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domenica 31 marzo 2024

IL CONCETTO DI TEMPO

 



Per Parmenide il tempo è solo un’illusione figlia del divenire che contrasta con l’immutabilità dell’Essere. Egli considera assurda questa suddivisione che racchiude il presente, istantaneo e fuori dallo scorrere del tempo per definizione, fra un passato che non è, perché è già stato, e un futuro che non è, perché deve ancora essere. Platone risolverà, almeno in parte, accettando il tempo come sequenza di presente, passato, futuro per il solo mondo materiale, imperfetto e corruttibile, mentre al mondo delle forme, essenza perfetta e immutabile delle cose, competerà un eterno presente senza tempo. Nello stesso solco, Aristotele distinguerà fra tempo ciclico, definito dal movimento regolare e perfetto delle sfere celesti, e primo motore immobile collocato nell’eternità, al di fuori del tempo, concezione che dominerà il pensiero occidentale fino agli albori dell’era moderna.

Sarà un pensatore cristiano, Agostino d’Ippona, il primo a interiorizzare con profonda consapevolezza il concetto di tempo: “E’ in te, animo mio, che misuro i tempo”. Egli mette in discussione la realtà di passato, presente e futuro, dal momento che il primo non è più, il terzo non è ancora e anche lo stesso tempo presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo bensì eternità. Ma mentre ne disintegra la sostanza, Agostino recupera il concetto di tempo come successione di stati di coscienza: “Noi percepiamo gli intervalli di tempo”. I tre tempi esistono solo nel nostro animo: “Il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”.

Interiorizzando il tempo e riducendolo a un’estensione dell’anima, nel IV secolo d.C. Agostino anticipa quello che lo sviluppo delle moderne neuroscienze ci ha fatto capire con una mole impressionante di evidenze: la presenza forte del senso del tempo nella percezione umana, come strumento indispensabile per la sopravvivenza della specie.

 

Fonte: Guido Tonelli, Tempo. Il sogno di uccidere Chrónos, Feltrinelli Editore, Milano 20234, p. 30

 

venerdì 29 marzo 2024

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO 31 Marzo 2024

 


 


 

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa vespertina: Lc 24,13-35)

 

Il salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria, proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.

 

Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro e dell’“altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto. Nel racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve svelarsi.

 

L’itinerario di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. È sempre alla luce della Scrittura che si rivela il senso dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della fede.

         

La risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.

 

 

domenica 24 marzo 2024

LA CHIESA CHE VIVRÀ

 



 

Vivrà la Chiesa dei piccoli passi fatti in tempo reale e senza inutili e dannosi ritardi.

Vivrà la Chiesa formata al rispetto di ogni vissuto concreto delle persone reali.

Vivrà la Chiesa capace di onorare tutti gli uomini e donne senza mai ridurli a una immagine stereotipata e mortificante per accogliere l’umanità nella sua interezza, complessità e ambiguità.

Vivrà la Chiesa della fede modesta capace di generare la piena fiducia nella libertà di ogni persona senza temere i fallimenti possibili di una vita.

Vivrà la Chiesa della compagnia nei cammini di umanità capace di grandi silenzi per far liberare una parola vera che guarisce.

Vivrà la Chiesa dell’integrazione di ogni razza, di ogni colore, di ogni lingua, di ogni cultura, di ogni percezione in umanità.

Vivrà la Chiesa che sa riconoscere modi diversi di vivere le alleanze tra persone senza sentirsi obbligati ad approvare o in dovere di disapprovare.

Vivrà la Chiesa dell’intelligenza del cuore con cui si cercano di capire i nuovi linguaggi, i nuovi alfabeti e i nuovi mutismi con sentimenti di venerazione del mistero dell’altro e nella consapevolezza che ciò che non si capisce comunque esiste.

Vivrà la Chiesa delle piccole cose, delle piccole comunità, dei mezzi semplici, della marginalità e della modestia gioiosa.

Vivrà la Chiesa capace di spalancare la porta dell’ammirazione per i semi di Vangelo presenti, nelle parole, nei gesti e nelle scelte dei nostri fratelli e sorelle in umanità per continuare ad abbattere “le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata” (Misericordiae Vultus 4).

Vivrà la Chiesa sempre meno romana e sempre più cattolica, apostolica ed escatologica.

 

Fonte: Fratel MichaelDavide, La Chiesa che morirà. L’arte di raccogliere i frammenti per impastare nuovo pane, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp.137-138.

venerdì 22 marzo 2024

DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (B) 24 Marzo 2024

 



 

 

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1 – 15,47

 

Gesù agonizzante attribuisce a sé la preghiera di lamentazione del Sal 21 riprendendone le prime battute, che noi ripetiamo oggi come ritornello del salmo responsoriale: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Questo salmo è un testo di grande desolazione, segnato da immagini forti prettamente orientali. L’orante, immerso nella sofferenza e vicino alla morte, sente il silenzio di Dio e l’ostilità degli uomini. Ma all’improvviso, la supplica diventa fiduciosa attesa dell’aiuto di Dio e poi ringraziamento festoso al Signore, re dell’universo. All’inizio della settimana di passione, questa preghiera ci introduce adeguatamente nella celebrazione del mistero pasquale di Gesù, che va dalla morte alla vita, dal sepolcro alla risurrezione.

 

L’Unto del Signore, il Messia che è stato accolto dalle folle di Gerusalemme osannanti è quello stesso Gesù che, pochi giorni dopo, è stato consegnato ai suoi nemici e messo in croce. I due momenti non sono dissociabili, come non lo sono il momento della morte in croce e quello della risurrezione. 

 

La prima lettura ci proietta dall’esperienza dolorosa e personale del profeta alla sofferenza redentrice di Cristo, narrata da san Marco nel lungo brano evangelico odierno con uno stile scarno e plastico e con particolari accentuazioni del carattere drammatico e sconcertante della passione di Gesù. Il racconto della passione viene interpretato come il compimento della missione storica di Gesù. Tutto il vangelo di san Marco è orientato alla passione di Gesù, a tal punto che qualcuno ha detto che questo vangelo è un racconto della passione con una lunga introduzione. Con grande consapevolezza e libertà, Gesù percorre il cammino della sua vita che ha come traguardo la morte in croce. La sua passione il Signore esteriormente l’ha subita, ma interiormente e volontariamente l’ha presa su di sé. Per lui la morte in croce non è un incidente inatteso, è una vera scelta. Questa libertà sovrana di Gesù è espressione della sua obbedienza totale al Padre. È ciò che ricorda san Paolo nella seconda lettura: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. 

 

Le ultime parole di Gesù sono quelle drammatiche con cui inizia il Sal 21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Noi sappiamo che non ci sono salmi di disperazione né salmisti che credono in un vero abbandono di Dio; anzi, i salmi che esprimono la preghiera di un sofferente sono sempre colmi di fiducia, di fede e speranza. Qui è il Figlio che si lamenta e si abbandona al Padre. Come nel Getsemani, l’angoscia lo attanaglia, e come là chiede aiuto al Padre. È una invocazione a Dio in forma di domanda che avrà una risposta solo dopo la morte di Gesù. Il centurione che gli sta di fronte, vistolo spirare in quel modo, esclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Non sappiamo cosa il centurione pagano abbia potuto capire; nelle sue parole noi riconosciamo l’atto di fede della comunità cristiana. È lì e in quel momento che paradossalmente si rivela la vera identità di Gesù, e si verifica l’autenticità della fede cristiana. In questa scena si riassume quindi il percorso interiore che san Marco propone ai lettori del suo vangelo. Solo chi segue Gesù fino al luogo della crocifissione è in grado di riconoscerlo e proclamarlo Figlio di Dio. La croce è il vertice della rivelazione di Dio. È nel dono totale di Cristo che Dio rivela il suo amore gratuito e la strada della salvezza per ciascuno di noi.




domenica 17 marzo 2024

LITURGIA DEL FUTURO

 



 

Rivista Credere oggi, Anno XLIII, n. 3 maggio – giugno, n. 255: “Liturgia del futuro”.

Una liturgia che non parla più (Franco Garelli)

La relazione tra liturgia e ars celebrandi (Elena Massimi)

La rubrica come “non verbale”: una rivoluzione (Andrea Grillo)

La cura della forma rituale (Loris Della Pietra)

La potenza del simbolo. Il simbolo e la sua potenza (Maria Cristina Bartolomei)

Ripensare un passato recente: Casel e Guardini (Cyprian Krause)

Le lingue parlate e l’universalità complessa (Claudio Ubaldo Cortoni)

La discontinuità intorno alla “partecipazione attiva” (Donata Horak)

Un piccolo cantiere liturgico in rete (Ermanno Genre)

 

venerdì 15 marzo 2024

DOMENICA V DI QUARESIMA (B) – 17 Marzo 2024

 



 

 

Ger 31,31-34; Sal 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

 

Vicini ormai alla celebrazione della Pasqua, la tematica di questa domenica quaresimale ci propone il mistero di Cristo che, morendo sulla croce, diventa principio di salvezza per tutti. È Gesù stesso a rivelare il senso salvifico della sua morte (cf. vangelo). Alcuni greci venuti a Gerusalemme per la festa della Pasqua esprimono il desiderio di vedere Gesù. Si tratta di uomini che, pur non appartenendo al popolo d’Israele, sono timorati di Dio e cercatori sinceri della verità. Il loro desiderio non è una semplice curiosità, non si esaurisce in un semplice vedere, ma è un desiderio di conoscere e di credere. Questi greci vengono presentati dall’evangelista come personaggi emblematici, che rappresentano in qualche modo tutti coloro che cercano Gesù. Così viene interpretato dallo stesso Gesù che, vedendo in questi greci il primo frutto della sua passione, si dilunga in un discorso sulla sua imminente morte concluso con queste parole: “Io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista aggiunge: “Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. Per mezzo di Gesù, l’uomo che si era allontanato da Dio ritorna a lui. All’antica alleanza ristretta al popolo d’Israele, succede la nuova e definitiva alleanza aperta a tutti i popoli.

 

Questa “alleanza nuova” è annunciata nel secolo VI a.C. dal profeta Geremia in una pagina che è uno dei vertici dell’Antico Testamento, proposta oggi come prima lettura. È la sola ed unica volta che una tale espressione ricorre nelle pagine dell’Antico Testamento. Tre sono i tratti caratteristici di questa nuova alleanza: l’interiorità (“porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”); poi la spontaneità della relazione con Dio (“tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande”). Infine, il perdono del peccato che ha reso precaria l’antica alleanza (“perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”). La nuova alleanza è scritta nel cuore. La morte di Gesù in croce ci insegna che Dio scrive la sua legge nel cuore dell’uomo amandolo fino all’estremo. L’amore, infatti, si impone non con la minaccia della punizione ma con la dolcezza del desiderio.

 

Il breve brano della lettera agli Ebrei, proposto come seconda lettura, illustra la stessa dottrina riscontrata nelle altre letture bibliche. Il dono della nuova alleanza è fatto persona in Gesù. Nella solidarietà e fedeltà, vissute nella forma estrema in un contesto di sofferenza mortale, Cristo diventa “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”. In altre parole, nel dono totale di sé al Padre Gesù sancisce la nuova ed eterna alleanza, diventa quindi il perfetto mediatore tra Dio e gli uomini. La croce ci insegna che l’efficacia della nostra vita è direttamente proporzionale alla capacità di dimenticare noi stessi. Nel mistero pasquale di morte e risurrezione si manifesta l’amore i Dio e si stabilisce l’alleanza nuova, che l’eucaristia continuamente ripresenta e realizza per noi.

domenica 10 marzo 2024

L’ALFABETO DI DIO



 

Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023. 319 pp. (€ 20,00).

 

Santa Teresa di Gesù Bambino confessava: “Se io fosse stata prete, avrei studiato a fondo l’ebraico e il greco per conoscere il pensiero divino nella forma in cui Dio si è degnato di esprimerla nel nostro linguaggio umano”.

Il cardinale Gianfranco Ravasi ci prende per mano e con la consueta maestria ci guida nella conoscenza meditata e profonda delle parole bibliche su cui si fonda la nostra fede.

 

(Quarta di copertina)

  

venerdì 8 marzo 2024

DOMENICA IV DI QUARESIMA (B) “Laetare”– 10 Marzo 2024

 



 

 

2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

 

Nei testi biblici di questa domenica si contrappongono il peccato dell’uomo e l’amore di Dio. Il Sal 136 è una meravigliosa e drammatica preghiera di lamentazione innalzata dagli ebrei esuli lungo i canali di Babilonia dopo la distruzione di Gerusalemme alla fine del VI secolo a.C. Questo testo esprime il dramma di tutto un popolo sradicato dalla sua terra e strappato ai suoi affetti più cari. La disperazione dell’esilio è controbilanciata dalla speranza del ritorno a Gerusalemme. Così come Babilonia è la personificazione della potenza del male, Gerusalemme rappresenta la patria definitiva in cui ogni lacrima sarà asciugata. Quella che fu esperienza d’Israele diventa drammaticamente esperienza di ciascuno di noi. Ma Cristo non ci ha abbandonato in balia del nostro peccato; con la sua vittoria sulla morte ha dato a tutti noi la possibilità di ritrovare il paradiso perduto. Il ricordo di questo evento è la nostra gioia.

 

La Pasqua ormai vicina, la Chiesa ci invita alla gioia (cf. antifona d’ingresso). Infatti, il Figlio dell’uomo è stato innalzato in croce, dice il brano evangelico, affinché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna. Per far capire che cosa vuol dire credere nel Figlio dell’uomo, l’odierno brano del vangelo di Giovanni rimanda alla storia del popolo d’Israele che nel cammino del deserto si era ribellato contro Mosè e contro lo stesso Dio, per cui molti furono puniti con i morsi di serpenti velenosi e morirono. Avendo però gli israeliti riconosciuto il loro peccato, Dio promette che chiunque, morso dai serpenti, guarderà il serpente di rame collocato sopra un’asta, resterà in vita. La storia di Israele va interpretata come un messaggio profetico nel suo aspetto di severo giudizio sull’infedeltà del popolo e nel suo aspetto di accorato invito al pentimento fondato sulla fedeltà incondizionata di Dio. Il serpente innalzato da Mosè nel deserto è una prefigurazione di Gesù innalzato sulla croce. Il serpente di rame salvava perché presupponeva la fede nella parola di Dio che promette la salvezza. In modo analogo Gesù morto in croce è fonte di salvezza per chiunque vi riconosce la rivelazione dell’amore di Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito; chiunque crede in lui ha la vita eterna” (canto al vangelo).

 

Alla nostra infedeltà e al nostro peccato si contrappongono la fedeltà e l’amore misericordioso di Dio. Al peccato che conduce l’uomo alla schiavitù e alla morte si contrappone l’amore di Dio che dona liberazione e salvezza. La prima lettura illustra lo stesso concetto: al peccato d’Israele che gli ha meritato la punizione della deportazione in Babilonia, si contrappone l’amore di Dio che, fedele alla sua parola, libera il suo popolo dall’oppressione e lo riconduce a Gerusalemme. La nostra salvezza non è fondata sui nostri meriti, ma sull’infinita ricchezza della misericordia di Dio. È ciò che ricorda san Paolo ai primi cristiani di Efeso: la salvezza “non viene da voi, ma è dono di Dio” (cf. seconda lettura). E tutto ciò, aggiunge l’Apostolo, trova pieno compimento in Cristo Gesù: “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo”. L’ultima parola di Dio non è la morte ma la vita.

 

Quando si parla di “colpa” o di peccato si ha a che fare con il compimento o il fallimento di una esistenza: solo chi ha forte il senso della dignità dell’uomo davanti a Dio, del suo destino eterno, è capace di percepire quanto grande sia la tragedia del peccato. Paradossalmente però il peccato rivela chi è Dio: quanto più profondo è il rifiuto dell’uomo, tanto più grande appare l’abisso dell’amore divino, che la croce mostra in tutta la sua concretezza e veracità.

domenica 3 marzo 2024

L’EVOLUZIONE DEL MESSALE ROMANO DI PAOLO VI

 



 

Maurizio Barba, Il Messale Romano. Sviluppi dopo la terza edizione emendata (Theologia Uxentina 11), Edizioni Viverein, Roma 2023. 412 pp. (€ 20,00).

 

Cap. I. Il Giubileo d’oro del Messale Romano di Paolo VI: Da una lettura retrospettiva ad una riflessione in prospettiva.

Cap. II. La lavanda dei piedi.

Cap. III. Santa Maria Maddalena: prima testimone della risurrezione.

Cap. IV. La memoria di Maria Madre della Chiesa.

Cap. V. L’inserimento nel Calendario romano generale della memoria di santa Faustina Kowalska.

Cap. VI. La celebrazione della Beata Vergine Maria di Loreto nel culto della Chiesa universale.

Cap. VII. La memoria di san Paolo VI Papa nel ciclo eortologico della Chiesa.

Cap. VIII. L’iscrizione di nuove memorie dei santi Dottori della Chiesa nel Calendario romano.

Cap. IX. La memoria degli Hospites Domini di Betania nel Calendario romano generale.

Cap. X. Interazioni tra il Calendario romano generale e i Calendari propri: quali ambiti di attuazione delle tradizioni delle Chiese locali?

Indici biblico, dei nomi, generale.

venerdì 1 marzo 2024

DOMENICA III DI QUARESIMA (B) – 3 Marzo 2024

 



 

 

Es 20,1-17; Sal 18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

 

La seconda parte del Sal 18, quella ripresa dalla liturgia odierna come salmo responsoriale, è un elogio della legge divina, fonte di vita e di gioia, di saggezza e giusto giudizio, di rettitudine, giustizia e purezza, più preziosa e dolce di ogni altra cosa. Il testo salmico trova compimento in Gesù. Egli stesso è legge per il nuovo popolo di Dio, indirizzo per la nostra esistenza, consolazione e conforto per le ore del dubbio. Perciò rinnoviamo a lui la professione di fede di Pietro: “Signore, tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).

 

La liturgia odierna ci invita a rileggere, in chiave cristiana e pasquale, la pagina biblica dei dieci comandamenti o “dieci parole”, la cui promulgazione è riportata dalla prima lettura. Notiamo che il racconto non inizia con un comandamento ma col ricordo dell’opera divina di salvezza: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile”. Il comportamento etico dell’uomo viene proposto dalla Bibbia come risposta a Dio che si manifesta nella storia come liberatore e salvatore. D’altra parte, l’opera divina di salvezza ha il suo momento culminante nell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio Gesù Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato. Cristo è quindi colui che dà senso e qualità etica all’agire cristiano. Ciò viene confermato da san Paolo che nella seconda lettura afferma che la legge, o meglio la volontà salvifica di Dio non si manifesta né attraverso l’osservanza legale né attraverso la ricerca della ragione, ma in Cristo crocifisso: la croce, che testimonia l’amore folle di Dio per tutti gli uomini senza distinzione, contesta energicamente le idee correnti sul potere e sulla saggezza. La croce di Cristo, oltre che essere il frutto di una storia di iniquità e di peccato, è anche e soprattutto la storia di un amore assoluto che risplende proprio là dove si consuma l’odio.

 

Nel contesto delle due prime letture, il cui contenuto abbiamo succintamente illustrato, possiamo capire meglio il messaggio del brano evangelico di questa domenica. Apparentemente il racconto evangelico parla di tutt’altro argomento: Gesù scaccia i venditori e cambiamonete dal tempio. Possiamo interpretare questo gesto alla luce del messaggio dei profeti che avevano annunciato una futura purificazione del tempio (cf. Zc 14,21; Ml 3,1). Col suo modo di agire, provocato dallo zelo per la casa del Signore (cf. Sal 69,10), Gesù fa capire che il giorno annunciato dai profeti è venuto. Il gesto di Gesù che scaccia dal tempio i mercanti e i cambiamonete è quindi un gesto profetico che rivela l’identità di Gesù e il ruolo provvisorio del tempio e, in generale, il superamento delle istituzioni dell’Antico Testamento: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Con queste parole, Cristo dichiara superata la legge antica, di cui il tempio è simbolo centrale, e colloca se stesso come punto di riferimento dei nuovi rapporti dell’uomo con Dio. Cristo è egli stesso la nuova legge, colui che ha sancito l’alleanza definitiva tra Dio e gli uomini versando il proprio sangue sulla croce; il corpo di Cristo morto e risorto è il centro del nuovo culto e il tempio della nuova alleanza, in quanto è il luogo della presenza definitiva di Dio in mezzo agli uomini. Liberati in virtù di Cristo, possiamo vivere ormai una comunione profonda con Dio e con i fratelli. Tutto ciò è frutto della passione, morte e risurrezione di Gesù. È il segno che Gesù offre all’incredulità manifestata dai suoi interlocutori.

 

Gesù divenuto il nuovo tempio, inaugura un nuovo culto, il cui culmine è l’eucaristia, il suo corpo donato e il suo sangue versato per la nostra salvezza.