La liturgia è “l’esercizio della funzione (munus) sacerdotale di Cristo” (SC 7); è anche opera della Chiesa, in cui “ciascuno, svolge il proprio ufficio (munus)” (SC 28). I pastori “esercitano in essa la funzione (munus) di dispensatori dei misteri di Dio” (SC 19). Partecipando alla liturgia il Signore “fa di noi stessi un’offerta (munus) eterna a lui” (SC 12). “Munus” può esprimere bene il mistero liturgico nella sua globalità.
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domenica 27 maggio 2018
ARCHITETTURA DI PROSSIMITA
Monastero di Bose
XVI CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
venerdì 25 maggio 2018
SANTISSIMA TRINITA’ (B) – 27 Maggio 2018
Dt 4,32-34.39-40; Sal 32 (33);
Rm 8,14-17; Mt 28,16-20
La celebrazione della
solennità della Santissima Trinità alla fine dell’itinerario che abbiamo
percorso da Natale al Calvario e dalla Tomba vuota alla venuta dello Spirito è
un invito a contemplare le radici di tutto quanto abbiamo commemorato nel
decorso dell’anno liturgico. Si tratta di una storia di salvezza il cui
protagonista è Dio Uno e Trino. Alla luce del mistero trinitario tutto acquista
il suo senso. Tutto discende dal Padre, per Gesù Cristo, suo Figlio fatto uomo,
grazie all’azione dello Spirito Santo e alla sua presenza nei nostri cuori.
Tutto risale al Padre per il suo Figlio, nello Spirito. È’ questo il doppio
movimento, discendente e ascendente, del mistero della salvezza.
Noi sappiamo qualcosa di Dio
perché egli si è manifestato nella storia come creatore e salvatore. Le letture
bibliche di questa celebrazione ci invitano ad approfondire, in una prospettiva
di fede, i modi in cui Dio si rivela e si fa presente nella storia della
salvezza e nella nostra vita di ogni giorno. La prima lettura propone un brano
del discorso tenuto da Mosè al popolo d’Israele uscito dall’Egitto e vicino
ormai alle soglie della terra promessa. Mosè invita i suoi ascoltatori a
prendere coscienza della benevola vicinanza che Dio ha mostrato con loro. Egli
è il Santo al quale l’essere umano non può accostarsi. Eppure ha parlato ai
figli di Israele ed essi hanno udito la sua voce e sono rimasti vivi. Poi Mosè
trae la conseguenza di tutto ciò: la fedeltà a Dio unico Signore è la garanzia
della libertà e della felicità. Questa pagina della Scrittura ricorda ciò che
non bisogna mai dimenticare: Dio non si dimostra, si mostra. Nel Nuovo
Testamento segno di questa presenza di Dio è Gesù, il quale ci rassicura nel
brano evangelico d’oggi: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo”.
Dio non è il gendarme della
nostra vita, ma il Padre che attraverso il suo Spirito ci rende sempre più
figli ed eredi sul modello di suo Figlio unigenito Gesù. Nella seconda lettura,
l’apostolo Paolo ci esorta ad aprire il nostro cuore a questo Spirito.
Trasformati dall’amore dello Spirito, i nostri rapporti devono essere filiali
verso il Padre e fraterni verso il Cristo.
Nel brano evangelico, Gesù ci
invita a passare dalla comunione interpersonale con Dio alla testimonianza di
questa esperienza. Infatti, congedandosi degli apostoli, Gesù afferma
solennemente: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate
dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandole nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che ci ho
comandato”.
Alla luce del mistero
trinitario, Dio ci si manifesta come un Dio che esce da se stesso, ama il mondo
e l’uomo; si comunica e dialoga con lui. Un Dio quindi vicino, che viene al nostro
incontro per mezzo di suo Figlio. Un Dio che addirittura ci fa partecipi della
sua vita. Un Dio di cui possiamo ben dire: “grande è il suo amore per noi”
(antifona d’ingresso).
domenica 20 maggio 2018
SPIRITUALITÀ E BIBBIA
Gianfranco Ravasi, Spiritualità
e Bibbia (Giornale di teologia 404), Queriniana, Brescia 2018. 260 pp. 17
€.
L’itinerario qui proposto percorre sostanzialmente due traiettorie.
Dopo aver offerto la chiave simbolica per entrare nell’orizzonte
spirituale delle sacre Scritture, ricco di iridescenze tematiche, Ravasi
procede innanzitutto ad uno spoglio integrale dei due Testamenti nel loro
ordine canonico. Qui si rendono necessarie alcune soste specifiche affrontando
testi capitali come i profeti, i salmi, Giobbe,
il Cantico, le beatitudini – veri e
propri sentieri d’altura della spiritualità biblica.
L’altro percorso seguito è più panoramico: Ravasi delinea una
mappa sintetica della spiritualità delle Scritture, così da comporre un
messaggio teologico unitario, basato sulla categoria di “conoscenza” nella sua
vasta molteplicità semantica biblica.
Questi due movimenti, accompagnati da una costellazione di temi
aggregati – come lo Spirito santo, la povertà, la lectio divina o la spiritualità della sofferenza – delineano alla
fine non solo una guida alla mistica, ma anche un’essenziale sintesi della
teologia biblica. Lì fin dall’origine lo spirituale è esperienza affettiva ma
non irrazionale, interiore ma non astratta: è esperienza incorporea, ma anche “carnale”,
è mistero ma anche epifania, è silenzio ma non afasia.
(Quarta di copertina)
sabato 19 maggio 2018
DOMENICA DI PENTECOSTE (B) Messa del giorno (20 Maggio 2018)
At 2,1-11; Sal 103 (104); Gal 5,16-25; Gv 15,26-27;
16,12-15
La prima lettura narra l’evento di cui facciamo
oggi memoria: alla sera della festa ebraica di pentecoste, cinquanta giorni
dopo pasqua, gli apostoli con Maria e gli altri discepoli di Gesù erano
raccolti in preghiera nel cenacolo a Gerusalemme. All’improvviso apparve lo
Spirito Santo in forma di lingue di fuoco che si posarono su ciascuno di loro.
In questo modo si adempiva la promessa che Gesù aveva fatto prima di salire in
cielo, di cui parla anche il vangelo d’oggi.
Per gli Ebrei la festa della
pentecoste era inizialmente una gioiosa festa contadina chiamata “festa della
mietitura” o “festa dei primi frutti”. Si celebrava il cinquantesimo giorno
dopo la pasqua e indicava l’inizio della mietitura del grano. Lo scopo
primitivo di questa festa era quindi il ringraziamento a Dio per i frutti della
terra. Però col passar delle generazioni, gli Ebrei diedero alla festa un
significato nuovo. Nel giorno di pentecoste s’iniziò a commemorare il dono
della Legge di Dio sul Sinai. Gli Ebrei passavano la vigilia della festa
leggendo la Legge che Dio stesso aveva consegnato per loro a Mosè.
La Pentecoste cristiana ricorda un
altro dono, non una legge scritta ma lo Spirito Santo, che è l’amore del Padre
e del Figlio.
Nel secondo discorso d’addio, riportato dal vangelo d’oggi, Gesù promette agli
apostoli l’invio dello “Spirito della verità”, espressione ripetuta ben due
volte. “Della verità”, cioè in stretto rapporto con la verità rivelata da Gesù
Cristo. Lo Spirito è il dono di comprensione piena di tutta la verità rivelata
da Gesù, interpretandola in riferimento agli eventi che man mano accadranno
fino alla fine dei tempi. Dice Gesù agli apostoli: “Quando verrà lui, lo
Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”, ci permetterà cioè di
comprendere in profondità le parole e i gesti del Signore.
Lo Spirito aiuta ad introdursi sempre più
nell’intimo della verità portata da Cristo; e questa penetrazione non si
risolve in un puro fatto conoscitivo, ma si attua in un profondo rapporto di
vita, quale risultato dell’aver accolto la parola di Cristo come fermento
lievitante di tutta la propria esistenza. Lo Spirito quindi non è concorrente
rispetto al ruolo di Gesù, ma rappresenta il vertice e il compimento della sua
missione.
Della vita nuova che scaturisce dal dono dello
Spirito ci dà una descrizione essenziale san Paolo nella seconda lettura. Tutti
noi che abbiamo ricevuto lo Spirito, dobbiamo camminare “secondo lo Spirito”. Lo Spirito è fonte e
garanzia di libertà per quelli che si lasciano guidare dal suo impulso
interiore. Siccome tutta la volontà di Dio è concentrata nel precetto
dell’amore, per quelli che seguono l’impulso interiore dello Spirito non c’è
bisogno del controllo esterno della legge, perché ne attuano spontaneamente
tutte le esigenze. Perciò abbiamo cantato: “Vieni Santo Spirito, riempi i cuori
dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore” (canto al vangelo).
La pentecoste ebraica ricordava il dono della Legge sul Sinai. La pentecoste
cristiana celebra il dono dello Spirito, che effonde nei nostri cuori l’amore
di Dio, la nuova legge interiore che deve guidare la vita del cristiano. Nella
pentecoste cristiana il cenacolo appare come il nuovo Sinai e il dono della
Legge, che inaugurò a suo tempo il periodo dell’antica alleanza, è sostituito
ora con il dono dello Spirito, che inaugura invece l’era della nuova alleanza.
mercoledì 16 maggio 2018
Ecco il verbale segreto dell’incontro fra Paolo VI e Lefebvre
Pubblicata nel libro di padre Sapienza la
trascrizione del colloquio dell’11 settembre 1976 tra il vescovo
tradizionalista e Montini. Documento utile per leggere certe dinamiche interne
alla Chiesa di oggi. Vedere
qui
domenica 13 maggio 2018
ABITI LITURGICI DI FORMA BAROCCA?
Come
ogni abito, anche le vesti per la liturgia sono sempre in relazione con l’immagine
che colui che le indossa ha di sé o che vuole dare di sé come presbitero e, di
conseguenza, l’immagine di Chiesa che con le vesti liturgiche si intende
rappresentare ed esprimere. Di sua natura l’abito è sempre frutto di un
immaginario e, al tempo stesso, genera un immaginario, per questo il presbitero
che sceglie di indossare abiti liturgici di forma e foggia barocca, proietta un
immaginario barocco su sé stesso e sull’intera liturgia che presiede. Anche
inconsapevolmente, realizza un’immagine di Chiesa e di ministero ordinato che
non corrisponde all’oggi tanto della Chiesa quanto del mondo nel quale essa
vive e con il quale si realizza. Si attua e, in certi casi si persegue una
forma di anacronismo che crea distanza spirituale e culturale tra la
rappresentazione che nella liturgia si dà della Chiesa e l’oggi della storia.
Una consapevole non accettazione del presente è sempre una fuga dalla realtà.
Questo
spirito è bene espresso nell’accenno che la costituzione del Vaticano II sulla
liturgia riserva alle vesti liturgiche: “Nel promuovere e favorire un’autentica
arte sacra, gli Ordinari facciano in modo di ricercare piuttosto una nobile
bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli
ornamenti sacri” (SC 124).
Fonte:
Goffredo Boselli, Sorgenti di vita.
Liturgia e ricerca spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, pp.
85-86.
venerdì 11 maggio 2018
ASCENSIONE DEL SIGNORE (B) – 13 Maggio 2018
At
1,1-11; Sal 46 (47); Ef 4,1-13; Mc 16,15-20
Il
racconto dell’evento dell’ascensione del Signore è affidato alla prima lettura,
costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia la
preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi
alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo
vivendo tra l’ascensione del Signore e il suo ritorno alla fine dei tempi.
Collocando all’inizio degli Atti degli Apostoli, come alla fine del suo
Vangelo, un riferimento all’ascensione del Signore, san Luca lascia
immediatamente intendere che la missione della Chiesa continua quella di Gesù.
Ecco quindi che il messaggio dell’ascensione può essere colto secondo due
dimensioni complementari: da una parte l’ascensione è il punto di arrivo della
vita di Gesù; dall’altra è il punto di partenza della vita della Chiesa. La festa
dell’ascensione del Signore è la celebrazione della partenza-assenza di Cristo
a beneficio della presenza-responsabilità della Chiesa. Nei brani della
Scrittura che ascoltiamo oggi, predomina questa seconda prospettiva. Nella
lettura evangelica, il fatto dell’ascensione appare come lo spartiacque tra
Gesù e la Chiesa, ma nel tempo stesso come l’evento che fonda la continuità tra
le rispettive missioni. La seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini,
dice la stessa cosa quando afferma che Cristo “asceso in alto […] ha
distribuito doni agli uomini”, e cioè ha comunicato al mondo quella ricchezza
di vita che ha conquistato per sé. Con la fine della sua presenza nel nostro
mondo e la sua conseguente glorificazione presso il Padre, Cristo inizia una
nuova presenza al mondo tramite la missione e la testimonianza affidate ai suoi
discepoli.
Se
il fatto della piena glorificazione di Cristo apre il nostro cuore alla
speranza, la certezza della sua presenza ci dona il coraggio dell’impegno. Non
basta stare a guardare verso il cielo, in attesa degli eventi; il comando del
Signore ai discepoli è chiaro: “di me sarete testimoni […] fino ai confini
della terra”. La speranza cristiana non legittima alcuna fuga dal mondo, dalla
storia. Viceversa è connaturale alla nostra speranza offrire dal di dentro
della città terrena una concreta testimonianza della città celeste. Per Cristo
l’ascensione è un traguardo raggiunto, per noi ancora un cammino da fare. La
vita del Signore è stata un’esistenza pienamente disponibile al servizio degli
uomini. E’ percorrendo la stessa strada di Cristo che noi raggiungeremo lo
stesso suo traguardo. E’ soltanto attraverso la testimonianza di un amore
fattivo che possiamo raggiungere la giusta statura e la piena maturità così da
essere degni di partecipare all’esaltazione di Cristo alla destra del Padre.
Nell’eucaristia
la Chiesa pellegrina sulla terra riaccende continuamente la speranza della
patria eterna (cf. orazione dopo la comunione).
domenica 6 maggio 2018
MARYAM, LA “MUSULMANA”
Alla
Vergine il Corano riserva un posto di grande onore. Innanzitutto il suo nome, Maryam, ricorre più frequentemente nel
Corano che nei vangeli. È citata ben 34 volte, contro le 19 del Nuovo
Testamento, poi, è l’unica, tra le donne, presenti nel Corano, ad essere chiamata
per nome, ed è nominata più spesso di Gesù (Isã)
definito sempre in relazione a lei come “figlio di Maryam”, al contrario della
tradizione cristiana nella quale è Maria ad essere definita come madre di Gesù.
Inoltre, un’intera Sura – ripartizione testuale in cui è diviso il Corano –, la
XIX, è intitolata e dedicata a lei, in un’altra, la III, si parla ancora di
Maria, ma inserita in un contesto più ampio, nel quale si invita ad accogliere
la verità del Corano respingendo le false credenze degli ebrei e dei cristiani,
e in altri versetti ancora si attribuiscono a lei importanti meriti e qualità:
è la “più veritiera”, la “purificata da Allah”, “colei che ha ricevuto lo
spirito”.
Della
sua vita il testo sacro islamico conosce la nascita (III,36), il ritiro nel
Tempio (XIX,16), l’annunciazione (III,45-51; XIX,17-21). Il parto (XIX,22-27),
la difesa della sua innocenza (XIX,27-33).
Fonte:
Adriana Valerio, Maria di Nazaret. Storia,
tradizioni, dogmi, Il Mulino, Bologna 2017, p. 53.
venerdì 4 maggio 2018
DOMENICA VI DI PASQUA (B) – 6 Maggio 2018
At 10,25-26.34-35.44-48; dal Sal 97 (98); 1Gv 4,7-10;
Gv 15,9-17
Amare
ed essere amati è il desiderio più profondo, il bisogno più vitale della
persona umana fin dalla più tenera infanzia e in tutte le età della vita. Ma
che cos’è l’amore? A questa domanda sono state date molte risposte. Il tema
centrale della parola di Dio proclamata in questa domenica è l’amore cristiano,
che ha la sua sorgente in Dio. Domenica scorsa abbiamo ricordato le parole di
Gesù: “chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”. Oggi viene chiarito
il senso di questo rimanere in Cristo, si tratta di rimanere nel suo amore.
Nella seconda lettura, san Giovanni afferma che “Dio è amore”. Nell’amore sta
racchiusa tutta l’essenza della vita divina che circola nella Trinità. In Dio
l’amore non è solo un aspetto tra altri, ma coincide con il suo stesso essere:
Dio è relazione, rapporto, comunicazione, insomma amore. In fatti san Giovanni
afferma che l’amore di Dio si manifesta nel fatto che egli ha mandato il suo
Figlio unigenito nel mondo, “perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”.
L’ampiezza dell’amore di Dio si manifesta quindi nel mistero pasquale di morte
e risurrezione. La pasqua di Gesù è il segno più evidente della serietà del suo
amore, perché come ci ricorda egli stesso nel brano evangelico, “nessuno ha un
amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. La discesa
dello Spirito Santo sul pagano Cornelio ed i suoi familiari, di cui parla la
prima lettura, fa capire a Pietro e alla prima comunità cristiana che l’amore
salvifico di Dio non conosce barriere: Dio “accoglie chi lo teme e pratica la
giustizia, a qualunque nazione appartenga”. La morte di Cristo sulla croce è
donata da Dio a tutti gli uomini, senza distinzione: “per noi uomini e per la
nostra salvezza…”, recitiamo nel Credo.
Come
si fa a rimanere nell’amore di Cristo? Lo spiega Egli stesso: “Se osserverete i
miei comandamenti, rimarrete nel mio amore”. I comandamenti di Cristo si
riassumono nel comandamento dell’amore: “Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni gli altri”. San Giovanni, che ci tramanda queste bellissime
parole del Signore, ha scoperto il vero volto di Dio nell’impegno di Cristo per
l’uomo. Arriveremo a capire chi sia Dio e ad entrare in comunione con lui non
tanto attraverso sapienti discorsi su Dio, quanto piuttosto attraverso la
nostra concreta testimonianza di amore e di dedizione agli altri (cf. orazione
colletta). Amare è entrare nella vita dell’altro per camminare con lui e
condividere qualcosa di nuovo e di grande.
L’eucaristia
è mistero d’amore anzitutto nel suo essere sacramento della Pasqua del Signore:
essa è la memoria efficace dell’atto d’amore compiuto dal Padre, che ha tanto
amato gli uomini da consegnare il suo Figlio per la loro salvezza. Perciò la
celebrazione eucaristica è il centro della vita cristiana, fonte di nutrimento,
ritrovo tra fratelli, che amano lo stesso Padre, di cui siamo chiamati a
comunicare l’incredibile e immenso amore.
martedì 1 maggio 2018
COSA PENSAVA PAOLO VI DELLA SUA RIFORMA LITURGICA? (2)
Nel post dello scorso giorno 23, affermavo che probabilmente Paolo VI il 3 giugno 1971, nell’ottavo anniversario della morte di papa Giovanni XXIII, celebrò la Messa adoperando uno dei tre formulari Pro Papa contenuti nella sezione “Missae defunctorum” del MR 1970. Alla fine della celebrazione, papa Montini avrebbe lamentato che in questi testi “non si parlava più di peccato e di espiazione e mancava completamente l’implorazione alla misericordia del Signore”. Riproduco a continuazione i tre formulari del MR 1970 e, in seguito l’unico formulario “Pro defuncto Summo Pontifice” del MR 1962. Ho sottolineato in neretto i testi che parlano della misericordia di Dio. Come si può vedere chiaramente, i due Messali mettono in evidenza la misericorida di Dio, in modo particolare il formulario C del MR 1970. Quindi sulla base di questi testi, non si può criticare il MR 1970 che in questo caso, oltre ad essere in continuità con i testi del MR 1962, ha una maggior ricchezza dottrinale.
A
Collecta. Deus,
fidelis remunerator animarum, praesta, ut famulus tuus papa noster N., quem
Petri constituisti vicarium et Ecclesiae tuae pastorem, gratiae et miserationis
tuae mysteriis, quae fidenter dispensavit in terris, laetanter apud te perpetuo
fruatur in caelis.
Super oblata. Quaesumus,
Domine, ut, per haec piae placationis
officia, famulum tuum papam nostrum N. beata retributio comitetur, et
misericordia tua nobis gratiae dona conciliet.
Post communionem. Divinae tuae communionis refecti
sacramentis, quaesumus, Domine, ut famulus tuus papa noster N. quem Ecclesiae
tuae visibile voluisti fundamentum unitatis in terris, beatitudini gregis tui
feliciter aggregetur.
B
Collecta. Deus, qui Ecclesiae tuae famulum tuum papam
nostrum N. ineffabili tua dispositione praeesse voluisti, praesta, quaesumus,
ut, qui Filii tui vices gerebat in terris, ab ipso in gloria recipiatur
aeterna.
Super oblata. Munera, Domine, supplicantis Ecclesiae
respice propitius, et, huius sacrificii virtute, concede, ut famulus tuus papa
noster N., quem sacerdotem magnum tuo gregi praefecisti, in electorum tuorum
numero constituas saccerdotum.
Post communionem. Caritatis tuae, Domine, sumentes sacra
subsidia, quaesumus, ut famulus tuus papa noster N. misericordiam tuam in Sanctorum gloria perpetuo collaudet, qui
fedelis exstitit mysteriorum tuorum dispensator in terris.
C
Collecta. Deus,
immortalis pastor animarum, respice populum supplicantem, et praesta, ut famulus
tuus papa noster N., qui Ecclesiae tuae in caritate praefuit, fidelis dispensatoris
remunerationem cum grege sibi credito misericorditer
consequatur.
Super oblata. Oblationem
pacificam populi tui, quaesumus, Domine, propitius intuere, qui famulum tuum
papam nostrum N. tuae misericordiae fidenter
committimus, et praesta, ut, qui tuae caritatis et pacis in humana familia fuit
instrumentum, earum fructu cum Sanctis tuis perpetuo laetari mereatur.
Post communionem. Ad mensam aeterni accedentes convivii, misericordiam tuam, Domine, pro famulo
tuo papa nostro N. suppliciter imploramus, ut veritatis possessione tandem
congaudeat, in qua populum tuum fidenter comfirmavit.
Oratio. Deus, qui inter summos Sacerdotes famulum tuum N. inneffabili tua dispositione connumerari voluisti: praesta, quaesumus,; ut qui unigeniti Filii tui vices in terris gerebat, sanctorum tuorum Pontificum consortio perpetuo aggregetur.
Secreta. Suscipe, Domine, quaesumus, pro anima famuli
tui N., Summi Pontificis, quas offerimus, hostias; ut, cui in hoc saeculo
pontificali donasti meritum, in caelesti regno Sanctorum tuorum iubeas iungi
consortio.
Postcommunio. Prosit, quaesumus, Domine, animae famuli tui
N., Summi Pontificis, misericordiae tuae
implorata clementia: ut eius, in quo speravit et credidit, aeternum capiat,
te miserante, consortium.
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