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venerdì 31 gennaio 2020

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – 2 Febbraio 2020




Ml 3,1-4; Sal 23; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40

Nel mistero della Presentazione, Gesù comincia la sua missione nei riguardi del tempio e dell’intero popolo. Al pari dei profeti, Gesù ha professato per il tempio un profondo rispetto; vi si reca per le solennità come ad un luogo d’incontro con il Padre suo; ne approva le pratiche cultuali, pur condannandone lo sterile formalismo; con un gesto profetico, scaccia i mercanti dal tempio e afferma che esso è casa di preghiera. E tuttavia annuncia la rovina dello splendido edificio, di cui non rimarrà pietra su pietra. Gesù stabilisce un culto verso il Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23), un culto non più legato al tempio o a qualsiasi altra località geografica o sacra. Si tratta del culto che Cristo compie nell’offerta della sua vita, adempimento efficace e definitivo di tutti i molteplici sacrifici e riti anticotestamentari.

Il simbolismo della luce, simbolismo sia natalizio che pasquale, è espresso in modo particolare dal rito della benedizione delle candele e dalla processione che precede la celebrazione eucaristica. San Luca vede nell’evento della Presentazione una “manifestazione” del Signore. La profetessa Anna si unisce a Simeone e annuncia la venuta del Signore per la salvezza del suo popolo. Gesù è cantato da Simeone come la luce venuta per rivelarsi “alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. San Cirillo di Alessandria, a metà secolo V, dice in una delle sue omelie: “Celebriamo il mistero di questo giorno con lampade fiammeggianti” (Hom. Div. 12).

Nella preghiera di benedizione delle candele, riprendendo le parole dell’anziano Simeone, Cristo è proclamato “vera luce di tutte le genti”. Il Discorso di San Sofronio, riportato dall’Ufficio delle letture, illustra il simbolismo cristologico – salvifico nonché mariano della luce: “Come infatti la Madre di Dio e Vergine intatta portò sulle braccia la vera luce e si avvicinò a coloro che giacevano nelle tenebre, così anche noi, illuminati dal suo chiarore e stringendo tra le mani la luce che risplende dinanzi a tutti, dobbiamo affrettarci verso colui che è la vera luce”. Gesù realizza in pieno quanto Dio ha annunciato per mezzo del profeta: “Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49,6).
         
Maria è intimamente unita a suo Figlio nel mistero della Presentazione che preannuncia quello dell’offerta della sua vita sulla Croce. L’anziano Simeone profetizza a Maria: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima”. L’espressione “e anche a te” unisce strettamente il destino di Maria a quello del Figlio, mentre il resto le annuncia una sofferenza che penetrerà in profondità l’intera sua vita, sofferenza che diventerà ancora più dolorosa quando si troverà ai piedi della Croce. L’evento della Presentazione e quello della Croce sono messi in rapporto da una omelia di Abramo di Efeso (secolo VI): “Le parole: ‘E a te una spada trafiggerà l’anima’, manifestamente preannunciano le cose che accaddero a Maria presso la croce stessa. Infatti allora la sua anima fu divisa in due come da una spada…” Tra il ciclo natalizio e quello pasquale, la festa odierna esprime il mistero della salvezza nel suo insieme. In un sol colpo d’occhio vengono colti l’inizio e il termine del cammino.



domenica 26 gennaio 2020

IL NUOVO MESSALE IN ITALIANO




Salvatore Esposito – Francesco Asti – Carmine Matarazzo – Carmine Autorino, In attesa del “nuovo” Messale. Come accogliere la terza edizione italiana del Messale Romano, a cura di Salvatore Esposito (Presentazione del Card. Crescenzio Sepe), ELLEDICI, Torino 2020. 149 pp. (€ 9,90).

E’ un valido sussidio, con una chiara impronta pastorale, reso alla comunità ecclesiale in attesa della nuova edizione italiana del Messale Romano.

Salvatore Esposito, Una nuova edizione italiana del Messale Romano.

Francesco Asti, Il Messale scuola di formazione spirituale delle comunità ecclesiali.

Carmine Matarazzo, Il Messale e il rinnovamento della pastorale liturgica.

Carmine Autorino, Il linguaggio verbale e non verbale del Messale Romano.


sabato 25 gennaio 2020

DOMENICA III DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 26 Gennaio 2020





Is 8,23b-9,3; Sal 26 (27); 1Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23

Il simbolismo della luce, che abbiamo già trovato nella domenica precedente nonché nella liturgia natalizia e ritroveremo in quella pasquale, esprime, nella Bibbia, la realtà della salvezza donata dal Signore per mezzo di Cristo. San Matteo, nel brano evangelico d’oggi, racconta gli inizi del ministero pubblico di Gesù che comincia dalla Galilea, dopo l’arresto di Giovanni. Gesù sceglie come punto di partenza della sua predicazione una regione religiosamente sottosviluppata, dove la religione d’Israele era a stretto contatto col paganesimo. Nel secolo VIII a. C. gli abitanti di Galilea erano stati deportati in esilio, “immersi nelle tenebre della schiavitù”. Ricordiamo che uno degli argomenti che verranno portati contro la messianicità di Gesù è appunto questo: “Il Cristo viene forse dalla Galilea?” (Gv 7,41). In questa scelta fatta da Gesù per iniziare l’annuncio del Regno di Dio e l’invito alla conversione, l’evangelista Matteo vede il compimento delle parole del profeta Isaia, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “...il popolo che cammina nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. La Galilea, terra di tenebra da dove la predicazione di Gesù inizia a irradiarsi come luce, è il simbolo del buio che avvolge la vita dell’uomo che non è stato illuminato dalla luce del Vangelo di Gesù.

La lieta novella che Gesù reca all’uomo è un messaggio di liberazione morale e fisica, perché rinnova l’uomo. Gesù predica il vangelo del Regno e guarisce ogni malattia e infermità mettendo l’uomo in grado di individuare e percorrere la strada che lo può realizzare, che è capace di dare senso alla propria vita, come i fratelli Simone e Andrea e Giacomo e Giovanni che, lasciata ogni cosa, seguono Gesù e trovano in lui il senso della loro esistenza. San Matteo sottolinea che i primi discepoli sono fratelli nel sangue per indicare l’effetto della conversione che conduce oltre, verso la fraternità in Cristo, la sola capace di non divenire mai esclusiva, ma comprensiva di ogni uomo. Convertirsi al Regno di Dio significa quindi scoprire anche i profondi rapporti che ci uniscono gli uni gli altri. Fare di Cristo il centro della vita vuol dire spezzare ogni barriera e ogni divisione. Perciò nella comunità di coloro che sono stati illuminati dal Vangelo di Gesù non hanno senso le discordie, le divisioni. E’ quanto ricorda san Paolo nella seconda lettura quando esorta i fratelli della comunità di Corinto ad essere “in perfetta unione di pensiero e di sentire”. Se Cristo non può essere diviso, nemmeno la comunità di Cristo, che è vero “corpo di Cristo”, può essere divisa. Le divisioni nella Chiesa sono lacerazioni di Cristo.

Riassumendo, possiamo affermare che negli inizi della sua predicazione Gesù annuncia la liberazione dall’oppressione in cui si trovano gli uomini che vivono nelle tenebre e nella schiavitù del peccato, perché essi, “illuminati” dalla luce che è Cristo, possano ritrovare il senso della loro esistenza nella comunione e solidarietà reciproca. Questo messaggio trova una sua realizzazione vera e paradigmatica nella partecipazione all’eucaristia, in cui per opera dello Spirito “diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (preghiera eucaristica III).




IMPORTANZA DELLA PAROLA DI DIO

Papa Francesco, col Motu proprio “Aperuit illis” (30 settembre 2019) ha stabilito che “la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio”, Offro in seguito un brano di un santo del secolo XIX sull’importanza della Parola di Dio.



Dall’Autobiografia di sant’Antonio Maria Claret, nn. 449-453
Missionari Clarettiani, Roma 1991, p. 137


Qui sento una voce che mi dice: «L'uomo ha bisogno di qualcuno che gli faccia conoscere qual è il suo essere, che lo istruisca intorno ai suoi doveri, lo diriga verso le virtù, rinnovi il suo cuore, lo restituisca alla sua dignità e, in certo modo, nei suoi diritti». «E tutto questo avviene per mezzo della parola».  La parola è stata, è, e sarà sempre la regina del mondo.
         
La parola di Dio trasse dal nulla tutte le cose. La parola divina di Gesù Cristo restaurò tutte le cose. Gesù disse agli Apostoli: Euntes in mundum universum praedicate evangelium omni creaturae (Mc 16,15). San Paolo disse al suo discepolo Timoteo: Praedica Verbum. La società é in pericolo per aver tolto alla Chiesa la sua parola che é parola di vita, parola di Dio. I popoli vengono meno, soffrono la fame, da quando non ricevono più il pane quotidiano della parola di Dio; ogni volontà di salvezza sarà sterile, se non si restaura in tutta la sua pienezza la grande parola cattolica.

Il diritto di parlare e di insegnare ai popoli, che la Chiesa ha ricevuto da Dio stesso nella persona degli Apostoli, è stato usurpato da una turba di oscuri giornalisti e ignorantissimi ciarlatani.
         
Il ministero della parola è insieme il più nobile e il più invincibile di tutti, come quello che ha conquistato la terra; ma si è convertito, in tutte le parti, da ministero di salvezza in ministero abominevole di rovina. E come   nulla e nessuno poté arrestare i suoi trionfi al tempo degli Apostoli, nulla e nessuno potrà oggi contenere le sue stragi se non si cerca di far fronte con la predicazione dei sacerdoti e con abbondanza di buoni libri e altri scritti santi e salutari.

Oh Dio mio, vi do la mia parola che predicherò, scriverò, diffonderò libri buoni e volantini a piene mani, al fine di soffocare il male con l'abbondanza del bene!








 


domenica 19 gennaio 2020

IL SACERDOZIO MINISTERIALE




L’uso del linguaggio sacerdotale applicato a quello che oggi definiamo ministero ordinato o presbiterale – semplicemente i “sacerdoti – è tardivo rispetto ai testi neotestamentari, appare soltanto nel IV secolo e non è privo di ambiguità: rischia di confondere i piani e addirittura di neutralizzare la novità dell’evento di Gesù Cristo, principio e forma del sacerdozio della nuova alleanza.

È tuttavia inevitabile che il “vecchio” continui a riaffiorare, che si parli ancora di “nuovi leviti”, che si sacralizzino luoghi, vesti, atteggiamenti in riferimento all’Antico Testamento. Si giunge così ad appropriare al presbitero il termine “sacerdote”, riservato al popolo di Dio, di cui anch’egli fa parte, come se il sacerdozio fosse una sua prerogativa esclusiva, con rischio di innalzarlo al di sopra del popolo, anziché collocarlo al suo posto di servizio, fino quasi a non riconoscere più l’originale dignità sacerdotale e regale della comunità dei fedeli. Vi è certamente una distinzione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, ma distinzione che non dovrebbe mai esprimersi nel distacco, nella lontananza, nella separazione, favorita da una ritualità esasperata, attenta alle minuzie, agli abiti ricercati, a marcare le distanze, a rivendicare presunte dignità con una serie di titoli altisonanti e altrettanto privi di significato, che si sono accumulati nel corso dei secoli.

La purità delle mani sacerdotali non è più quella dell’Antico Testamento, ma quella che deriva dall’aver lavato i piedi sporchi, dall’aver toccato la carne di Cristo nei poveri. La sacralità della liturgia non è data dai riti, ma dal clima di fraternità e semplicità che regna nel cenacolo e che deve informare le nostre celebrazioni. Il presbitero non può “salire” l’altare (espressione comunque ambigua, perché non esprime la realtà del sedersi attorno alla stessa mensa) se prima non ha condiviso nella ferialità il sacerdozio regale con i suoi fratelli e sorelle, che rimangono tali – fratelli e sorelle – anche dopo la sua ordinazione presbiterale e verso i quali egli rimane fratello, espressione di tutto il popolo di Dio, uno del popolo, che si identifica col popolo e nel quale il popolo si sente espresso e identificato. Allora e solo allora, con loro e per loro, può fare la “memoria” del Signore.


Fonte: Fabio Ciardi, Il Cenacolo. La nostra casa, Rogate, Roma 2019, 62-63.
    

sabato 18 gennaio 2020

DOMENICA II DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 19 Gennaio 2020


Is 49,3.5-6; Sal 39 (40); 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34

Tutta la vita di Gesù può essere riassunta con le parole del ritornello del salmo responsoriale: “Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà”. In questa domenica, che viene dopo le feste natalizie, siamo invitati a contemplare Gesù, all’inizio della sua missione, quale fedele esecutore della volontà del Padre.

La prima lettura parla profeticamente di un misterioso “servo”, scelto da Dio dal seno materno per salvare Israele, anzi la missione di questo servo del Signore, chiamato “luce delle nazioni”, ha il compito di portare la salvezza “fino all’estremità della terra”. I cristiani dei tempi apostolici non hanno faticato e riconoscere nella vita di Gesù Cristo e nella missione della Chiesa le caratteristiche del “Servo del Signore” donato per la salvezza dell’umanità. Le attese di Israele trovano in Cristo il loro compimento. Nella lingua aramaica (parlata da Gesù e da Giovanni Battista) la parola talya significa “servo” e “agnello”. Con questa parola usata da Isaia, nel vangelo d’oggi vediamo che Giovanni Battista indica Gesù, annunciando che egli è il “servo di Dio”, che libera il mondo dal peccato: Gesù è “l’agnello [servo] di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”, strumento perfettamente docile nelle mani del Padre per compiere la salvezza del mondo. Attraverso la testimonianza del Battista viene consolidata la nostra fede in Gesù che è stato consacrato dallo Spirito Santo come Messia e nel quale siamo invitati a porre ogni fiducia e speranza perché non c’è altra salvezza se non quella che lui ci offre.

Credere in Gesù non significa fare un’esperienza personale puramente interiore e intimista. La Chiesa chiama Giovanni Battista “testimone della luce” (Secondi vespri, Ant. al Magn.). Come Giovanni Battista, tutti i seguaci di Gesù siamo chiamati ad essere decisamente e senza ambiguità testimoni di Cristo “luce delle nazioni” davanti al mondo. La testimonianza di Giovanni è frutto del vedere e del conoscere: ciascuno di noi dà di Cristo una testimonianza proporzionata alla vita di fede e di relazione che intrattiene con lui. Per san Paolo, di cui abbiamo letto il brano iniziale della prima lettera ai Corinzi, l’esperienza che egli ha avuto della fede è stata contemporaneamente consapevolezza della chiamata ad “essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio”. Queste parole riassumono l’esperienza della vocazione di Paolo e riflettono la coscienza che egli ha della propria missione. San Paolo si considera chiamato da Dio con il compito di far conoscere Gesù Cristo. Come in Giovanni Battista e come in Paolo, la testimonianza non si esaurisce nell’annuncio, ma comporta una vita coerente con quanto si crede e si annuncia. L’opera della salvezza attuata da Gesù continua ora attraverso l’impegno e la testimonianza di noi tutti.

Quando ci avviciniamo alla comunione eucaristica, ci viene presentata l’ostia santa con le parole di Giovanni Battista: “...Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. L’eucaristia ci rende partecipi della salvezza portata a termine da Gesù nel sacrificio della croce, di cui la comunione e partecipazione sacramentale. Al tempo stesso, nella partecipazione all’eucaristia prendiamo coscienza di essere coinvolti con Cristo nella salvezza del mondo.


giovedì 16 gennaio 2020

La fragile ontologia del celibato. Perplessità nella mente e scandalo nel cuore





Pubblicato il 16 gennaio 2020 nel blog: Come se non

Il libro è uscito, esattamente come preannunciato: si compone di una “nota del curatore” (N. Diat), di una Introduzione dei due autori, di una prima parte scritta solo da J. Ratzinger, di una seconda scritta solo da R. Sarah e di una Conclusione scritta di nuovo a due mani.
La Nota del curatore è irrilevante: serve solo a dimostrare che il giornalista conosce poco l’argomento del libro. Vi sono poi la introduzione e la conclusione, che per stile e per contenuti sembrano scritte dalla mano di Sarah, poiché assomigliano molto alla sua parte. Vi sono poi le due parti principali: quella di J. Ratzinger (21-54) che si intitola Il sacerdozio cattolico, e quella di R. Sarah (55-128) che si intitola Amare fino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale.
Dopo aver letto entrambe le parti, credo che sia giusto dedicare una breve presentazione soltanto alla prima parte. La seconda, infatti, è talmente approssimativa, contraddittoria, scomposta e piena di errori teologici e storici, da non poter essere neppure considerata un discorso compiuto e coerente: vi si esprime un abbozzo di visione del celibato che non ha alcun fondamento né nella storia né nella realtà. Uno “sguardo” stravolto e distorto, talora anche violentemente irrispettoso, che sorprende trovare proposto da colui che da 5 anni è il responsabile più alto della Congregazione che si occupa di culto e di sacramenti.
Ma veniamo al testo di J. Ratzinger (non avrei usato il nome di Benedetto XVI nel libro, visto che da papa regnante egli usava il suo nome di battesimo per firmare le sue opere non magisteriali, mentre ora usa il nome papale per firmare riflessioni teologiche strettamente personali).
Una meditazione sul sacerdozio poco serena
Come ha scritto P. Garrigues, la presentazione del sacerdozio proposta da J. Ratzinger si rivela subito molto discutibile. E lo è, anzitutto, sul piano metodologico.Curiosamente Ratzinger attribuisce la crisi in cui versa il sacerdozio proprio ad un problema metodologico, che ritiene di risolvere mediante una serie di passaggi altamente problematici. Li presento brevemente.
Il primo passo muove una critica alla teologia, che avrebbe interrotto la tradizione di “interpretazione cristologica dell’Antico Testamento”, così interrompendo il rapporto tra teologia e culto (qui però non è chiaro perché solo una esegesi dell’AT potrebbe conservare un rapporto tra teologia e culto).
Perciò una corretta teologia del sacerdozio esigerebbe per Ratzinger una “struttura esegetica fondamentale”. Da tale metodologia deriverebbe l’unica teologia corretta, che Ratzinger esprime con le seguenti parole:
“L’atto cultuale passa ormai attraverso un’offerta della totalità della propria vita nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare in una vita che consiste nel diventare uno con lui e nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi. Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità del celibato, come anche della preghiera liturgica, della meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai beni materiali”. (24)
 Diventare “uno” con lui e rinunciare a tutto – che è una descrizione del discepolato cristiano, ossia del sacerdozio battesimale – diventa immediatamente 4 cose determinate, mediante un passaggio concettuale davvero molto, troppo rapido, che si sposta dalla “descrizione della Chiesa” alla “ vita dei chierici”. Preghiera liturgica, meditazione della Parola, rinuncia ai beni e celibato sono messi in fila, consequenzialmente. E’ evidente che qui, sul piano della argomentazione, si mescolano cose di generi molto diversi. E questo non è mai un bel segnale. Se metto il celibato con l’ascolto della Parola, con la preghiera liturgica, con la comunione dei beni, sto citando indirettamente il libro degli Atti, al famoso versetto 2,42. Ma in quel versetto si parla di tutto, ma non del celibato. Secondo una corretta metodologia esegetica non si dovrebbero mescolare, fin dal principio, le carte del discorso.
 Comunque sia, nel primo paragrafo del suo testo, J. Ratzinger sviluppa proprio quella che lui stesso chiama: “Il formarsi del sacerdozio neotestamentario nell’esegesi critologico-pneumatologica”.
In questa sezione del suo testo si presenta lo sviluppo del sacerdozio partendo dalla “comunità di laici” che sta intorno a Gesù. La critica profetica del culto trova nei discorsi di Gesù sul sabato e sul tempio dei “topoi” che però possono essere interpretati soltanto dal suo gesto fondamentale, quello dell’ultima cena. Proprio nell’ultima cena si pone il nuovo “atto di culto” che è costituito dalla interpretazione della Croce e della Risurrezione. Ma questa interpretazione avviene, secondo Ratzinger, unificando in un’unica realtà i “ministeri” di vescovo, presbitero e diacono e il “sacerdozio” del Sommosacerdote, del Sacerdote e dei leviti. Così si crea un perfetto parallelismo tra NT e AT, e soprattutto si propone questa “esegesi cristologica e pneumatologica dell’AT” come unica via per intendere il sacerdozio cristiano. Non una parola è detta del fatto che tale sacerdozio cristologico, fatto di comunione con Dio e di rinuncia a se stessi, è il cuore del battesimo e della vita cristiana comune, ossia è “sacerdozio battesimale”, è “sacerdozio comune”. Ma Ratzinger, ritenendo che quella proposta sia “la verità del testo” e non una sua “lettura allegorica”, non riesce ad uscire da una precomprensione sommosacerdotale, che rischia di escludere ogni possibile lettura del sacerdozio comune. Il solo sacerdozio, nella presentazione di Ratzinger, sembra essere quello gerarchico. Così, ovviamente, l’unica visione coerente può essere quella tridentina, certamente non quella del Concilio Vaticano II. In altri termini, la “istituzione di un nuovo culto” – che Ratzinger descrive con grande efficacia a p. 33, viene però riferita sostanzialmente ai “chierici”, non alla Chiesa. Questo, a me pare, un errore metodologico molto pesante, che compromette l’intero discorso. E tale lettura allegorica, che si pretende di far diventare normativa per la “ontologia del sacerdozio” finisce, inevitabilmente per trovare in Lutero e nel Concilio Vaticano II – unificati apologeticamente nello stesso girone dei reprobi – gli interlocutori inadempienti, perché non capiscono più questa “esegesi cristologico-pneumatologica” per la quale il “nuovo culto” non riguarda anzitutto la Chiesa, ma i preti.
 Esempi storici e biblici piuttosto vaghi
 A questa prima parte, che è centrale per la argomentazione, seguono una serie di “applicazioni storiche” e “ermeneutiche bibliche”, volte a “dimostrare” questa tesi. Bisogna riconoscere che la tesi, di per sé piuttosto fragile, non trova molta forza nelle applicazioni storiche, nelle quali i dati non riescono a suffragarla in modo convincente.
Mi soffermo soltanto su un punto. La valutazione a cui si sottopone la tradizione ebraica della “astinenza sessuale” prima della celebrazione del culto e la scelta del celibato come disciplina è certamente basata su dati storici, sulla trasformazione del culto cristiano in culto quotidiano, ma la soluzione adottata nella storia, nella sua contingenza sociale, culturale ed ecclesiale, viene assunta come “astinenza ontologica”, senza alcuna valutazione del mutamento della comprensione del matrimonio, della sessualità e della identità dei soggetti. Pretendere di dimostrare oggi la evidenza del celibato con un concetto di “purità rituale” che la storia ha profondamente trasformato non sembra una forma convincente di metodologia teologica. Si fa dire alla storia ciò che si vuole e si tappa la bocca al presente solo “per autorità”. Così pure la lettura del “sacerdozio uxorato” come accompagnato dalla esigenza della astinenza assolutizza e generalizza in modo universale un elemento che la storia attesta, ma non in modo incontrovertibile. Che cosa è stato non ci dice, immediatamente, che cosa deve essere. Proprio qui consiste, come insegna Romano Guardini, la differenza della teologia sistematica.
Altri punti problematici emergono dalle piccole esegesi che Ratzinger propone di testi-chiave, per cercare di confermare la sua metodologia. Il testo del Salmo 16 viene riletto come “ammissione alla comunità sacerdotale”. Qui, come è evidente, si usano le parole in una accezione non aggiornata. Sorprende che si possa parlare, ancora oggi, di “comunità sacerdotale” senza tener conto che in Lumen Gentium tale termine indica “tutta la comunità ecclesiale”. E’ ovvio che, se riferita solo agli “ordinati”, la cosiddetta “esegesi cristologico-spirituali” ricostruisce, immediatamente, la Chiesa preconciliare. Come volevasi dimostrare.
Così pure la interpretazione della II Preghiera Eucaristica attribuisce al “sacerdote” che presiede le parole che, non nel Deuteronomio, ma nel testo eucaristico, devono essere riferite a tutti i battezzati. Curiosamente Ratzinger trova anche qui la occasione per accusare “i liturgisti” di aver studiato le parole da lui citate solo per invitare a “stare in piedi” e non “in ginocchio”. In realtà molto più urgente è stabilire che il testo non parla “del prete”, ma della “Chiesa”. E non c’è bisogno di un liturgista per dirlo.
 In conclusione
Un’ultima parola deve essere dedicata alla differenza tra il testo di Ratzinger e il testo di Sarah. Il primo è un testo teologico, il secondo voleva essere solo un discorso spirituale. Come ho detto, il secondo testo è fuori concorso. Ma il primo, proprio perché si muove sul piano dell’esercizio della ragione teologica, porta una maggiore responsabilità. In un certo senso, le esagerazioni, preoccupanti o esilaranti, contenute nel testo di Sarah sono in qualche modo rese possibili, e quasi benedette, da una teologia del sacerdozio troppo fragile e troppo unilaterale. Forse il teologo avrebbe avuto bisogno di un altro cardinale come coautore. Ma forse il cardinale avrebbe avuto bisogno di essere aiutato da una teologia meno accondiscendente verso le derive clericali della identità dei ministri ordinati. Insomma, per esprimere un atto di “filiale obbedienza”, credo che si sarebbe potuto pensare a qualcosa di meglio. 



domenica 12 gennaio 2020

ANTICA LITURGIA DI GERUSALEMME




Enrique Bermejo Cabrera, Peregrinar a Tierra Santa con Egeria. Biblia y Liturgia, Editorial Eco Franciscano, Custodia de Tierra Santa 2019. 147 pp.

Il Prof. Enrique Bermejo ci offre questo bel libro sulla pellegrina Egeria, che alla fine del secolo IV ha percorso i luoghi della Terra Santa e ci ha lasciato un prezioso racconto su quanto ha visto e ha vissuto nel suo lungo soggiorno in queste terre scenario dei misteri della nostra redenzione. Nella narrazione di Egeria ha un valore particolare quanto essa scrive sulla liturgia di Gerusalemme, sia quotidiana che settimanale e annuale; in particolare è straordinaria l’esperienza che la pellegrina ha vissuto nella proclamazione della risurrezione del Signore nella notte santa della Pasqua, esperienza di cui ci rende partecipi.
L’Autore, oltre ad offrire numerose fotografie dei luoghi di culto, ci guida nella lettura del racconto di Egeria confrontandolo con i dati biblici e con altri documenti. Il volume ha quindi un valore scientifico, in particolare alla luce di quanto egli stesso aveva scritto in studi anteriori sull’argomento.   

M. A.



venerdì 10 gennaio 2020

BATTESIMO DEL SIGNORE ( A ) -12 Gennaio 2020



Is 42,1-4.6-7; Sal 28 (29); At 10,34-38; Mt 3,13-17

Il Sal 28 descrive la manifestazione della potenza di Dio in una tempesta quasi apocalittica. La voce di Dio, configurata nei tuoni e nei lampi, domina tutta la scena. Con un linguaggio arcaico, ci viene ricordato che nel gorgo ciclonico della storia e della natura noi abbiamo un punto fermo nel Signore che “siede re per sempre”. Dio dominatore dell’universo viene a salvare il suo popolo con forza e potenza. La Chiesa, nella liturgia odierna, accosta la rivelazione della potenza di Dio descritta nel salmo alla manifestazione della divinità di Cristo durante il suo battesimo nel Giordano.
La festa del Battesimo del Signore fa da ponte tra le feste natalizie e le domeniche del Tempo ordinario, ormai iniziato. Il battesimo per Gesù rappresenta la fine della vita nascosta di Nazaret e l’inizio della sua attività pubblica mediante l’investimento ufficiale del Padre che lo presenta alle folle come Figlio prediletto su cui si posa lo Spirito Santo. E’ una festa che ci invita quindi ad approfondire l’identità di Gesù e la sua missione.

Il battesimo di Giovanni era una confessione dei propri peccati e il tentativo di deporre una vecchia vita mal spesa per riceverne una nuova. Gesù non poteva confessare peccato alcuno; però sottomettendosi al rito del battesimo di Giovanni egli intende manifestare la sua disponibilità ad ascoltare la voce di Dio, la sua solidarietà con i peccatori e l’impegno per la loro conversione, nonché l’accettazione della vita come dedizione agli altri. La lettura evangelica narra l’evento: alle perplessità di Giovanni, Gesù risponde dicendo che occorre che “adempiamo ogni giustizia”. Con queste parole, Gesù afferma che c’è una giustizia da compiere, e cioè una volontà divina cui obbedire. Gesù afferma quindi la sua disponibilità a dedicarsi totalmente all’adempimento del volere salvifico divino, che d’ora in poi sarà la matrice di ogni sua azione fino al momento del battesimo di sangue sulla croce. A questa disponibilità di Gesù, il Padre risponde proclamandolo: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”. Queste parole richiamano le parole d’Isaia che abbiamo letto nella prima lettura. Il Padre si compiace nel suo Figlio, lo guarda con benevolenza e con gioia. Segno di questa benevolenza è la presenza dello Spirito Santo che si posa su Gesù.

Alla domanda iniziale sull’identità di Gesù, possiamo rispondere con le stesse parole di san Pietro, riportate dalla seconda lettura: Gesù è un uomo consacrato “in Spirito Santo e potenza”, e cioè nella potenza dello Spirito, che ha percorso tutta la Palestina “beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo”. La sua azione è stata vittoriosa, “perché Dio era con lui”.

Il battesimo cristiano attraverso il segno dell’acqua versata manifesta e realizza la nostra personale immersione nella vita di Cristo per poter vivere come lui ha vissuto, con la forza dello Spirito Santo. Così come per Gesù il battesimo è stato il momento decisivo della sua vocazione, in cui egli ha espresso la sua decisione di realizzare la missione affidatagli dal Padre, così anche per noi il battesimo rappresenta il punto di partenza di una vita donata a Cristo e al suo vangelo.

lunedì 6 gennaio 2020

GESÙ E IL SACRIFICIO




Gesù parla del sacrificio due volte, soltanto due volte nel vangelo, e lo cita per chiederne l’abolizione. I versetti del testo riprendono l’espressione della volontà di Dio già attestata nel libro del profeta Osea (6,6); Gesù rende manifesta la volontà del Padre con le stesse parole: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13 e 12,7). Va precisato che il riferimento all’ “io” non riguarda la persona di Gesù stesso, egli sta parlando a nome del Padre. L’io qui è Dio. Inoltre è chiaro che questa affermazione non dà spazio per alcuna significazione del sacrificio. Gesù non ne sta proponendo una nuova versione, ne sta annunciando l’abolizione. Esso va sostituito con la misericordia, cioè con l’amore materno, generativo, indistruttibile, gratuito, fedele nei confronti degli amabili e anche dei non amabili, degli innocenti e dei colpevoli.

Una simile sostituzione si pone alla sorgente del senso del vangelo, la cui prospettiva è sempre quella dell’amore così qualificato, più umano della nostra umanità. Restare sordi all’invito di Gesù significa travisare completamente il cristianesimo. E purtroppo si deve ammettere che buona parte della teologia, della liturgia e delle pratiche religiose della cristianità si sia mossa come se Gesù avesse detto il contrario: sacrificio io voglio e non misericordia.

[…]

Ciò che evochiamo con il temine “sacrificio” possiamo dirlo, e molto meglio, con parole che vengono dalla stessa testimonianza custodita nelle scritture cristiane. Mi riferisco specificamente al termine “pazienza” e al termine “passione” […] Pazienza e passione sono le parole che rendono giustizia all’esperienza del patire e dell’amare nella condizione umana senza riproporre il lessico del sacrificio.

Va poi chiarito che a queste due parole si aggiunge la parola “rinuncia”, che non è affatto sinonimo di “sacrificio”. Semmai indica il contrario. Mentre infatti il sacrificio è mortificazione, la rinuncia è liberazione.


Fonte: Roberto Mancini, Dal sacrificio alla misericordia. Un approccio filosofico, in Roberto Mancini – Enrico Mazza – Giuseppe Pulcinelli, Il cristiano e l’idea di sacrificio, a cura di Brunetto Salvarani, EDB 2019, pp. 97-108.

domenica 5 gennaio 2020

EPIFANIA DEL SIGNORE – 6 Gennaio 2020





Is 60,1-6; Sal 71 (72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12


Gesù è nato in un piccolo paese, la Palestina sottomessa al potere dell’Impero romano. La sua nascita è annunciata ad un gruppo di pastori che rappresentano gli umili, gli ultimi di quel umile e insignificante paese: “Oggi è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” è l’annuncio dell’angelo ai pastori. Apparentemente il mistero della notte del Natale finisce qui entro i limiti di questo piccolo popolo e di questi pochi pastori a cui l’evento è annunciato. Invece ecco che oggi questo annuncio acquista delle dimensioni universali, che vanno oltre i limiti del popolo palestinese: “Alcuni Magi vengono dall’oriente” ad adorare questo neonato e gli offrono in dono “oro, incenso e mirra”: l’oro, metallo prezioso per eccellenza, simbolo della regalità di Cristo; l’incenso, un profumo da bruciare usato nei riti religiosi, simbolo della sua divinità; la mirra, adoperata tra l’altro per scopi medicinali, simbolo dell’umanità di Gesù.

Vediamo quindi che gli umili di Israele e i lontani dell’oriente accolgono il Salvatore. I pastori dopo aver visto il bambino, dice san Matteo, annunciano agli altri ciò che è stato detto loro e hanno visto. I Magi ritornano alla loro terra e la tradizione cii dice che diventeranno i primi evangelizzatori del lontano oriente. Invece, abbiamo sentito che i capi dei sacerdoti e gli scribi, interrogati da Erode, sanno che il Messia deve nascere a Betlemme, ma rimangono indifferenti all’evento. Sanno e possono informarsi con sicurezza dove deve nascere il Messia, ma si tratta di una  conoscenza astratta, che non tocca la vita.

Quando Gesù rimane nell’orizzonte del puro sapere, non è riconosciuto come Salvatore. Per avvertire efficacemente la presenza  salvifica di Cristo, bisogna che il cuore sia sempre disponibile e in attesa. Allora le tracce del Signore si rivelano e conducono fino a lui. Diversamente sembrano opache e lasciano nel distacco. Il Verbo di Dio che appare “nella nostra carne mortale” fissa e attrae chi ha gli occhi della fede, e la fede è esattamente disponibilità e attenzione, desiderio e domanda. I Magi si sono messi in cammino, hanno interrogato, cercato, hanno osservato i segni del cielo, si sono informati sulle Scritture e hanno trovato.

L’Epifania è una festa di luce, una luce che guida tutti i popoli a Cristo. Di fronte a Cristo che viene, ciò che conta non è la razza, la cultura o la prudenza umana, ma la disponibilità del cuore ad accoglierlo e annunciarlo agli altri. L’Epifania diventa la logica e naturale conclusione del Natale e proietta tutti noi, come i pastori e come i Magi, sulle strade del mondo per annunciare a tutti gli uomini le meraviglie di Dio.



 


venerdì 3 gennaio 2020

II DOMENICA DOPO NATALE – 05.01.2020




Sir 24,1-2.3-4; Sal 247; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

In questa domenica non celebriamo nessuna festa particolare; viene riproposto alla nostra attenzione ancora il mistero del Natale.

Il tema ricorrente nelle letture bibliche d’oggi è quello della Sapienza: essa è elogiata nel brano della prima lettura, dove esprime il concreto agire di Dio nella storia della salvezza del Popolo eletto che ha raggiunto il suo massimo culmine nel Verbo - Sapienza di Dio fatto carne, di cui parla il vangelo d’oggi, e continua in tutti i credenti nel Signore Gesù attraverso il dono dello Spirito “di sapienza e di rivelazione”, di cui parla la seconda lettura. Nel suo misterioso disegno Dio ha rivelato se stesso attraverso la storia dell’antico popolo d’Israele ed infine ha piantato stabilmente la sua tenda in mezzo a noi per mezzo del Verbo fatto carne, la Sapienza di Dio fatta persona umana. A partire dal Natale, “abita” definitivamente in noi Cristo, “Sapienza” che ci rivela il Padre e dona la “benedizione” dello Spirito. In Cristo ci viene rivelato non solo il mistero di Dio ma anche il mistero dell’uomo.

Ci interessa veramente conoscere chi è Dio? Per noi cristiani, Dio non è un principio cosmico anonimo, un’entità astratta, ma è entrato nel nostro orizzonte storico in modo concreto nella figura di Gesù. Conoscere Dio vuol dire riconoscerlo come colui che invia il Figlio, Gesù il Cristo; vuol dire accettarlo come colui che si dona a noi mediante il Figlio; vuol dire, infine, scoprire Dio come Padre dell’Unigenito e come nostro Padre. In definitiva, è la coscienza filiale di Gesù che costituisce la norma della fede cristiana in Dio, nel Padre. Perciò il nostro rapporto con Dio è principalmente con il Padre di Gesù Cristo. San Giovanni dice: “Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio” (1Gv 5,10 - Primi vespri, lettura breve). L’evento del Natale ci permette di comprendere il mistero di Dio attraverso i tratti umani di Gesù. Egli è l’immagine visibile e il volto umano di Dio Padre.

Chi è l’uomo? L’uomo moderno è spesso disorientato: non sa bene chi sia e dove vada. Di qui la sua angoscia, la sua insicurezza, o le false sicurezze a cui si affida. Alla luce della fede, sappiamo che la nostra esistenza non è un vagare senza meta. In Cristo, nel suo modo di vivere, nei principi che hanno regolato la sua esistenza, possiamo cogliere non solo chi è Dio per noi ma anche che cosa siamo noi per Dio. Il nostro vuoto esistenziale può essere riempito solo da Cristo, Sapienza di Dio. Gesù è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).