuol vedere e le orecchie
di chi non vuol sentire. A Don Davide va dato atto di dire con estrema
durezza le cose “da fuori”. Sorprende molto che le stesse parole noi
stiamo ascoltando da 12 anni sulle bocche di uomini delle istituzioni, di preti
giovani, di preti anziani dalla memoria corta, di qualche vescovo, addirittura
di alcuni cardinali. La differenza è che Don Davide ha il coraggio di
identificare nel Vaticano II il suo nemico, mentre gli altri preferiscono “dimenticarlo”
o “rimuoverlo”. Credo che dopo Amoris Laetitia e dopo il
Sinodo sulla Amazzonia si dovrà fare chiarezza sulla liturgia. Il piede non si
può tenere in due scarpe. Soprattutto il Magistero “dei sommi pontefici” non
può restare ambiguo sul piano della liturgia. Perché questa ambiguità, questa
imparzialità tra vecchio e nuovo, questa indifferenza verso le scelte
conciliari, paralizza tutto il sistema. Per questo, in modo opposto e contrario
rispetto a lui, apprezzo molto la lucidità consequenziale e senza
fronzoli dell’Abbé Pagliarani. La liturgia è davvero decisiva, come fonte e
culmine del sistema. Se siamo ambigui sulla liturgia, tutto è
compromesso. Una delle condizioni per la attuazione di Amoris
Laetitia, e per la buona gestione del Sinodo sulla Amazzonia, è il
superamento della ambiguità reazionaria e anticonciliare di Summorum
pontificum. Ora questa evidenza, dopo le parole di Don Davide, è
diventato molto più chiara.
DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 22 Settembre 2019
Am 8,4-7; Sal 112 (113); 1Tm
2,1-8; Lc 16,1-13
Il Sal 112 è stato chiamato il Magnificat dell’Antico Testamento.
Infatti il suo contenuto ha diversi punti di contatto con l’inno di Maria.
Questo inno che Israele cantava nei giorni di Pasqua, è un invito a lodare il
Signore, il quale è presente lungo la storia della salvezza sempre pronto a
sollevare l’indigente dalla polvere e il povero dall’immondizia. Povero era
Israele quando Dio lo venne a trovare nell’Egitto per salvarlo e innalzarlo al
di sopra di tutti i popoli. Questo salmo è il canto degli ultimi che agli occhi
di Dio sono i primi. Oggi siamo invitati a riflettere sui rischi che comporta
per la nostra salvezza l’attaccamento ai beni materiali.
Per
bocca del profeta Amos (prima lettura), il Signore giura che non dimenticherà
mai le opere inique di coloro che erano a tal punto avidi e disonesti da
attendere con ansia la fine dei giorni di festa per riprendere i loro perversi
affari a danno dei clienti più poveri. Le parole del profeta sembrano dire
esattamente il contrario di quanto si deduce dalla parabola dell’amministratore
astuto riportata dal vangelo d’oggi. Infatti le parole conclusive della
parabola (“Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito
con scaltrezza”) suscitano perplessità. Gesù propone come modello il comportamento
di un amministratore disonesto, il quale davanti alla minaccia di perdere il
posto non esita a falsificare i bilanci praticando sconti ai debitori del suo
padrone in modo di assicurarsi poi da essi una qualche protezione. Notiamo però
bene, Gesù non loda la disonestà di questo amministratore, ma la sua prontezza
e scaltrezza nel prepararsi un futuro sicuro. E invita tutti gli onesti a fare
altrettanto: “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei
figli della luce”. Sia il profeta Amos che Gesù ci esortano a vivere il
presente guardando al futuro, a non malversare il tempo che ci viene dato per
conquistare i beni eterni.
La
nostra esistenza rischia di trascorrere come quella di bambini distratti mentre
il tempo della vita scorre in fretta. Gesù biasima gli uomini indifferenti,
flaccidi, amorfi, superficiali che troppo spesso costella il panorama della
società del nostro tempo. Le parole di Gesù sono quindi un invito ad
amministrare con saggezza e prudenza i talenti ricevuti, mettendo i beni sia
materiali che spirituali al servizio del progetto che Dio ha sulla storia e
sull’uomo. Gesù vuole scuotere la nostra inerzia orientando la vita di noi
tutti verso i beni definitivi, verso il
traguardo della salvezza. E per portare a buon termine questo compito,
ci viene ricordato che non possiamo “servire a Dio e la ricchezza”. Qui il
testo evangelico chiama la ricchezza con un termine di origine fenicia
“mammona”, quasi per indicare la personificazione idolatrica dei beni di questo
mondo che ci potrebbero offuscare il cammino che conduce ai veri beni, quelli
che arricchiscono presso Dio. Solo chi ha il cuore libero dalla ricchezza di
questo mondo, può essere degno della ricchezza del Regno.
La
preghiera, di cui parla la seconda lettura, è capace di incidere sui fatti
della vita operando, alla luce della fede, un diverso approccio alle cose, una
visione del mondo che ci aiuti a valutare le realtà della terra alla luce dei
valori supremi e definitivi verso cui la nostra vita è protesa. Fedeli alla
legge dell’incarnazione, preghiamo nella vita e con la vita, non fuggendo dal
mondo degli uomini. Fedeli alla legge della risurrezione, indirizziamo la
nostra preghiera verso la piena realizzazione del Regno. La celebrazione
dell’eucaristia è una preghiera di lode i di ringraziamento per il dono supremo
della salvezza in Cristo, che viene ripresentato qui per noi, affinché “la
redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita” (orazione
dopo la comunione).
domenica 15 settembre 2019
UNA INTRODUZIONE ALLA LITURGIA
Paolo Tomatis,
Vita alla sorgente. Introduzione alla liturgia e ai sacramenti (FCL
Orientamenti), Città Nuova Editrice, Roma 2019. 128 pp. (€ 18,00).
L’Autore è
consapevole della presenza e dell’importanza della dimensione rituale nella
proposta cristiana, da cui deriva una serie di domande alle quali il presente
volume intende dare una risposta. Per quanto riguarda il metodo, si prende atto
dell’impossibilità di distinguere la prassi dalla teoria che legge e interpreta
la prassi. In questo contesto, le tre parti dell’opera (I fondamenti, I
fondamentali, Le prospettive) si presentano in una successione logica e
unitaria.
Dopo una prima
parte, in cui si parla della liturgia come preghiera della Chiesa, come
celebrazione e come celebrazione del Mistero, la seconda parte intende
comprendere come il fondamento della fede celebrata si dia nei fondamentali del
corpo (gesti e parole), dello spazio e del tempo. Nell’ultima parte, dopo un’analisi
della situazione della riforma liturgica, ancora in cammino, l’Autore si sofferma
sulla polarità “Mistero e vita”, polarità che appartiene all’essenza intima
della liturgia cristiana. In seguito, il volume si chiude allargando lo sguardo
e si domanda: “dove va la vita sacramentale della Chiesa?”
Ogni pagina di
questo volumetto è interessante e merita la nostra attenzione sia per il contenuto
chiaro e profondo, sia per lo stile pacato con cui l’Autore si esprime. In ogni
modo, credo che la parte più importante per dottrina e per i riflessi sulla
prassi pastorale sia quella dedicata alle “Due polarità: il Mistero e la vita”
(pp. 105-113). Questa tensione polare, che possiamo intendere anche come quella
tra “sacro e profano”, è sovente all’origine di una varietà di attese e di
esigenze che non sempre trovano una sintesi soddisfacente nella proposta
liturgica delle comunità cristiane. Il sacro cristiano non si presenta
anzitutto come l’opposto del profano, ma come la sua profondità. Il culto
spirituale non cancella il culto rituale; semmai lo orienta e lo compone in una
prospettiva più ampia. La sfida della liturgia, afferma l’Autore, “è quella di
tenere in equilibrio la tensione tra la prossimità e la giusta distanza, tra l’incarnazione
e la trasfigurazione, facendo dell’ordo liturgico il canone di
riferimento che custodisce, nella varietà delle sensibilità e degli stili, un
accordo e un’unità complessiva, all’insegna della nobile semplicità, del culto
in ‘spirito e verità’” (p. 113).
M. Augé
venerdì 13 settembre 2019
DOMENICA XXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 15 Settembre 2019
Es 32,7-11.13-14; Sal 50 (51);
1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32
Il Sal
50, il Miserere, è uno dei salmi più
noti del salterio. La tradizione giudaica ha attribuito questa supplica di
perdono a Davide adultero con Betsabea e assassino di Uria, il marito della
donna (cf 2Sam 10-12). Probabilmente si tratta però di una composizione
posteriore al re Davide. E’ un salmo per metà improntato all’esperienza amara
del peccato, e per l’altra metà contrassegnato dalla speranza certa e gioiosa
del perdono. Si potrebbe dire che più che un canto penitenziale, il Miserere è un poema che celebra il
ritorno alla vita e alla comunione con Dio nello spirito della parabola del
figlio prodigo, letta nel vangelo d’oggi. Nei versetti ripresi dal salmo
responsoriale odierno prevale quest’ultima dimensione, che è poi quella che
meglio esprime anche il messaggio delle altre due letture bibliche della
presente domenica nonché della colletta della messa in cui chiediamo a Dio di
poter “sperimentare la potenza della sua misericordia”.
Il
cap. 15 del vangelo di Luca, che leggiamo oggi, raccoglie tre bellissime
parabole raccontate da Gesù per annunciare a tutti la misericordia di Dio: la
pecora perduta, la moneta smarrita e il figlio prodigo. Il Signore con queste
parabole intendeva rispondere alle mormorazioni dei farisei che non vedevano di
buon occhio il fatto che egli ricevesse i peccatori e mangiasse con loro. Di
queste parabole la più toccante è senza dubbio la parabola “del figlio
prodigo”, oggi spesso e giustamente chiamata “del padre prodigo di
misericordia”. In questa toccante parabola, esclusiva di san Luca, ci viene
raccontato con quanta tenerezza un padre aspetta il figlio che se n’è andato
attirato da un sogno di falsa libertà e di ingannevole felicità. Dopo un po’ di
tempo, il figlio fuggito, ridotto alla fame e alla miseria, si è pentito di
quello che ha fatto. Anche se il suo pentimento sembra abbia come movente
principale la perdita della sicurezza economica, al suo ritorno alla casa
paterna, viene accolto senza rimproveri, anzi con grande gioia dal padre che lo
attendeva con trepidazione. Gesù rivela in questa parabola il vero volto di
Dio: padre misericordioso che vuole solo il nostro bene, che è sempre pronto a
perdonare.
Il
tema della misericordia di Dio è anche quello della prima lettura, un brano
tratto dal celebre racconto del “vitello d’oro”, vicenda paradigmatica del
peccato d’Israele contro il suo Dio. Gli Israeliti, stanchi di un Dio
misterioso, che non si vede, si costruiscono una divinità visibile e comoda, un
vitello di metallo fuso, poi gli si prostrano dinanzi e gli offrono sacrifici.
Il racconto conclude affermando che, nonostante le infedeltà d’Israele, Dio
ascolta la preghiera d’intercessione di Mosè “si pentì del male che aveva
minacciato di fare al suo popolo”. Parlando con il nostro linguaggio, possiamo
ben dire che in Dio la misericordia e l’amore appaiono infinitamente superiori
alla giustizia.
La
seconda lettura è una esaltazione commossa della misericordia di Dio fatta da
san Paolo che, già anziano e incarcerato a Roma, rilegge all’indietro la
propria vita, ormai tutta posta al servizio del vangelo: “Rendo grazie a colui
che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno
di fiducia […] Io che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Ma mi è stata usata misericordia”. Pure noi siamo stati oggetto della
misericordia di Dio, anzi fatti partecipi della sua stessa vita, in modo
particolare nell’eucaristia. Infatti il perdono di Dio non è solo superamento
del peccato e dell’esclusione, ma è anche e soprattutto ritorno alla comunione
con lui e con i fratelli, il frutto specifico dell’eucaristia.
domenica 8 settembre 2019
LA RISCOPERTA DELLA CREATIVITÀ IN LITURGIA?
Rivista
di Pastorale Liturgica (n. 335, 4/2019) ha pubblicato il dibattito sul tema
degli “usi e abusi nella liturgia”, che ho sostenuto in questo blog tra il 23 e
il 27 giugno scorso con il Prof. Andrea Grillo. In seguito, il Prof. Grillo è
intervenuto nuovamente sull’argomento il giorno 1 di luglio nel suo blog Come
se non col post “La riscoperta della creatività in liturgia”, testo
riprodotto nel mio blog il 2 luglio con la promessa, fatta da me, di riprendere il dialogo in un tempo successivo.
Passato ormai il periodo clou delle vacanze estive, vorrei fare qualche
riflessione al riguardo.
Giustamente Andrea
afferma che “sarebbe ingiusto e astratto pensare ad un primato della norma sul
rito o viceversa”. Infatti, per sua natura il rito è normativo. Il problema
sorge quando viene ignorata o sottovalutata questa sua caratteristica e, di
fatto si stabilisce il primato del rito sulla norma.
Ma come si
evince dal titolo dell’ultimo post di Andrea, ciò che gli sta più a cuore è
“difendere, nel modo più forte, il diritto di una ‘liturgia creativa’, non come
scivolamento nel soggettivismo, ma come una esigenza intrinseca ad ogni atto
rituale vero”. E in seguito aggiunge: “Perché mai non vi può essere solo una
‘preghiera eucaristica’ ma ve ne sono tante diverse? E se nella storia abbiamo
costruito tante ‘anafore’ perché mai dovrebbe essere questa nostra generazione
bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?” Andrea difende questa
sua posizione non come una novità, ma come “la ripresa di ciò che hanno fatto i
cristiani per almeno un millennio”. Su queste affermazioni, vorrei fare alcune
osservazioni.
Una cosa sono
le novità introdotte con la recente riforma liturgica (preghiere
eucaristiche e altro), cosa diversa è invece la “creatività” che una singola
assemblea si arroga di mettere in opera; e qui parliamo di quest’ultima. Dire
poi che una tale creatività è stata in vigore “per almeno un millennio”,
storicamente non è esatto. Ciò che è provato dagli studi storici è che le
istituzioni liturgiche hanno subito una prima unificazione al servizio
dell’unità dell’impero carolingio. Ma fino a quel momento, le Chiese seguivano
le tradizioni delle loro provincie o territori metropolitani come testimoniano
numerosi concili locali dal sec. V/VI in poi. Con Gregorio VII, l’unità liturgica sarà interpretata
come uniformità, sancita in seguito anche dal concilio di Trento. Col Vaticano
II si è ritornato ad una certa decentralizzazione (cf. SC, nn. 37-40). Non
consta quindi che le singole assemblee abbiano avuto nel primo millennio, mano
libera nell’ordinamento delle celebrazioni liturgiche. Andrea si domanda poi perché
mai questa nostra generazione dovrebbe essere “bloccata solo nel ripetere ciò
che altri hanno creato?” Ma il carattere più proprio del rito non è la
ripetitività? Il rito è un’azione programmata e ripetitiva.
Verso la fine
del suo intervento, Andrea afferma che io ritengo possibile celebrare in modo
“puramente oggettivo”. La pura oggettività esiste solo in astratto. Come già ho
spiegato nel mio primo intervento, ci può essere, anzi ci deve essere uno stile
“creativo” nel celebrare rispettando ciò che prescrive il libro liturgico.
Essendo il rito un fatto di linguaggio, è necessario esaltarne tutte le
possibilità comunicative. Occorre quindi la personalizzazione del linguaggio
verbale e non verbale della celebrazione, che non è da intendersi necessariamente
come il cambiamento delle formule prestabilite tramite l’inserimento di accenti
personali; più semplicemente e in prima istanza, essa consiste nell’assunzione
del linguaggio liturgico nella sua forma prestabilita, come provocazione e come
possibilità di esprimere con esso il proprio vissuto. Il rito prestabilito
riesce ad avere il suo pieno significato e la sua forza solo quando da schema
di azione (nel libro liturgico) diventa azione o atto linguistico (nella
celebrazione).
Ogni
celebrazione deve “calarsi nel vissuto”. Il rito come norma che regola la
celebrazione non può essere ridotto alla sua formulazione letterale, ma va
interpretato nel contesto esistenziale, storico, concreto in cui si svolge. Non
si tratta di negare l’ordine oggettivo, ma di pensarlo a partire
dall’esperienza della persona. Tra la libertà (di creatività) e ciò che le pone
un limite (il rito proposto dal libro liturgico) c’è sempre una tensione
dinamica e impegnativa, che non può essere azzerata cancellando uno dei due
termini. Il rito va ogni volta, ogni giorno, in ogni circostanza riconquistato,
personalizzato.
Credo che questa
mia posizione è quella che lo stesso Andrea Grillo assieme a Luigi Girardi
hanno sostenuto pochi anni fa nell’introduzione al primo volume del Commentario
ai Documenti del Vaticano II, pubblicato nel 2014 dalla EDB, in cui si dice,
tra l’altro, che l’illusione della sinistra ecclesiale è: “siccome è stata
realizzata la riforma, il problema deve essere considerato risolto (oppure è
risolvibile tramite piccole riforme o continui cambiamenti rituali che ogni
singolo soggetto può permettersi di introdurre). Ma così non è e non potrà mai
essere. La riforma offre nuovi testi, una nuova liturgia delle ore, un nuovo
calendario, un nuovo rito di iniziazione cristiana, un nuovo Messale, ecc., ma
tutto questo deve diventare principio di identità, calarsi nel vissuto, essere
assunto dai corpi e dalle menti…” (p. 78).
M. Augé
venerdì 6 settembre 2019
DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 8 Settembre 2019
Sap 9,13-18; Sal 89 (90); Fm
9b-10.12-17; Lc 14,25-33
Il Sal
89 è una dolce e intensa elegia sulla caducità umana. Siamo come “l’erba che
germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”.
Limiti però che non ci devono condurre alla disperazione. Con il salmista,
chiediamo al Signore che ci insegni a contare i nostri giorni per ottenere “un
cuore saggio” (tema ricorrente nelle letture bibliche di questa domenica). Per
noi cristiani questa sapienza è quell’intelligenza delle cose che proviene
dallo Spirito effuso nei nostri cuori.
Se
vogliamo trovare un concetto che riassuma il messaggio delle letture bibliche
odierne, possiamo dire che la parola di Dio ci propone una precisa scala di
valori con la quale misurare e verificare la realtà ed essere quindi in grado
di fare delle scelte sapienti. Dice Gesù nel vangelo: “Colui che non porta la
propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Queste
parole si trovano nel contesto di una serie di affermazioni del Signore che
intendono illustrare il carattere radicale che comporta la scelta di colui che
intende diventare discepolo di Gesù. Diventare discepolo di Gesù, essere
cristiano significa fare una precisa scelta di campo. Gesù vuol essere scelto
come valore assoluto e determinante della vita del discepolo. La serietà della
sequela di Gesù comporta un investimento di tutto il proprio essere a livello
esistenziale; è quindi una scelta che la si può portare a termine solo se si è
disposti a una totale donazione di sé, un totale amore per il Cristo; è una
scelta che richiede una totale libertà interiore.
Il
messaggio evangelico sconvolge i nostri abituali schemi mentali. Come è stato
per Filèmone, un ricco signore, divenuto cristiano per opera di Paolo che lo
chiama suo diletto e suo collaboratore (cf seconda lettura). L’apostolo si
rivolge a questo suo discepolo e gli chiede che accolga Onèsimo, schiavo che
era fuggito da Filèmone rubandogli del denaro, e lo riceva “non più però come
schiavo” ma “come un fratello carissimo”. Ciò che Paolo chiede a Filèmone è un
grosso strappo con la mentalità e il diritto del tempo. E tutto questo in
fedeltà ai valori del Vangelo. Prima e fondamentale conseguenza della sequela è
la scoperta che nel Cristo siamo e diventiamo tutti fratelli. Paolo non
affronta direttamente il problema della schiavitù; pone però principi e gesti
concreti che sono in grado di contestare ed eliminare ogni ingiustizia e quindi
la stessa schiavitù.
Ma
come è possibile conformare la nostra vita alla logica del Vangelo, alla scala
di valori proposta da Gesù? La prima lettura è un brano di una meditazione di
Salomone sull’incapacità dell’uomo a capire la volontà di Dio. Nella ricerca di
Dio la nostra mente si perde negli spazi infiniti di un mistero che
l’intelligenza umana non riesce a contenere. I pensieri di Dio non coincidono
con quelli degli uomini: tra loro c’è una differenza abissale. E’ quello che si
percepisce quando si intende cogliere il messaggio radicale del Vangelo e la
scala di valori in esso racchiusa. Come l’autore del brano della Sapienza,
anche noi dobbiamo porci umilmente di fronte a questo mistero per poter
accogliere l’unica parola che illumina e che salva. E’ Dio stesso che ci guida
con la sua Sapienza, e cioè con lo Spirito di Cristo che ci è stato dato.
Cristo, Sapienza del Padre, si comunica a noi soprattutto “alla mensa della
parola e del pane di vita” (orazione dopo la comunione).
domenica 1 settembre 2019
LA LITURGIA E LE GIOVANI GENERAZIONI
Elena Massimi (ed.), Liturgia e giovani. Atti della
XLVI Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia. Monastero di
Camaldoli, 28-30 agosto 2018 (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae” –
Subsidia 190), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2019. 176 pp. (€ 25,00).
Il difficile rapporto che le giovani generazioni hanno
con la liturgia è una delle urgenze che la pastorale, in modo particolare la pastorale
liturgica, è chiamata ad affrontare. Ci si chiede se le giovani generazioni,
caratterizzate dalla relazione con le moderne tecnologie della comunicazione e
con quello che viene normalmente chiamato mondo virtuale, possano ancora accedere
all’agire simbolico rituale, o se invece la cultura contemporanea, nella quale
sono immerse, rappresenti un punto di non ritorno per la partecipazione
liturgica.
Il processo di allontanamento dei giovani dalla liturgia sicuramente è stato accelerato dall’assenza di una formazione liturgica adeguata, da una carente iniziazione al linguaggio simbolico-rituale, e ancora da una rituum forma eccessivamente distante e maldestramente vicina alla sensibilità giovanile.
Allo stesso tempo, però, si constata come alcune forme di preghiera, liturgica e non, quali l’adorazione eucaristica, le celebrazioni eucaristiche alle giornate mondiali della gioventù, la preghiera salmica a Taizè, sembrano attrarre le giovani generazioni, favorendo una partecipazione attiva ed emotiva.
Il processo di allontanamento dei giovani dalla liturgia sicuramente è stato accelerato dall’assenza di una formazione liturgica adeguata, da una carente iniziazione al linguaggio simbolico-rituale, e ancora da una rituum forma eccessivamente distante e maldestramente vicina alla sensibilità giovanile.
Allo stesso tempo, però, si constata come alcune forme di preghiera, liturgica e non, quali l’adorazione eucaristica, le celebrazioni eucaristiche alle giornate mondiali della gioventù, la preghiera salmica a Taizè, sembrano attrarre le giovani generazioni, favorendo una partecipazione attiva ed emotiva.
La settima di studio in linea con il successivo Sinodo
dei vescovi del 2018 sul tema “I giovani, la fede e il discernimento
vocazionale”, è stata dedicata a questo delicatissimo nodo della pastorale
liturgica. A partire dalla relazione complessa tra liturgia e cultura
contemporanea, ha inteso approfondire l’origine delle difficoltà della
partecipazione liturgica da parte delle giovani generazioni, alla ricerca di
possibili vie di soluzione percorribili.
(Quarta di copertina)
Interventi di: Giorgio Bonaccorso; Lorenzo Voltolin;
Paola Bignardi; Andrea Grillo; Manuel Belli; Fabio Trudu; Luigi Girardi.
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