Translate

lunedì 30 settembre 2019

MOTU PROPRIO “APERUIT ILLIS”


 

Papa Francesco, col Motu proprio “Aperuit illis” di quest’oggi (30 settembre 2019) ha stabilito che “la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio”

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190930_aperuit-illis.html

 

La scelta di questa Domenica sembra opportuna dato che le due prime Domeniche del Tempo Ordinario prolungano in qualche modo il Tempo della manifestazione del Signore:

 

La I Domenica celebra il Battesimo del Signore, in cui una voce dal cielo proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”.

Nella II  Domenica si legge: Gv 1,29-34 (Anno A), Gv 1,35-42 (Anno B), in cui il Battista, vedendo Gesù venire verso di lui, lo indica ai suoi discepoli come “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”; nell’Anno C si legge Gv 2,1-11 sulle nozze di Cana, in cui “Gesù manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.

 

A partire dalla III Domenica inizia la lettura semicontinua dei Vangeli sinottici.

 

 


domenica 29 settembre 2019

SCAMBIARSI UN SEGNO DI PACE


 

IL FATTO. La messa è divisa in tante parti – almeno tre – e si svolge sempre secondo lo stesso schema ben noto a tutti, anche a voi che non ci andate più dai tempi della cresima (no, il vostro matrimonio non vale). A un certo punto succede che il prete dica questa frase: “Scambiatevi un segno di pace!” Ehi, tu che stai là in fondo e che non vedo mai, girati a destra e sinistra e porgi la mano al tuo vicino di panca dicendo una cosa semplice: “La Pace sia con te”. Più facile di così. Tu ti giri e allunghi la mano verso la minuta signora anziana al tuo fianco; lei fa la stessa cosa e mentre dice “la pascc”, o anche solo “ascc”, non stringe la tua mano ma la sfiora con diffidenza e ti guarda dritto sotto il pomo d’Adamo. L’operazione dura circa due secondi e mezzo. I più motivati si voltano anche verso chi è seduto dietro. Scambio della pace finito, la messa continua. Quell’anziana signora non la rivedrai mai più.

 

IL PERICOLO. Il pericolo è credere che così la pace sia stata effettivamente scambiata. Il pericolo è pensare che quei due secondi e mezzo ti abbiano riconciliato con tutta una comunità che in realtà nemmeno conosci. In un piccolo gesto dovrebbe esplodere la fraternità di persone amiche nel senso evangelico, fratelli e sorelle che ti aiutano a portare i tuoi pesi. Un gesto è un segno di qualcos’altro che però non c’è (CCC 1145). E la riprova è che finita la messa te ne esci di corsa per andare a infornare l’arrosto e gli altri fanno lo stesso. Il precetto è assolto. Buon appetito a tutti.

 

LE TATTICHE. Qui è facile. Al momento giusto, prima di dire “La pace sia con te”, prendete la mano della vecchietta e tenetela ben stretta. Non mollare la presa e iniziate a fare domande. Come si chiama signora? Dove abita? Suo marito non c’è? Io abito qui vicino e questa è mia moglie Pippa. Abbiamo cinque figli ma non riusciamo più a portarli a messa. Lei ha figli? E oggi cosa cucina di buono? Alla fine chiudete con la formula magica, completa e arricchita: “La pace sia con te e buona domenica!” Magari le prime volte vi prenderanno per matti e si passeranno la voce per non sedersi acconto a voi; poi però piano piano la faccenda dilagherà e vedrete gente che si ferma a chiacchierare, magari si siede anche, mostra la foto dei figli e si passa la ricetta dell’arrosto. Pensate che differenza. In poco tempo tutti sapranno qualcosa in più degli altri e forse, se si incontreranno nel salumiere o in pasticceria, riprenderanno allegramente il discorso. Si chiama “simpatia”, da syn = con, insieme, e pathos = affezione, sentimento. Sentire insieme, trovarsi bene con un altro essere umano, anche se basso e anziano. In una parola, essere comunità. Forse chi si è inventato il gesto dello scambio della pace a messa voleva proprio questo.

 

Fonte: Alberto Porro, Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede, Bompiani 2019, pp. 27-29.

 

Con questo stile provocatore, non esento di umorismo, l’autore di questo piccolo libro tratta i seguenti temi: Andare a Messa la domenica; Ascoltare la predica; Scambiarsi il segno di pace; Partecipare al corso fidanzati; Sposarsi in chiesa; Partecipare a un gruppo familiare; Invitare il prete a cena a casa vostra; Battezzare i figli; Mandare i figli a catechismo; Possedere una Bibbia; Dare una mano al prete; Parlare con le Suore; Obbligare i figli ad andare a Messa; Obbedire ciecamente al parroco; Fare la carità.     





sabato 28 settembre 2019

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 29 Settembre 2019




Am 6,1a.4-7; Sal 145 (146); 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31

La parola di Dio ripropone il tema della domenica scorsa sull’uso dei beni terreni. Gesù ci invitava a dare ad essi un valore relativo guardando ai beni definitivi e ci premuniva sull’abbaglio di cui possiamo essere vittime in questa materia quando ci ricordava che non è possibile “servire a Dio e alla ricchezza”. In questa domenica c’è un elemento in più, l’invito a condividere i nostri beni con gli altri. Il profeta Amos (prima lettura) pronuncia parole dure contro i grassi borghesi di Samaria che si godono la vita incuranti della povertà e miseria degli altri. Contro questi gaudenti il profeta prende una chiara posizione di condanna, annunciando la fine delle feste spensierate nonché il sopraggiungere della deportazione e dell’esilio. Non si tratta di una condanna della ricchezza in se stessa, ma di un severo giudizio di coloro che si servono di essa per farne strumento di corruzione e di oppressione. In questo caso, la ricchezza diventa sorgente del potere che sfrutta e opprime.

Sullo sfondo della dura denuncia del profeta Amos si colloca la nota parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, narrata dal vangelo d’oggi. Vi troviamo descritte due figure contrapposte. L’uomo ricco sdraiato sui divani che banchetta  lautamente. Il povero che giace alla sua porta, bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla mensa del ricco. I cani si sono accorti della presenza del povero e vanno a leccargli le piaghe. L’epulone, invece, fa come se non esistesse. Il ricco non ha nome. Nella cultura ebraica, il nome esprime la realtà profonda delle persone, riassume la loro storia; egli non ha nome perché non ha storia. Il povero ha un nome quanto mai significativo: “Dio aiuta”. I due personaggi del racconto muoiono, e la loro sorte si capovolge: l’epulone si trova nell’inferno tra i tormenti, e Lazzaro invece viene trasferito nel banchetto celeste presieduto da Abramo. La morte non fa altro che sancire in modo definitivo e irreversibile il destino finale degli esseri umani, quel destino che ognuno di noi costruisce nella sua vita terrena. La logica di Dio non è quella del potere e del successo, ma quella della misericordia, della giustizia, dell’amore. Chi lotta per la giustizia non compie solo un’opera filantropica ma un vero e proprio atto religioso. Il castigo che il ricco epulone si merita è dovuto proprio al fatto che il suo comportamento contrasta radicalmente con la carità che è Dio. Anche san Paolo nella seconda lettura (1Tm 6,11-16) ammonisce il suo discepolo Timoteo: “tendi alla giustizia […], alla carità”.

Il ricco epulone e Lazzaro sono il simbolo di due ordini di persone: i gaudenti materialisti ed egoisti che limitano il loro orizzonte alla sfera presente, e quelli invece che, nella loro povertà, conducono una vita orientata verso il vero destino dell’uomo. La colletta della messa ci invita a essere come questi ultimi quando ci fa chiedere a Dio la grazia affinché, camminando verso i beni da lui promessi, “diventiamo partecipi della felicità eterna”. E l’orazione sulle offerte afferma che la “sorgente di ogni benedizione”, non è da ricercarsi nei beni materiali, ma nell’eucaristia.


giovedì 26 settembre 2019

Lettera e spirito del Vaticano II di fronte al Vetus Ordo. Due interviste e due “motu proprio”





Pubblicato il 26 settembre 2019 nel blog: Come se non

Negli ultimi giorni, due interviste, rilasciate rispettivamente dal Superiore generale della FSSPX (qui), sulla quale ho già scritto alcuni giorni fa (qui) e dal Prefetto della Congregazione del culto (qui) hanno chiarito molto bene le progressive difficoltà con cui la Chiesa cattolica può sopportare il permanere di un accesso al Vetus Ordo tridentino accanto e in parallelo a quel Novus Ordo, voluto dal Concilio Vaticano II e realizzato dalla Riforma liturgica ad esso successiva. Proprio il rapporto con il Concilio Vaticano II sta al centro delle opinioni espresse dai due esponenti ecclesiali:
a) Don Davide Pagliarani, nella sua lunga intervista, ha chiarito che, sulla base del rifiuto più completo della lettera e dello spirito del Concilio Vaticano II, solo il VO può garantire la identità cattolica. Per questo, ad avviso del capo dei lefebvriani, non ha alcun senso tentare una riconciliazione con la Chiesa di Roma, finché essa difende i documenti del Concilio Vaticano II. Pertanto celebrare con il VO implica, necessariamente, la condanna sia della lettera, sia dello spirito del Vaticano II.
b) Con una posizione diversa, ma profondamente consonante con la prima, il card. R. Sarah ha censurato chi ritiene di ostacolare il VO e ha sostenuto che, se interpretato “nello spirito del Vaticano II”, il VO possa offrire ancora frutti di pastorale e di spiritualità ingenti. A suo avviso non vi sarebbe alcuna contraddizione tra lo “spirito del Vaticano II” e la celebrazione col VO.
Mi pare che entrambe queste posizioni, pur nella loro differenza, vivano un problema insormontabile con il Concilio Vaticano II: il primo ne contesta apertamente la lettera e lo spirito, mentre il secondo pretende di “onorarne lo spirito”, ma ne dimentica e ne rimuove la lettera. Infatti il Concilio Vaticano II ha chiesto, esplicitamente e autorevolmente, di superare il VO, perché inadeguato alla esperienza di Cristo e della Chiesa di cui vive la fede cristiana. Tutti coloro che, in modo poco riflettuto, pensano di poter “conciliare” NO e VO debbono fare i conti, esplicitamente, con questa espressa volontà del Concilio, che ha chiesto di “riformare il rito romano in vista della partecipazione attiva dei suoi membri”, superando la loro qualità di “muti spettatori”. E per questo ha preteso una riforma profonda degli Ordines rituali. Il VO è apertamente e dettagliatamente contestato dal Concilio Vaticano II, soprattutto da SC48 e seguenti.
L’azzardo voluto, in modo contingente, dal MP “Summorum Pontificum” nel 2007 mirava ad una riconciliazione con il mondo del tradizionalismo. In realtà, come è evidente dopo 12 anni, questa generale liberalizzazione del VO ha solo fomentato ostilità verso il Concilio Vaticano II, ha aperto lotte piuttosto che portato pace. Ciò è dovuto ad un equivoco di fondo: non solo lo spirito, ma la lettera del Concilio non permette di essere aggirata per troppo tempo. Se si lascia ancora in piedi una forma rituale che è stata ufficialmente superata da una nuova, si illude una parte del corpo ecclesiale che sia aggirabile il Concilio e tutto ciò che questo significa. Fino ad incitare alla aperta ribellione contro un papa come Francesco, che fa del Concilio Vaticano II l’orizzonte ordinario del suo magistero. Vi è un legame molto più profondo di quanto non si creda tra resistenza a Francesco e frequentazione abituale del Vetus Ordo.
Pertanto è giunto il momento di trarre le conseguenze da questa imbarazzante situazione di equivoco. Il cammino della Chiesa esige, oggi in modo ancora più forte di ieri, che la liturgia cattolica si riconosca, in modo universale, solo in una forma, quella ordinaria. L’accesso a forme superate del rito cristiano deve essere subordinato, caso per caso, al giudizio dei vescovi locali, che possono valutare le singole circostanze eccezionali e concedere in forma limitata un accesso ad esse.
Questa verità, che negli ultimi 12 anni si è cercato in tutti i modi di negare, trova il suo fondamento non solo nella “contingenza” e nella “occasionalità” del Motu Proprio del 2007 (Summorum Pontificum, di papa Benedetto XVI), ma anche nelle solenni dichiarazioni del Motu Proprio del 1960 (Rubricarum Instructum, di papa Giovanni XXIII). Infatti, la correzione che il MP del 1960 è oggi in grado di offrire al dibattito distorto dell’ultimo decennio consiste in una limpida logica di “senso comune”. Quando fu fatta l’ultima edizione del “messale di Pio V”, nel 1962, la si fece in modo interlocutorio, in attesa che il Concilio – che allora era già indetto anche se non era ancora iniziato – delineasse quegli “altiora principia” in base ai quali sarebbe stata fatta la vera riforma del messale. Pertanto non solo la lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II non può concepire una “vigenza parallela” tra NO e VO, ma lo stesso documento che ha prodotto il Messale del 1962, che oggi si pretenderebbe vigente “per sempre”, lo intende come “provvisorio” a “ad tempus”.

Grazie alle due interviste pubblicate di recente, e grazie al preciso ricordo dei due “motu proprio”, da correlare l’uno all’altro, possiamo oggi scoprire che il cammino del Vaticano II non permette di concepire un normale accesso al VO, se non mettendo in questione il Vaticano II, non solo nel suo spirito, ma anche nella sua lettera. Se possiamo capire che il Superiore dei Lefebvriani possa essere tanto critico con il Vaticano II da negarne tanto la lettera quanto lo spirito, cercando un sollievo e una resistenza soltanto nel VO, più difficile è comprendere come un Prefetto di congregazione possa dire di difenderne lo spirito, ma ne contraddica in modo tanto sconcertante la lettera.

Il “magnum principium” della riforma liturgica affermato dal Vaticano II – ossia la “actuosa participatio” – impedisce un accesso indifferenziato e incontrollato al VO. A maggior ragione con i più giovani. Questa verità oggi deve essere ripristinata con urgenza e con fermezza. Essa è decisiva per quel disegno di “chiesa in uscita” che il magistero di Francesco ha tratto, con limpida consequenzialità, dalle parole del Concilio Vaticano II. Le stesse parole che, con altrettanta consequenzialità, prendono congedo dalle forme tridentine di Chiesa e di vita cristiana.


venerdì 20 settembre 2019

Don Davide e la continuità con il Vaticano II di Amoris Laetitia e del Sinodo sulla Amazzonia





Pubblicato il 21 settembre 2019 nel blog: Come se non

Credo che si debba ringraziare l’Abbé Davide Pagliarani, Superiore Generale della FSPX, per la lunga intervista che si può leggere qui . La importanza di questo lungo testo può essere racchiusa in una frase: sia pure da un punto di vista radicalmente critico, e per me del tutto inaccettabile, apprezzo la chiarezza con cui Don Davide riconosce con estrema chiarezza la logica di continuità tra il Concilio Vaticano II e il magistero di papa Francesco, così come si è espresso in Amoris Laetitia e nel Sinodo sulla Amazzonia.
Ovviamente si tratta di una lettura “catastrofica”, che legge le tappe del pontificato di Francesco come “bombe atomiche”, come distruzioni della tradizione, come negazioni della identità cattolica. Ma il valore esemplare della intervista consiste nel ricondurre, con estrema linearità, tutta questa vicenda attuale alla sua vera radice, ossia al Vaticano II, alla sua ecclesiologia e alla sua teorizzazione del rapporto col mondo.  Non si tratta della stravaganza di un papa originale, ma della lineare conseguenza del Vaticano II.
Di qui deriva il tono reciso e duro di negazione di ogni pluralismo, di ogni dialogo, di ogni aggiornamento. Per questo, in Don Davide, appare del tutto comprensibile che il simbolo del Concilio e di tutti i suoi “errori” sia la Riforma Liturgica. Per questo, nella parte conclusiva della sua intervista, dopo aver enumerato tutte le catastrofi che discendono dalla ecclesiologia e dalla liturgia conciliare. egli fa della “messa tridentina” il principio di una resistenza ad oltranza. E dice così:
“Concrètement, il faut passer à la Messe tridentine et à tout ce que cela signifie ; il faut passer à la Messe catholique et en tirer toutes les conséquences ; il faut passer à la Messe non œcuménique, à la Messe de toujours et laisser cette Messe régénérer la vie des fidèles, des communautés, des séminaires, et surtout la laisser transformer les prêtres. Il ne s’agit pas de rétablir la Messe tridentine, parce qu’elle est la meilleure option théorique ; il s’agit de la rétablir, de la vivre et de la défendre jusqu’au martyre, parce qu’il n’y a que la Croix de Notre-Seigneur qui puisse sortir l’Eglise de la situation catastrophique dans laquelle elle se trouve.”
La lettura della intervista aiuta a comprendere in modo più chiaro la sequenza argomentativa: i disastri attuali hanno la loro radice nel Concilio Vaticano II, il cui emblema è la Riforma Liturgica. Perciò, per resistere nella “chiesa di sempre”, per contestare ogni pluralismo, ogni democrazia, per opporsi al cedimento al divorzio di Amoris Laetitia e per non cadere nel paganesimo del Sinodo sulla Amazzonia occorre “passare alla messa tridentina” e fare del Vetus Ordo la linea di resistenza contro il Concilio e contro la sua attuazione in mezzo a noi.
A leggere queste parole non si può non guardare alla ingenuità di una Chiesa così tiepidamente conciliare, da aver permesso di fare di questo programma reazionario una “possibilità pastorale” aperta ad ogni parrocchia. Solo quando avremo capito la gravità dell’errore commesso nel 2007, con una “liberalizzazione del rito di Pio V” sapremo correre ai ripari e rispettare quella riforma liturgica che costituisce parte integrante del nostro rispetto verso il Concilio Vaticano II.
Forse proprio questa intervista di Don Davide, con tutta la sua prepotente anticonciliarità, saprà aprire gli occhi di chi non vuol vedere e le orecchie di chi non vuol sentire.  A Don Davide va dato atto di dire con estrema durezza le cose “da fuori”. Sorprende molto che  le stesse parole noi stiamo ascoltando da 12 anni sulle bocche di uomini delle istituzioni, di preti giovani, di preti anziani dalla memoria corta, di qualche vescovo, addirittura di alcuni cardinali. La differenza è che Don Davide ha il coraggio di identificare nel Vaticano II il suo nemico, mentre gli altri preferiscono “dimenticarlo” o “rimuoverlo”. Credo che dopo Amoris Laetitia e dopo il Sinodo sulla Amazzonia si dovrà fare chiarezza sulla liturgia. Il piede non si può tenere in due scarpe. Soprattutto il Magistero “dei sommi pontefici” non può restare ambiguo sul piano della liturgia. Perché questa ambiguità, questa imparzialità tra vecchio e nuovo, questa indifferenza verso le scelte conciliari, paralizza tutto il sistema. Per questo, in modo opposto e contrario rispetto a lui,  apprezzo molto la lucidità consequenziale e senza fronzoli dell’Abbé Pagliarani. La liturgia è davvero decisiva, come fonte e culmine del sistema. Se siamo ambigui sulla liturgia, tutto è compromesso.  Una delle condizioni per la attuazione di Amoris Laetitia, e per la buona gestione del Sinodo sulla Amazzonia, è il superamento della ambiguità reazionaria e anticonciliare di Summorum pontificum. Ora questa evidenza, dopo le parole di Don Davide, è diventato molto più chiara.


DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 22 Settembre 2019





Am 8,4-7; Sal 112 (113); 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13



 Il Sal 112 è stato chiamato il Magnificat dell’Antico Testamento. Infatti il suo contenuto ha diversi punti di contatto con l’inno di Maria. Questo inno che Israele cantava nei giorni di Pasqua, è un invito a lodare il Signore, il quale è presente lungo la storia della salvezza sempre pronto a sollevare l’indigente dalla polvere e il povero dall’immondizia. Povero era Israele quando Dio lo venne a trovare nell’Egitto per salvarlo e innalzarlo al di sopra di tutti i popoli. Questo salmo è il canto degli ultimi che agli occhi di Dio sono i primi. Oggi siamo invitati a riflettere sui rischi che comporta per la nostra salvezza l’attaccamento ai beni materiali.

         

Per bocca del profeta Amos (prima lettura), il Signore giura che non dimenticherà mai le opere inique di coloro che erano a tal punto avidi e disonesti da attendere con ansia la fine dei giorni di festa per riprendere i loro perversi affari a danno dei clienti più poveri. Le parole del profeta sembrano dire esattamente il contrario di quanto si deduce dalla parabola dell’amministratore astuto riportata dal vangelo d’oggi. Infatti le parole conclusive della parabola (“Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”) suscitano perplessità. Gesù propone come modello il comportamento di un amministratore disonesto, il quale davanti alla minaccia di perdere il posto non esita a falsificare i bilanci praticando sconti ai debitori del suo padrone in modo di assicurarsi poi da essi una qualche protezione. Notiamo però bene, Gesù non loda la disonestà di questo amministratore, ma la sua prontezza e scaltrezza nel prepararsi un futuro sicuro. E invita tutti gli onesti a fare altrettanto: “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. Sia il profeta Amos che Gesù ci esortano a vivere il presente guardando al futuro, a non malversare il tempo che ci viene dato per conquistare i beni eterni.



La nostra esistenza rischia di trascorrere come quella di bambini distratti mentre il tempo della vita scorre in fretta. Gesù biasima gli uomini indifferenti, flaccidi, amorfi, superficiali che troppo spesso costella il panorama della società del nostro tempo. Le parole di Gesù sono quindi un invito ad amministrare con saggezza e prudenza i talenti ricevuti, mettendo i beni sia materiali che spirituali al servizio del progetto che Dio ha sulla storia e sull’uomo. Gesù vuole scuotere la nostra inerzia orientando la vita di noi tutti verso i beni definitivi, verso il  traguardo della salvezza. E per portare a buon termine questo compito, ci viene ricordato che non possiamo “servire a Dio e la ricchezza”. Qui il testo evangelico chiama la ricchezza con un termine di origine fenicia “mammona”, quasi per indicare la personificazione idolatrica dei beni di questo mondo che ci potrebbero offuscare il cammino che conduce ai veri beni, quelli che arricchiscono presso Dio. Solo chi ha il cuore libero dalla ricchezza di questo mondo, può essere degno della ricchezza del Regno.



La preghiera, di cui parla la seconda lettura, è capace di incidere sui fatti della vita operando, alla luce della fede, un diverso approccio alle cose, una visione del mondo che ci aiuti a valutare le realtà della terra alla luce dei valori supremi e definitivi verso cui la nostra vita è protesa. Fedeli alla legge dell’incarnazione, preghiamo nella vita e con la vita, non fuggendo dal mondo degli uomini. Fedeli alla legge della risurrezione, indirizziamo la nostra preghiera verso la piena realizzazione del Regno. La celebrazione dell’eucaristia è una preghiera di lode i di ringraziamento per il dono supremo della salvezza in Cristo, che viene ripresentato qui per noi, affinché “la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita” (orazione dopo la comunione).


domenica 15 settembre 2019

UNA INTRODUZIONE ALLA LITURGIA



 

Paolo Tomatis, Vita alla sorgente. Introduzione alla liturgia e ai sacramenti (FCL Orientamenti), Città Nuova Editrice, Roma 2019. 128 pp. (€ 18,00).


 

L’Autore è consapevole della presenza e dell’importanza della dimensione rituale nella proposta cristiana, da cui deriva una serie di domande alle quali il presente volume intende dare una risposta. Per quanto riguarda il metodo, si prende atto dell’impossibilità di distinguere la prassi dalla teoria che legge e interpreta la prassi. In questo contesto, le tre parti dell’opera (I fondamenti, I fondamentali, Le prospettive) si presentano in una successione logica e unitaria.

 

Dopo una prima parte, in cui si parla della liturgia come preghiera della Chiesa, come celebrazione e come celebrazione del Mistero, la seconda parte intende comprendere come il fondamento della fede celebrata si dia nei fondamentali del corpo (gesti e parole), dello spazio e del tempo. Nell’ultima parte, dopo un’analisi della situazione della riforma liturgica, ancora in cammino, l’Autore si sofferma sulla polarità “Mistero e vita”, polarità che appartiene all’essenza intima della liturgia cristiana. In seguito, il volume si chiude allargando lo sguardo e si domanda: “dove va la vita sacramentale della Chiesa?”

 

Ogni pagina di questo volumetto è interessante e merita la nostra attenzione sia per il contenuto chiaro e profondo, sia per lo stile pacato con cui l’Autore si esprime. In ogni modo, credo che la parte più importante per dottrina e per i riflessi sulla prassi pastorale sia quella dedicata alle “Due polarità: il Mistero e la vita” (pp. 105-113). Questa tensione polare, che possiamo intendere anche come quella tra “sacro e profano”, è sovente all’origine di una varietà di attese e di esigenze che non sempre trovano una sintesi soddisfacente nella proposta liturgica delle comunità cristiane. Il sacro cristiano non si presenta anzitutto come l’opposto del profano, ma come la sua profondità. Il culto spirituale non cancella il culto rituale; semmai lo orienta e lo compone in una prospettiva più ampia. La sfida della liturgia, afferma l’Autore, “è quella di tenere in equilibrio la tensione tra la prossimità e la giusta distanza, tra l’incarnazione e la trasfigurazione, facendo dell’ordo liturgico il canone di riferimento che custodisce, nella varietà delle sensibilità e degli stili, un accordo e un’unità complessiva, all’insegna della nobile semplicità, del culto in ‘spirito e verità’” (p. 113).

 

M. Augé   

 

 


venerdì 13 settembre 2019

DOMENICA XXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 15 Settembre 2019





Es 32,7-11.13-14; Sal 50 (51); 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32



Il Sal 50, il Miserere, è uno dei salmi più noti del salterio. La tradizione giudaica ha attribuito questa supplica di perdono a Davide adultero con Betsabea e assassino di Uria, il marito della donna (cf 2Sam 10-12). Probabilmente si tratta però di una composizione posteriore al re Davide. E’ un salmo per metà improntato all’esperienza amara del peccato, e per l’altra metà contrassegnato dalla speranza certa e gioiosa del perdono. Si potrebbe dire che più che un canto penitenziale, il Miserere è un poema che celebra il ritorno alla vita e alla comunione con Dio nello spirito della parabola del figlio prodigo, letta nel vangelo d’oggi. Nei versetti ripresi dal salmo responsoriale odierno prevale quest’ultima dimensione, che è poi quella che meglio esprime anche il messaggio delle altre due letture bibliche della presente domenica nonché della colletta della messa in cui chiediamo a Dio di poter “sperimentare la potenza della sua misericordia”.



Il cap. 15 del vangelo di Luca, che leggiamo oggi, raccoglie tre bellissime parabole raccontate da Gesù per annunciare a tutti la misericordia di Dio: la pecora perduta, la moneta smarrita e il figlio prodigo. Il Signore con queste parabole intendeva rispondere alle mormorazioni dei farisei che non vedevano di buon occhio il fatto che egli ricevesse i peccatori e mangiasse con loro. Di queste parabole la più toccante è senza dubbio la parabola “del figlio prodigo”, oggi spesso e giustamente chiamata “del padre prodigo di misericordia”. In questa toccante parabola, esclusiva di san Luca, ci viene raccontato con quanta tenerezza un padre aspetta il figlio che se n’è andato attirato da un sogno di falsa libertà e di ingannevole felicità. Dopo un po’ di tempo, il figlio fuggito, ridotto alla fame e alla miseria, si è pentito di quello che ha fatto. Anche se il suo pentimento sembra abbia come movente principale la perdita della sicurezza economica, al suo ritorno alla casa paterna, viene accolto senza rimproveri, anzi con grande gioia dal padre che lo attendeva con trepidazione. Gesù rivela in questa parabola il vero volto di Dio: padre misericordioso che vuole solo il nostro bene, che è sempre pronto a perdonare.



Il tema della misericordia di Dio è anche quello della prima lettura, un brano tratto dal celebre racconto del “vitello d’oro”, vicenda paradigmatica del peccato d’Israele contro il suo Dio. Gli Israeliti, stanchi di un Dio misterioso, che non si vede, si costruiscono una divinità visibile e comoda, un vitello di metallo fuso, poi gli si prostrano dinanzi e gli offrono sacrifici. Il racconto conclude affermando che, nonostante le infedeltà d’Israele, Dio ascolta la preghiera d’intercessione di Mosè “si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”. Parlando con il nostro linguaggio, possiamo ben dire che in Dio la misericordia e l’amore appaiono infinitamente superiori alla giustizia.



La seconda lettura è una esaltazione commossa della misericordia di Dio fatta da san Paolo che, già anziano e incarcerato a Roma, rilegge all’indietro la propria vita, ormai tutta posta al servizio del vangelo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia […] Io che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia”. Pure noi siamo stati oggetto della misericordia di Dio, anzi fatti partecipi della sua stessa vita, in modo particolare nell’eucaristia. Infatti il perdono di Dio non è solo superamento del peccato e dell’esclusione, ma è anche e soprattutto ritorno alla comunione con lui e con i fratelli, il frutto specifico dell’eucaristia.






domenica 8 settembre 2019

LA RISCOPERTA DELLA CREATIVITÀ IN LITURGIA?


 

Rivista di Pastorale Liturgica (n. 335, 4/2019) ha pubblicato il dibattito sul tema degli “usi e abusi nella liturgia”, che ho sostenuto in questo blog tra il 23 e il 27 giugno scorso con il Prof. Andrea Grillo. In seguito, il Prof. Grillo è intervenuto nuovamente sull’argomento il giorno 1 di luglio nel suo blog Come se non col post “La riscoperta della creatività in liturgia”, testo riprodotto nel mio blog il 2 luglio con la promessa, fatta da me, di riprendere il dialogo in un tempo successivo. Passato ormai il periodo clou delle vacanze estive, vorrei fare qualche riflessione al riguardo.  

 

Giustamente Andrea afferma che “sarebbe ingiusto e astratto pensare ad un primato della norma sul rito o viceversa”. Infatti, per sua natura il rito è normativo. Il problema sorge quando viene ignorata o sottovalutata questa sua caratteristica e, di fatto si stabilisce il primato del rito sulla norma.

 

Ma come si evince dal titolo dell’ultimo post di Andrea, ciò che gli sta più a cuore è “difendere, nel modo più forte, il diritto di una ‘liturgia creativa’, non come scivolamento nel soggettivismo, ma come una esigenza intrinseca ad ogni atto rituale vero”. E in seguito aggiunge: “Perché mai non vi può essere solo una ‘preghiera eucaristica’ ma ve ne sono tante diverse? E se nella storia abbiamo costruito tante ‘anafore’ perché mai dovrebbe essere questa nostra generazione bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?” Andrea difende questa sua posizione non come una novità, ma come “la ripresa di ciò che hanno fatto i cristiani per almeno un millennio”. Su queste affermazioni, vorrei fare alcune osservazioni.

 

Una cosa sono le novità introdotte con la recente riforma liturgica (preghiere eucaristiche e altro), cosa diversa è invece la “creatività” che una singola assemblea si arroga di mettere in opera; e qui parliamo di quest’ultima. Dire poi che una tale creatività è stata in vigore “per almeno un millennio”, storicamente non è esatto. Ciò che è provato dagli studi storici è che le istituzioni liturgiche hanno subito una prima unificazione al servizio dell’unità dell’impero carolingio. Ma fino a quel momento, le Chiese seguivano le tradizioni delle loro provincie o territori metropolitani come testimoniano numerosi concili locali dal sec. V/VI in poi. Con Gregorio VII, l’unità liturgica sarà interpretata come uniformità, sancita in seguito anche dal concilio di Trento. Col Vaticano II si è ritornato ad una certa decentralizzazione (cf. SC, nn. 37-40). Non consta quindi che le singole assemblee abbiano avuto nel primo millennio, mano libera nell’ordinamento delle celebrazioni liturgiche. Andrea si domanda poi perché mai questa nostra generazione dovrebbe essere “bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?” Ma il carattere più proprio del rito non è la ripetitività? Il rito è un’azione programmata e ripetitiva.   

 

Verso la fine del suo intervento, Andrea afferma che io ritengo possibile celebrare in modo “puramente oggettivo”. La pura oggettività esiste solo in astratto. Come già ho spiegato nel mio primo intervento, ci può essere, anzi ci deve essere uno stile “creativo” nel celebrare rispettando ciò che prescrive il libro liturgico. Essendo il rito un fatto di linguaggio, è necessario esaltarne tutte le possibilità comunicative. Occorre quindi la personalizzazione del linguaggio verbale e non verbale della celebrazione, che non è da intendersi necessariamente come il cambiamento delle formule prestabilite tramite l’inserimento di accenti personali; più semplicemente e in prima istanza, essa consiste nell’assunzione del linguaggio liturgico nella sua forma prestabilita, come provocazione e come possibilità di esprimere con esso il proprio vissuto. Il rito prestabilito riesce ad avere il suo pieno significato e la sua forza solo quando da schema di azione (nel libro liturgico) diventa azione o atto linguistico (nella celebrazione).

 

Ogni celebrazione deve “calarsi nel vissuto”. Il rito come norma che regola la celebrazione non può essere ridotto alla sua formulazione letterale, ma va interpretato nel contesto esistenziale, storico, concreto in cui si svolge. Non si tratta di negare l’ordine oggettivo, ma di pensarlo a partire dall’esperienza della persona. Tra la libertà (di creatività) e ciò che le pone un limite (il rito proposto dal libro liturgico) c’è sempre una tensione dinamica e impegnativa, che non può essere azzerata cancellando uno dei due termini. Il rito va ogni volta, ogni giorno, in ogni circostanza riconquistato, personalizzato.

 

Credo che questa mia posizione è quella che lo stesso Andrea Grillo assieme a Luigi Girardi hanno sostenuto pochi anni fa nell’introduzione al primo volume del Commentario ai Documenti del Vaticano II, pubblicato nel 2014 dalla EDB, in cui si dice, tra l’altro, che l’illusione della sinistra ecclesiale è: “siccome è stata realizzata la riforma, il problema deve essere considerato risolto (oppure è risolvibile tramite piccole riforme o continui cambiamenti rituali che ogni singolo soggetto può permettersi di introdurre). Ma così non è e non potrà mai essere. La riforma offre nuovi testi, una nuova liturgia delle ore, un nuovo calendario, un nuovo rito di iniziazione cristiana, un nuovo Messale, ecc., ma tutto questo deve diventare principio di identità, calarsi nel vissuto, essere assunto dai corpi e dalle menti…” (p. 78).



M. Augé

venerdì 6 settembre 2019

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 8 Settembre 2019


Sap 9,13-18; Sal 89 (90); Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33



Il Sal 89 è una dolce e intensa elegia sulla caducità umana. Siamo come “l’erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”. Limiti però che non ci devono condurre alla disperazione. Con il salmista, chiediamo al Signore che ci insegni a contare i nostri giorni per ottenere “un cuore saggio” (tema ricorrente nelle letture bibliche di questa domenica). Per noi cristiani questa sapienza è quell’intelligenza delle cose che proviene dallo Spirito effuso nei nostri cuori.
   

Se vogliamo trovare un concetto che riassuma il messaggio delle letture bibliche odierne, possiamo dire che la parola di Dio ci propone una precisa scala di valori con la quale misurare e verificare la realtà ed essere quindi in grado di fare delle scelte sapienti. Dice Gesù nel vangelo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Queste parole si trovano nel contesto di una serie di affermazioni del Signore che intendono illustrare il carattere radicale che comporta la scelta di colui che intende diventare discepolo di Gesù. Diventare discepolo di Gesù, essere cristiano significa fare una precisa scelta di campo. Gesù vuol essere scelto come valore assoluto e determinante della vita del discepolo. La serietà della sequela di Gesù comporta un investimento di tutto il proprio essere a livello esistenziale; è quindi una scelta che la si può portare a termine solo se si è disposti a una totale donazione di sé, un totale amore per il Cristo; è una scelta che richiede una totale libertà interiore. 


Il messaggio evangelico sconvolge i nostri abituali schemi mentali. Come è stato per Filèmone, un ricco signore, divenuto cristiano per opera di Paolo che lo chiama suo diletto e suo collaboratore (cf seconda lettura). L’apostolo si rivolge a questo suo discepolo e gli chiede che accolga Onèsimo, schiavo che era fuggito da Filèmone rubandogli del denaro, e lo riceva “non più però come schiavo” ma “come un fratello carissimo”. Ciò che Paolo chiede a Filèmone è un grosso strappo con la mentalità e il diritto del tempo. E tutto questo in fedeltà ai valori del Vangelo. Prima e fondamentale conseguenza della sequela è la scoperta che nel Cristo siamo e diventiamo tutti fratelli. Paolo non affronta direttamente il problema della schiavitù; pone però principi e gesti concreti che sono in grado di contestare ed eliminare ogni ingiustizia e quindi la stessa schiavitù.


Ma come è possibile conformare la nostra vita alla logica del Vangelo, alla scala di valori proposta da Gesù? La prima lettura è un brano di una meditazione di Salomone sull’incapacità dell’uomo a capire la volontà di Dio. Nella ricerca di Dio la nostra mente si perde negli spazi infiniti di un mistero che l’intelligenza umana non riesce a contenere. I pensieri di Dio non coincidono con quelli degli uomini: tra loro c’è una differenza abissale. E’ quello che si percepisce quando si intende cogliere il messaggio radicale del Vangelo e la scala di valori in esso racchiusa. Come l’autore del brano della Sapienza, anche noi dobbiamo porci umilmente di fronte a questo mistero per poter accogliere l’unica parola che illumina e che salva. E’ Dio stesso che ci guida con la sua Sapienza, e cioè con lo Spirito di Cristo che ci è stato dato. Cristo, Sapienza del Padre, si comunica a noi soprattutto “alla mensa della parola e del pane di vita” (orazione dopo la comunione).




domenica 1 settembre 2019

LA LITURGIA E LE GIOVANI GENERAZIONI






Elena Massimi (ed.), Liturgia e giovani. Atti della XLVI Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia. Monastero di Camaldoli, 28-30 agosto 2018 (Bibliotheca “Ephemerides liturgicae” – Subsidia 190), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2019. 176 pp. (€ 25,00).



Il difficile rapporto che le giovani generazioni hanno con la liturgia è una delle urgenze che la pastorale, in modo particolare la pastorale liturgica, è chiamata ad affrontare. Ci si chiede se le giovani generazioni, caratterizzate dalla relazione con le moderne tecnologie della comunicazione e con quello che viene normalmente chiamato mondo virtuale, possano ancora accedere all’agire simbolico rituale, o se invece la cultura contemporanea, nella quale sono immerse, rappresenti un punto di non ritorno per la partecipazione liturgica.

Il processo di allontanamento dei giovani dalla liturgia sicuramente è stato accelerato dall’assenza di una formazione liturgica adeguata, da una carente iniziazione al linguaggio simbolico-rituale, e ancora da una rituum forma eccessivamente distante e maldestramente vicina alla sensibilità giovanile.

Allo stesso tempo, però, si constata come alcune forme di preghiera, liturgica e non, quali l’adorazione eucaristica, le celebrazioni eucaristiche alle giornate mondiali della gioventù, la preghiera salmica a Taizè, sembrano attrarre le giovani generazioni, favorendo una partecipazione attiva ed emotiva.

La settima di studio in linea con il successivo Sinodo dei vescovi del 2018 sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, è stata dedicata a questo delicatissimo nodo della pastorale liturgica. A partire dalla relazione complessa tra liturgia e cultura contemporanea, ha inteso approfondire l’origine delle difficoltà della partecipazione liturgica da parte delle giovani generazioni, alla ricerca di possibili vie di soluzione percorribili.


(Quarta di copertina)



Interventi di: Giorgio Bonaccorso; Lorenzo Voltolin; Paola Bignardi; Andrea Grillo; Manuel Belli; Fabio Trudu; Luigi Girardi.