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venerdì 29 novembre 2019

DOMENICA I DI AVVENTO ( A ) 01.12.2019 - In attesa vigilante del Signore




Salmo responsoriale: (Sal 121) - Rit. “Andiamo con gioia incontro al Signore”

L’Avvento ricorda le due venute del Signore e le mette in intimo rapporto, la prima nel mistero della incarnazione e la seconda alla fine dei tempi: “Al suo primo avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa” (prefazio dell’Avvento I). Questa I domenica è tutta quanta incentrata sulla venuta del Signore alla fine dei tempi, alla quale siamo invitati a prepararci. Quando facciamo delle scelte nella vita di ogni giorno, le facciamo avendo davanti l’immagine di un futuro che intendiamo raggiungere: economico, sociale, culturale, ecc. Oggi siamo invitati a farle guardando anche al futuro di Dio, di un Dio che viene per noi.

Gesù afferma nel vangelo (Mt 24,37-44) che l’incontro con lui alla fine del nostro pellegrinaggio sarà improvviso e inatteso: “vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”. Non si tratta di una vigilanza passiva e inoperosa, ma attiva e dinamica; dobbiamo andare incontro al Cristo che viene “con le buone opere” (colletta). Tutta la vita dev’essere una preparazione prolungata e fedele a Cristo che viene. Un messaggio simile lo troviamo nella prima lettura (Is 2,1-5), in cui il profeta ci esorta a percorrere il nostro cammino “nella luce del Signore”. San Paolo, riprendendo il simbolismo della luce e, dopo aver ricordato che siamo nella notte in attesa dell’alba luminosa dell’avvento di Cristo, ci invita (Rm 13,11-14) a svegliarci perché il giorno della salvezza è vicino. In questo contesto, l’Apostolo aggiunge che dobbiamo gettare via le “opere delle tenebre” e comportarci “come in pieno giorno”. Il futuro verso il quale camminiamo deve innestare nel presente la tensione per l’impegno nei valori che, vissuti nel presente, conducono a quelli futuri e definitivi. Ogni attimo della nostra vita è impastato di eternità. Perdere la memoria del futuro equivale ad appiattire il presente. I cristiani siamo uomini e donne di memoria, e quindi di attesa. La nostra esistenza di credenti è destinata a svolgersi, come è naturale, in seno alla storia concreta degli uomini ma allo stesso tempo è chiamata a far lievitare la storia con la novità della speranza, cioè con la fede nel progetto di salvezza che Dio compie nella storia.

La partecipazione all’Eucaristia ci sostiene nel nostro cammino e ci guida ai beni eterni (cfr. orazione dopo la comunione), è “pegno di salvezza eterna” (orazione sulle offerte).


domenica 24 novembre 2019

LA TERMINOLOGIA SACRIFICALE






Quasi tutti gli autori del Nuovo Testamento che si fanno portavoce della Chiesa delle origini, sono concordi nell’interpretare la morte di Gesù come evento salvifico, ma nel modo di presentarlo emerge nei loro scritti un ventaglio di modelli di riferimento, con una pluralità di formulazioni: come sofferenza del giusto, come sacrificio espiatorio, come espiazione vicaria, come riscatto-liberazione dalle potenze negative, come vittoria sulle potenze della morte, ecc. Tra questi schemi a ben vedere quello del sacrificio risulta essere uno tra gli altri, e comunque non preponderante, eppure è quello che nella storia della teologia e nello sviluppo della dogmatica cristiana si è imposto in modo prevalente, fino quasi a essere considerato l’unico omnicomprensivo.

Questa tendenza è stata favorita anche dalla versione delle parole della consacrazione del Messale romano attualmente in uso, che nel rendere le parole pronunciate sul pane, introduce il termine “sacrificio” (“Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”), del tutto assente nell’editio typica in latino (“Hoc est corpus meum, quod pro vobis tradetur”, che di fatto è più vicina al testo originale greco, cf. Lc 22,19b: hymōn didόmenon, “dato per voi”). Indubbiamente tale aggiunta in lingua italiana (che non trova nessun riscontro nelle traduzioni dei messali inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese, ecc.) induce a interpretare in prospettiva sacrificale-cultuale la donazione di Cristo. In realtà nei testi neotestamentari dell’istituzione (1 Cor 11,23-26; Mc 14, 22-24; Lc 22,19-20; Mt 26,26-28) non ricorre mai il lessico tecnico-sacrificale (come sarebbero i verbi e sostantivi geci: prosphérō-prosphorá [offrire-offerta], thúō-thusía  [sacrificare-sacrificio], latreúein-latreía [servire, rendere culto-adorazione]).

Fonte: Giuseppe Pulcinelli, L’interpretazione sacrificale della morte di Gesù. La prospettiva biblica, in Roberto Mancini – Enrico Mazza – Giuseppe Pulcinelli, Il cristiano e l’idea di sacrificio, a cura di Brunetto Salvarani, EDB 2019, pp. 31-32.

venerdì 22 novembre 2019

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 24 Novembre 2019 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO



2Sam 5,1-3; Sal 121 (122); Col 1,12-20; Lc 23,35-43

L’anno liturgico si chiude con questa domenica, dedicata a Cristo re dell’universo, chiave di lettura del mondo e della storia. In concreto, la solennità odierna propone la regalità di Cristo nella sua luce biblica e non in quella sociologica. Bisogna quindi evitare le ambiguità che hanno talvolta caratterizzato questa festa in un passato non lontano. Il dominio regale di Cristo si esercita sull’universo e sugli individui piuttosto che sulle società. Infatti, le letture bibliche insistono sull’aspetto escatologico, e cioè ultraterreno e spirituale della regalità di Cristo. “Il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 677).

La prima lettura narra l’unzione di Davide consacrato a re d’Israele. La figura di Davide prefigura quella di Cristo, l’Unto per eccellenza (cf I Vespri, ant. Al Magn.). La dimensione universale e cosmica della regalità di Cristo è celebrata in modo particolare nell’inno della Lettera ai Colossesi che ci viene proposto come seconda lettura: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui [Cristo] e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”. Tra l’inno paolino e la descrizione della crocifissione di Gesù corre un abisso, a prima vista inconciliabile. Infatti, il brano del vangelo ci ricorda che Gesù esercita il suo dominio non tramite la forza, ma nella debolezza della croce. Il potere che Cristo rivendica sull’uomo non è di mondana potenza, ma proposta di valori liberanti, ai quali chiede un’adesione libera e personale promettendo a colui che li accoglie, come al buon ladrone del vangelo, la partecipazione al suo regno: “oggi sarai con me nel paradiso”.

Il regno di Cristo si stabilisce in “ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato” (colletta). Se vogliamo quindi che Cristo re eserciti il suo potere sul mondo, dobbiamo anzitutto far sì che il suo regno si stabilisca dentro di noi, nelle profondità del nostro essere, da dove prende origine la nostra espressione, la nostra parola, le nostre opere e il nostro dinamismo interiore. Cristo regna nei nostri cuori quando “viviamo secondo la verità nella carità e cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Cristo” (Lodi mattutine, lettura breve: Ef 4,15).

La celebrazione eucaristica anticipa in noi i doni del regno di Dio. Già nell’Antico Testamento la comunione tra Dio egli uomini, che caratterizzava l’avvento definitivo del Messia e del suo regno, viene rappresentata con l’immagine di un banchetto sacro al quale il Dio di Israele inviterà tutti i popoli (Is 25,6-10). Questa immagine è ripresa anche dal vangelo nella parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-4; Lc 14,16-24) e delle dieci vergini (Mt 25,1-13; Lc 12,35-38).


domenica 17 novembre 2019

HA ANCORA SENSO PREGARE?




Alcuni ritengono che la preghiera sia un fenomeno del passato, un’evasione, o anche un alibi rispetto alle responsabilità e ai compiti urgenti dell’uomo nella storia. Non c’è dubbio che la preghiera può diventare un’evasione o un alibi. Si tratta però di una degenerazione del pregare che è ben altra cosa.

Un noto pensatore e teologo di punta dei nostri tempi, non allineato,Vito Mancuso, qualche anno fa affermava che pregare è umano, un antichissimo e universale gesto umano. Gli esseri umani fanno molte cose nella loro esistenza e tra queste, in ogni parte del mondo, pregano. La preghiera, aggiungeva, è un fenomeno universale. Si può anche giungere al paradosso di uomini che non credono in Dio ma che pregano, e cioè che almeno qualche volta nella vita si ritrovano a formulare parole o pensieri in forme non usuali rivolgendoli al mistero che avvolge la vita – esattamente nel senso richiamato da Norberto Bobbio quando diceva: “Come uomo di ragione, non di fede, so di essere immerso nel mistero. Gli esseri umani preghiamo perché avvertiamo il bisogno di rivolgerci alla potenza superiore che sovrasta le nostre vite e in qualche modo conoscerla, placarla, ringraziarla, a prescindere poi se tale potenza venga da noi intesa come personale (il Dio della Bibbia) o impersonale (il Fato degli antichi) o al di là delle categorie di personale-impersonale (così, ad esempio, il Nirvana del buddismo, inteso come il fine ultimo della vita). La ragione umana può giungere a non riconoscere nulla di superiore a se stessa, ciononostante il sentimento complessivo dell’esistenza sente in certi momenti il bisogno di rivolgersi alla potenza imponderabile della vita che ci sovrasta dicendo “tu”, da spirito libero a spirito libero.

Nel testo di Mancuso che ho sintetizzato e aggiornato, si parla della preghiera in un senso molto generale, per così dire ecumenico, globale. Ma cos’è veramente la preghiera? In alcuni ambienti laici e filosofici, la definiscono come un riflettere, un narrare, un situarsi dell’uomo nella riflessione sulla la propria radicale finitezza. Pregare, in qualunque modo sia formulata la preghiera, è il tentativo di andare oltre la precarietà dell’esistere. In questo contesto, altri comprendono la preghiera come un atto intimo di riflessione sul senso di sé e del tempo, carico di potenziale critico e addirittura rivoluzionario Altri ancora parlano della preghiera come un impegnativo riflettere sulla vita in situazioni concrete di particolare interesse. In questo contesto, la preghiera è considerata un’attività che illumina e orienta le decisioni esistenziali. Possiamo affermare che la vita stessa può essere preghiera. Può essere la ricerca di un bagliore di luce in mezzo alle tenebre, o di un respiro di rimettere in moto, o un bisogno di rimettere ordine nei propri pensieri. Riprendendo un’idea di Norberto Bobbio, il cardinale Carlo Maria Martini affermava che “la differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza”.  

Se per pregare si intende “apertura verso il mistero che ci avvolge”, mi domando: è preghiera questa? La preghiera implica che ci sia qualcuno che ascolta. La preghiera non può essere soltanto riflessione interiore sul mio destino, sul male, sull’origine e la fine delle cose, una riflessione in cui nessuno mi ascolta e che rivolgo soltanto a me stesso. Per il cristianesimo pregare è uscire da se stessi. Certamente pregare è anche un riflettere impegnativo sulla vita in situazioni concrete. Ma non basta, pregare è principalmente accogliere una presenza, o meglio accogliere la Presenza. Ma qui sta la difficoltà principale per molti oggi: la crisi della preghiera è principalmente la crisi di una immagine personale di Dio, non da tutti percepita, non da tutti accolta.

La preghiera agisce su colui che prega e fa emergere la sua identità profonda. Un cristiano che si ritiene tale e non riesce a pregare, probabilmente è carente di fede cristiana. Infatti, possiamo affermare che la preghiera non è altro che fede applicata, una “fede parlante”. Come l’amore, neppure la fede parlante vuole soltanto soddisfare i propri bisogni, imporre i propri desideri, manipolare Dio, o addirittura costringerlo in maniera magica. Il senso più nascosto della preghiera non è quello di attendersi la risoluzione dei propri drammi o problemi, ma la speranza di comprendere a fondo quale sia il sentiero di percorrere nella vita.

A molte cose non si può pensare senza ringraziare (in tedesco, pensare e ringraziare sono parole molto simili, che hanno un certo parentesco: Denken und Danken). È cosa profondamente umana poter ringraziare. E chi devo ringraziare? Spesso è stato soltanto un caso che tutto mi sia andato bene nella salute, nella professione, nella vita familiare, ecc. Però non si può ringraziare il caso, non posso rivolgermi ad esso. Come persona credente io vorrei ringraziare chi sta dietro alla cosa e anche dietro a tutte le necessità.

Non mancano nella vita momenti in cui abbiamo bisogno di chiedere qualcosa, aiuto e sostegno. A chi dovrei chiedere? Come creature umane, siamo limitati e anche manchevoli. Perché dovrei nascondere, tacere, rimuovere ciò davanti a Dio?

Come e quando pregare? Nella Bibbia la preghiera della persona devota o meno viene praticata per lo più in maniera naturale e spontanea, nel cuore della vita e a partire dalla vita: è una ingenua effusione del cuore. Santa Teresa di Gesù Bambino ha definito la preghiera con queste parole: “Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il cielo, è un grido di riconoscenza e di amore nella prova e nella gioia”.

La crisi della preghiera oggi, è dovuta più che a fattori importanti, ma pur sempre estrinseci (progresso tecnocratico, evoluzionismo, secolarizzazione), innanzitutto ad un progressivo fraintendimento del senso (o quid est) della preghiera stessa, ad una sua caricaturizzazione in senso formalistico e farisaico. In secondo luogo, la crisi della preghiera proverrebbe da importanti obiezioni antropologiche e teologiche a suo carico: da un lato, l’importanza assegnata all’autosufficienza, che rende difficile “fidarsi dell’Altrove”; dall’altro, l’incompatibilità tra il Dio della metafisica e una preghiera tradizionale, che non sia quella propria di una fede filosofica.

Ci sono alcuni ostacoli che si frappongono alla pratica della preghiera, sotto la forma di fenomeni annidati nel clima culturale che si respira. Così, ad esempio, il narcisismo che segna la nostra società.  Un narcisismo che è diventato un vero e proprio stile di vita dell’uomo contemporaneo. A livello individuale si manifesta in un esagerato investimento nella propria immagine a spese del’ “io” autentico, in un individualismo che compromette la capacità di indirizzarsi ad un “tu” e di inserirsi in un “noi”. Ne risulta una personalità patologica, descrivibile con i tratti del primato accordato all’emozionale sul razionale. Non c’è perciò da meravigliarsi che il singolo si senta ormai autorizzato alle più strane miscele religiose: un pizzico di islam, un altro di giudaismo, qualche briciola di cristianesimo. La preghiera cristiana rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull’io, capaci di produrre automatismi nei quali l’orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di una apertura libera al Dio trascendente.

Nel Padre nostro, che più che una formula da ripetere, esprime lo stile della preghiera cristiana, mai si dice “io”, mai “mio”; è una preghiera in cui si è liberi dalla tirannia di questo “io” che vuol mettersi al centro. Il primo atteggiamento per pregare è un decentramento, è imparare a dire “tu”: il tuo nome, il tuo Regno, la tua volontà; e – di conseguenza – è imparare a dire “noi: il nostro pane, i nostri debiti, le nostre tentazioni. Pregare è decentrarsi dal proprio io e ricentrarsi nella relazione con Dio e con i nostri simili.

Il narcisismo è una variante dell’antropocentrismo che caratterizza la cultura attuale che fa dell’uomo il centro e il protagonista di ogni relazione che, invece per la fede cristiana ha il suo inizio in Dio. Questa visione antropocentrica rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. La preghiera non è un sedativo per le nostre paure o una risposta al nostro bisogno di protezione. La preghiera è invece anzitutto ascolto, non solo della natura, della storia, di se stessi, ma per il cristiano ascolto soprattutto della Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf. Gv 1,1), per l’uomo “in principio è l’ascolto”.

La prima esperienza di umanità che noi tutti facciamo è quella della “filialità”: noi esistiamo perché figli. Figli di un uomo e di una donna e del loro amore, figli di una storia, figli di Dio. La prima esperienza è l’essere generati, da altri, a una vita che non è mia, che viene da prima di me e che va oltre me. A una vita che è dono. La prima esperienza è che nessuno è figlio di se stesso. La prima parola del Padre nostro ci apre alla trascendenza; la preghiera è sempre apertura alla trascendenza, ad un “aldilà”, ad un “altrimenti”.

Se ritorniamo col pensiero ad alcuni snodi decisivi della nostra vita, ci accorgiamo che spesso è stata la parola di un amico, la lettura di un libro o l’incontro con qualcuno ad illuminare una scelta difficile che dovevamo prendere, una situazione che stavamo vivendo.

Per i cristiani la Bibbia è un libro amico, che raccoglie un millennio di esperienze-limite umane. In esso troviamo tutto il repertorio della storia umana: guerre, deportazioni, stermini, ma anche gioia, misericordia, perdono, e via dicendo.

La Bibbia è una biblioteca di 73 libri, divisi tra Antico Testamento e Nuovo Testamento. Possiamo dire che essa racconta l’alleanza che Dio stabilisce con gli uomini lungo il tempo. Nei diversi eventi raccontati dalla Bibbia troviamo le orme di questa alleanza che trova il suo momento culminante nell’evento di Cristo Gesù.

La Bibbia è stata scritta nel corso di 1600 anni circa. Gli uomini che l’hanno scritta sono vissuti in periodi diversi. Alcuni di loro erano molto istruiti, altri no. Alcuni erano agricoltori, altri pescatori, pastori, profeti, giudici o re. Ma dietro questi uomini, noi crediamo che c’è lo stesso Dio.

È vero che la Bibbia è un libro complesso, con alcuni brani difficili da leggere. Ma è anche vero che il messaggio fondamentale non è difficile da comprendere,

La Bibbia può diventare il libro delle nostre preghiere.

M. A.






sabato 16 novembre 2019

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 17 Novembre 2019




Ml 3,19-20°; Sal 97 (98); 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

La fine del mondo e il giudizio universale, temi che ci propone oggi la parola di Dio, sono da considerarsi come un giorno di festa in cui Dio viene a stabilire definitivamente la giustizia. Dopo le severe parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel vangelo, può sembrare fuori posto questa affermazione.

Invece questo giorno, che la Bibbia chiama “giorno del Signore”, è descritto dalla prima lettura come “un giorno rovente come un forno”, in cui Dio annienterà i superbi e gli ingiusti, ma salverà coloro che hanno timore del suo nome, e cioè quelli che servono Dio con fedeltà. Per questi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (cf anche I Vespri, ant. al Magn). Il vangelo raccoglie le parole di Gesù sulla fine del Tempio di Gerusalemme. E quando gli chiedono: “Signore, quando accadrà questo…?”, Gesù non risponde, ma prende l’occasione per portare l’attenzione dei suoi discepoli sugli ultimi tempi, di cui ne rivela l’incertezza del giorno e dell’ora. In attesa del compimento della vicenda terrena, ci viene dato come codice di comportamento l’esortazione di san Paolo ai cristiani di Tessalonica: in attesa del trionfo della giustizia, in attesa che il male sia vinto, l’Apostolo ci invita a vivere la nostra vita nella pace lavorando, cercando di non essere di peso agli altri, guadagnandoci così il nostro destino. Questa esortazione coincide con l’affermazione di Gesù che conclude il discorso sulla fine dei tempi con queste parole: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (II Vespri, ant. al Magn.).

La perseveranza è frutto della grazia, è frutto dello Spirito, ma è anche risposta coerente e quotidiana della nostra volontà al dono di Dio. La vita cristiana non è passiva attesa di doni che piovono dal cielo; è invece ricerca appassionata, impegno generoso che si traduce in un concreto sforzo per testimoniare la giustizia e la salvezza di Dio. In questo mondo siamo di passaggio. Tante volte invece le realtà terrene ci si offrono in tutta la loro forza seducente, in modo che non è facile mantenersene liberi. Il nostro sguardo deve rivolgersi verso quei beni che ci procurano “felicità piena e duratura” (colletta). A questo proposito, sant’Agostino dice che il cristiano deve “servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo” (Ufficio delle letture, 2a lettura). Dio ha progetti di pace su di noi, non progetti di sventura (cf ant. d’ingresso, Ger 29,11). Infatti, dopo le severe parole di Gesù, abbiamo ascoltato che egli afferma: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. Pertanto, il linguaggio immaginoso che usa la Scrittura per descrivere il giorno finale non deve incutere paura. Non serve vivere in attesa ansiosa e oziosa del futuro. L’attesa cristiana si chiama speranza, la quale non è né ansiosa né oziosa ma attiva. La vita è amministrazione di un dono che ci è stato affidato, quindi è responsabilità. Bisogna prendere sul serio il tempo presente. Siamo chiamati non all’evasione dal mondo, ma a costruire qui e ora le premesse che preparano l’avvento definitivo del regno di Dio.

Il Signore che verrà alla fine dei tempi come giudice è realmente presente nell’Eucaristia sotto gli umili segni sacramentali del pane e del vino. Nell’Eucaristia quindi è racchiusa e già in atto la beata speranza che alimenta l’attesa e il desiderio della Chiesa e di ogni credente nel ritorno del Signore. Perciò possiamo gridare ai quattro venti con gli antichi cristiani: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).


domenica 10 novembre 2019

Salmo 15 (14) Il giusto vive alla presenza del Signore





[1] Salmo. Di Davide

Signore, chi abiterà nella tua tenda?
Chi dimorerà nella tua santa montagna?

[2] Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore, 

[3] non sparge calunnie con la sua lingua,
non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.

[4] Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
Anche se ha giurato a proprio danno,
mantiene la parola;

[5] non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l'innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.


La Liturgia delle Ore propone il Sal 15 nei Vespri del lunedì della prima settimana del salterio col titolo seguente: “Chi è degno di stare davanti al Signore?”. Questo salmo è una breve composizione a carattere catechetico che si svolge in forma di dialogo. Il testo si apre con una domanda indirizzata a Dio su chi è degno di entrare nel santuario. In epoca veterotestamentaria, Dio poteva essere incontrato solo in determinati luoghi sacri a ciò designati, e tali luoghi avevano una accessibilità limitata.

Dopo la domanda, segue la risposta nella quale sono enumerate, come in un decalogo, dieci condizioni etiche per poter varcare la soglia del tempio e celebrarvi il culto divino: nella prima di esse (v. 2) è compendiata l’osservanza di tutta la legge divina come pratica della perfezione e della giustizia; nelle altre sono contemplati i doveri verso il prossimo (vv. 2-5b). Nella breve conclusione, a chi osserva questi insegnamenti è promessa una felicità perenne (v. 5cd). 

I rabbini d’Israele consideravano questo salmo come un compendio dell’intera legge data da Dio al popolo mentre saliva dal deserto verso la terra promessa. In seguito, ogni israelita che si recava in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme troverà in questo salmo il suo itinerario spirituale.

Analisi del testo. Il v.1 parla di abitare nella “tua tenda” e di dimorare nella “santa montagna”. Il tempio era situato sul monte santo di Sion, la collina sudorientale di Gerusalemme, prefigurato dalla “tenda dell’incontro” tra Dio e il suo popolo (cf. Es 27,21 e passim). L’arca dell’alleanza, fatta costruire da Mosè su ordine del Signore, era la tenda di Dio che accompagnò gli Israeliti, attraverso i loro molteplici spostamenti e le loro vicissitudini storiche, fino all’epoca salomonica; in essa il Signore agiva e manifestava la sua volontà. La montagna santa di Dio è il monte Sion, la roccaforte di Gerusalemme, ultimo termine della conquista della terra promessa. I verbi “dimorare” (gur) e “abitare” (šākan) indicano una residenza temporanea, Dopotutto nessuno abitava permanentemente nel santuario. 

Il v. 2 indica tre condizioni generali per poter varcare la soglia del tempio: camminare senza colpa, praticare la giustizia e dire la verità che si ha nel cuore. Da notare nel testo una profonda unità tra il cuore, la lingua e le azioni, cioè il pensare, il dire e il fare. Continuando la lettura del salmo, notiamo l’insistenza sull’uso della lingua come modalità che determina in bene o in male le relazioni umane. Ben quattro condizioni delle otto più particolari riguardano proprio il tema della parola, della comunicazione: la sincerità, la calunnia, l’insulto, il giuramento (vv. 3 e 4).

Il v, 5 si riferisce all’utilizzo che la persona retta fa del denaro. La persona irreprensibile è generosa verso il povero e presta denaro senza interesse. I saggi d’Israele insegnavano che “chi accresce il patrimonio con l’usura e l’interesse, lo accumula per chi ha pietà dei miseri” (Pr 28,8).

Dimensione cristiana del salmo. La risposta alla domanda iniziale del salmo è stata interpretata dalla tradizione cristiana come un insegnamento rivolto da Cristo ai suoi fedeli. Ma in Cristo la tradizione ha visto anche realizzato tale insegnamento. Gesù è la Verità fatta persona (cf. Gv 14,6), che ha vissuto in modo tale da poter indicare a tutti e a ciascuno di noi la via che conduce a Dio (cf. Mc 12,14 e par.). I precetti della legge antica sono di gran lunga superati dall’amore di carità che egli praticò e insegnò agli uomini (cf. Mt 5).

La domanda formulata nel nostro salmo è simile a quella rivolta da un tale a Gesù: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. Gesù gli risponde con l’elenco dei comandamenti (cf. Mt 19,16-20). Vi è nella risposta del salmo come in quella di Gesù, una particolare insistenza sui doveri verso il prossimo. Non può essere ospite di Dio chi non rispetta e ama il suo prossimo e non agisce con lealtà e sincerità nei suoi confronti. San Giovanni scrive: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. È questo il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1 Gv 4,20-21).

Come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “Cristo è il vero tempio di Dio, il luogo in cui abita la sua gloria” (n. 1197). L’umanità di Cristo è il vero tempio di Dio; essa è perciò anche la tenda e il monte santo, nel quale Dio ha fissato personalmente la sua dimora in mezzo agli uomini. Con la venuta di Cristo non vi è più bisogno di un luogo santo nel quale Dio manifesti la sua presenza particolare. Gesù è la stessa presenza di Dio, il pieno compimento del santuario. Non è negata l’importanza delle nostre chiese, dei nostri luoghi di culto, ma sono da interpretare semplicemente come segni che rimandano alla vera realtà che è Cristo risorto.

Gesù afferma: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Cristo è quindi realmente presente nell’assemblea riunita nel suo nome. Il principale luogo di culto, di incontro con Dio non è perciò il tempio, ma la stessa assemblea dei credenti, la comunità che celebra, che possiamo chiamare il “secondo corpo umano del Signore” o anche, come afferma Ef  2,21, “tempio santo del Signore”.  

Nella Liturgia delle Ore, il nostro salmo ha come sottotitolo un testo preso da Eb 12,22: “Voi vi siete accostati al monte di Sion, alla città del Dio vivente”. Il testo della lettera agli Ebrei (12,18-24) si trova in un contesto che fa un paragone tra la situazione religiosa degli israeliti e quella dei cristiani. L’accostarsi a Dio non avviene più in una teofania terrificante come sul Sinai, ma in una città costruita da Dio, quella alla quale aspiravano i patriarchi, e che perciò è già celeste. Questo riferimento alla Gerusalemme celeste invita ad interpretare il Sal 15 nella sua dimensione escatologica. La domanda iniziale del salmo può interpretarsi in questo modo: “Chi abiterà nella Gerusalemme celeste?” In questo modo, il seguito del salmo diventa un programma di vita cristiana.

 

 

Bibliografia: Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002; Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper Longman III, I salmi. Introduzione e commento, Edizioni GBU, Chieti 2018.

venerdì 8 novembre 2019

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 10 Novembre 2019



2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16 (17); 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38

La prima lettura, tratta dal secondo libro dei Maccabei, ci riporta alcuni tratti dell’epico racconto del martirio dei “sette fratelli”, detti appunto Maccabei; sette fratelli che, con la loro madre, vanno con fierezza incontro al martirio, per non rinnegare la propria fede, nella certezza che Dio li “risusciterà a vita nuova ed eterna”. E’ la prima volta che nella tradizione biblica dell’Antico Testamento appare in maniera esplicita la credenza nella “risurrezione dei morti”. Nel brano evangelico vediamo che Gesù in polemica con i sadducei, che non credevano alla risurrezione, afferma, facendo riferimento a Mosè, che “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. Il fatto che Dio si presenta a Mosè nel roveto ardente come il “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” (Es 3,6), vuol dire che nel momento stesso che egli parla egli si sente in rapporto “vitale” coi Patriarchi morti ormai da centinaia di anni. La seconda lettura contempla il disegno di Dio su di noi: all’origine della nostra vita c’è l’amore con cui Dio gratuitamente ci ha amato; al suo traguardo c’è il compimento della speranza che Dio ha posto nei nostri cuori; nel momento presente c’è il conforto con cui egli ci rende stabili “in ogni opera e parola di bene”. Il futuro appartiene alla vita, perché Dio è fedele ai doni fatti e ci libera da tutte le potenze del male e della morte. La vita oltre la vita esiste!

In queste ultime domeniche dell’anno liturgico siamo invitati a dare uno sguardo fiducioso alle ultime e misteriose realtà che ci attendono alla fine della nostra esistenza terrena. Andiamo incontro ad una vita nuova e definitiva, che sarà il superamento di tutto ciò che oggi ci limita, ci condiziona e ci opprime. Questa vita è una vita trasformata per “la forza dello Spirito Santo” (orazione dopo la comunione), ed è partecipazione alla vita stessa di Cristo, “il quale è morto per noi, perché viviamo insieme con lui” (Ufficio delle letture, responsorio). Tra la situazione attuale in cui ci troviamo e lo stato di risorti che attendiamo si compia in noi, c’è continuità ma anche radicale diversità. Ora siamo in cammino verso i beni futuri (cf colletta). La nostra vita quindi non è allo sbaraglio, ma è orientata verso un traguardo ben definito.

L’eucaristia è nutrimento del nostro pellegrinaggio e pegno della vita futura. Gesù lo ha detto chiaramente nel discorso pronunciato nella sinagoga di Cafàrnao: “Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,58). Infatti, l’effetto proprio dell’eucaristia è la mutazione dell’uomo in Cristo per cui possiamo dire con san Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Questa reciproca immanenza ci fa camminare ancora sulla terra, ma già abbracciati e in comunione con Cristo, che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Dice il Vaticano II che Cristo “col nutrimento del proprio corpo e del proprio sangue”, ci rende “partecipi della sua vita gloriosa” (Lumen Gentium, n.48). Nell’ora del nostro passaggio da questa vita riceviamo questo sacramento come viatico per la vita eterna e pegno della risurrezione.


domenica 3 novembre 2019

L’EUCARISTIA RIPENSATA PROFONDAMENTE




Andrea Grillo, Eucaristia. Azione rituale. Forme storiche. Essenza sistematica (Nuovo Corso di Teologia Sistematica 8), Queriniana, Brescia 2019. 445 pp. (€ 30,00).

Il manuale di Andrea Grillo ripensa la teologia dell’eucaristia in modo profondamente rinnovato. Elabora infatti una sintesi sistematica che si dimostra adeguata all’esperienza del sacramento dischiusa dalla riforma liturgica postconciliare, procedendo a una opportuna revisione delle tradizionali categorie sistematiche di interpretazione dell’eucaristia.

La prima parte del volume è dedicata allo studio dell’azione rituale del sacramento e ne indaga la forma fondamentale: qui la celebrazione dell’eucaristia risulta luogo di comunione tra Cristo e la chiesa, nella forma sia di una “parola-preghiera” sia di un “pasto-eucaristia”. Una seconda parte prende sul serio la forma storica della messa, analizzando il divenire delle prassi celebrative in parallelo con le interpretazioni teologiche che ne sono scaturite. Una terza parte propone una sintesi sistematica che, onde produrre una intelligenza rituale dell’eucaristia, componga e integri le diverse fonti del sapere, del sentire e dell’agire eucaristici.

Ne risulta una panoramica complessiva assai convincente e illuminante, che offre una adeguata “traduzione della tradizione” eucaristica, tenendo conto delle principali novità teoriche presenti nel dibattito contemporaneo a livello sia liturgico, sia storico, sia sistematico.

Un’opera realmente e coraggiosamente innovativa tanto sul piano intellettuale quanto su quello teologico. Un manuale, la cui gestazione è durata vent’anni, che è frutto di una vasta esperienza di insegnamento e che sarà punto di riferimento imprescindibile negli anni a venire.

(Risvolto del volume)

sabato 2 novembre 2019

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) - 3 Novembre 2019




Sap 11,22-12,2; Sal 144; 2 Ts 1,11-2,2; Lc 19,1-10

Grandezza, maestà, gloria e splendore rifulgono nelle opere di Dio; ma è sempre l’uomo la manifestazione più alta dell’opera di Dio: “la gloria di Dio è l’uomo vivente”.

L’assioma “la gloria di Dio è l’uomo vivente” è atto ad esprimere la “giusta” relazione tra Dio e l’uomo. Come ciò si realizza lo illustrano le letture bibliche di questa domenica. La prima lettura ci ricorda che siamo piccola cosa davanti a Dio, ma siamo pur sempre oggetto del suo amore, per questo siamo preziosi. Inoltre c’è in noi una particella, un riflesso dello “spirito incorruttibile” di Dio, quindi siamo gloria di Dio e sua manifestazione. Il racconto evangelico parla di Zaccheo, piccolo di statura e pubblicano, anzi capo dei pubblicani, e quindi un dannato agli occhi dei zelanti farisei. Per Gesù Zaccheo è invece anzitutto un figlio di Abramo da ricuperare, perché è chiamato anche lui all’eredità promessa da Dio (cf. Ef 3,6). Dio cerca l’uomo, in particolare il peccatore, nella sua stessa casa per offrirgli la sua amicizia. La seconda lettura afferma che Dio si avvicina all’uomo, ma vuole che anche l’uomo faccia la sua parte, come d’altronde ha fatto pure Zaccheo: l’autore della seconda lettera ai Tessalonicesi dopo aver affermato che Dio con la sua potenza è all’opera nella nostra vita, ci invita ad assumerla dando ad essa un significato in funzione dell’attesa del regno di Dio. Così anche l’orazione colletta chiede al Signore che “camminiamo senza ostacoli” verso i beni da lui promessi.

La parola di Dio che viene proclamata oggi ci invita a contemplare ed onorare la dignità della persona umana, la nostra dignità di creature di Dio. Tutto ciò che offende la dignità dell’uomo, offende anche Dio, creatore e redentore dell’uomo. La dignità dell’uomo esige che egli agisca secondo scelte consapevoli e coerenti con la sua vocazione. Siamo gloria di Dio, se ci apriamo alla sua onnipotente misericordia. Infatti, solo Dio può darci il dono di servirlo “in modo lodevole e degno” (colletta). Secondo san Giovanni la gloria nascosta di Dio è apparsa nel Cristo fra gli uomini (cf. Gv 1,14; 11,4.40). Perciò Dio è veramente glorificato in noi nella misura in cui portiamo a compimento nel vissuto quotidiano la chiamata ad essere lode vivente del Padre, a immagine di Cristo, capolavoro di tutto il creato. Ogni uomo è chiamato a realizzare questa sublime vocazione. Ad imitazione del Signore, dobbiamo onorare questa eccelsa dignità in noi e negli altri.

La partecipazione eucaristia è prova suprema della dignità dell’uomo, perché amato in modo sublime da Cristo che “ha donato ai figli della camera nuziale il godimento del suo corpo e del suo sangue” (San Cirillo di Gerusalemme, PG 32,1100). In altre parole, l’orazione sulle offerte afferma la stessa dottrina quando dice che il sacrificio eucaristico ci ottiene la “pienezza” della misericordia divina.