Translate

domenica 31 luglio 2016

UNA INTRODUZIONE ALLA LITURGIA


 

Giovanni Zaccaria – José Luis Gutiérrez-Martín, Liturgia. Un’Introduzione (Biblioteca di Iniziazione alla Liturgia 1), Pontificia Università della Santa Croce – Istituto di Liturgia, ESC s.r.l., Roma 2016. 190 pp.

 

J. L. Gutiérrez-Martín è direttore dell’Istituto di Liturgia presso la Facoltà teologica della PUSC. G. Zaccaria è docente nella stessa Università. I temi trattati nel volume sono i seguenti: La liturgia opera della Santissima Trinità; La liturgia celebrazione del mistero di Cristo; Le tradizioni liturgiche: Liturgie occidentali; Le tradizioni liturgiche dell’Oriente cristiano; La celebrazione eucaristica; L’Anno liturgico; Tempi e cicli dell’Anno liturgico; La Liturgia delle ore; Vita Liturgica.
 
Si tratta di un testo che espone molto sinteticamente una serie di temi che, come si evince dall’elenco sopra indicato, riguardano alcuni grandi settori della liturgia. L’esposizione dei temi è chiara e semplice, a portata dei più. Bisogna però aggiungere che il testo non manca da una certa profondità. Così, ad esempio, il capitolo dedicato alla celebrazione eucaristica (pp. 77-98), pur nella sua brevità, spazia nei diversi campi: biblico, storico, teologico, celebrativo... Sono citati frequentemente: la Costituzione Sacrosanctum Concilium, l’Ordinamento generale del Messale Romano, il Catechismo della Chiesa Cattolica.
 
Un libro che, come recita il titolo della collana che inaugura, può essere un valido strumento di “iniziazione alla liturgia”.
 
M. A.

sabato 30 luglio 2016

XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 31 Luglio 2016

Qo 1,2; 2,21-23: Vanità delle vanità: tutto è vanità

Sal 89 (90): Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione

Col 3,1-5.9-11: Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio

Lc 12,13-21: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita

 

                       
Il breve brano della prima lettura ci offre una visione profondamente disincantata della vita che ci lascia un po’ perplessi. Qoèlet descrive un mondo che è vanità: “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Si tratta di un pessimista che vede attorno a se soltanto il vuoto, il nulla, l’assurdità del vivere e dell’affannarsi quotidiano. Le cose, la vita, il mondo, tutto ciò che l’uomo ha costruito, è destinato a passare ad altri o a scomparire. Su questo filone sapienziale si innesta il brano del vangelo, dove Gesù insegna a valutare e usare i beni terreni nell’orizzonte della fede in Dio creatore e Signore della vita. La sua istruzione prende lo spunto dall’intervento di uno della folla che gli dice: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Nella sua risposta, Gesù non si perde nella “casistica”, ma rimane al suo livello altissimo di Maestro, che sa scoprire e indicare le ragioni ultime che determinano le divisioni e i contrasti fra gli uomini e che si riassumono praticamente nell’egoismo e nella cupidigia. Egli affida la sua risposta alla parabola del ricco insensato: un uomo abile nel coltivo dei suoi campi, ha raggiunto un buon raccolto e sogna per sé un futuro roseo. Ma Dio interviene e lo chiama “stolto” e aggiunge: “questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”. E conclude il brano: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”.

 

La parola di Dio che ci viene rivolta oggi è un invito a riflettere sulla scala dei valori che devono governare la nostra vita. Anche san Paolo nel brano della seconda lettura si muove nella stessa linea quando invita a guardare in alto, “dove è Cristo seduto alla destra di Dio”. Le cose terrene non sono il nostro orizzonte ultimo. Prendere coscienza della relatività del presente e delle cose, la loro fondamentale fragilità, la loro inadeguatezza, può avere una grande importanza ai fini di una retta impostazione della vita orientandola verso i beni definitivi. Non di soldi, ma di ben altre ricchezze ha bisogno il nostro cuore.

domenica 24 luglio 2016

LE CAMPANE

 


Una chiesa può esistere senza campane; l’Eucaristia anche. Tuttavia la loro presenza e il loro suono sono tutt’altro che quelli di un semplice strumento, un segnale sonoro per avvisare che sta iniziando la Messa. Non sono uno strumento pubblicitario. Esse contrastano in maniera evidente con la mentalità contemporanea. Le campane “chiamano”. Noi siamo terribilmente schiavi di una mentalità che ci induce a pensare che è impossibile che qualcuno decida al posto nostro. Io vado dove voglio e quando voglio. Io decido quello che devo fare. Anche nei confronti della Messa non è raro sentire dire: io vado a Messa solo quando mi sento.

 

Alla loro maniera le campane dicono esattamente il contrario e cioè che non siamo noi a decidere di riunirci. E’ un Altro che ci chiama. Noi andiamo a Messa perché siamo stati invitati. Perché non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ci ha amati per primo (cf. Gv 4,10). Le campane simboleggiano qualcosa d’essenziale per il nostro culto: l’iniziativa dell’incontro non viene dalla nostra parte, ma dalla parte di Dio. Questo ci dice che su di noi non pesa la responsabilità dell’iniziativa, ma della risposta. Altro che andare a Messa “quando mi sento”, qui si tratta di rispondere a una chiamata. Forse bisognerebbe abituarsi ad un’altra espressione, non tanto “non mi sento”, ma “non sento”.

 

Fonte: Pietro Antonio Ruggiero, Schola amoris. La Messa come relazione, Euno Edizioni, Leonforte 2016, pp. 41-42.

venerdì 22 luglio 2016

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 24 Luglio 2016


Gn 18,20-21.23-32: Abramo si avvicinò al Signore

 
Sal 137 (138): Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto

 
Col 2,12-14: Con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti

 
Lc 11,1-13: Signore, insegnaci a pregare

 
Il ritornello del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e terza lettura di questa domenica.

 
La prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo però questi giusti non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione “salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.
 
Notiamo anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare: Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il “debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali.

giovedì 21 luglio 2016

FESTA DI SANTA MARIA MADDALENA - PREFAZIO


Con decreto (Prot. N. 324/16) in data 1 luglio 2016  la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha approvato la traduzione italiana del Prefazio “Apostola degli Apostoli” per la festa di Santa Maria Maddalena.

  

22 luglio

SANTA MARIA MADDALENA

Festa

 

PREFAZIO

Apostola degli apostoli

 

V/.  Il Signore sia con voi.

R/.  E con il tuo spirito.

V/.  In alto i nostri cuori.

R/.  Sono rivolti al Signore.

V/.  Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.

R/.  È cosa buona e giusta.

 

È veramente cosa buona e giusta,

nostro dovere e fonte di salvezza,

proclamare sempre la tua gloria,

o Padre, mirabile nella misericordia

non meno che nella potenza,

per Cristo Signore nostro.

 

Nel giardino Egli si manifestò apertamente

a Maria di Magdala,

che lo aveva  seguito con amore

nella sua vita terrena,

lo vide morire sulla croce

e, dopo averlo cercato nel sepolcro,

per prima lo adorò risorto dai morti;

a lei diede l’onore di essere apostola per gli stessi apostoli,

perché la buona notizia della vita nuova

giungesse ai confini della terra.

 

E noi, uniti agli Angeli e a tutti i Santi,

cantiamo con gioia

l’inno della tua lode:

 

Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.

Osanna nell’alto dei cieli.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Osanna nell’alto dei cieli.

 

Chi era veramente Maria Maddalena?


Giotto: Noli me tangere
 

Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon

 

cristina uguccioni

Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?  

Magdala  

Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù. 

Gli equivoci sull’identità  

Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente – il capitolo 7 di Luca – si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.  

Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea». 

La liberazione dal male  

Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.  

Sotto la croce  

Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana – si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni – torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore. 

L’incontro con il Risorto  

Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).  

Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca». 

Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).  

La maternità della Maddalena  

«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.  

La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto». 

Nella storia dell’arte: la mirofora  

Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto – afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».  

La penitente  

Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché – spiega Verdon – secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».  

L’addolorata  

Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».  

Chiamata per nome  

Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».

 

Fonte: Vatican Insider  (20.07.2016)  

 

martedì 19 luglio 2016

I MIRACOLI...


Il dio della scienza

Perché gli studiosi non possono ignorare i miracoli. Parla il fisico Robert Kurland: “Ve lo dimostriamo”
di Matteo Matzuzzi | 18 Luglio 2016 ore 12:54
 
La prima caratteristica di un miracolo è che esso si relaziona alla fede in Dio. E’ un atto o un segno che proviene da Dio. I miracoli sono ritenuti essere eventi rari, soprannaturali, non legati alla legge naturale. Certo, non tutti gli eventi rari sono miracoli. Vincere la lotteria è un evento raro, ma non un miracolo. Ma i miracoli esistono”. Robert Kurland è un fisico, ha lavorato nel dipartimento di Chimica di quello che un tempo era il Carnegie Institute of Technology, poi è passato alla State University di New York a Buffalo, al Roswell Cancer Institute, alla Cleveland Clinic, alla Bucknell University. Studi ad Harvard, è tra i massimi esperti mondiali di materia e anti materia (si digiti “equazione Kurland-McGarvey” su Google o su qualunque altro motore di ricerca per farsene un’idea). Eppure, lui ai miracoli ci crede. E’ convinto, dice al Foglio, che una forza superiore e soprannaturale, invisibile ed eterna, governi il mondo. Alla questione dedica pure un ebook di prossima uscita, “No War between Science and the Church – Truth cannot contradict Truth” (Nessuna guerra tra la chiesa e la scienza – la verità non può contraddire la verità”.
 
ARTICOLI CORRELATI Così la fisica spiega l’inspiegabile origine dell’universo Il Dio del Big Bang Il miracolo è la speranza che si avvera. Anche questa è Pasqua “Se non credessi nei miracoli, dovrei sostenere che la scienza può spiegare tutto. E io non credo sia così. Dovrei ritenere che il naturalismo (o materialismo o scientismo che dir si voglia) sia l’unica spiegazione per ogni cosa e processo. In altre parole, dovrei accettare che le cosiddette leggi di natura siano nient’altro che leggi prescrittive, anziché tentativi descrittivi di fornire un ‘quadro matematico’ del nostro mondo”, spiega Kurland. Bisogna uscire dagli schemi, da un’impostazione troppo rigida e non cedere alla tentazione di soddisfare empiricamente ogni umana necessità, come quella di pretendere che anche l’ignoto diventi in qualche modo evidente o addirittura lapalissiano: “Uno che crede nell’onnipotenza e onniscenza divina potrebbe domandarsi perché Dio non si metta a creare in natura qualcosa che noi – sempre secondo i nostri schemi – riterremmo essere un miracolo. La risposta è sempre la medesima, e cioè che le cosiddette leggi di natura sono descrittive e non prescrittive. Dio non può fare in modo che due più due faccia cinque. Però può curvare lo spazio, cosicché la somma degli angoli interiori di un triangolo non sia di centottanta gradi. In altri termini, Dio può rendere possibile ciò che è logico ma allo stesso tempo difficile. Non può rendere possibile, invece, ciò che sul piano logico è impossibile”.
 
Questioni difficili, anche per un fisico come lui. E ancora più difficili da spiegare a giovani studenti sempre più diffidenti riguardo le questioni di fede: “Penso che una strada per rendere più facile spiegare ai ragazzi questo tema sia quella di insegnare di più la storia della scienza, di mostrare che il suo progresso non è stato un percorso lineare, ma pieno di deviazioni e scossoni. E di mostrare che la chiesa è stata la levatrice della scienza, che è nata con la civiltà europea e non altrove”. Domande che hanno prodotto un travaglio interiore nel percorso di fede anche allo scienziato Kurland: “Più o meno vent’anni fa, quando mi stavo preparando a entrare a far parte della chiesa cattolica, ero molto turbato dal fenomeno eucaristico, dalla transustanziazione. Come fisico, non potevo accettare che un’ostia potesse diventare il corpo di Cristo e del vino il suo sacro sangue. Allora, l’anziano e saggio prete che mi stava preparando mi domandò se credessi nel miracolo della resurrezione di Cristo. ‘Certo’, risposi: ‘E’ questo il motivo per il quale sto per diventare cattolico’. A quel punto lui mi rispose: ‘Bene, se credi in un miracolo, perché non in un secondo o in altri ancora?’. Quella risposta mi ha reso tutto più semplice e più chiaro”.
 
Si torna al punto di partenza, e cioè l’umana e comprensibile convinzione che solo la scienza possa rassicurare e spiegare ciò che in realtà facilmente spiegabile non è. “La scienza non può però rispondere alla domanda essere o non essere”, ribatte Kurland citando una celebre massima di padre Stanley Jaki, il filosofo teologo e fisico ungherese benedettino che dedicò la vita allo studio del rapporto tra la scienza e la religione, tanto da insegnarlo perfino dalle auguste cattedre di Princeton. “La scienza – osserva il nostro interlocutore – in fin dei conti può solo rispondere sul come accadono certe cose. Non sul perché. Per dare una risposta al perché dobbiamo spostarci sul piano della fede: il nostro scopo su questa terra, che cosa accadrà quando moriremo. Sono tutte domande che trovano risposta nel catechismo cattolico. La scienza non può rispondere alle domande sull’etica e la bellezza, ad esempio. Anche nella scienza, insomma, ci sono misteri, profondità che potrebbero rimanere inesplorate. Come ha sottolineato il celebre fisico e filosofo francese Bernard d’Espagnat, c’è una ‘realtà velata’ che sottende quel fondamentale settore della scienza, la meccanica quantistica”.
 
Eppure, il rapporto tra la fede e la scienza è sempre stato tormentato, quasi si trattasse di due rette parallele che corrono vicine, verso l’infinito, ma che mai s’incontrano. Coesistono o no? “Ribaltiamo la domanda – dice Bob Kurland – come possono la fede e la scienza non coesistere? Ogni scienziato ha fede nel fatto che il suo lavoro sia basato su un universo fondamentalmente ordinato, con leggi uniformi che nella maggior parte dei casi possono essere espresse matematicamente”. Lo diceva anche Giovanni Paolo II, del resto: “Gli scienziati, come tutti gli esseri umani, dovranno prendere decisioni su ciò che in definitiva dà senso e valore alla loro vita e al loro lavoro; faranno questo bene o male, con quella profondità di riflessione che si acquista con l’aiuto della sapienza teologica, o con una sconsiderata assolutizzazione delle loro conquiste al di là dei loro giusti e ragionevoli limiti”. Kurland riconosce che “la scienza sviluppatasi nei secoli del Medioevo non gode più di troppi riconoscimenti, benché abbia fondamenti veri. La fede della Scolastica medievale afferma che Dio creò un mondo meraviglioso e ci diede l’intelligenza di comprendere ed esultare per le sue opere”. Dopotutto, fa notare il nostro interlocutore, lo dice anche il Salmo 19: “I cieli raccontano la gloria di Dio”.
 
E’ un rapporto vivo, quello tra scienza e fede, che gode di ottima salute, insomma. L’importante, ancora una volta, è usare elasticità mentale, lasciar perdere la rigidità con la quale si considera l’ordine delle cose. Una relazione che Giovanni Paolo II aveva spiegato in poche ma efficaci parole, nella lettera inviata trent’anni fa all’allora direttore della Specola vaticana, padre George Coyne: “La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti. Ciascuna può aiutare l’altra a entrare in un mondo più ampio, un mondo in cui possono prosperare entrambe”. Parole che Robert Russel, fondatore e direttore del Center for Theology and The Natural Sciences di Berkeley, definiva “rivoluzionarie”. Karol Wojtyla, aggiungeva Russel, “invece che appellarsi a una strategia ad hoc per l’introduzione di scoperte scientifiche nell’orizzonte intellettuale della chiesa, il Papa vuole collocare questo processo all’interno di un opportuno metodo teologico. Questo metodo, fides quaerens intellectum (la fede che cerca di comprendere), richiede che le teorie scientifiche dimostrate vengano incorporate in teologia impiegandole per illuminare alcuni contenuti della fede cristiana”.
 
Una linea diametralmente opposta da quella, asettica e asciutta, dell’eminente biologo John Burdon Sanderson Haldane, che era solito dire: “Sono scienziato, quindi ateo. Questo significa che quando realizzo un esperimento, prevedo che nessun dio, angelo o diavolo interferisca con quanto mi accingo a fare”. Sei anni fa ci fu una dotta battaglia a colpi di articoli sulla stampa americana relativa al connubio tra scienza e fede. Iniziò sul Wall Street Journal il fisico Lawrence Krauss, che sposava appieno le tesi di Haldane, sostenendo che i miracoli hanno in qualche modo a che fare con la magia e l’irrazionale, e di conseguenza credere in Dio è in opposizione a un mondo rivelato dalla scienza, un mondo intelligibile dalla ragione e governato dalla legge. A rispondere, sulla rivista cattolica conservatrice First Things, c’aveva pensato un altro fisico, Stephen M. Barr: “Non c’è alcuna contraddizione logica nel credere sia nelle leggi naturali sia nei miracoli”. Non vi è “alcuna contraddizione storica tra le due idee”, aggiungeva Barr, “come dimostra il fatto che molte delle leggi fondamentali della fisica sono state scoperte e prendono il nome da uomini che nei miracoli hanno creduto. Sarebbe senza dubbio un grande sorpresa, per Kraus, apprendere che tanti fisici nel campo della fisica delle particelle e della cosmologia sono devoti cristiani che credono nei miracoli”.
 
E ce ne sono pure di atei che ci credono, come la professoressa Jacalyn Duffin, canadese, storica della medicina e già presidente dell’American association for the History of Medicine e della Canadian Society for the History of Medicine. Trent’anni fa, le capitò di guardare al microscopio del midollo osseo malato, attaccato dalla leucemia. Una situazione disperata, la prognosi non poteva che essere infausta. Il verdetto, suo, era chiaro: morte certa. Sette anni dopo, ancora per caso, scoprì che quel midollo apparteneva a una persona che era sopravvissuta al male e che il caso era passato al vaglio del Vaticano: c’era una causa di canonizzazione (la beata Marie-Marguerite d’Youville) in ballo, e la sua analisi di quel midollo osseo era servita per portare agli altari la religiosa canadese vissuta nel Settecento. La commissione di Roma era scettica, e una prima perizia aveva escluso interventi soprannaturali. Per sbloccare la causa, serviva il parere di un esperto terzo. Fu scelta la professoressa Duffin, che esaminò il reperto rigorosamente anonimo. Impossibile che quel materiale organico appartenesse a una persona viva, scrisse la scienziata. Oggi, a più di tre decenni da quella vicenda, Duffin allarga le braccia: “Non so spiegarmi come quella paziente sia ancora viva. Anche se sono ancora atea, credo ai miracoli. Eventi straordinari che accadono e per i quali non vi sono spiegazioni scientifiche”. Atei o no, Robert Kurland ci tiene a sottolineare – per averli studiati – che i processi della chiesa cattolica sul punto sono tra i più rigorosi che abbia visto nella sua vita: la chiesa tutto vuole meno di mostrarsi superficiale riguardo guarigioni improvvise e canonizzazioni affrettate.
 
Insomma, dire che Dio non esiste perché non interviene negli esperimenti di laboratorio, come sosteneva sicuro di sé e dei propri mezzi empirici Haldane, ricorda molto “l’annuncio trionfale di Krusciov secondo il quale gli astronauti non avevano visto Dio” nelle loro peregrinazioni ultraterrene. Basterebbe tenere presente quanto sosteneva il matematico Hermann Weyl, che spostando l’occhio da microscopio a microscopio, non poteva fare altro che constatare che Hermann Weyl: “Questa armonia perfetta è conforme a una ragione sublime”.
Fonte: Il Foglio (19.07.2016)
 

lunedì 18 luglio 2016

FINE DELLA "RIFORMA DELLA RIFORMA" (/2): UNA NECESSARIA VERIFICA PER "SUMMORUM PONTIFICUM"

di ANDREA GRILLO

Le notizie diffuse nelle ultime settimane dal fronte lefebvriano, le esternazioni imprudenti del Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Nota della Sala Stampa sul rapporto tra “rito ordinario” e “rito straordinario”... altro »

domenica 17 luglio 2016

LA MESSA COME RELAZIONE


 

Pietro Antonio Ruggiero, Schola amoris. La Messa come relazione. Dal Convegno Ecclesiale di Firenze al Congresso Eucaristico di Genova (Apta mihi 3), Euno Edizioni, Leonforte (En) 2016. 158 pp.

 

Presento con piacere un libro originale nel linguaggio e sostanzioso nel contenuto. Un linguaggio che riesce a spiegare con semplicità e chiarezza ciò che è la santa Messa senza impoverirne la dottrina. Il taglio dato al lavoro è spiegato bene dall’Autore nella Prefazione: “… riandare alla scuola dell’Eucaristia equivale a ritornare alla scuola dell’amore relazionale, tutto ciò riappropriandosi del rito…” Il discorso sul rito della Messa è così diviso: La liturgia iniziale (Signore, permetti che mi avvicini un po’?); La liturgia della Parola (Signore, possiamo parlare un po’?); Intermezzo: presentazione delle offerte; La preghiera eucaristica (Signore, parliamo cuore a cuore!); La comunione (Signore, ora siamo una cosa sola!). Il testo è un tentativo riuscito di leggere la celebrazione eucaristica in chiave “relazionale”.

 

Giustamente, l’Autore sottolinea l’azione primaria di Dio, la dimensione verticale e l’atmosfera adorante della celebrazione. Ci sono alcune affermazioni però che potrebbero indurre ad una visione parziale della celebrazione eucaristica, come quando a p. 89 si dice che “la liturgia non si celebra per noi, ma per Dio”. Non credo che si possa negare che la liturgia si celebra anche per noi…La priorità essenziale della gloria di Dio non può contraddire la priorità esistenziale della dimensione salvifica. Basterebbe ricordare al riguardo Sacrosanctum Concilium 7 e quanto afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1083, dove parla della "duplice dimensione della liturgia cristiana come risposta di fede e di amore alle benedizioni spirituali di cui il Padre ci fa dono..."  Più avanti, l'Autore, a p. 93, afferma che “il vertice della celebrazione eucaristica è costituito dal racconto del ‘miracolo della Presenza’…” Cosa che in seguito però sembra essere smentita quando si dice parlando della comunione, che in questo momento “tutto è arrivato al vertice…” (p. 113). Il lettore si domanda quindi quale sia il vero “vertice” della celebrazione. Credo però che queste e altre affermazioni simili non inficiano la validità dell’insieme del discorso. 
 
M.A. 

sabato 16 luglio 2016

XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - 17 luglio 2016


Gn 18,1-10a: Mio Signore […] non passare oltre senza fermarti dal tuo servo

Sal 14 (15): Chi teme il Signore, abiterà nella sua tenda

Col 1,24-28: … portare a compimento la parola di Dio

Lc 10,38-42: Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Maria, lo ospitò

 
Il racconto proposto dal vangelo d’oggi è assai noto a tutti. Ci si potrebbe soffermare subito su Marta e Maria, spesso viste arbitrariamente come simboli contrapposti di una vita data all’attività, al servizio, alle opere, come quella di Marta, e di una vita data invece alla preghiera, alla contemplazione, come quella di Maria. E’ però più opportuno dare uno sguardo anche alle altre letture bibliche, in particolare alla prima. Vediamo infatti che sia la prima lettura che il racconto evangelico parlano dell’ospitalità: quella offerta da Abramo a tre personaggi misteriosi arrivati a casa sua, e quella offerta dalle sorelle Marta e Maria a Gesù. Possiamo quindi affermare che il tema centrale di questa domenica è l’ospitalità: sia Abramo che le sorelle di Lazzaro vengono presentati come modelli di accoglienza dell’ospite. Nei due episodi quest’ospite è Dio stesso. Possiamo perciò circoscrivere l’argomento e dire che si tratta di dare ospitalità a Dio. Non di rado la nostra vita appare frammentata, vuota, in balia degli eventi. Dio può dare senso e armonia alla nostra esistenza. E’ necessario però mettersi in atteggiamento di ascolto della sua parola, come Maria.

 
Le due sorelle rappresentano due modi diversi, non in contrasto ma complementari, di accogliere il Signore. Abbiamo bisogno di nutrire in noi un atteggiamento di ascolto della parola di Dio, sia che la nostra vita sia come quella di Marta, indaffarata in un lavoro che assorbe, o come quella di Maria, soli nell’interno di una casa quotidiana e solitaria. Nella seconda lettura, Paolo, che ha ricevuto da Dio la missione di “portare a compimento la sua parola”, ci ricorda che l’ascolto di cui parliamo porta all’impegno nel quotidiano. Anche il canto al vangelo parla di “coloro che custodiscono la parola di Dio” e “producono frutto con perseveranza” (cf. Lc 8,15). E nella colletta alternativa l’assemblea chiede di poter ascoltare la parola del Figlio per poi accogliere e servire il Figlio stesso nei fratelli. Non ha senso la contrapposizione tra ascoltare e darsi da fare, tra contemplare e agire. Si tratta di due momenti che si compenetrano a vicenda. L’ascolto della Parola offre le motivazioni profonde che danno senso al servizio.

mercoledì 13 luglio 2016

LA FINE DELLA "RIFORMA DELLA RIFORMA": PICCOLA STORIA DI UN DELIRIO AUTOREFERENZIALE



di ANDREA GRILLO

La combinazione di tre piccoli eventi, tra loro correlati solo in parte, ha determinato, negli ultimi giorni una importante evoluzione per la liturgia cattolica. Gli eventi sono, in ordine un Comunicato della Fraternità S.... altro »

lunedì 11 luglio 2016

UN CHIARIMENTO INEQUIVOCABILE ALLE AFFERMAZIONI ATTRIBUITE AL CARD. SARAH


   


Le sorprendenti affermazioni del Card. Sarah in una conferenza a Londra qualche giorno fa sull’orientamento nella celebrazione della Messa e sulla “riforma della riforma”, pubblicate da Catholic Herald, sono state smentite ufficialmente dalla Sala Stampa del Vaticano.
 
 
 
(Nota di p. Federico Lombardi) E’ opportuna una precisazione a seguito di notizie di stampa circolate dopo una conferenza tenuta a Londra dal Card. Sarah, Prefetto della Congregazione del Culto Divino, alcuni giorni fa. Il Card. Sarah si è sempre preoccupato giustamente della dignità della celebrazione della Messa, in modo da esprimere adeguatamente l’atteggiamento di rispetto e adorazione per il mistero eucaristico. Alcune sue espressioni sono state tuttavia male interpretate, come se annunciassero nuove indicazioni difformi da quelle finora date nelle norme liturgiche e nelle parole del Papa sulla celebrazione verso il popolo e sul rito ordinario della Messa.

Perciò è bene ricordare che nella Institutio Generalis Missalis Romani (Ordinamento Generale del Messale Romano), che contiene le norme relative alla celebrazione eucaristica ed è tuttora pienamente in vigore, al n.299 si dice: “Altare extruatur a pariete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit, quod expedit ubicumque possibile sit. Altare eum autem occupet locum , ut revera centrum sit ad quod totius congregationis fidelium attentio sponte convertatur” (cioè: “L’altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo, la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile. L’altare sia poi collocato in modo da costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli”).

Per parte sua il Papa Francesco, in occasione della sua visita al Dicastero del Culto Divino, ha ricordato espressamente che la forma “ordinaria” della celebrazione della Messa è quella prevista dal Messale promulgato da Paolo VI, mentre quella “straordinaria”, che è stata permessa dal Papa Benedetto XVI per le finalità e con le modalità da lui spiegate nel Motu Proprio Summorum Pontificum , non deve prendere il posto di quella “ordinaria”.
Non sono quindi previste nuove direttive liturgiche a partire dal prossimo Avvento, come qualcuno ha impropriamente dedotto da alcune parole del Cardinale Sarah, ed è meglio evitare di usare la espressione “riforma della riforma”, riferendosi alla liturgia, dato che talvolta è stata fonte di equivoci.

Tutto ciò è stato concordemente espresso nel corso di una recente udienza concessa dal Papa allo stesso Cardinale Prefetto della Congregazione del Culto Divino.
 
Fonte: Il Sismografo
 
 
Vedi anche le dichiarazioni del Card. Nichols:
 
 

domenica 10 luglio 2016

IL CALCIO COME RITUALE ESPIATORIO



“…Il calcio funziona come un fenomeno religioso. Si può affermare che il rapporto tra sport di massa e religione non ha niente di metaforico. Il fatto che, a seconda delle circostanze, le sue funzioni sociali possano essere interpretate in modo diverso e anche contraddittorio lo avvicina da per sé al fenomeno religioso. Ma c’è di più. In un breve e brillante articolo (“Football as a ‘Surrogate’ religion?”, in A Sociological yearbook of religion in Britain, London 1975, n. 8) Robert W. Coles ha provato a dimostrare come l’analisi durkheimiana degli atteggiamenti e delle pratiche religiose (più importante in questa prospettiva del contenuto ideologico) si applicasse alla realtà sociale del calcio. Il riunirsi di diverse migliaia di individui che provano gli stessi sentimenti e che li esprimono attraverso il ritmo e il canto gli sembrava creare le condizioni per la trascendenza dello psichismo individuale, di una percezione sensibile del sacro analoga a quella che Durkheim riporta a proposito dei riti espiatori australiani. Per il resto Codes ampliava la problematica durkheimiana riducendone, credo, al tempo stesso il campo di applicazione. La questione del significato del rituale per gli attori e, di conseguenza, quella del suo contenuto e delle circostanze della sua celebrazione, in effetti, non gli parevano irrilevanti. Tuttavia rimproverava ad autori come Malinowski o Parsons di aver voluto stabilire a tal proposito delle liste di eventi universali e definitive appartenenti all’elaborazione rituale (essenzialmente i morti prematuri, le calamità naturali, i cattivi raccolti e, in generale, la buona o la cattiva sorte). Gli sembrava che il calcio dovesse figurare nell’elenco di questi eventi ma, da un lato doveva essere messo in relazione con i drammatici cambiamenti sociali dell’Inghilterra del XIX secolo e, dall’altro, doveva riguardare i primo luogo i giovani ‘fan’ che, riuniti sulle stesse gradinate, mostrano, attraverso canti, grida e gesti, un fanatismo che rappresenta la loro perdita di speranza e di reali possibilità di realizzazione personale”

Marc Augé, Football. Il calcio come fenomeno religioso (Lampi), EDB 2016, pp. 36-38.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, a intervalli regolari e a orari fissi, milioni di individui si sistemano davanti al loro televisore domestico per assistere e, nel senso più pieno del termine, partecipare alla celebrazione dello stesso rituale (Quarta di copertina)