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domenica 26 aprile 2020

L’OSSERVANZA DEI RITI




Il Libro dei riti (Lifi), attribuito a Confucio, è uno dei Cinque classici cinesi. Si tratta di una raccolta di quelle norme di  comportamento (sia rituale sia di condotta quotidiana e di etichetta) che il confucianesimo considerava essenziali per mettere l'azione umana in armonia con l'ordine universale.

Gian Antonio Stella, in un intervento pubblicato sul Corriere della Sera il 19 di questo mese dal titolo “Perché per noi è fondamentale l’addio ai defunti”, riporta un brano di questo famoso libro di Confucio: “un pappagallo può imparare a parlare, ma resterà comunque un uccello. Una scimmia può imparare a parlare, ma resterà comunque una bestia priva di ragione. L’uomo che non si attiene ai riti, benché possieda la favella, ha il cuore di un essere privo di ragione. (…) Così i grandi saggi apparsi nel mondo hanno formulato le norme di condotta per ammaestrare gli uomini e per consentir loro di distinguersi dalle bestie tramite l’osservanza dei riti”.

Forse possiamo fare tesoro di questo antichissimo insegnamento sia per rispettare le norme di comportamento quotidiano sia per rispettare la normativa rituale dei libri liturgici.
   

sabato 25 aprile 2020

DOMENICA III DI PASQUA (A) – 26 Aprile 2020




At 2,14a.22-33; Sal 15 (16); 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

San Pietro nel suo discorso di Pentecoste, proposto oggi come prima lettura, san Paolo nel discorso pronunciato ad Antiochia di Pisidia (At 13,14-43) e la tradizione dei Padri della Chiesa hanno interpretato le parole del Sal 15 come preghiera di Cristo, annuncio della sua risurrezione e piena glorificazione alla destra del Padre. Alla luce delle letture bibliche proclamate in questa domenica, in particolare di quella evangelica, possiamo mettere in rilievo la supplica del ritornello: “Mostraci, Signore, il sentiero della vita”, che fa ecco alle parole del salmo: “Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza...”

Tra le letture che abbiamo ascoltato campeggia la stupenda pagina del vangelo di san Luca. Gesù si fa compagno di viaggio di due dei suoi discepoli che, sconfortati, fanno ritorno alla cittadina di Emmaus. Essi non hanno capito il mistero della croce. Avviliti e delusi, lasciano Gerusalemme e con essa ogni speranza in colui che fu il loro Maestro e che hanno fin qui seguito con grande entusiasmo. Le vicende dei giorni dolorosi della passione li hanno profondamente trasformati. Non capiscono e non credono più nelle parole di Gesù. Ma ecco che nel cammino si fa loro compagno di strada un misterioso personaggio senza rivelare la propria identità. E’ Gesù, il quale, dopo aver ascoltato le perplessità dei due discepoli, li guida attraverso una rilettura dei libri della Scrittura ad una comprensione degli avvenimenti dolorosi dei giorni passati. Le parole e la compagnia di Gesù riempiono il cuore dei discepoli di gioia e calore. Per questo essi pregano il loro compagno di viaggio di trattenersi con loro. Seduti a tavola, nel momento dello spezzare il pane, i due discepoli  riconoscono in quel personaggio il loro Signore. Scomparso Gesù dalla loro presenza, i discepoli di Emmaus ritrovano la voglia di continuare insieme con gli altri compagni rimasti a Gerusalemme una vita di testimonianza e di annuncio del vangelo di Gesù.

La prima e la seconda lettura riprendono brani del discorso di san Pietro, in cui l’apostolo annuncia il mistero di Cristo morto e risorto. Passato il momento dello smarrimento, Pietro e gli altri discepoli annunciano con coraggio il vangelo di Gesù e le sue implicazioni nella vita di coloro che accolgono questo messaggio di salvezza. “Questo Gesù , Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni”. In questo mistero noi tutti siamo stati redenti affinché, liberati “dalla nostra vuota condotta”, cioè da una esistenza priva di significato e di valore, ritroviamo in Dio la nostra speranza.

Nei discepoli di Emmaus possiamo riconoscere noi stessi in continua ricerca della comprensione del mistero di Gesù. Come loro, anche noi siamo invitati a ripercorrere un cammino di fede attraverso l’ascolto della Parola che ci conduca a riconoscere il Risorto presente in mezzo a noi, in modo particolare nella partecipazione all’eucaristia, e, una volta riconosciuto, a far partecipi i nostri fratelli di questa esperienza.

venerdì 24 aprile 2020

UNA INCHIESTA SULL’APPLICAZIONE DEL MP “SUMMORUMM PONTIFICUM”




Un noto blog tradizionalista “Rorate caeli” (https://rorate-caeli.blogspot.com/) ha reso noto che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha inviato ai vescovi di tutto il mondo un questionario con una serie di domande sulla situazione dell’uso della forma straordinaria del Rito romano nella propria diocesi. Le nove domande toccano tutti i diversi aspetti della problematica; domande precise a cui i vescovi sono invitati di rispondere entro il prossimo mese di luglio.

Si afferma che con questa iniziativa papa Francesco intende essere informato sull’applicazione del MP Summorum Pontiicum tredici anni dopo la sua promulgazione.

Come ho detto ripetute volte in questo blog, non c’è strada migliore per risolvere la situazione in cui si trova il Rito romano che affidarsi e affidare ai vescovi l’autorità sulla liturgia che gli appartiene.


M. A.


Vedi sull'argomento: http://www.cittadellaeditrice.com/munera/sintonia-tra-magistero-pastorale-e-magistero-magistrale-sotto-esame-lo-stato-di-eccezione-liturgica-di-summorum-pontificum/

domenica 19 aprile 2020

LA LITURGIA IN TEMPO DI CORONA VIRUS




Parlare di liturgia in tempo di corona virus può sembrare un discorso fuori posto, un inutile divagare. Le chiese sono chiuse e, in ogni caso, non possono accogliere l’assemblea dei fedeli.

Infatti, “le azioni liturgiche non sono azioni private” (SC 26), ma in quanto “opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa” (SC 7), sono per sua natura celebrazioni comunitarie. Possiamo elencare i soggetti-Chiesa in modo progressivo, e cioè: assemblea, Chiesa locale/particolare, Chiesa universale. L’assemblea è la Chiesa locale che celebra in un dato luogo e in un determinato tempo. Ogni comunità liturgica rappresenta quella universale, nella quale le singole Chiese si appartengono e sono raccolte a formare l’unica Chiesa di Cristo.

Ecco quindi che l’azione liturgica, essendo per sua natura comunitaria, richiede la partecipazione personale. In questi giorni, molti fedeli e comunità religiose, specie quelle femminili, seguono la trasmissione della Messa in televisione, in particolare quella presieduta da papa Francesco, trasmessa ogni giorno da Tv2000. Anche se non si tratta di una vera “partecipazione”, tuttavia è un modo di unirsi spiritualmente alla celebrazione eucaristica che ha i suoi aspetti positivi: la parola di Dio viene proclamata e commentata in diretta, e può suscitare la preghiera e il senso di comunione spirituale con il Signore e con coloro che celebrano il rito eucaristico.

Questi giorni, in cui siamo tutti chiusi in casa, sono una occasione preziosa per la riscoperta della dimensione ecclesiale e cultuale delle famiglie. Come dice il Vaticano II, la famiglia può essere considerata una “chiesa domestica”, in cui i genitori e i loro figli sono annunciatori della fede con la parola e l’esempio (cf. Lumen Gentium 11). In questa “chiesa domestica” si può celebrare anche una “liturgia domestica”, con la preghiera prima dei pasti, la lettura della Bibbia e con altre iniziative e pratiche tradizionali come, ad esempio, la recita del santo Rosario.

venerdì 17 aprile 2020

DOMENICA II DI PASQUA (A) o della Divina Misericordia – 19 Aprile 2020





At 2,42-47; Sal 117 (118); 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31

La liturgia di questa domenica ci invita a riflettere sulla fede “difficile” dei discepoli, in particolare di san Tommaso, nel Signore risorto. In questo contesto, siamo condotti a riscoprire e rinvigorire la nostra fede nella presenza del Risorto in mezzo a noi. Notiamo che l’apostolo Tommaso approda alla fede nella risurrezione del Signore quando ritrova la comunità, il gruppo dei discepoli. Da parte sua, la Chiesa è chiamata a rendere visibile la presenza di Cristo risorto testimoniando una vita di comunione a tutti i livelli, come la primitiva comunità cristiana di Gerusalemme di cui ci parla la prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli: in essa “l’unione fraterna” si esprime non solo nell’ascolto dell’insegnamento degli apostoli e nei momenti della preghiera e della celebrazione eucaristica, ma anche e inseparabilmente negli altri settori della vita. Vediamo infatti che coloro che erano venuti alla fede stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune. Diventiamo testimoni del Risorto nella misura in cui siamo capaci di stabilire con gli altri rapporti di comunione, di dedizione, di solidarietà a tutti i livelli. Non il prodigio, ma l’amore che si fa dono, condivisione, pane spezzato, è il vero miracolo che testimonia la presenza del Signore risorto nella storia degli uomini.

La seconda lettura è una esortazione alla perseveranza nella fede gioiosa, che ci fa pregustare la meta della nostra salvezza. Questa gioia è dono del Risorto. Nel giorno di Pasqua i discepoli sono passati dalla paura che li ha dispersi alla gioia che li ha rinsaldati nella comunione: san Tommaso (come prima i due discepoli di Emmaus) ritrova con la fede in Cristo la gioia della comunione con gli altri. Incontrare Cristo risorto significa, in fondo, incontrare il proprio fratello, col quale Cristo ha voluto identificarsi.

Le parole di Gesù “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” danno un particolare rilievo alla scena, la quale assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto.

La celebrazione eucaristica ci dovrebbe aiutare a riconoscere Cristo presente nella comunità e a testimoniarlo ai fratelli con una degna condotta di vita. Il Risorto è con noi, verità fondamentale e fondante della nostra fede. Egli continua ad ammaestrarci mediante l’insegnamento degli apostoli, ritorna presente in mezzo a noi nella “frazione del pane”. A nostra volta noi lo incontriamo “nella preghiera” e gli rendiamo testimonianza mediante la comunione fraterna.



lunedì 13 aprile 2020

Sullo stato di eccezione liturgica




PIERLUIGI CONSORTI



Le liturgie sono rimaste vittime del coronavirus, che ha di fatto imposto di aggiustarne le forme espressive alla mancanza del popolo – ridotto ad una simbolica rappresentanza, ove possibile – e aprendo al tempo stesso un’antica ferita canonica sulle sue forme legittime. La liturgia non è un semplice accidente ecclesiale, ma costituisce la forma sostanziale della lex credendi. Il popolo di Dio prega così com’è, e nei secoli ha pregato in modo diversi, complessi e articolati che hanno portato alla compresenza di riti diversi, che caratterizzano anche le forme giuridiche dell’appartenenza ecclesiale.
Sicché il rito è molto più di una semplice forma cerimoniale della rappresentazione liturgica: esprime il modo di essere di una comunità di fede. Ed è per questo motivo che la Chiesa attribuisce ai Vescovi la responsabilità di regolare le modalità espressive della fede del popolo di Dio. Tali espressioni non hanno nulla a che fare con le tradizioni devozionali o folcloristiche: coinvolgono la Tradizione stessa della fede e le sue forme sacramentali.
Tale complessità si esprime nell’attuale can. 838 del Codice di diritto canonico della Chiesa latina, che costituisce un frutto del rinnovamento liturgico fatto proprio dal Concilio Vaticano II e, riformando la precedente tendenza accentratrice, ribadisce che la competenza in materia spetta ai Vescovi, con l’ovvio supporto della Santa Sede e delle Conferenze episcopali[1]. La liturgia esprime il munus sanctificandi e non può essere considerata una semplice modalità espressiva del culto, lasciata quindi alla creatività di un gruppo o di un singolo; ed è proprio per questo che l’autorità ecclesiale può obbligare a seguire una determinata forma liturgica.  
Su queste basi si colloca il Motu Proprio Summorum pontificum con cui nel 2007 Benedetto XVI ha ribadito il «principio antico» che ha guidato i Vescovi di Roma nel coordinamento della disciplina delle forme del culto, per «evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede»[2]. In questo atto normativo il Papa prende atto che la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II e promulgata da Paolo VI, e poi in parte rinnovata da Giovanni Paolo II, aveva in parte convissuto con alcune forme di resistenza del culto c.d. “tridentino”.  Tanto che il 3 ottobre 1984 la Congregazione per il culto divino aveva informato le Conferenze episcopali che il Papa aveva offerto «ai Vescovi diocesani la possibilità di usufruire di un indulto» per «poter celebrare la S. Messa usando il Messale Romano secondo l’edizione del 1962». Indulto, si badi bene. Non facoltà piena. Un indulto peraltro condizionato. Fra i vincoli previsti, primeggiava ­­che constasse che i sacerdoti ed i rispettivi fedeli che chiedevano di ricorrere al vecchio rito in nessun modo condividessero «le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970»[3].
Com’è noto, la questione liturgica aveva infatti tracimato in un movimento di aperta contestazione all’autorità pontificia e all’autorevolezza stessa del magistero conciliare, che il 2 luglio del 1988 portò all’emanazione del Motu proprio Ecclesia Dei adflicta, con cui il Papa prendeva atto dello scisma consumato dall’Arcivescovo Marcel Lefebvre, e al contempo manifestava ai «fedeli cattolici, che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina» la volontà di facilitare la loro comunione ecclesiale, istituendo una Commissione col compito «di facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose finora in vario modo legati alla Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, che desiderino rimanere uniti al Successore di Pietro nella Chiesa Cattolica». In sostanza, una porta aperta per rientrare nella piena comunione.
A distanza di quasi venti anni, Summorum Pontificum ha consolidato l’indulto sub condicione già concesso dal Giovanni Paolo II, ammettendo come espressione straordinaria della lex credendi l’uso del Messale romano del 1962, considerato appunto un mero uso dell’unico rito romano. La normatività della lingua latina aiuta a soppesare il valore del termine usus, che indica la «messa in opera» dell’azione liturgica, intesa nel senso letterale come forma di culto, che nulla ha a che vedere con la pregnanza – anche giuridica – del «rito», che rimane unico per tutta la Chiesa latina. Alla luce di questo Motu proprio anche l’istituzione della Commissione Ecclesia Dei, voluta da Giovanni Paolo II e dall’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede,  va giuridicamente apprezzata nel suo valore sostanziale: un organismo di vigilanza volto ad impedire che l’uso del rituale preconciliare potesse mantenere il valore eversivo dell’autorità della Tradizione che gli era stato impresso dal vescovo scismatico e dai suoi fedeli.  
Diventato Sommo Pontefice, Joseph Ratzinger ha continuato a perseverare nella sua strategia di ricomposizione dello scisma, tanto che, avendo già sdoganato il Messale del 1962 quale forma straordinaria di celebrazione, il 21 gennaio 2009 il Prefetto della Congregazione dei Vescovi, in forza delle facoltà concessegli da Papa Benedetto, decreta la rimessione della scomunica ai vescovi scismatici seguaci di Lefebvre. Un atto di cui il Papa ebbe presto a pentirsi, in quanto non fu preso per il verso giusto dai suoi destinatari. Sicché convenne che la questione aveva perso il sapore apparentemente legato alla forma del culto, e si era definitivamente spostata sul piano della sfida dottrinale. Così il 10 marzo 2009 incardinò la Commissione Ecclesia Dei – adflicta, si ricordi! – nella Congregazione per la dottrina della fede. Una strada ribadita ancora recentemente da Papa Francesco, che il 17 gennaio 2019 ha nuovamente affermato che i temi affrontati nel 1988 da Ecclesia Dei adflictariguardavano questioni dottrinali e non di mera forma del culto, e ha pertanto soppresso definitivamente la vecchia Commissione e assegnato ad un’apposita sezione della Congregazione per la Dottrina della Fede l’opera di vigilanza, di promozione e di tutela dagli errori che hanno prodotto lo scisma, e che verosimilmente ancora sfidano l’autorità del Concilio e del Papa.
La ricostruzione degli atti giuridici e del loro contesto dà atto della permanente ferita prodotta alla Tradizione della Chiesa dal mantenimento di una forma di celebrazione straordinaria, che era inizialmente giustificata dalla strategia di ricomposizione dello scisma condotta da Benedetto XVI, e che egli stesso ha ammesso non avere prodotto i frutti sperati. Ed è per questi motivi sostanziali che un nutrito gruppo di teologi ha chiesto alla Congregazione della dottrina della fede di rivedere due Decreti del 25 marzo 2020 (Quo magis e Cum sanctissima) che, in tempo di pandemia, hanno straordinariamente modificato il Messale del 1962, dando l’impropria impressione che essi possano essere utilizzati come forma di celebrazione alternativa a quella ordinaria.
Sotto questo profilo i teologi danno voce ad una legittima preoccupazione circa la plausibilità dell’uso indifferenziato dei due Messali; quasi che si fosse dimenticato che l’uso di quello del 1962 costituisce un’eccezione alla regola ordinaria. Eccezione stabilita in forza di un’emergenza che, col tempo, ha inequivocabilmente assunto la veste di una forma potenzialmente eversiva dell’autorità del Magistero conciliare e pontificio (che non troppo tempo fa è intervenuto modificando proprio la lettera del canone 838, per evitarne un’interpretazione stravagante che si era fatta strada negli uffici della Curia, di cui ho già scritto).
Bisogna riconoscere che i teologi non devono essere lasciati da soli in quest’opera di stimolo della gerarchia a rivedere le proprie posizioni. E’ necessario che anche i canonisti prendano la parola, soprattutto se si considera che un ufficiale della Curia romana ha frettolosamente criticato l’appello dei teologi, proprio sulla base di argomentazioni giuridiche. Ancorché debolissime, esse denotano come la dimenticanza della sostanza della Tradizione produca facilmente la dimenticanza delle basi stesse del diritto liturgico della Chiesa latina. Parlo della ineliminabile tentazione di interpretare il diritto a partire dalle eccezioni, rendendole la parte centrale anziché marginale della norma canonica. Un’abitudine che Manzoni riconosceva in don Abbondio, e che alberga sempre più frequentemente nei canonisti curiali che si rifugiano nel latinorum perdendo di vista il disegno dello Spirito. Cosa che in tempi di pandemia deve essere ritenuta particolarmente pericolosa. Si rischia altrimenti di concentrarsi sulle sole forme, perdendo di vista che esse vestono la sostanza.


[1] Tratto questo tema in modo più completo in P. Consorti, Liturgia e diritto . Conseguenze giuridiche della riaffermazione del Magnum principium per cui la preghiera liturgica deve essere capita dal popolo, in Rivista liturgica, 2019, pp. 37-65.
[2] Cito dal M.P. Summorum Pontificum, che a sua volta cita dal n. 397 dell’Ordinamento generale del Messale Romano, 2002, 3a edizione.
[3] Lettera circolare Quattuor ab hinc annos, inviata in data 3 ottobre 1984 dalla Congregazione per il culto divino ai Presidenti delle Conferenze Episcopali.

 

 

 


domenica 12 aprile 2020

UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE DELLA SCRITTURA




La Bibbia rivela strutturalmente una duplicità: da un lato essa è comunicazione divina, trascendente e quindi destinata a rivestire un valore assoluto e permanente; d’altro lato, però, si presenta in una espressione umana, secondo un linguaggio, generi letterari ed esperienze storiche profondamente connessi ad autori legati al tempo e allo spazio.

Ecco, allora, la necessità di codificare regole per una corretta interpretazione della Scrittura che salvaguardi quella duplicità, la quale non è solo compatta nel testo sacro ma è anche fondamentale per la stessa realtà della rivelazione biblica che è analoga all’Incarnazione. Infatti come il Verbo, Parola eterna e perfetta di Dio, si fa carne in Gesù, secondo l’asserto del vangelo di Giovanni (Gv 1,3.14), così anche la Bibbia è Parola divina, “che permane in eterno”, incarnata in parole ed eventi umani che sono storici e contingenti.
[…]
La moderna ermeneutica ricorre a una strumentazione sofisticata elaborata col contributo delle discipline filosofiche, storico-critiche, linguistiche e teologiche. Essa, comunque, dà rilievo ad un duplice movimento. Da un lato, opera un percorso centripeto, risalendo alle radici del testo per una sua piena comprensione. D’altro lato, però, una sorta di movimento centrifugo, riporta il testo all’orizzonte del lettore odierno, così da ritrascriverne e far rivivere in pienezza il messaggio originario secondo le nuove coordinate storico-culturali e, per il credente, secondo le istanze esistenziali della sua fede.

Fonte: Gianfranco Ravasi, La santa violenza (Intersezioni 530), il Mulino, Bologna 2019, pp. 122-125,


venerdì 10 aprile 2020

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO 12 Aprile 2020




At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Lc 24,1-12


La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore.

La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano. Il vangelo narra l’evento storico della risurrezione di Gesù, ripensato e raccontato a scopo di fede: Giovanni sottolinea che si tratta di una vera risurrezione, ma l’interesse prevalente dell’evangelista sembra essere di carattere ecclesiale; egli infatti sottolinea anzitutto l’itinerario di fede dei discepoli nel Cristo risorto. Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata.

Ci possiamo soffermare brevemente sulla seconda lettura alternativa, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, dove l’affermazione centrale del brano è: “Cristo, nostra Pasqua è stato immolato!”, parole riprese poi dall’antifona alla comunione. Il prefazio pasquale I parla di Cristo “vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo”. La sequenza adopera l’espressione: “vittima pasquale”, riferita sempre a Cristo, e aggiunge: “L’agnello ha redento il suo gregge”. Nell’Antico Testamento l’immolazione dell’agnello era l’elemento essenziale della celebrazione della Pasqua (cf. Es 12). Il Nuovo Testamento, e particolarmente il vangelo di Giovanni, hanno considerato l’agnello pasquale come figura di Gesù. Egli muore sulla croce nella Paresceve, nell’ora in cui nel tempio si immolavano gli agnelli per la celebrazione della cena pasquale. Lo stesso apostolo Giovanni nell’Apocalisse descrive la glorificazione dell’Agnello: “L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione […] A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli” (Ap 5, 12-13). L’agnello sgozzato e glorificato è la nostra Pasqua!

Giovanni Crisostomo, parlando dell’eucaristia, dice: “Noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il sacrificio è sempre uno solo […] Anche ora noi offriamo quella vittima, che allora fu offerta e che mai si consumerà” (Omelie sulla Lettera agli Ebrei 17,3). Compiendo il rito pasquale gli Israeliti sono stati partecipi, di generazione in generazione, della stessa liberazione e salvezza sperimentata dai loro padri nella notte in cui il Signore li fece uscire dall’Egitto. Celebrando l’eucaristia, i cristiani siamo partecipi dell’Agnello pasquale, del “corpo donato” e del “sangue versato” di Cristo, quale evento decisivo della liberazione di tutta l’umanità dalla forza del peccato e dal potere della morte.

La fede nella risurrezione, che è il cuore della fede cristiana, non coincide con una semplice fiducia nella vita, concetto caro ad una certa cultura odierna, ma credere nella vita che nasce dalla morte grazie alla forza dell’amore di Cristo. Essa consente di entrare nelle situazioni di morte guardando oltre la morte e vivendo la risurrezione, ovvero amando e cercando di amare come Cristo ha amato noi.  


martedì 7 aprile 2020

GIOVEDI SANTO: MESSA VESPERTINA “IN CENA DOMINI” 9 Aprile 2020




Es 12,1-8.11-14; Sal 115 (116); 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

Il brano evangelico d’oggi inizia con queste parole: “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.  La sera del Giovedì Santo celebriamo l’ora di Gesù, l’ora in cui egli manifesta pienamente se stesso facendosi dono per noi. Nell’eucaristia facciamo memoria di Gesù, del suo dono personale in nostro favore e siamo inviati ai nostri fratelli per farli partecipi della “pienezza di carità e di vita” (cf. colletta della messa) attinta dal mistero eucaristico.

Nel racconto fondatore dell’eucaristia riportato da san Paolo (cf. seconda lettura) si pone nelle labbra di Gesù per ben due volte, dopo le parole sul pane e quelle sul calice, l’ordine: “fate questo in memoria di me”. Cosa significa fare, ripetere questi gesti “in memoria” di Gesù? Per cogliere il significato di questa espressione bisogna risalire all’istituzione della Pasqua ebraica, di cui ci parla la prima lettura; dopo le prescrizioni rituali riportate dal testo, il brano conclude con queste parole: “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore…” Nella cultura giudeo-cristiana, ricordare o fare memoria esprime la convinzione che l’evento salvifico si attualizza nella storia. In questo senso, l’eucaristia non è un ricordo solo interiore o un segno senza riscontro nella realtà, ma ripresentazione efficace nel sacramento del sacrificio di Cristo nell’oggi della Chiesa in tensione verso la realtà gloriosa del Cristo risorto.  

La memoria di Gesù è dinamica: essa proietta in avanti la Chiesa che in questo modo ha preso contatto con il suo Signore e che deve esprimere nell’esistenza ordinaria quello che Gesù ha vissuto sulla terra, vale a dire l’amore a Dio a agli uomini “sino alla fine”. Questo è il senso della lavanda dei piedi (cf. vangelo), tramandata solo da Giovani al posto dell’istituzione eucaristica. In questo modo, san Giovanni presenta l’eucaristia come il sacramento dell’abbassamento, dell’obbedienza, del sacrificio spirituale e dell’amore di Cristo, del dono totale di sé per la salvezza di noi tutti.


sabato 4 aprile 2020

DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (A) 5 Aprile 2020




Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14 – 27,66

Questa domenica introduce nella celebrazione del mistero pasquale di Gesù, mistero di morte e di vita. Ecco perché la liturgia ci presenta questi due quadri: l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme in cui la folla lo acclama re benedetto dal Signore e le ore tragiche del tradimento, della solitudine e della passione e morte in croce. Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della sua morte e risurrezione. Al tempo stesso che noi commemoriamo questo evento, chiediamo la grazia di seguirlo fino alla croce, per partecipare della sua risurrezione (cf. colletta).

La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, parla di un giusto sempre disponibile all’ascolto della parola di Dio e alla proclamazione del messaggio di salvezza a favore degli oppressi, e quindi proprio per questo perseguitato. Questo servo giusto e fedele di Dio trova il suo pieno riscontro nel Cristo che deve pagare con la morte la sua volontà di liberare l’uomo dalla oppressione che lo tiene in soggezione. Il racconto della passione, che leggiamo nel vangelo di Matteo, descrive questo dramma. Infine, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che in questo modo Cristo è giunto alla vita e ha aperto a noi le porte della vita. Il prefazio della messa proclama sinteticamente: “Con la sua morte lavò le nostre colpe e con la sua risurrezione ci acquistò la salvezza”.

La passione e morte di Gesù è raccontata dai quattro evangelisti con diversità di accentuazioni. Le caratteristiche fondamentali del modo con cui Matteo presenta la figura di Gesù negli eventi della passione si possono riassumere attorno a tre temi fondamentali: - Gesù subisce l’oltraggio degli uomini, ma lo fa in modo pienamente consapevole e non passivo, rimanendo pieno padrone della propria sorte. La morte non è stata per lui una fatalità ineluttabile a cui rassegnarsi, ma una scelta sofferta e consapevole di coerente fedeltà. - La passione e morte di Gesù è il compimento delle Scritture e quindi delle promesse di salvezza fatte da Dio al popolo d’Israele. Matteo, insistendo sulla realizzazione delle Scritture, ci fa capire che il progetto di Dio e l’obbedienza del Figlio a Lui vanno avanti nonostante l’incomprensione e l’ostilità dell’uomo, anzi, paradossalmente proprio attraverso di esse. - La morte di Gesù è presentata come un evento definitivo nella storia dell’umanità. Con il suo sacrificio, Gesù inaugura un nuovo periodo della storia, i cosiddetti tempi ultimi, i tempi in cui ha inizio il dominio di Dio sul mondo. Gli sconvolgimenti tellurici, la terra che trema e le rocce che si spezzano, ne sono un segno.

Nel dramma di Gesù si compie il dramma di ciascuno di noi. La sofferenza che proviene dalla coerenza e dalla fedeltà a Dio, alla verità, alla giustizia, apparentemente porta alla sconfitta, al fallimento, addirittura alla morte; in realtà però, essa conduce alla vita. Così è stato in Cristo, e così è in noi.