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lunedì 29 luglio 2019

Summorum Pontificum: intenzione iniziale, uso difficile e abusi pericolosi











Pubblicato il 29 luglio 2019 nel blog: Come se non



Altra cosa è concedere in modo più ampio un ricorso eventuale al rito preconciliare, altra cosa è invece fare del VO un criterio di formazione, attiva e pastorale, per i ministri ordinati del futuro. Questa differenza, che non sfugge a chiunque voglia considerare in modo equilibrato gli sviluppi degli ultimi 12 anni, propone con evidenza un paradosso, che è causa di scandalo. Vediamo di capire meglio che cosa è in gioco.

Le perplessità sulle intenzioni di SP

Non vi è dubbio che fin dall’inizio il tentativo di “pacificare” la Chiesa, introducendo una più ampia possibilità di ricorso al “rito antico”, abbia destato negli ambienti ecclesiali più lucidi e consapevoli non poche perplessità. Nessuno dubita della bontà delle intenzioni. Ma altrettanto fuori di dubbio è che il mezzo utilizzato per raggiungere lo scopo, ossia il riconoscimento di un “diritto al Vetus Ordo” che prescinde addirittura dalla Chiesa stessa, possa introdurre un fattore di lacerazione e di divisione assai peggiore del male che si vorrebbe evitare.

L’uso del MP e i possibili abusi

In effetti la applicazione di SP, nel corso degli anni, ha visto comparire Istruzioni formali e pratiche sostanziali, favorite dalla Commissione “Ecclesia Dei”, che hanno talmente lacerato il corpo ecclesiale da portare, nel volgere di poco più di un decennio, alla soppressione della Commissione stessa. Il tentativo di usare SP come una sorta di “legittimazione di ogni posizione anticonciliare” era diventato uno scandalo interno alla Curia romana, al quale papa Francesco ha posto rimedio con giusta decisione.

Un abuso chiaramente ostacolato

D’altra parte, a pochi mesi dalla approvazione di SP, un vescovo italiano, in una diocesi del nord, aveva preteso di costituire un Seminario “separato”, nel quale formare i candidati al sacerdozio soltanto alla liturgia del pre-concilio. Questo tentativo fu immediatamente bloccato da Roma, come era inevitabile e necessario.

Il pericolo di un abuso istituzionale

Ma il tentativo immediato, di lacerazione ecclesiale perpetrato mediante un “Seminario parallelo”, non ha potuto evitare una più insidiosa e sottile lacerazione: ossia quella che si induce, anzitutto nei futuri ministri, se si insegna loro a celebrare sia secondo il rito di Paolo VI, sia secondo il rito di Pio V. In questo caso i primi a essere lacerati sono i candidati al ministero. Essi subiscono un disorientamento che non è il loro, ma quello dei loro superiori. D’altra parte, se vi sono oggi addirittura “manuali” di liturgia eucaristica che prevedono questa “doppia formazione”, ciò dimostra che la irresponsabilità ha ormai superato il livello di guardia e ha intaccato anche professori apparentemente competenti e responsabili.

Una parola chiara oggi è necessaria

Una Chiesa responsabile non può formare i propri ministri ad una sorta di “opportunismo anticonciliare”: infatti, se tu formi i candidati al ministero a celebrare i riti della Riforma Liturgica, ma anche a celebrare i riti che, a causa dei loro limiti e delle loro carenze, hanno richiesta precisamente quella riforma, instilli in loro una ambiguità di fondo, una tiepidezza e una incomprensione verso il Concilio Vaticano II e una indiretta giustificazione del “tradizionalismo” che non è compatibile con la vera tradizione. I Seminari nei quali si presenta il rito di Pio V non come una vicenda storica superata, ma come una possibilità del futuro, devono essere invitati a non deformare in modo lacerato e schizofrenico il sensus fidei e il sensu ecclesiae dei candidati al ministero. Questo fenomeno è più diffuso di quanto si creda. Di fronte ad esso i Vescovi devono assumere in pieno la loro responsabilità, che in nessun modo può equiparare il Novus Ordo con il Vetus.


domenica 28 luglio 2019

San Pietro Crisologo, Vescovo e Dottore della Chiesa (30 luglio)





San Pietro Crisologo, nato ad Imola nel 380 circa e morto ad Imola il 31 luglio del 451 circa, nel MR 1962 è celebrato il 4 dicembre. Il MR 2002 lo celebra il 30 luglio (il 31 – giorno della sua morte – è occupato da sant’Ignazio di Loyola). Pietro è stato eletto vescovo di Ravenna nel 424. Predicatore famoso, è autore di stupendi sermoni, densi di dottrina; dal sec. VIII in poi meritò il nome di “Crisologo” (“dalla parola d’oro”). Fu dichiarato dottore della Chiesa nel 1729 da Benedetto XIII. A lui si ispirano alcune orazioni natalizie presenti tuttora nel Messale.


Colletta del MR 1962:

Deus, qui beatum Petrum Chrysologum Doctorem egregium, divinitus praemonstratum, ad regendam et instruendam Ecclesiam tuam elegi voluisti: praesta, quaesumus; ut, quem Doctorrem vitae habuimus in terris, intercessorem habere mereamur in caelis. 


Colletta del MR 2002:

Deus, qui beatum Petrum Chrysologum episcopum Verbi tui incarnati praeconem egregiume ffecisti, eius nobis intercessione concede, ut tuae salutis mysteria et iugiter scrutemur in corde, et fideliter significemus in opere.


“O Dio, che nel vescovo san Pietro Crisologo hai dato alla Chiesa un teologo insigne dell’incarnazione del Verbo, concede a noi che lo veneriamo protettore e maestro, di meditare nel cuore e di esprimere con le opere il tuo mistero di salvezza”.


Nella colletta del MR 1962 si dice genericamente che il santo è stato un insigne Dottore e si chiede la sua celeste intercessione. La colletta del MR 2002 esplicita meglio lo specifico del santo, che è stato “un teologo insigne dell’incarnazione del Verbo”. Il discorso sull’Incarnazione proposto dall’Ufficio delle letture della Liturgia delle ore, tratta il tema della dignità dell’uomo: “Dio ha stampato in te la sua immagine, perché l’immagine visibile rendesse presente al mondo il creatore invisibile”. Anche la supplica della colletta è più ricca nel MR 2002: si chiede che noi possiamo “meditare nel cuore ed esprimere con le opere il mistero di salvezza”. Il Crisologo, nel sermone 103, commenta la coerenza di vita con i misteri meditati con queste parole: “Che dire se per la gioia del Natale, il povero piange, il prigioniero geme, il rifugiato si lamenta, il deportato singhiozza? Il giudeo ha sempre onorato le feste celesti per mezzo di contributi; il cristiano a cosa pensa se non le onora neppure con un centesimo dei suoi beni? […]”




sabato 27 luglio 2019

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 28 Luglio 2019





Gen 18,20-21.23-32;  Sal 137 (138); Col 2,12-14; Lc 11,1-13.



Il ritornello del salmo del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi ha risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e terza lettura di questa domenica. 


La prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo però questi giusti non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione “salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.


Notiamo anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare: Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il “debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali. Un’antica tradizione raccomanda di recitare il Padre nostro “tre volte al giorno” (Didaché 8,3), mattino, mezzogiorno e sera, come preghiera fondamentale che conserva in noi l’atteggiamento filiale verso Dio. Sintesi di tutto il vangelo, come afferma Tertulliano, il Padre nostro più che una formula da recitare, esprime un atteggiamento da interiorizzare.


La preghiera si può compiere più facilmente durante il tempo libero delle vacanze. Non è però una semplice attività da eseguire accanto ad altre. Nella preghiera diventiamo noi stessi nel modo più autentico, ci ritroviamo senza maschera, esprimiamo il nostro nucleo più intimo. Dopo la rivelazione del mistero della preghiera filiale di Cristo, per noi cristiani questo nucleo più intimo è il nostro essere “figli”, con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia in Dio, nostro Padre. Pregare non significa cercare di imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza (“venga il tuo regno”). Troppo spesso le nostre preghiere guardano invece l’immediato, senza incrociare lo sguardo di Colui che sa in cosa consista la nostra felicità.


Una visione antropocentrica, frequente oggi, rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. La preghiera invece è anzitutto ascolto, non solo della natura, della storia, di se stessi, ma ascolto soprattutto della Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf. Gv 1,1), per l’uomo “in principio è l’ascolto”. 


mercoledì 24 luglio 2019

Paolo VI e la liturgia · Alcuni aspetti peculiari ·






di Corrado Maggioni




L’insegnamento di Paolo VI in materia liturgica si può riassumere dicendo che egli ha voluto, guidato, spiegato, difeso, promosso la riforma liturgica, al fine di riformare la Chiesa, giacché è attraverso l’azione liturgica che la Chiesa sperimenta l’incontro trasfigurante con Cristo, per Cristo e in Cristo. Senza pretesa di abbracciare ogni aspetto se ne richiamano alcuni significativi.


La lingua corrente come “voce della Chiesa” in preghiera


Negli anni preparatori al concilio furono interpellati tutti i vescovi del mondo circa l’uso della lingua volgare nella liturgia. Esistevano già alcune limitate concessioni della Sede apostolica circa l’uso della lingua volgare nel Rituale Romano. Le chiare decisioni dei padri del Vaticano II al riguardo furono progressivamente attuate ed estese. Paolo VI era ben consapevole della gravità del cambiamento della lingua, ma al contempo vedeva con lucidità che era necessario in ragione della partecipazione del popolo alla liturgia. Ecco alcuni passaggi del suo insegnamento a tale proposito.



Così Paolo VI si esprimeva nello storico Angelus del 7 marzo 1965, prima domenica di Quaresima: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina.


«La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento — il Concilio lo ha suggerito e deliberato — e questo per rendere intelligibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa. È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti. E questo per voi, fedeli, perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti ed attivi e se saprete davvero corrispondere a questa premura della Chiesa, avrete la grande gioia, il merito e la fortuna di un vero rinnovamento spirituale» (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 1131).


Il valore della preghiera in lingua corrente, chiamata a esprimere la «voce della Chiesa» orante, veniva ricordato da Paolo VI nel discorso al congresso dei traduttori dei libri liturgici, il 10 novembre 1965, in questi termini: «Versiones, quae ante promulgatam Constitutionem de Sacra Liturgia hic atque illic editae erant, eo pertinebant, ut fideles ritus lingua Latina celebratos intellegerent; erant videlicet subsidia populi, veteris huius linguae ignari. Nunc autem versiones factae sunt partes ipsorum rituum, factae sunt vox Ecclesiae» (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 599).


L’istanza della partecipazione alla liturgia tramite la comprensione della lingua quale «magnum principium» da tenere in debito conto, è risuonata nel discorso di Paolo VI all’ottava sessione del Consilium, il 19 aprile 1967, dove, così rispondeva a proposito di una pubblicazione polemica in difesa del latino: «Essa non edifica alcuno, e non reca perciò alcun vantaggio alla causa che vorrebbe difendere, la conservazione cioè della lingua latina nella liturgia; questione questa degna certamente d’ogni attenzione, ma non risolubile in senso contrario al grande principio, riaffermato dal Concilio, della intelligibilità, a livello di popolo, della preghiera liturgica, non che a quell’altro principio, oggi rivendicato dalla cultura della collettività, di poter esprimere i propri sentimenti, più profondi e più sinceri, in linguaggio vivo» (Insegnamenti di Paolo VI, v [1967] 167).


Lo stesso pensiero ribadì Paolo VI nell’udienza generale del 26 novembre 1969, ormai a pochi giorni dall’inizio, il 30 novembre, prima domenica di Avvento, dell’adozione obbligatoria nella liturgia del nuovo rito della messa nelle diocesi italiane: «Non più il latino sarà il linguaggio principale della Messa, ma la lingua parlata. Per chi sa la bellezza, la potenza, la sacralità espressiva del latino, certamente la sostituzione della lingua volgare è un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra, e così perderemo grande parte di quello stupendo e incomparabile fatto artistico e spirituale, ch’è il canto gregoriano. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci, e quasi di smarrirci: che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio d’inestimabile prezzo. E per quale ragione? Che cosa vale di più di questi altissimi valori della nostra Chiesa? La risposta pare banale e prosaica; ma è valida; perché umana, perché apostolica. Vale di più l’intelligenza della preghiera, che non le vesti seriche e vetuste di cui essa s’è regalmente vestita; vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara, intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana. Se il divo latino tenesse da noi segregata l’infanzia, la gioventù, il mondo del lavoro e degli affari, se fosse un diaframma opaco, invece che un cristallo trasparente, noi, pescatori di anime, faremmo buon calcolo a conservargli l’esclusivo dominio della conversazione orante e religiosa? Che cosa diceva San Paolo? Si legga il capo XIV della prima lettera ai Corinti: “Nell’assemblea preferisco dire cinque parole secondo la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che non diecimila in virtù del dono delle lingue” (19 ecc.)» (Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 1128-1129).


La partecipazione del Popolo di Dio


Fin dal discorso di promulgazione della Sacrosanctum concilium, il 4 dicembre 1963, Paolo VI ebbe a cuore di sottolineare il nesso tra liturgia e Chiesa, con risvolti anche sulla missione che questa è chiamata a svolgere nel mondo odierno, eco in certo senso della celebre asserzione di Sc 10 che la liturgia è «fonte e culmine della vita della Chiesa»: «La liturgia (…) primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano, con noi credente ed orante, e primo invito al mondo, perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze umane, per Cristo nello Spirito Santo. (…) Sarà bene che noi facciamo tesoro di questo frutto del nostro Concilio, come quello che deve animare e caratterizzare la vita della Chiesa». 


In altri termini, vien posto in risalto il principio che recita: «La liturgia fa la Chiesa e la Chiesa fa la liturgia». Il primato della liturgia è perciò vitale per la Chiesa; non è infatti clericale la liturgia, poiché riguarda e coinvolge l’intero popolo di Dio come ricordava Paolo VI nell’udienza generale del 20 luglio 1966: «È noto a voi tutti parimente come la prima affermazione, la prima riforma, il primo rinnovamento, che il Concilio Ecumenico ha dato alla Chiesa, ha avuto per oggetto la Liturgia, cioè la preghiera ufficiale della Chiesa stessa. Ricordiamolo bene!» (Insegnamenti di Paolo VI, iv [1966] 817).


In quest’ottica, Paolo VI aveva ben presente e chiedeva di tener ben presente «lo scopo fondamentale della Costituzione conciliare sulla Liturgia, ch’è quello di restituire al Popolo di Dio la partecipazione attiva alla celebrazione cultuale» (Udienza generale del 4 gennaio 1967: Insegnamenti di Paolo VI, v [1967] 6.) E così spiegava nell’udienza generale del 6 aprile 1966: «Partecipazione: ecco una delle più ripetute e delle più autorevoli affermazioni del Concilio ecumenico a riguardo del culto divino, della Liturgia; tanto che questa affermazione può dirsi uno dei principi caratteristici della dottrina e della riforma conciliare. (…) Il pensiero della Chiesa è chiaro: il popolo cristiano non deve semplicemente e passivamente assistere alle cerimonie del culto divino; deve capirne il senso e deve essere associato in modo che la celebrazione sia piena, attiva e comunitaria (cfr. Sc 21)» (Insegnamenti di Paolo VI, iv [1966] 739-740).


Mettendo in guardia da una idea impropria di partecipazione vista come attivismo, senza coinvolgimento interiore che si manifesta poi in modo esteriore, Paolo VI ne spiegava già il significato a riforma appena avviata, nell’udienza generale del 14 settembre 1966: «Noi vorremmo che ciascuno di voi raccogliesse l’invito fatto dalla Chiesa ai suoi figli con la riforma della liturgia; riforma che soprattutto consiste nel far “partecipare” i fedeli alla celebrazione del culto divino e della preghiera ecclesiale. A quale punto si trova la vostra partecipazione? Bisogna, su questo punto, raggiungere l’unanimità, per quanto è possibile! Guai agli assenti, guai agli indifferenti, guai ai tiepidi, ai malcontenti, ai ritardatari! La vitalità della Chiesa dipende, sotto questo aspetto, dalla prontezza, dall’intelligenza, dal fervore dei singoli cristiani, ministri o semplici fedeli che siano» (Insegnamenti di Paolo VI, iv [1966] 849).


Essendo inclusiva dell’intero popolo di Dio, la liturgia si prende cura anche di chi, per distrazione o ignoranza, non ha piena coscienza del suo mistero. Nel discorso ai membri del Consilium del 19 aprile 1967, Paolo VI li invitava: «A delineare quel volto della sacra Liturgia, che ne dimostri la verità, la bellezza, la spiritualità, e che lasci sempre meglio trasparire il mistero pasquale in essa vivente, per la gloria di Dio e per la rigenerazione spirituale delle folle distratte, ma assetate, del mondo contemporaneo» (Insegnamenti di Paolo VI, v [1967] 168-169). 


Alla vigilia dei primi cambiamenti nel modo di celebrare la messa, nell’udienza del 19 novembre 1969 richiamava l’attenzione sul fatto che i fedeli «alla Messa sono e si sentono pienamente “Chiesa”; (…) sappiate piuttosto apprezzare come la Chiesa, mediante questo nuovo e diffuso linguaggio, desidera dare maggiore efficacia al suo messaggio liturgico, e voglia in maniera più diretta e pastorale avvicinarlo a ciascuno dei suoi figli ed a tutto l’insieme del Popolo di Dio» (Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 1123-1124). 


Le celebrazioni papali


Abituati da più di cinquant’anni a vedere il Papa presiedere la liturgia, in San Pietro come nei più diversi luoghi del mondo, non sappiamo oggi cogliere l’impatto innovativo di questa prassi, divenuta abituale con Paolo VI. Nella consuetudine precedente erano assai rare le liturgie in San Pietro; la notte di Natale il Papa celebrava in Cappella Sistina per il solo corpo diplomatico. Pio XII non ha mai presieduto i riti della Settimana santa. Cominciò a farlo Giovanni XXIII, che riprendendo le visite alle parrocchie romane in Quaresima vi celebrava la messa. Fu dunque Paolo VI ad accordare rilevanza alle liturgie papali, la notte di Natale in San Pietro, le celebrazioni pasquali, dalla domenica delle Palme al Triduo sacro, con la Veglia in ore notturne. Volle anche presiedere personalmente la celebrazione di alcuni sacramenti, specie nell’Anno santo del 1975.


Negli anni immediatamente successivi il Vaticano II (1965-1969), alla luce del principio conciliare secondo cui i riti devono risplendere per «nobile semplicità» (Sc 34) e l’arte al servizio della liturgia (vesti e ornamenti) «piuttosto per una nobile bellezza che per una mera sontuosità» (Sc 124), le celebrazioni pontificie, in particolare della Cappella Papale, si sono trasformate da cerimonie derivate dalla corte rinascimentale in celebrazioni dell’assemblea liturgica del Popolo di Dio, presieduta dal vescovo di Roma. Il Papa vestiva e celebrava come i libri liturgici prescrivevano per il vescovo. Se era normale fino ad allora che nessuno comunicasse alla messa celebrata dal Papa, cominciò Paolo VI a distribuire personalmente la comunione ai fedeli dalla prima messa celebrata in italiano, il 7 marzo 1965. 


Il Papa raggiungeva l’altare processionalmente, preceduto dai ministranti, dai diaconi e dai concelebranti; indossava le vesti liturgiche prescritte dall’Ordinamento generale del Messale Romano, non rivestendo ormai più la “falda” ma un camice senza ricami, la casula elegante per ampiezza e preziosità della stoffa, portando sulle spalle il pallio e non più il “fanone”.

Così osserva Annibale Bugnini tra i suoi ricordi: «La passione con la quale Paolo VI ha attuato in prima persona la riforma liturgica, la fede con cui l’ha celebrata, sono state certamente il più valido stimolo ai vescovi per essere essi stessi i primi responsabili della vita liturgica delle loro diocesi, i primi celebranti» (La riforma liturgica [1948-1975], Centro Liturgico Vincenziano, Roma 1972, pag. 789).


Il culto mariano


Se ci fu chi criticò come “antimariana” la riforma “paolina”, si deve riconoscere che il riordino della memoria liturgica di Maria è stato conseguente ai principi conciliari. Serviva una lettura lucida e oggettiva della dimensione mariana della liturgia rinnovata — Calendario, Messale, Lezionario e Liturgia delle Ore — e Paolo VI vi provvide con l’esortazione apostolica Marialis cultus (2 febbraio 1974).


In un momento storico difficile, tra opposte tendenze, fu come l’accensione di una lampada che aiutò tutti a vedere meglio il posto di Maria nella pietà liturgica e non: gli scettici trovarono convincenti indicazioni per una fondata pietà mariana; i sostenitori vi trovarono la sintesi di quanto avrebbero voluto dire sulla comunione orante con la Madre di Cristo e della Chiesa; i timidi vi trovarono validi motivi per una riscoperta della presenza viva di Maria nel mistero del culto cristiano; i nostalgici vi trovarono la spiegazione che col rinnovamento liturgico nulla si era inteso togliere all’alma Madre di Dio, ma solo purificare affinché risplendesse meglio ciò che doveva brillare; i fanatici vi trovarono indicati i limiti di una corretta e fruttuosa devozione alla Vergine Santissima; gli ostili, infine, vi trovarono il necessario richiamo a stimare, nella preghiera comune e personale, la compagnia e l’esempio di Maria. Tra gli insegnamenti racchiusi nell’Esortazione apostolica risaltano tre aspetti.


Anzitutto la coscienza della dimensione “mariana” della liturgia. Eredi di un’epoca in cui la devozione mariana trovava fiato piuttosto in “devozioni” al di fuori la liturgia e parallele a essa, l’intento di Paolo VI fu di valorizzare la devozione a Maria espressa anzitutto nell’azione liturgica, senza dimenticare i pii esercizi. 


In secondo luogo il nesso lex orandi - lex credendi, in ordine alla lex vivendi. La Marialis cultus ha contribuito agli sviluppi liturgico-mariani successivi, quali l’arricchita seconda edizione del Messale Romano Italiano (1983) e specialmente la Collectio Missarum de beata Maria Virgine (1987), come anche l’editio tertia del Missale Romanum (2002). Per rendersene conto basta considerare gli accenti tematici di alcuni formulari della Collectio che attingono alla Marialis cultus, come ad esempio Maria “discepola del Signore” (n. 10), “donna nuova” (n. 20); “maestra spirituale” (n. 32). Assai eloquente è il prefazio del formulario n. 26 (Maria Vergine immagine e Madre della Chiesa), intitolato «Maria modello dell’autentico culto a Dio», la cui fonte diretta sono i numeri 17-20 della Marialis cultus. Non è sfuggito a Paolo VI — spesso vi ritorna — che venerare Maria significa vivere come lei: «È impossibile onorare la Piena di grazia senza onorare in se stessi lo stato di grazia, cioè l’amicizia con Dio, la comunione con lui, l’inabitazione dello Spirito» (Mc 57).


Infine, la sollecitudine per la pietà popolare, che sa incoraggiare e orientare, accompagnando la crescita armonica della vita spirituale. Nel rilevante ambito della pietà popolare, la Marialis cultus ha il grande merito di aver osservato luci e ombre, indicando la strada da percorrere per il rinnovamento e la purificazione della pietà popolare in genere, le cui linee guida sono poi maturate con il Direttorio su pietà popolare e liturgia (2002).




Fonte: L’Osservatore Romano 23 luglio 2019


domenica 21 luglio 2019

L’ANNO LITURGICO OGGI






Loris Della Pietra – Gianni Cavagnoli, “Cristo ieri, oggi e per sempre”. L’inedito cammino della Chiesa nell’anno liturgico (Preghiera e Liturgia 13), Centro Eucaristico, Ponteranica (BG) 2019, 114 pp. (€ 12).



La Chiesa cammina nel tempo celebrando i misteri di Cristo, “che è lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8). Questo inedito modo di scandire giorni, mesi e anni ha dato vita alla formazione dell’anno liturgico.


In nove capitoli, gli autori ne ripercorrono gli elementi portanti per farne cogliere la bellezza e il valore: la Domenica, festa primordiale; l’Avvento, tempo della veglia; il mistero del Natale di Cristo; la Quaresima; il Triduo pasquale; il Tempo di Pasqua; il Tempo Ordinario; le feste della Beata Vergine Maria e il culto dei Santi.


Un approccio con una forte attenzione all’attualità e alle implicazioni pastorali.



(Quarta di copertina)




venerdì 19 luglio 2019

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 21 Luglio 2019





Gen 18,1-10°; Sal 14 (15); Col 1,24-28; Lc 10,38-42



Le tre letture odierne ci invitano a passare dall’ospitalità che il Signore concede a noi, all’ospitalità che noi siamo chiamati ad offrire a Dio.


Il racconto proposto dal vangelo d’oggi è assai noto a tutti. Ci si potrebbe soffermare subito su Marta e Maria, spesso viste arbitrariamente come simboli contrapposti di una vita data all’attività, al servizio, alle opere, come quella di Marta, e di una vita data invece alla preghiera, alla contemplazione, come quella di Maria. E’ però più opportuno dare uno sguardo anche alle altre letture bibliche, in particolare alla prima. Vediamo infatti che sia la prima lettura che il racconto evangelico parlano dell’ospitalità: quella offerta da Abramo a tre personaggi misteriosi arrivati a casa sua, e quella offerta dalle sorelle Marta e Maria a Gesù. Possiamo quindi affermare che il tema centrale di questa domenica è l’ospitalità: sia Abramo che le sorelle di Lazzaro vengono presentati come modelli di accoglienza dell’ospite. Nei due episodi quest’ospite è Dio stesso. Possiamo perciò circoscrivere l’argomento e dire che si tratta di dare ospitalità a Dio. Non di rado la nostra vita appare frammentata, vuota, in balia degli eventi. Dio può dare senso e armonia alla nostra esistenza. E’ necessario però mettersi in atteggiamento di ascolto della sua parola, come Maria. 


Le due sorelle rappresentano due modi diversi, non in contrasto ma complementari, di accogliere il Signore. Non si tratta di proclamare la superiorità della contemplazione sull’azione ma di richiamare sia Marta che Maria all’esigenza dell’ascolto della parola di Dio che deve precedere, alimentare e sostenere ogni scelta religiosa e umana del discepolo di Gesù. Perciò Maria è raffigurata nell’atteggiamento del discepolo davanti al maestro, “ai piedi del Signore” mentre ascolta la sua parola. Abbiamo bisogno di nutrire in noi un atteggiamento di ascolto della parola di Dio, sia che la nostra vita sia come quella di Marta, indaffarata in un lavoro che assorbe, o come quella di Maria, soli nell’interno di una casa quotidiana e solitaria. Nella seconda lettura, Paolo, che ha ricevuto da Dio la missione di “portare a compimento la sua parola”, ci ricorda che l’ascolto di cui parliamo porta all’impegno nel quotidiano. Anche il canto al vangelo parla di “coloro che custodiscono la parola di Dio” e “producono frutto con perseveranza” (cf. Lc 8,15). E nella colletta alternativa l’assemblea chiede di poter ascoltare la parola del Figlio per poi accogliere e servire il Figlio stesso nei fratelli. Non ha senso la contrapposizione tra ascoltare e darsi da fare, tra contemplare e agire. Si tratta di due momenti che si compenetrano a vicenda. L’ascolto della Parola offre le motivazioni profonde che danno senso al servizio. Ecco quindi che ci viene offerta una linea per dare unità alla vita: l’ascolto. Tutti abbiamo bisogno di ascoltare la parola del Signore, che è capace di avvolgere di luce nuova il nostro lavoro, il nostro riposo, le nostre preoccupazioni, le nostre lotte quotidiane. 






mercoledì 17 luglio 2019

IL RITORNO DELL’ALTARE






Sugli adeguamenti della riforma conciliare 

di Giuliano Zanchi




La nuova coscienza dello spazio liturgico

Considerate dalla distanza di questi cinquant’anni ormai trascorsi dalla riforma conciliare, le trasformazioni che hanno toccato lo spazio liturgico fanno sensazione. Il coraggio che esse hanno richiesto ha del miracoloso. Nemmeno troppo tempo dopo, forse non avrebbero trovato il clima per l’audacia di cui sono il frutto. Oggi certo non si oserebbe. Ma allo Spirito bastano spiragli temporanei. Brecce momentanee attraverso le quali effondersi senza risparmio. La riforma liturgica è certamente frutto di un tale momento di grazia. La osserviamo oggi con sentimenti alterni. Spesso anche polarizzati. Qualcuno rimpiange le cipolle di una volta. I più sanno di essere ancora in cammino, ma certamente nella direzione giusta. Abbiamo spesso cercato strade brevi per trovarci ogni volta sugli stessi passi. Ma con qualche lezione d’orientamento in più. Personalmente — come ho sostenuto qualche tempo fa nel corso di un convegno tenutosi a Bose — ho la convinzione che solo adesso, dopo tutto questo tempo di esperimenti e dibattiti, cominciamo a comprendere le vere poste in gioco della riforma liturgica, persino grazie al mormorio dei suoi denigratori; ma soprattutto guidati dall’aver compreso le conseguenze di un’impazienza che corre sempre tenendo per mano la superficialità.



Il ritorno sulle scene dell’altare e dell’ambone, presi come elementi salienti della rinnovata geografia spirituale, fa parte di quel miracolo di cui non abbiamo ancora smesso di metabolizzare la portata. Tanto più clamoroso quanto più si ripensa alle loro metamorfosi medievali e tridentine. L’ambone si era nella sostanza eclissato a favore del pulpito. Quanto all’altare si era trasformato in un gigantesco reliquiario. Senza che né l’uno né l’altro si sottraessero all’esercizio della grande creatività artistica di cui tutti abbiamo memoria. Ma per servire sostanzialmente una Parola indotta a ridursi nella dottrina e un sacramento portato a rasentare la presenza magica. Erano le rispettive concezioni della Rivelazione, del Sacramento e della Chiesa a essersi talmente polarizzate su punti di merito indotti dalla contesa confessionale, da tradursi anche nel rito e nelle sue estetiche con la fermezza della loro unilateralità. La teologia conciliare ha potuto agire per impulso di concezioni teologiche riacquisite nella loro ampiezza sistematica. Mi sembra sufficiente citarne i due nodi salienti. Una ritrovata consapevolezza della storicità della rivelazione e del suo epicentro cristologico; una nuova coscienza del peso sacramentale della chiesa intera e della sua essenziale natura spirituale. Nello spazio di una tale ampiezza ha potuto riprendere respiro una liturgia pensata come inscindibile congiunzione fra una comune azione del popolo, titolato per via del battesimo a un comune ministero sacerdotale, e la viva presenza di Cristo, che chiama a raccolta la sua chiesa e sta in mezzo a essa. Le implicazioni di queste variabili sono profonde su molti aspetti. Esse hanno perlomeno significato la necessità di dare luogo alla grazia mediante azioni e spazi compatibili alla ritrovata densità simbolica del rito e al riconquistato peso spirituale della liturgia. 


Dopo tanti anni e anche dopo tanti errori, forse oggi ricominciamo a intuire gli effetti differenziali che un altare introduce negli spazi liturgici. Magari per ora lo percepiamo più in negativo. Sentiamo l’irrilevanza e la malinconia emanata dagli altari di nessuna o di cattiva qualità. Ma da questa mancanza possiamo percepirne la sostanza dal vuoto che essa lascia quando non c’è. L’altare infatti è un simbolo forte e primordiale. Conserva quella funzione, arcaica e antropologica, che ne fa un centro di gravità permanente che detta le direttrici dello spazio a partire da una traccia materiale del trascendente. Possiede quella consistenza simbolica che si mostra veramente adeguata quando sa esercitare il suo magnetismo anche quando su di esso non si fa nulla.


Sotto questo profilo merita attenzione la questione della posizione dell’altare. Per ragioni di riequilibrio dopo il concilio una propensione alquanto ingenua ha insistito molto nel tradurre il principio dell’altare/mensa e dell’assemblea/comunione facendo dell’altare il centro geometrico dell’assemblea. Una tale soluzione nascondeva una concezione narcisistica della comunità che ha raccomandato presto il suo abbandono. Essa faceva dell’altare una sorta di ombelico mistico per una comunione pensata in fondo in chiave puramente orizzontale. Ma l’altare non è semplicemente una funzione dell’assemblea che si raduna, e l’assemblea cristiana non si riduce affatto a un gruppo scelto di umani che si autoconvocano. La comunione dei credenti si scopre tale solo quando si trova raccolta dall’iniziativa trascendente che la convoca. Essa si raduna proprio per richiamo in direzione di un esodo dalla propria potenziale chiusura. Quegli altari messi al centro dell’assemblea, diffusi o no che siano stati, erano riflesso molto trasparente dell’ideologia vagamente egualitaria che ispirava certe immaginazioni ecclesiali. La reazione a queste ingenuità ha incoraggiato molti in seguito a mettere in discussione la stessa legittimità dell’altare rivolto al popolo indiziandolo di infedeltà nei confronti della tradizione. Le ideologie come sempre si fronteggiano e si alimentano a vicenda. Superarle significa, in questo caso, impadronirsi adeguatamente della duplice funzione di orientamento dell’altare alla cui complessità occorre dare la giusta soluzione spaziale. L’altare per un verso tiene il posto della centralità di Cristo che raccoglie la comunità attorno al suo dono/sacrificio. Esso in questo senso fa centro nel cuore della comunione. Questa centralità tuttavia non deve necessariamente significare equidistanza geometrica da ogni punto visibile. L’altare non è l’ombelico dell’assemblea. Su di esso infatti resta iscritta anche la tensione escatologica verso cui Cristo nella cena originaria rimanda il senso del suo dono/sacrificio. L’altare perciò raccoglie e orienta. Simultaneamente. Per poterlo fare deve stare nella posizione più equilibrata possibile. Troppo prossimo diventa figura di un’autocostruzione immanente senza proiezione verso il futuro. Troppo lontano, il suo rimando verso un oltre è solo indisponibilità simbolica della mèta. La presenza dell’altare, figura di Cristo, deve trovarsi in posizione sufficientemente prossima da esercitare richiamo ma abbastanza distanziato da proiettare simbolicamente verso altrove. Magari rialzato. Per accentuare con una giusta emergenza il senso di richiamo eminente e di rilancio escatologico che si realizza nella liturgia cristiana. 


Provando a formulare una immaginazione complessiva ribadisco la convinzione che la comunità celebrante non è un cerchio che si concentra sul suo ombelico. Ma nemmeno un esercito di militari che segue la nuca del suo generale. Non dovrebbe avere la forma del plotone che marcia uniforme come un muro. Ma una compagine umana che resta aperta, per indirizzarsi verso qualcosa e qualcuno che non le coincide ma la chiama. Essa guarda un bell’altare, semplice e solido, nudo e severo, magnetico anche nella solitudine, figura di Cristo che chiama e raccoglie, del suo sacrificio e della sua cena, rialzato per far guardare in alto, non troppo lontano per non essere sfuggente. Immagino che chi presiede salga all’altare solo quando lo richiede il rito, per non dominarlo tutto il tempo come una sua estensione personale. L’altare non può essere requisito da nessuno. Non deve nemmeno essere il crocevia di un transito permanente. È una presenza che va lasciata alla sua dignità. Per essere cercato, guardato, contemplato. Perché chi guarda all’altare possa nutrirsi abbastanza per oggi ma anche avere un’attesa che arrivi a domani.






Fonte: L’Osservatore Romano (16.07.2019)

domenica 14 luglio 2019

COS’È IL SACRAMENTO?






Mario Florio, Sacramento (Le Parole della Fede), Cittadella, Assisi 2019. 145 pp. (€ 12,50).



Il sacramento costituisce il punto cruciale della comunicazione tra Dio e l’uomo in Gesù Cristo. Ma che cos’è il sacramento? La teologia si è più volte incaricata di delineare un quadro teorico di comprensione di questa realtà. In relazione a questa operazione, il Movimento liturgico ha riportato al centro la peculiarità dell’azione liturgica. L’itinerario proposto vuole mostrare una nuova approssimazione al sacramento tenendo conto di alcune costanti tipiche dell’esperienza umana nel suo dirsi all’interno dello spazio liturgico ed ecclesiale.

(Quarta di copertina)



Dopo una Introduzione di cinque pagine, il volume è diviso in quattro capitoli: Nelle Sante Scritture; Nella tradizione della Chiesa; Dire il sacramento oggi; Per una sintesi.



Opera erudita con un linguaggio talvolta di non facile comprensione.

venerdì 12 luglio 2019

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 14 Luglio 2019





Dt 30,10-14; Sal 18 (19); Col 1,15-20; Lc 10,25-37



Il Sal 18 celebra la Sapienza di Dio, che ordina e regge l’universo e dirige e vivifica lo spirito e il cuore dell’uomo. La seconda parte dell’inno, da cui è tratto l’odierno salmo responsoriale, è un testo didattico sulla legge. L’autore tesse l’elogio della legge divina: essa è pura, radiosa ed eterna; rinfranca l’anima e dona saggezza ai semplici. La legge fondamentale dell’alleanza, cioè il Decalogo, è detta semplicemente nella Bibbia “le dieci parole” (Es 34,28; Dt 4,13; 10,4). All’uomo che cerca il perché del mondo, della vita, Dio offre la sua Parola. E’ Parola viva, sicura, indirizzo per la nostra esistenza; Parola divenuta persona, uno di noi, Gesù il nostro Salvatore. In Cristo Gesù la legge è stata adempiuta una volta per tutte (cf. Mt 5,17). Perciò per il cristiano l’osservanza della legge si risolve in un rapporto personale d’amore con Cristo e con i fratelli. 


Il tema del comandamento dell’amore vicendevole di cui parla il brano evangelico ci viene proposto più volte lungo l’anno liturgico. Si tratta della legge fondamentale del credente, quella legge di cui Mosè tesse le lodi nella la prima lettura. Alla domanda del dottore della legge su che cosa debba egli fare per ereditare la vita eterna, Gesù non risponde ma rimanda l’interlocutore a ciò che sta scritto nella Legge di Mosè e che lo stesso dottore della legge riassume bene così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Partendo dall’amore di sé e da quello di Dio, diventa autentico l’amore per l’altro. Diversamente, c’è il pericolo di amare il prossimo, presentandogli il conto. La novità però dell’insegnamento di Gesù sta nella risposta alla seconda domanda formulata dallo scriba: “chi è il mio prossimo?”, questione dibattuta dal rabbinismo. A questa domanda Gesù risponde con la splendida parabola del Samaritano. Con questa parabola Gesù invita a superare ogni diatriba teorica ed evasiva sul contenuto reale da dare al termine “prossimo”: ogni uomo che si trova in bisogno, sia esso amico o nemico, è “prossimo” a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto con lui.  


Cosa fa il Samaritano? Prima di tutto si ferma perché si muove a compassione, che qui è vero amore. Per chi ha sempre troppo da fare, preso dai propri interessi, fermarsi per interessi altrui significa accorgersi che esiste un altro, che soffre e che è nel bisogno. In secondo luogo, si fa vicino all’uomo sofferente, non solo fisicamente ma anche con una vicinanza affettiva: se i cuori sono distanti, la vicinanza fisica non serve. In terzo luogo, si prodiga nei primi aiuti, cioè si rimbocca le maniche e offre un aiuto concreto. Finalmente, il buon Samaritano si assicura che il suo assistito possa ricuperarsi pienamente dalla disavventura. Non si accontenta di fare una buona azione, ma si preoccupa dell’individuo incontrato per caso affinché questi possa ritornare alla vita normale. 


Nella seconda lettura si parla di Cristo “immagine del Dio invisibile”, espressione perfetta del volto del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Nel malcapitato i Padri vedono l’umanità peccatrice e nel buon Samaritano vedono il Cristo, che su tale umanità si china per prendersene cura. In Cristo Dio si è fatto “vicino” (cf Rm 10,5-10) e in lui e con lui è possibile amare il prossimo. Nell’eucaristia “l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).


domenica 7 luglio 2019

LA LITURGIA COME EVENTO LUDICO





“… Non appena si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco immediatamente crolla. Tutto ciò appare pazzesco o incomprensibile solo a chi non ha mai visto con quale serietà i bambini stabiliscono le regole dei loro giochi, ad esempio come tutti debbano tenere le mani così e così…, il significato di un certo bastoncino o di quell’albero (e solo di quello) in un particolare gioco.


Lo stesso fa la liturgia imponendo severissime leggi che devono regolare il santo gioco che l’uomo gioca dinanzi a Dio. Può comprendere la liturgia chi non si scandalizza di ciò e sa – di contro ad ogni pragmatismo utilitaristico anche di tipo catechetico o morale – che agire liturgicamente significa davvero “diventare come bambini” (Mt 18,3), fedeli alla parola di colui che da Verbo si è fatto bambino…”



Fonte: Silvano Zucal, La liturgia come evento ludico in Romano Guardini, in Juan Rego (ed.), Incontri con Romano Guardini. A cento anni da “Lo Spirito della Liturgia”, EDUSC, Roma 2019, p. 119.


sabato 6 luglio 2019

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 7 Luglio 2019






Is 66,10-14c; Sal 65 (66); Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20



Le tre letture parlano della salvezza, della realtà nuova che Dio ha operato in noi. Nel vangelo vediamo che Gesù invia i suoi settantadue discepoli (tanti quanti sono le nazioni pagane secondo Gn 10) in missione di “pace”, a “curare i malati” e ad annunciare: “E’ vicino a voi il regno di Dio”. Che cos’è il regno di Dio? Per rispondere a questa domanda, iniziamo dalla prima lettura, la quale riporta un brano profetico pronunciato in un momento difficile per la storia d’Israele: dopo l’esilio di Babilonia, la situazione di coloro che sono ritornati a Gerusalemme è disperata; praticamente c’è penuria di tutto. E’ il momento impegnativo della ricostruzione. In questo contesto, il profeta annuncia un futuro di gioia e di benessere. Quale rapporto ha tutto ciò col regno di Dio? Quando la Bibbia parla del regno di Dio usa un concetto molto generale. Esso comprende anche l’appagamento di quei desideri umani che sorgono nei cuori degli uomini e nutrono le speranze dei popoli specie nei momenti di prova. Così si oppongono al regno di Dio la malattia, la morte, la povertà opprimente, la fatica, l’oppressione politica e sociale, la guerra. Possiamo quindi affermare che quando il profeta consola i rimpatriati da Babilonia e annuncia un futuro migliore, la prospettiva di fondo è quella del regno di Dio, quella situazione ideale di salvezza che l’uomo spera di poter raggiungere. Ciò che è tipicamente cristiano del regno di Dio è che il raggiungimento di un tale traguardo non è sperato solo in quanto frutto dell’opera umana, ma come dono che Dio ha promesso definitivamente per mezzo di Cristo.



Nel brano della seconda lettura, san Paolo annunzia al centro del suo vangelo la croce di Cristo, sorgente dell’essere “nuova creatura”. Il regno di Dio, di cui stiamo parlando, si realizza anche attraverso la via della croce. La croce assume in sé tutta la violenza dell’uomo, anzi essa è il risultato tenebroso dell’azione stessa di satana; ma nello stesso tempo la croce afferma la vittoria definitiva dell’amore di Dio sulle tenebre del peccato e della morte. E’ solo la conformità esistenziale alla croce, che ci unisce intimamente al Cristo glorioso.



Il messaggio di questa domenica lo si può riassumere in tre immagini: la gioia che scende su Gerusalemme, di cui parla il profeta, e anche la gioia che, secondo il vangelo, riempie il cuore dei settantadue discepoli al ritorno della missione; la cura dei malati come segno del regno di Dio che è vicino; la croce che ci rende partecipi della passione di Cristo e non veniamo meno perché sappiamo di essere partecipi anche della sua forza e della sua risurrezione. Tre immagini della salvezza, della realtà nuova, della nuova creatura, del regno di Dio.


martedì 2 luglio 2019

La riscoperta della creatività in liturgia: in dialogo con M. Augé










Pubblicato il 1 luglio 2019 nel blog: Come se non



Dopo il primo scambio di osservazioni  intorno agli abusi, M. Augé ha replicato con un suo nuovo testo ( qui) nel quale precisa ancora meglio in quale senso si trovi su una posizione diversa da quella da me espressa nell’articolo su RPL da cui è scaturita la discussione. Mi pare che per M. Augé rimanga una sorta di “veto” sulla creatività, che egli teme scivoli sul versante di un pericoloso soggettivismo. Non essere creativi sembra la garanzia della oggettività liturgica.

Ciò che vorrei aggiungere, dal mio punto di vista, non vuole essere una prosecuzione della discussione, ma uno spostamento della questione, favorita da alcune precisazioni.

La prima precisazione riguarda quello che ho scritto sul rapporto tra “ritus” e “norma”. Io non oppongo affatto il rito alla norma, o la norma al rito. So bene che in alcuni casi il rito si adatta alla norma, e in altri è la norma ad adattarsi al rito. Sarebbe ingiusto e astratto pensare ad un primato dell’uno sull’altra o viceversa. Ma ciò che mi sta a cuore è difendere, nel modo più forte, il diritto di una “liturgia creativa”, non come scivolamento nel soggettivismo, ma come una esigenza intrinseca ad ogni atto rituale vero. Ciò che forse ci distrae è la figura tridentina e postridentina della “cerimonia”, che pretende una “mera applicazione” da parte di “sacerdoti-funzionari”. Questo immaginario è ancora molto forte. Ma ha subito di recente diverse profonde modificazioni. Perché mai non vi può essere solo una “preghiera eucaristica” ma ve ne sono tante diverse? E se nella storia abbiamo costruito tante altre “anafore” perché mai dovrebbe essere questa nostra generazione bloccata solo nel ripetere ciò che altri hanno creato?

Io penso che questa convinzione affondi le sue radici in una lettura non completa della tradizione. Prima il ML e poi la RL hanno riaperto in nostro rapporto con l’atto di culto. E la fedeltà alla tradizione passa ora non solo più per la obbedienza, ma per la celebrazione. Questa non è la nostra novità, ma è la ripresa di ciò che hanno fatto i cristiani per almeno un millennio, per poi disimparare e infine per arrivare a autocensurare ogni atto creativo, sotto la pressione di un “oggettività” che diventa “mera ripetizione del passato” e per questo appare problematica. Nella liturgia non può esservi solo “passato”.

Io credo che le ragionevoli posizioni di Matias possano, anche oggi, essere fraintese. Addirittura potrebbero essere utilizzate con molta facilità da quei settori ecclesiali, che agli inizi del nuovo millennio hanno scritto il “capolavoro della lotta agli abusi” che è stato “Redemptionis sacramentum”. Quel testo, come sappiamo bene, era stato progettato, agli inizi, per “vietare l’uso della espressione assemblea celebrante”. Poi nel testo finale del documento entrò, per fortuna, una versione “minore” di quella intenzione, che raccomandava di usare “con cautela” la espressione assemblea celebrante. Io penso che senza usare “senza cautela” assemblea celebrante, ma anzi facendola diventare la parola-chiave del nostro modo di celebrare, non riusciremo né a ridimensionare la “ossessione da abuso” né a promuovere davvero nuovi usi, diversi da una serie di individui “obbligati ad eseguire norme”, e davvero simili ad un popolo che si raduna per celebrare la salvezza in Cristo.

Ecco, io penso che un giusto concetto di “creatività”, che superi le paure della sua identificazione con il soggettivismo, sia una “condicio sine qua non” per una vera recezione della Riforma liturgica. Forse su questo con Matias restiamo su posizioni diverse. Lui ritiene che sia possibile celebrare in modo “puramente oggettivo”: per me questo è un ideale scaturito da un contesto storico segnato dal sospetto verso il soggetto, e che oggi deve essere gradualmente superato.



NOTA. Pubblico quest’ultimo testo del prof. Andrea Grillo, in cui egli conferma quanto ha affermato sulla “creatività” liturgica nei post precedenti. Credo che le posizioni di Grillo e le mie al riguardo siano abbastanza chiare. Certamente, avrei ancora delle precisazioni da chiedere e delle domande da fare. Ma è meglio per ora fermarsi qui. Più avanti nel tempo avremo occasioni per riprendere il dialogo, che con Andrea è sempre arricchente. M. Augé