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domenica 30 settembre 2018

UNA LITURGIA VIVA






Una liturgia viva per una Chiesa viva. I 70 anni del CAL (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – Sectio pastoralis 38), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2018. 196 pp. (24 €).


Con questa 68a Settimana Liturgica Nazionale, a 70 anni dalla sua fondazione, il CAL ha inteso ribadire e rinnovare il suo impegno al servizio della Chiesa conciliare e in particolare di quella riforma liturgica che mira ad impedire che “la vita della Chiesa si trasformi in un pezzo da museo e in possesso di pochi” (EG 95). Una liturgia viva per una Chiesa viva, in grado di dire e comunicare il mistero di Dio all’uomo di oggi. Una liturgia che sia una forte e gioiosa esperienza della presenza del Risorto e di fraterna comunione in lui. Una liturgia che non si avviti su sé stessa ma dia vita ai cristiani “in uscita”, sospinti dallo Spirito, capaci di “uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (EG 20). (Dalla Presentazione di Mons. Claudio Maniago, p.7).



S.E. Mons. Felice Di Molfetta, Nodi e prospettive della riforma liturgica. Il servizio del CAL tra passato e futuro.

Don Roberto Repole, La Liturgia al centro della vita della Chiesa.

S.E. Mons. Bruno Forte, Celebrare i sacramenti per vivere la fede.

Fr. Enzo Bianchi, Una liturgia viva per una Chiesa viva.

Don Paolo Tomatis, Celebrare: il linguaggio per comunicare il mistero.

Mons. Fabio Trudu, Liturgia e pietà popolare: vie per l’evangelizzazione.




venerdì 28 settembre 2018

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 30 Settembre 2018






Nm 11,25-29; Sal 18 (19); Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48



Oggi la parola di Dio ci invita a rifuggire dalle chiusure, dagli esclusivismi di gruppo, e a guardare oltre i nostri confini. Il tema viene illustrato con due episodi. Il primo episodio è raccontato dalla prima lettura ed è accaduto nell’accampamento d’Israele nel deserto: due uomini, che non appartengono alla cerchia dei 70 anziani consiglieri dei Mosè, si mettono improvvisamente a profetizzare. Allora Giosuè mosso dalla gelosia si rivolge a Mosè perché li impedisca di profetizzare. Mosè però si mostra tollerante, anzi gioioso del fatto, a tal punto che augura che tutti possano essere profeti nel popolo del Signore e ricevere il suo spirito. Il secondo episodio è riportato dalla lettura evangelica: gli apostoli hanno visto uno che scaccia i demoni nel nome di Gesù e glielo hanno vietato perché non apparteneva al gruppo dei discepoli. Contestando la grettezza del gruppo dei dodici apostoli, Gesù fa capire che il regno di Dio si esprime anche altrove e mediante altri strumenti; più precisamente, ovunque si agisce come lui e mediante tutti coloro che si ispirano al suo messaggio. Gesù non ha bisogno di monopolizzare il suo potere; gli basta che la verità venga riconosciuta. Il Signore ci invita ad una fede libera e matura, capace di apprezzare il bene ovunque esso si trovi. L’azione di Dio che opera mediante il suo Spirito non può essere circoscritta dentro i confini di una comunità definita solo in base ai criteri di appartenenza. Chiunque esercita la carità e la misericordia avrà la sua ricompensa. Sia Gesù sia Mosè, davanti ad una impostazione del ministero della salvezza come dominio e privilegio, rispondono celebrando lo splendore della libertà e della generosità di Dio.



Ciò non significa però perdita della propria identità o mancanza di coerenza con i propri principi. Ce lo ricorda la seconda parte del vangelo d’oggi, dove san Marco raccoglie una serie di affermazioni a dir poco sconcertanti di Gesù: “Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala […] Se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo […] Se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via”. Si tratta evidentemente di immagini o modi di dire. Anzitutto Gesù adoperando queste immagini invita i suoi discepoli a controllare con cura e a sondare il loro comportamento sociale (piede e mano) e personale (occhio) per evitare che, nell’orgoglio della propria serena sicurezza, divenga radice di male per i fratelli che ancora stanno cercando Dio. Gesù, poi, si esprime con immagini concrete ed eloquenti per far capire che chi vuol essere suo discepolo deve fare una scelta chiara, radicale e definitiva, deve essere quindi disposto a sacrificare ogni cosa di sé se lo esige la fedeltà alla propria scelta di fede. L’importanza della coerenza è richiamata anche da san Giacomo nella seconda lettura a proposito dell’uso delle ricchezze: colui che le possiede, se non fa attenzione, questo possesso può mettere in pericolo la sua appartenenza al Signore e il suo stesso avvenire eterno.


mercoledì 26 settembre 2018

La Messa in italiano




Ricevo da Don Giarcarlo Vergano (diocesi di Vigevano) questa riflessione di Mons. Sebastiano Dho sulla Messa in italiano. Don Giancarlo ha ritrovato questa riflessione mettendo in ordine l’archivio del suo PC.



La Messa in italiano, dopo mezzo secolo   

Rivisitazione, con la riflessione di mons. Sebastiano Dho, una svolta decisiva nella Chiesa dopo il Concilio

Non è facile a chi, per sua fortuna, oggi conta meno di 60 anni, riuscire a ricordare e meno ancora a rivivere quello che è stato per noi, che i 60 li abbiamo superati e magari di molto, un evento ecclesiale di prim’ordine: la liturgia, specie la celebrazione eucaristica non più in latino ma in lingua italiana. Questo passaggio, che non è per nulla esagerato definire “storico”, è datato precisamente 7 marzo 1965, prima domenica di Quaresima in quell’anno. Per decisione dei nostri vescovi infatti in quel giorno entrava in vigore la riforma liturgica riguardante la s. Messa, in un primo tempo obbligatoria solo per celebrazioni festive ed in seguito per tutte. Questo cambiamento, diciamolo pure per molti sconcertante, era stato reso possibile dalla scelta del Concilio Vaticano II che il 4 dicembre 1963, prima tra tutte, aveva approvato a larghissima maggioranza, praticamente all’unanimità (2.147 sì, compreso quello di Lefebvre! ed appena 4 no), la Costituzione sulla riforma liturgica che al n° 36 prevedeva appunto, a giudizio della Conferenze episcopali, l’uso delle lingue nazionali, al posto del latino. Soprattutto richiedeva una migliore impostazione della liturgia stessa della Messa, con una maggiore ricchezza della Parola di Dio, nelle letture bibliche ed altri miglioramenti rituali. Tutto questo, al fine che in modo particolare stava a cuore dei Padri conciliari, tanto da ripeterlo almeno per tre volte nel testo approvato, quello cioè di una partecipazione liturgica di tutti, in modo “consapevole, attivo e fruttuoso”, non assistendo “come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede”. Ora era evidente che, per poter realizzare questo tipo di partecipazione autentica e doverosa, era necessario poter comprendere ciò che nella Messa viene letto e detto, per cui il passaggio alla lingua corrente s’imponeva logicamente.
Poiché siamo ormai a 50 anni da questa scelta significativa e determinante, vale a dire in concreto due generazioni che rappresentano di fatto la maggioranza degli attuali fedeli partecipanti alla liturgia e che non possono ricordare le celebrazioni in latino, forse non è inutile, da parte di chi invece c’era eccome!, richiamare almeno con alcuni accenni quella che era allora la reale prassi in merito. Spesso infatti da parte di qualche anziano nostalgico ma più sovente – e questo è peggio – di più giovani ideologicamente prevenuti, ad opera di facili detrattori della riforma liturgica conciliare, vengono propalate molte imprecisioni o addirittura vere e proprie falsità al riguardo. Si dice infatti ad es. che le celebrazioni in latino sapevano più di mistero, confondendo il mistero cristiano con quello pagano o magico; così pure che non vi erano abusi, come vi sarebbero ora, ovviamente sempre da evitarsi, dimenticando – volutamente? – che allora era corrente la battuta, riferita ai riti tridentini, ”ogni sacrestia ha la sua liturgia!”.
Ma qual era la reale situazione delle celebrazioni eucaristiche negli anni ’60, di molte nostre parrocchie, a parte alcune in cui pastori più illuminati e laici più sensibili già avevano cercato con messalini bilingue ed altri sussidi di ovviare alle difficoltà di partecipazione liturgica? Se è lecito e forse doveroso, a chi ha vissuto in prima persona ed in piena responsabilità quel passaggio, ricordare semplicemente a quelli che non c’erano e perciò esposti a credere a sogni nostalgici o a fantasie varie, vorrei accennare appena al modo assai comune di “assistere” (questo d’altronde era il termine ufficiale per il precetto festivo) alla Messa. Chi scrive ordinato, nel 1958, quindi con 7 anni di celebrazioni in latino, alla data del 7 marzo 1965, parroco di due comunità di quasi montagna, ricorda bene la prassi trovata in loco: il sacerdote iniziava, in latino naturalmente, con “Introibo ad altare Dei”, il dialogo, sottovoce, con i chierichetti; contemporaneamente dai banchi si levava forte un’altra voce quella di un fedele, quasi sempre una donna peraltro sinceramente devota (d’altronde che avrebbe potuto fare di meglio?) che intonava il Rosario, accompagnando il rito portato avanti in parallelo dal celebrante, naturalmente di spalle all’assemblea sempre sottovoce, comprese le letture bibliche comunque in latino, con un’interruzione per la famosa predica. Si riprendeva poi il Rosario con particolari giaculatorie al momento della consacrazione, accompagnata da energiche scampanellate dei chierichetti, anche allo scopo di fare tacere eventuali chiacchiere da parte di alcuni presenti, specie uomini accampati in fondo alla chiesa o rifugiati nel coro dietro l’altare. Spesso la comunione con pochi partecipanti, specialmente alle Messe “grandi” a causa del digiuno dalla mezzanotte, per non perdere tempo, invece che al momento vero e giusto nella celebrazione, era distribuita prima all’inizio o dopo alla fine della Messa stessa. Quando ci preparammo insieme, parroco e fedeli, per celebrare la liturgia rinnovata, da parte di quella gente buona e semplice, non vi fu alcuna opposizione o difficoltà, anzi molti espressero soddisfazione, contenti di poter capire meglio ciò che si viveva tutti insieme celebrando la propria fede. Ed in poco tempo si potè facilmente e felicemente operare con serenità il passaggio. Per questo a noi veterani questa ricorrenza del 50° non può che risuonare come un’eco bella e positiva dell’entusiasmo vissuto allora e non riusciamo a comprendere come siano possibili, grazie a Dio rari nelle nostre Chiese locali piemontesi, certi rigurgiti o nostalgie di esperienze passate proprio da parte di coloro che questo passato non l’hanno vissuto.
+Sebastiano Dho, vescovo emerito di Alba



domenica 23 settembre 2018

Santi Cosma e Damiano, martiri (26 settembre)




I santi martiri Cosma e Damiano nel Missale Romanum 1962 sono celebrati il 27 settembre; invece nel Missale Romanum 2002 sono celebrati con memoria facoltativa il 26 settembre, data probabile della dedicazione della basilica che a Roma porta il loro nome, edificata da Felice IV (525-530) nel Foro di Vespasiano. In quest’ultimo Messale, poi, il 27 settembre è occupato dalla memoria obbligatoria di san Vincenzo de’ Paoli, morto appunto a Parigi in questa data. Secondo un’antica tradizione, Cosma e Damiano erano fratelli gemelli e medici “anargiri” (gratuiti), che subirono il martirio a Ciro (Kyros) in Siria e il loro culto si diffuse in tutta la Chiesa fin dal secolo V; di loro si fa memoria nel canone romano. La maggior parte delle notizie su questi santi sono per lo più leggendarie. 

Colletta del MR 1962:

Praesta, quaesumus, omnipotens Deus: ut, qui sanctorum Martyrum tuorum Cosmae et Damiani natalicia colimus, a cunctis malis imminentibus, eorum intercessionibus, liberemur.

“Concedi, o Dio onnipotente, che celebrando la nascita al cielo dei tuoi santi martiri Cosma e Damiano, per la loro intercessione siamo liberati da tutti i mali che ci minacciano”.

Colletta del MR 2002:

Magnificet te, Domine, sanctorum tuorum Cosmae et Damiani veneranda memoria, quia et illis gloriam sempiternam, et opem nobis ineffabili providentia contulisti.

“Ti glorifichi la Chiesa, Signore, nel santo ricordo dei martiri Cosma e Damiano; tu che hai dato loro la corona della gloria, nella tua provvidenza concedi a noi il conforto della loro protezione”.

Le collette dei due Messali, pur essendo diverse, tutte e due fanno riferimento al conforto o liberazione dei mali (imminenti) che speriamo di ottenere per intercessione dei santi martiri Cosma e Damiano. La colletta del MR 2002 la si trova tale quale nel MR 1962 nel formulario di Messa della Feria V della settimana III di Quaresima, la cui statio è appunto “ad Ss. Cosmam et Damianum”. E’ un testo che proviene dall’antico Sacramentario Gelasiano (secolo VIII circa).


venerdì 21 settembre 2018

DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 23 Settembre 2018






Sap 2,12.17-20; Sal 53 (54); Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37



Tra la via della croce, tema della domenica scorsa, e la via del servizio che ci viene proposta oggi dalla parola di Dio c’è una profonda affinità. Dopo la rivelazione del mistero di sofferenza verso cui si incammina, Gesù formula il codice dell’autorità cristiana come servizio e dono di sé per gli altri. Così comprendiamo quale senso Egli dà alla sua passione: è un servizio, un donare la vita per gli altri.



Le tre letture bibliche parlano di una serie di comportamenti inaccettabili da colui che intende vivere da uomo giusto. Constatiamo infatti che non è la giustizia ciò che il più delle volte interessa agli uomini, ma il prestigio, la grandezza, la carriera (cf. lettura evangelica), il possesso (cf. seconda lettura). Per ottenerli si litiga, si ricorre all’insulto, magari all’omicidio e alla guerra (cf. seconda e anche prima lettura). Infatti, l’avidità, l’intolleranza, la gelosia, l’asservimento agli istinti umani del possesso e del dominio hanno sempre generato guerre e conflitti larvati o dichiarati anche talvolta nelle comunità cristiane e nella Chiesa. Prendendo come punto di riferimento principale il brano evangelico, vediamo che domenica scorsa san Pietro cercava di dissuadere Gesù dal percorrere il cammino della croce; oggi mentre Gesù annuncia che sta per essere consegnato nelle mani degli uomini che lo uccideranno, tutto il gruppo dei discepoli sta discutendo su questioni di prestigio, su a chi aspettano i primi posti. Insomma, sembra che Gesù e i suoi discepoli parlano linguaggi diversi, sono mossi da interessi contrastanti, non riescono a comunicare tra loro. I pensieri di Gesù sono in aperta contraddizione con i pensieri dei discepoli. Comprendere la parola di Gesù implica un coinvolgimento spirituale che essi al momento non hanno raggiunto.



Pazientemente il Signore, arrivati a casa - dice il testo - cerca di spiegare quali devono essere i rapporti in seno alla comunità di coloro che intendono seguirlo e diventare discepoli: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. Gesù aggiunge alle sue parole il tenero gesto dell’abbraccio ad un bambino. Nel contesto, il gesto intende essere un pressante appello alla totale disponibilità, all’abbandono senza calcoli, doppiezze e interessi. A chi ambisce i primi posti fondandosi sulla propria “grandezza”, Gesù oppone il piccolo e ultimo per eccellenza, il bambino. Accoglierlo nel suo nome è accogliere lui stesso come Salvatore inviato dal Padre.



Il servizio è il segno del vero discepolo di Cristo, è il frutto di un amore dimentico di sé, e - ad esempio di Cristo - ha la sua massima espressione nel dono della vita per gli uomini. Il servizio cristiano non è passivo, ma attivo. Servire non significa sottomettersi a chiunque, ma mettere le nostre risorse spirituali e materiali, noi stessi a disposizione della promozione dei nostri fratelli e sorelle. San Giacomo, nella seconda lettura, parla della “sapienza che viene dall’alto”. La saggezza cristiana procede per vie pacifiche, con la persuasione, cerca di evitare dissidi e contrasti, limita la polemica, evita la maldicenza; si pone invece al servizio della giustizia.

domenica 16 settembre 2018

LA STRUTTURA TEOLOGICA TRIDIMENSIONALE DELL’EUCOLOGIA






Essendo la celebrazione liturgica un avvenimento salvifico in forma rituale, ciò che si compie in essa non è anzitutto l’agire dell’uomo ma ancora prima quello di Dio: la salvezza che Dio ha operato nella pasqua di Cristo e si è manifestata nel dono dello Spirito, si realizza nella Chiesa come mysterium. Infatti la liturgia è opera della Trinità: Liturgia opus Trinitatis (Catechismo della Chiesa Cattolica [= CCC], n. 1077). In armonia con questa dimensione storico-salvifica della liturgia, si può affermare in forma sintetica che l’eucologia ha tre dimensioni: dossologica, anamnetica ed epicletica, che talvolta vengono riferite rispettivamente al Padre, al Figlio e allo Spirito. Ciò è vero non solo della preghiera eucaristica ma anche dell’eucologia cosiddetta minore. Questa articolazione in tre dimensioni o tempi è richiesta dal nostro procedere logico nell’esprimerci. Notiamo però che non la si deve applicare in modo meccanico all’agire di Dio in quanto l’agire delle Tre Persone Divine non avviene separatamente. Il discorso sulla struttura tridimensionale dell’eucologia va quindi fatto con cautela, perché non si tratta di dimensioni separabili ma di un’unica e medesima realtà.

In quest’unica realtà, però, non c’è dubbio che l’anamnesi, o memoria esplicita dell’opera divina, è l’elemento essenziale senza del quale non vi può essere preghiera propriamente cristiana. Il contenuto dell’anamnesi, incentrato sul Mistero di Cristo, assume note specifiche in ogni preghiera secondo forme più o meno articolate e sviluppate. Nei casi limite tale anamnesi si può considerare sostanzialmente presente, benché ridotta al minimo, nel semplice Per Christum Dominum nostrum con cui si chiudono le orazioni della liturgia romana. Infatti, con questa conclusione l’orazione, abitualmente rivolta al Padre, fa appello alla mediazione di Cristo Signore, innestando così tutto il suo contenuto sull’opera divina della salvezza. Questa formula cristologica, che nella colletta è anche esplicitamente trinitaria (Per Dominum nostrum Iesum Christum Filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus sancti Deus per omnia saecula saeculorum), è allo stesso tempo anamnesi e confessione di fede. Anche quando la preghiera si rivolge a Cristo (il che è più raro), la dossologia finale è sempre trinitaria: Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. 

Nel Messale Romano del 1962 ci sono ben 64 orazioni rivolte al Figlio; nel Messale del 2002 ne sono rimaste soltanto 5: le collette del venerdì della I settimana di Avvento, del 24 dicembre e della solennità del Corpo e Sangue di Cristo; nonché le orazioni dopo la comunione della solennità del Corpo e Sangue di Cristo e della festa dell’Esaltazione della Santa Croce.

Se l’elemento anamnetico è essenziale, non meno importante è quello epicletico. L’epiclesi infatti protegge l’anamnesi dal fraintendimento di essere un ricordo puramente psicologico. Nella preghiera di epiclesi, la comunità orante confessa la sua fede nella potenza dello Spirito che opera qui e ora nella celebrazione.

Ogni testo eucologico ha quindi un nucleo contenutistico essenzialmente comune, che troviamo espresso anzitutto e pienamente nella preghiera eucaristica, cuore e centro dell’intera celebrazione eucaristica, testo presidenziale per eccellenza.

venerdì 14 settembre 2018

DOMENICA XXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 16 Settembre 2018






Is 50,5-9°; Sal 114 (116); Gc 2,14-18; Mc 8,27-35



Il messaggio di questa domenica lo possiamo riassumere con le parole di san Paolo, riproposte dal canto al Vangelo: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (cf. Gal 6,14). Ciò che per l’apostolo Paolo è un motivo di vanto e di gloria, è stato un tempo per san Pietro motivo di scandalo. Infatti, nel brano evangelico odierno vediamo come dinanzi alle parole di Gesù che annuncia il destino di sofferenza e di morte che lo attende, Pietro non accetta che questa sia la sorte del Messia e cerca in ogni modo di dissuaderlo dall’abbracciare questo cammino di croce. Quante volte anche noi siamo dalla parte di Pietro con i nostri criteri e con le nostre valutazioni! Infatti siamo inclini a pensare che il successo escluda la sofferenza. Gesù invece propone una visione dell’esistenza molto diversa, anzi sconcertante, in cui morte e vita, sconfitta e vittoria vanno misteriosamente insieme.



Anche la prima lettura propone lo sconcertante cammino della croce. Il profeta Isaia parla di un misterioso personaggio, il “Servo di Dio”, incrollabilmente fedele alla sua vocazione e alla sua missione nonostante le persecuzioni e gli oltraggi, figura profetica che annuncia Gesù. Questo personaggio, oggetto di persecuzione e umiliazione, risponde con la fermezza e la sicurezza di chi è sicuro della vittoria: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato”. I criteri con i cui noi misuriamo la riuscita di una vita devono cedere di fronte al criterio primo e assoluto: il misterioso disegno di Dio su di noi. E’ quello che Gesù ricorda a san Pietro: “tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.



In modo simile, nella seconda lettura l’apostolo Giacomo parlando di una fede operosa ci ricorda che il regno di Dio non giunge nel clamore nel trionfalismo, ma nel sacrificio, nella dedizione, nella fedeltà quotidiana ai propri doveri, nella disponibilità a donare la propria vita per gli altri. E quanto insegna Gesù, rivolgendosi a tutti coloro che vogliono far strada con lui: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Ma poi egli aggiunge: “chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. Parole che, nella loro paradossalità, hanno un significato assai netto: chi vuole essere realmente discepolo di Gesù deve smettere di considerare se stesso come misura di ogni cosa; deve rinuncia a difendersi e accettare di portare lo strumento della propria condanna a morte; deve uscire dai meccanismi di autogiustificazione e abbandonarsi totalmente al Signore. Se accettiamo di condividere la scelta di fedeltà estrema del nostro Maestro e Signore parteciperemo anche alla sua vittoria finale sulla morte. 

domenica 9 settembre 2018

DALLA PENITENZA PUBBLICA A QUELLA PRIVATA IN ORIENTE



 


In Oriente, secondo le più comuni ricostruzioni, l’affermazione della confessione privata si colloca tra i secoli VIII e IX, in connessione con la crisi iconoclastica, e nelle sue origini è legata all’affermazione della spiritualità monastica.


Il ricorso ai monaci per la confessione dei peccati andò via via diffondendosi, e innumerevoli testimonianze possono portarsi in questo senso. A quanto pare, almeno nel secolo IX non si avevano generalmente dubbi sulla efficacia sacramentale della confessione fatta ai monaci. Nella prassi sappiamo che tale confessione era fatta dai fedeli non solo agli ieromonaci, cioè quelli che avevano ricevuto la ordinazione sacerdotale, ma anche ai monaci non ordinati. Le cause di questa diffusione, e della rapida autorevolezza acquisita dai monaci, sono viste da taluni nella scarsità e nell’assenza di presbiteri penitenzieri tra il clero secolare, da altri, per un periodo successivo, nell’azione monastica di difesa della fede cattolica contro il clero iconoclasta. Ma, soprattutto, al fondo di questo movimento sta il riconoscimento delle peculiari doti spirituali dei monaci, della loro tensione alla perfezione che ne fa, appunto, degli uomini e dei padri spirituali, a differenza dei sacerdoti secolari, i quali nella comune considerazione erano chiamati ‘laici’.




Fonte: Lorenzo Lorusso, Prassi penitenziale in Occidente e Oriente: Dalla penitenza pubblica alla penitenza privata, in Manlio Sodi – Alessandro Saraco (edd.), “Penitenza e Penitenzieria nel ‘secolo’ del Concilio di Trento. Prassi e dottrine in un mondo più largo” (1517-1614), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, pp.34-35.

venerdì 7 settembre 2018

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 9 Settembre 2018






Is 35,4-7°; Sal 145 (146); Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Il messaggio racchiuso nelle letture bibliche odierne può essere riassunto con le parole della lettera di san Giacomo, ascoltate alla fine della seconda lettura: “Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?”


In un momento in cui i figli d’Israele in esilio si sentivano dimenticati da Dio, oppressi dal potere straniero e abbandonati alla loro sfortuna, Isaia (cf. prima lettura) rivolge ad essi parole di speranza: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio […] viene a salvarvi”. E tra le opere meravigliose di Dio che viene a salvare, il profeta include: “si schiuderanno gli orecchi dei sordi”. Queste promesse di salvezza si compiranno pienamente solo con l’avvento di Gesù Cristo. Egli stesso si è riferito a questo passaggio di Is 35 per spiegare la sua missione ai discepoli inviati da Giovanni Battista (cf. Mt 11,4-6). La guarigione del sordomuto, di cui parla il brano evangelico odierno è uno dei segni con i quali Gesù si manifesta alle folle come colui che adempie gli annunci di Isaia e degli altri profeti. Notiamo i dettagli del racconto: Gesù prende il sordomuto in disparte, gli pone le dita negli orecchi e con la saliva gli tocca la lingua; poi, teso verso il cielo, emette un sospiro e dice: “Effatà”, cioè “Apriti”. I gesti compiuti da Gesù assumono qui un ruolo sacramentale, indicano e vogliono produrre quella salvezza che è dono del cielo, è annuncio di quanto avverrà ai discepoli, sui quali verrà pronunciata quella parola “Effatà”. Marco si premura subito di tradurla per farci capire che Gesù non è un mago che pronuncia parole strane, ma è portatore di salvezza. La guarigione non passa attraverso gesti strani, esoterici, magici, ma semplicemente attraverso un contatto che esprime la compassione, l’amore, la tenerezza di Dio verso colui che soffre. L’evangelista conclude il racconto della guarigione del sordomuto con queste parole: “…pieni di stupore, dicevano: ‘Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti’!”. Di fronte al gesto di Gesù la folla non può trattenersi dal riconoscervi i segni dell’azione di Dio. Nelle opere e nelle parole di Gesù si manifesta la pienezza dell’amore salvifico di Dio.



Nel mondo attuale, nonostante il moltiplicarsi del benessere, c’è gente stanca, sfiduciata, disorientata, gente in cerca di felicità, gente che ha smarrito il senso della vita. Nessuno può vivere senza speranza. Tutti abbiamo bisogno di un ideale che dia senso alla nostra vita. Ognuno di noi attende dal futuro qualcosa che sia migliore del presente. Come Israele nel momento duro della prova, come il sordomuto di cui parla il vangelo, anche noi siamo chiamati a rivolgere lo sguardo a Dio che manda all’uomo un messaggio di speranza. Nonostante le apparenze contrarie e l’apparente trionfo della prepotenza, Dio rende giustizia agli oppressi (cf. salmo responsoriale). Questo messaggio di ottimismo ci invita a superare tutto ciò che sa di rassegnazione a quanto mortifica e opprime l’uomo, e ad essere protagonisti di questa speranza nell’ambiente in cui viviamo: in famiglia, nel lavoro, nella società. Chiediamo al Signore di poter dire anche noi una parola di coraggio a tutti gli smarriti di cuore che incontriamo sulla nostra strada, perché possiamo ripetere con loro le parole del ritornello del salmo responsoriale che abbiamo pregato:Loda il Signore anima mia”.

domenica 2 settembre 2018

IL LATINO LINGUA “SACRA”?




Uwe Michael Lang, La voce della Chiesa in preghiera. Riflessioni sul linguaggio della liturgia (Strumenti per la riforma 7), Cantagalli 2017. 217 pp.


Questo volume, pubblicato nel maggio dell’anno scorso, è la traduzione dell’originale in lingua inglese (Ignatius Press, San Francisco 2012). Il volume contiene una serie di studi presentati precedentemente su riviste e altre pubblicazioni. Il titolo del libro, in particolare il sottotitolo (“Riflessioni sul linguaggio della liturgia”) promette qualcosa che il lettore trova solo in parte nelle pagine del volume. Infatti l’argomento centrale dell’opera più che il “linguaggio” (verbale e non verbale) della liturgia, è il latino inteso come lingua “sacra” (appellativo mai adoperato da Sacrosanctum Concilium quando parla della lingua latina o di altre lingue usate nella liturgia). Secondo l’Autore, la problematica della “lingua sacra riguarda l’essenza stessa del rito” (p. 184).

Lang ricorda che la liturgia romana nelle sue origini ha adoperato il greco comune e, alla fine del IV secolo, ha fatto il passaggio alla lingua latina. L’Autore Illustra, poi, le caratteristiche del latino cristiano, in particolare quello usato nella liturgia, diverso dal latino della vita quotidiana.

L’ultimo capitolo dell’opera ha come titolo: “Il latino liturgico e il vernacolo nell’età moderna”. Sono documentate le vicende storiche del latino nella liturgia. Tra l’altro, si afferma che i Padri del Concilio di Trento “riconobbero il valore dei testi della liturgia per l’insegnamento ai fedeli in una lingua che fosse per loro comprensibile” (p. 160). Nondimeno Trento ribadisce l’uso del latino nella liturgia, anche per contrastare le idee dei Riformatori, che affermavano che l’uso di un linguaggio non comprensibile all’assemblea era contrario al Vangelo.

Gli sviluppi posteriori al Vaticano II, “andarono ben presto oltre l’ambito ben delimitato della Costituzione sulla sacra liturgia e, di fatto, la liturgia vernacolare si sostituì alla liturgia latina” (p. 162); ricordo che ciò è stato deciso autorevolmente da Paolo VI. Lang, come altri autori dell’area tradizionalista, in questo caso sottolineano che si è andato oltre Sacrosanctum Concilium. Invece quando parlano del Motu proprio Summorum Pontificum che, secondo l’Autore del nostro volume, è stato “il più forte impulso per una rinascita del latino come lingua liturgica” (p. 19), si dimenticano di dire che la Costituzione liturgica non prevede un tale intervento che ricolloca la liturgia nella situazione che il Vaticano II intendeva riformare.

In seguito, l’Autore affronta il problema delle traduzioni e, in questo contesto, enfatizza l’importanza dell’Istruzione Liturgiam authenticam dell’anno 2001, il cui primo frutto nel mondo anglofono è stato la nuova traduzione del Missale Romanum secondo la terza editio typica.

Lang auspica che si riesca ad avere una lingua liturgica “che si distingua dal linguaggio di tutti i giorni e che sia vissuto come la voce della Chiesa in preghiera” (p. 183). E’ un ideale, aggiungo io, che ha bisogno di tempo, come ha avuto bisogno di tempo la transizione della liturgia romana dal greco al latino che fu completata solo dopo più di cento anni (cf. p. 73).