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sabato 31 dicembre 2016

MARIA Ss MADRE DI DIO - 1 GENNAIO 2017



Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21

Il Sal 66 esprime la gioia del contadino palestinese che, da una terra avara, ha ottenuto il dono delle messi, segno sperimentabile della benedizione divina. Il salmo diventa poi un inno di ringraziamento corale per i doni divini in genere. La liturgia del primo giorno dell’anno riprende questo inno nella sua parte più universalistica in cui si parla di una presenza benedicente di Dio che abbraccia tutti i popoli della terra: “…perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti”. La nostra vita, che oggi inizia una nuova tappa, è veramente benedetta da Dio nella misura in cui è illuminata dallo splendore del volto di Dio.

Il primo giorno dell’anno è carico di diversi significati: l’inizio dell’anno, l’ottava del Natale, la solennità di Maria SS. Madre di Dio e la giornata mondiale della pace. Nello sfondo di queste varie tematiche, la celebrazione della divina maternità di Maria appare più luminosa ed esaltante, dalle risonanze cosmiche. Generando il Salvatore, Maria si pone al centro della storia dell’umanità, tracciando per tutti noi gli itinerari non soltanto della nostra crescita spirituale, ma anche semplicemente umana. La benedetta fra tutte le donne, ci ha donato Gesù, frutto benedetto del suo seno, primogenito fra molti fratelli, Cristo “nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva” (Ef 2,14). In questo modo, anche noi siamo diventati, per opera dello Spirito, figli ed eredi, e la nostra vita è nel segno della benedizione divina di cui la pace è frutto prezioso.

La prima lettura riporta la formula di benedizione che il sommo sacerdote doveva pronunciare su Israele al termine delle grandi feste liturgiche e, particolarmente, della festa del nuovo anno. Quest’antica benedizione sacerdotale fa perno sul nome del Signore, richiamato per tre volte, e pone questo nome sugli Israeliti. “Porre il nome” vuol dire stabilire una relazione con la persona. La benedizione è il riconoscimento che ogni bene viene da Dio e dipende da una vita di comunione con lui. Segno manifestativo delle benedizioni divine è la pace: Dio benedice il suo popolo e lo conduce alla pace. Il pieno compimento della benedizione si ha in Gesù Cristo. Egli è la stessa benedizione: è il grande dono del Padre agli uomini, da cui vengono tutti gli altri doni. San Paolo lo illustra a modo suo nella seconda lettura quando afferma che in Cristo abbiamo ricevuto “l’adozione a figli”; non siamo quindi più schiavi, ma figli. Possiamo diventare consapevoli della nostra condizione filiale perché ci è stato donato lo Spirito Santo, che plasma interiormente in ognuno di noi i lineamenti del Cristo, il Figlio primogenito. Questo mistero è stato possibile ed è reso visibile perché, “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna”. In questo modo, la maternità di Maria accresce la propria realtà dandosi a vedere quale “madre del Cristo e di tutta la Chiesa” (orazione dopo la comunione). Maria viene poi proposta come esemplare di accoglienza delle benedizioni divine donateci in Cristo: nel brano del vangelo essa appare come colei che serba e medita nell’interiorità del cuore tutti gli eventi che riguardano il figlio. Da madre si fa anche prima discepola fin da ora, custodendo nel cuore il mistero del figlio.

L’eucaristia del primo giorno dell’anno al tempo stesso che ci pone in atteggiamento di riconoscenza per i doni ricevuti da Dio, di cui Cristo è il dono più prezioso, ci rassicura che ogni giorno del nuovo anno, ogni giorno della nostra vita sarà sempre un dono prezioso della grazia divina.

domenica 25 dicembre 2016

IL «NOI» E L’«IO» NELLA LITURGIA


 
Si può dire che la liturgia usa prevalentemente il noi non perché esclude l’io o vi si contrappone, ma perché lo include. Anzi, nei momenti centrali e culminanti dei sacramenti o della professione della fede fa appello esplicitamente all’io (o al tu) e, insieme, lo inserisce in un contesto intersoggettivo in cui ritrova la sua dimensione più propria. Questo è ciò che il linguaggio codificato della liturgia prefigura. In esso il soggetto peronale prende posto e si insedia assumendo e consentendo a ciò che il rito predispone. L’esperienza che l’interazione rituale intende promuovere divent anche la sua personale esperienza, nel momento in cui con il proprio “Amen” si insedia nel posto relazionale che gli è assegnato e che lo accomuna agli altri celebranti.

Rimane però anche un altro modo dell’io di appropriarsi dell’esperienza liturgica, testimoniato più fortemente e oggi in modo rilevante nel linguaggio di libera creazione: qui è l’io che si auto-pone, per introdurre nel rito qualcosa della sua esperienza, del suo mondo, qualcosa che gli permetta di personalizzare l’azione liturgica e di riconoscersi in ciò che fa.

Si tratta di due strategie diverse, in parte dialettiche, tanto necessarie quanto limitative se vissute in modo unilaterale e distorto: si può rischiare il formalismo di un linguaggio asettico, freddo, non caratterizzato e non caratterizzante; ovvero l’intimismo o la deriva verso un linguaggio privato, troppo autoreferenziale.

Il fatto che oggi si patisca molto la fatica di appropriarsi del linguaggio codificato della liturgia, e si scivoli più facilmente verso caratterizzazioni personali del linguaggio, fa pensare che la strategia del libro liturgico non sia sempre efficace, o che per lo meno non lo sia facilmente nel contesto attuale. Non sarà vano un lavoro formativo che aiuti i fedeli a cogliere questa funzione propria del linguaggio rituale e a “sentire” la sua capacità e la sua forza in ordine a promuovere una determinata esperienza di vita cristiana. D’altra parte, può far riflettere il fatto che la pietà popolare, nella quale sarebbe prevalente la forma delle preghiere “io” rispetto alle preghiere “noi”, abbia in realtà molte altre strategie (legate a contesti e a linguaggi non verbali) con cui il coinvolgimento personale non rimane necessariamente individuale, ma si incontra nella condizione di comuni percorsi. Il modo stesso di celebrare la liturgia potrebbe giovarsi di questo confronto con la religiosità popolare.

Forse anche per la liturgia non è sufficiente ribadire il suo valore di ecclesialità, né predisporre un linguaggio che in qualche modo lo preveda e lo manifesti. Occorre in ogni caso prendere maggiormente in considerazione l’esigenza di inserimento dell’io nell’interazione celebrativa, valorizzando quelle strategie di coinvolgimento che il linguaggio (sia verbale sia non verbale) è in grado di fornire e che rispondono a tale esigenza della fede. E ciò, proprio perché sia più vero e autentico il porsi del soggetto ecclesiale della celebrazione.

Fonte: Luigi Girardi, “Il soggetto individuale nel linguaggio liturgico attuale”, in R. Tagliaferri – A. Terrin (edd.), La pastoralità e la questione dell’individuo nella liturgia, Centro Liturgico Vincenziano, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2016, 236-238.

venerdì 23 dicembre 2016

NATALE DEL SIGNORE


 


 
Messa della notte
 
Oggi è nato per noi il Salvatore
 
Is 9,1-3.5-6; Sal 95 (96); Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
 
Il progetto di salvezza che Dio ha da tutta l’eternità sull’uomo e sul mondo trova nella nascita di Gesù il momento culminante della sua attuazione. La Chiesa, riprendendo il Sal 95 nella sua liturgia natalizia (lo troviamo come salmo responsoriale anche nei giorni 29, 30, 31 dicembre), vede in esso una profezia dell’incarnazione del Verbo e della vocazione di tutti i popoli della terra dall’idolatria alla fede in lui, venuto per salvare tutte le nazioni. Tutta la creazione è invitata a partecipare alla danza di gioia, perché il Signore governerà tutte le genti del mondo con giustizia. Il bambino nato a Betlemme è quindi il nostro Salvatore: “Oggi è nato per noi il Salvatore”. E’ un annuncio che si ripete più volte in questa santissima notte di Natale (antifona d’ingresso, canto al vangelo, lettura evangelica, antifona alla comunione).
 
Il tema predominante nei testi di questa notte è la luce (colletta, prima lettura, vangelo, orazione sulle offerte). La prima lettura ci ricorda che come è stato per l’antico popolo d’Israele, così pure è per tutta la storia dell’umanità che cammina nelle tenebre e nell’oppressione alla ricerca di luce, di verità, di speranza e di  pace. Gesù, il “Principe della pace”, di cui parla il profeta Isaia, è la risposta definitiva di Dio alle attese dell’umanità. Anche per noi è offerta la visione della grande luce che fa fiorire la gioia. In Gesù - dice san Paolo nella seconda lettura – “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”.
 
Questo messaggio di salvezza viene comunicato non ai potenti della terra, ma a un gruppo di umili pastorali, rozzi, affaticati dalle lunghe e gelide notti di Palestina. ai quali l’angelo del Signore dice: “oggi, nella città di Davide, è nato per voi un salvatore, che è Cristo Signore”. Poi, con l’angelo, appare una moltitudine di spiriti celesti che al tempo stesso che annunciano “sulla terra pace agli uomini”, proclamano “gloria a Dio nel più alto dei cieli”. La gloria di Dio è Dio stesso in quanto si rivela nella sua maestà, nella sua potenza, nello splendore della sua santità. La “pace in terra” quindi è la manifestazione storica della gloria di Dio, la manifestazione della volontà salvifica di Dio in Cristo per noi. Possiamo quindi affermare anche che quando gli uomini siamo nella pace, viviamo in pace, Dio è glorificato in noi: la gloria di Dio è l’uomo redento, l’uomo che ha accolto Gesù come Salvatore. Gesù, “Principe della pace”, appare nella storia dell’umanità come segno di riconciliazione con Dio e con gli uomini. Con lui “la vera pace è scesa a noi dal cielo” (antifona d’ingresso). Incarnazione e mistero pasquale sono misteri indissolubili e mentre si celebra uno, non si può non associarlo all’altro: “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità” (seconda lettura).
 
La nascita di Gesù da Maria a Betlemme segna l’inizio della nostra era indicando in questo modo che ciò che in quella notte accadde è stato fondamentale per la storia degli uomini. La nostra storia, la nostra vita, le sorti dell’umanità dipendono da questo fatto e trovano in esso ispirazione e senso. La storia dell’uomo ha senso perché Cristo ne è parte integrante, perché egli ne è anzi il personaggio centrale. Sulla scia di Gesù noi camminiamo per le strade del mondo certi di non andare allo sbaraglio, ma di avere un traguardo di salvezza. Tutti i nostri limiti, tutte le nostre sofferenze, tutte le nostre paure, tutte le nostre miserie sono state redente dal momento che Dio stesso le ha assunte nell’umanità di Gesù.
 
 
Messa dell’aurora
 
Oggi la luce risplende su di noi
 
Is 62,11-12; Sal 96 (97); Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
 
Come nella messa di mezzanotte, anche in quella dell’aurora riappare il tema della luce (antifona d’inizio, colletta, salmo responsoriale) abbinato a quello della gioia (salmo responsoriale, antifona alla comunione, preghiera dopo la comunione). Il Sal 96 presenta il regno di Dio come un’apparizione sconvolgente, nella quale saranno travolte le potenze del male che dominano il mondo. I versetti del salmo ripresi dall’odierna liturgia fanno riferimento in modo particolare ai temi della luce e della gioia, che sono temi squisitamente natalizi: Jhwh, re della luce, appare nella cornice di una gloriosa teofania a cui assiste tutta la sfilata delle creature e tutta l’umanità. Con questo testo la Chiesa celebra la manifestazione di Cristo nella carne come una luce soprannaturale, che si è levata per il giusto e ha recato gioia ai retti di cuore.     
 
Nella prima lettura, ci viene proposto un breve oracolo del Terzo Isaia. Al popolo ebreo umiliato dall’esilio, il profeta annuncia la liberazione: “Arriva il tuo Salvatore”. Il popolo liberato acquista una fisionomia diversa: diventa “popolo santo”, “redento dal Signore”, “ricercato” e “non abbandonato”. Alla luce di questo oracolo, il mistero del Natale appare come la manifestazione dell’amore di Dio che salva. Anche la lettura apostolica parla della manifestazione della bontà di Dio, Salvatore nostro, che effonde la sua misericordia: san Paolo, rivolgendosi al suo discepolo Tito, afferma che la prova massima della sua bontà e del suo amore Dio ce lo ha fornito donandoci il suo proprio Figlio. Il Natale celebra il dono dell’amore divino nel Cristo, rivelazione del Padre e salvezza del mondo.
 
Nella lettura evangelica continua la narrazione dell’annunciazione ai pastori, aperta nella messa della notte. Il brano odierno mette in evidenza la risposta dei pastori alle parole dell’angelo, una risposta coerente e immediata: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere...” E san Luca aggiunge: “E dopo averlo visto riferirono ciò che del bambino era stato detto loro”. L’evangelista parla anche di Maria, la madre di Gesù, la quale raccoglie queste parole (così letteralmente) e le medita nel suo cuore, cioè cerca di penetrarne il senso. Fin d’ora Maria è il tipo di ogni vero uditore della parola di Dio. I pastori se ne sono andati “glorificando e lodando Dio”. Il loro andare diventerà, nel corso del Vangelo e degli Atti degli Apostoli, paradigma della diffusione della Buona Novella tra le genti.
 
La salvezza di Dio ci viene offerta in forma umana, nella povertà e debolezza, nel “segno” di un bambino, che assume la nostra debolezza: “la nostra debolezza è assunta dal Verbo” (prefazio III del Natale). Perciò la tradizione cristiana ha fatto del Natale una festa di profonda solidarietà umana.
 
Anche l’eucaristia del Natale rievoca e ripresenta la morte e la risurrezione del Cristo, ma, con il mistero della Pasqua, e in ordine ad esso, ricorda e rinnova, in certo modo, tutta la storia della salvezza, di cui l’incarnazione e la nascita di Gesù sono gli inizi. Il Natale del Signore segna l’inizio di quel cammino salvifico che porta Gesù a farsi in tutto simile agli uomini, fuorché nel peccato, fino alla morte di croce: è il cammino che, da una parte, prepara la Pasqua e ad essa conduce e, dall’altra, riceve significato salvifico proprio dalla Pasqua.
 
 
Messa del giorno
 
Tutta la terra ha veduto la salvezza del Signore
 
Is 52,7-10; Sal 97 (98); Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
 
 
Il Sal 97 ripete pensieri già espressi in altri salmi regali, in particolare nel Sal 95 proposto come salmo responsoriale nella messa dell’aurora. Nel Natale di Cristo, la Chiesa ci invita a lodare con le parole profetiche di questo salmo il Signore che ha compiuto prodigi e ha manifestato la sua salvezza e il suo amore per la casa d’Israele. Nel bambino di Betlemme questa salvezza si è manifestata, non solo ad Israele, ma a tutti gli uomini della terra che possono ormai contemplarla e accoglierla. L’ingresso del Salvatore nel mondo e nella storia provoca un sussulto di felicità in tutti e in tutto. La gioia del Natale però sarebbe superficiale se non fosse fondata sulla contemplazione  del mistero natalizio alla luce della fede. Ecco perché in questa messa del giorno siamo invitati a contemplare, guidati dalla parola di Dio, le profondità di questo mistero.
 
La prima lettura riporta un brano del Secondo Isaia, l’anonimo annunziatore del ritorno di Israele dall’esilio di Babilonia. Il profeta parla di un messaggero che annunzia pace, felicità, salvezza. Questa missione, nel Nuovo Testamento, Gesù l’attribuirà a se stesso (cf. Lc 4,43). La seconda lettura conferma che Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio. La lettura evangelica è presa dal grandioso prologo al vangelo di Giovanni. Vale la pena di concentrare la nostra attenzione su questo sublime brano. Giovanni annunzia che il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi; ma al tempo stesso annunzia che tutti coloro che accolgono questo bambino, il Figlio di Dio fatto carne, ricevono anch’essi il potere di diventare figli di Dio. In Cristo ci viene offerta la possibilità di una nuova origine, non più fondata sul sangue e sulla carne, ma su Dio stesso. Il mistero del Natale riguarda quindi anche noi. Il mistero di un Dio fatto uomo ci immerge nel mistero dell’uomo che diventa figlio di Dio. Si tratta di quel “misterioso scambio” di cui parla il III prefazio di Natale: il Verbo di Dio assume la nostra natura umana nella sua debolezza e fragilità, e noi, uniti a lui in comunione mirabile, condividiamo la sua vita immortale (cf. anche la preghiera dopo la comunione). La stessa dottrina esprime san Paolo in un brano che viene proposto oggi alla nostra attenzione: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Primi vespri, lettura breve - Gal 4,4-5). Nel Natale noi contempliamo gli inizi della nostra salvezza. L’antifona alla comunione, annuncia profeticamente questo evento quando dice: “tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” (cf. Sal 97,3).
 
Il grande padre della Chiesa romana, san Leone Magno, contemplando il mistero dell’Incarnazione, esclama: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna” (Ufficio delle letture, seconda lettura). Questa stessa esortazione è implicita nel testo del prologo di Giovanni quando si dice che a colui che accoglie il Figlio di Dio fatto carne, viene dato potere di “diventare” figlio di Dio: la nostra identità di figli di Dio è inserita dentro un processo dinamico che si apre ad una crescita progressiva e senza sosta che ci conduce verso gli spazi della vita divina.
 
L’eucaristia che oggi celebriamo è per eccellenza il sacrificio della nuova alleanza, i rito della nuova umanità, che ci introduce progressivamente alla partecipazione della vita divina.  

 

 
 
 

domenica 18 dicembre 2016

San Pietro Canisio, sacerdote e dottore della Chiesa (21 dicembre)


 
 
Pietro Canisio [Kanijs] (Nimega, 1521 – Friburgo, Svizzera, 21 dicembre 1597), studiò a Colonia e a Lovanio, a 22 anni entrò nella Compagnia di Gesù, diventando l’ottavo membro – e il primo tedesco – dell’ordine dei gesuiti fondato pochi anni prima. Partecipò come teologo al concilio di Trento, e quindi appartiene alla prima generazione di riformatori tridentini. Come altri controvertisti postridentini, è stato chiamato “il martello degli eretici”. Il Messale Romano 1962 lo ricorda il 27 aprile; il Messale Romano 2002 ne fa memoria il 21 dicembre, giorno della sua morte. 

 

Colleta del MR 1962:

Deus, qui ad tuendam catholicam fidem beatum Petrum Confessorem tuum virtute et doctrina roborasti: concede propitious; ut, eius exemplis et monitis, errantes ad salutem resipiscant, et fideles in veritatis confessione perseverant.

 

Colletta del MR 2002:

Deus, qui ad tuendam catholicam fidem virtute et doctrina beatum Petrum presbyterum roborasti, eius intercession concede, ut, qui veritatem quaerunt, te Deum gaudenter inveniant, et in tua confessione populous credentium perseveret.

 

“O Dio, che hai suscitato in mezzo al tuo popolo san Pietro Canisio, sacerdote pieno di carità e di sapienza, per confermare i fedeli nella dottrina cattolica, concedi a quanti cercano la verità, la gioia di trovarti e a coloro che credono, la perseveranza nella fede”.

 

La prima parte delle due collette ricorda che san Pietro Canisio è stato pieno di carità (virtus) e di sapienza. Nella supplica, invece, le due collette si esprimono con una variante significativa: nel MR 1962 si chiede che coloro che sono nell’errore, ricuperino la salvezza; nel MR 2002 si chiede invece che quanti cercano la verità, abbiano la gioia di trovare Dio. C’è quindi un cambiamento di mentalità nei confronti dell’errante, sulla scia del Vaticano II che nella Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae (n. 11) afferma: “Dio chiama certamente gli uomini a servirlo in spirito e verità, perciò essi sono vincolati in coscienza, ma non sono coartati. Egli, infatti, ha riguardo della dignità della persona umana da lui creata, che deve essere guidata da decisione personale e godere di libertà”.

 

venerdì 16 dicembre 2016

DOMENICA IV DI AVVENTO (A)


 

Ecco, viene il Signore, re della gloria

 
Is 7,10-14; Sal 23 (24); Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

 

La seconda parte del salmo 23 ha il tono di una solenne marcia che accompagna la processione con l’arca dell’alleanza. La Chiesa scorge in questo testo un annuncio profetico del mistero dell’incarnazione e celebra  in esso l’ingresso del Figlio di Dio nel mondo per stabilire la nuova ed eterna alleanza tra Dio e l’umanità. In questa ultima domenica di Avvento, che precede immediatamente il Natale, il salmo, in particolare il ritornello, annuncia a tutti noi che il Signore, re della gloria, viene. E’ un annuncio solenne che contiene al tempo stesso un invito a disporsi ad accogliere la venuta del Cristo.

 

I testi di questa domenica mettono in luce le figure di Maria e di Giuseppe, e anche quella di san Paolo, modelli tutti e tre di accoglienza della Parola di Dio e di obbedienza ad essa. La prima lettura riporta il messaggio del profeta Isaia al re Acaz, chiedendogli di non elemosinare aiuto dall’Assiria, ma di fidarsi solo dell’aiuto di Dio. Acaz, però, non se la sente di fidarsi solo di Dio, vorrebbe rifiutare ogni segno divino; le sue parole apparentemente rispettose del volere divino (“Non voglio tentare il Signore”) sono frutto piuttosto della protervia di chi non vuole essere costretto a fidarsi dell’invisibile, di chi vuole a tutti i costi misurare e controllare le sue sicurezze. Nel racconto del brano evangelico di Matteo la figura centrale è Giuseppe. Al contrario del re Acaz, di cui parla il brano di Isaia, Giuseppe accetta il “segno” del bambino nato da una vergine e, fiducioso nella parola di Dio trasmessagli per mezzo dell’angelo, impegna tutta la sua vita per questo bambino e sua madre. Il testo evangelico conclude con queste parole: “fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”. Giuseppe quindi accoglie il messaggio e ubbidisce.

 

Accanto alla figura di Giuseppe sta quella di Maria, la Madre di Gesù. Diversamente di quanto ha fatto san Luca, nei racconti della nascita e infanzia di Gesù san Matteo non ci ha trasmesso alcuna parola di Maria. L’evangelista Matteo presenta una Maria silenziosa, ma docile strumento del disegno di Dio: ciò che avviene in lei è adempimento di  “ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta”.

 

San Paolo nell’introduzione alla lettera ai Romani, proposta come seconda lettura, parla della sua vocazione. Dio lo ha chiamato a divenire apostolo, un inspiegabile e incomprensibile atto di grazia. In quanto tale, il ministero di apostolo è legato all’obbedienza di fede. Paolo si definisce apostolo e servo di Cristo Gesù.

 

Siamo chiamati a realizzare la nostra vita entrando liberamente e gioiosamente nell’orbita del disegno di Dio. Bisogna fidarsi di Dio. La nascita di Gesù che ci apprestiamo a celebrare è un segno della fedeltà di Dio. Disponiamoci ad accogliere, nell’obbedienza della fede, ad esempio di Giuseppe e Maria, il Signore che viene a salvarci.

 

L’orazione sulle offerte fa un suggestivo accostamento tra il mistero dell’incarnazione e il mistero eucaristico. Lo Spirito Santo che “ha riempito con la sua potenza il grembo della Vergine Maria”, è lo stesso che consacra i doni del pane e del vino per la celebrazione del sacrificio eucaristico. Lo Spirito è poi colui che ci prepara ad accogliere il Signore che viene.

lunedì 12 dicembre 2016

LE NUOVE PREGHIERE EUCARISTICHE SCRITTE IN TRATTORIA?


 
Qualche giorno fa, nel post “A proposito delle solite critiche alla riforma liturgica”, un Anonimo si domandava: “E' vero che la preghiera eucaristica è stata riscritta all'ultimo minuto in una trattoria di Trastevere?” La domanda non mi scandalizza. Mi spiego. E’ vero che delle “nuove” 3 preghiere eucaristiche si è parlato per prima volta in una cena gustando un eccellente vino della Mosella. Lo racconta Bernard Botte nelle sue memorie o “ricordi” (p. 209). La commissione del Consilium per la riforma dell’Ordinario della Messa era presieduta da Monsignor Wagner, direttore dell’Istituto di Treviri. Racconta Botte: “Siccome mi trovavo a Treviri con il mio gruppo di lavoro, fui invitato una sera a cena da Monsignor Wagner insieme al Professor Vogel. Fu gustando un eccellente vino della Mosella che ci confidò un segreto: era stato chiamato da Paolo VI che l’aveva incaricato di redigere tre nuove preghiere eucaristiche da utilizzare oltre al Canone romano”.

In seguito, Mons. Wagner con un gruppo di una quindicina di esperti, tra i quali il Prof. Fischer, Mons. Schnitzler, P. Jungmann, P. Bouyer, P. Gy, Dom Vagaggini e lo stesso Botte, si radunarono a Locarno per la durata di una settimana intera di lavoro. Per la prima delle tre nuove preghiere, si pensò ispirarsi all’anafora della Tradizione Apostolica, la seconda sarebbe stata di tipo gallicano e la terza di tipo orientale. Quando si prese in esame la preghiera di tipo orientale, alcuni (tra i quali Bouyer e Botte) credevano che la soluzione più logica era quella di prendere una anafora orientale e tradurla, e proponevano quella di san Basilio di rito alessandrino. A questa proposta si oppose  Vagaggini che obiettava che questo avrebbe messo in difficoltà i cattolici latini. Abituati a considerare che la consacrazione si compie con le parole di Cristo, non avrebbero compreso il senso di una successiva “invocazione consacratoria” dello Spirito Santo. Quando si radunò il Consilium, P. Bouyer difese l’anafora di san Basilio e Vagaggini ricordò quanto aveva detto nel raduno degli esperti. Il risultato della discussione fu di quindici pro e quattordici contra. Il card. Confalonieri, che presiedeva la riunione, ritenne insufficiente la maggioranza e pensò che fosse necessario riferire al Papa. Alla fine, come si sa, è stato il testo di Vagaggini, ispirato alle anafore orientali, a diventare la terza preghiera eucaristica del Messale Romano.

Se poi alcuni esperti del gruppo si sono radunati per una cena in una trattoria di Trastevere e hanno commentato qualcosa al riguardo, non credo tolga serietà al lavoro fatto.

sabato 10 dicembre 2016

A PROPOSITO DELLE SOLITE CRITICHE ALLA RIFORMA LITURGICA


 

Nel post di qualche giorno fa, dal titolo “La Civiltà Cattolica scende in campo”, ci sono stati diversi interventi che hanno ripristinato le note critiche alla riforma liturgica, citando in modo particolare il libro che ha fatto conoscere al grande pubblico la posizione critica del Card. Antonelli all’operato del “Consilium”.

Noto che oltre ad Antonelli, la cui rivalità con Bugnini e di questi con Antonelli è nota, ci sono altri autorevoli testimoni del lavoro del Consilium come il grande studioso dell’antichità cristiana Bernard Botte. Nel suo libro (Il Movimento liturgico. Testimonianza e ricordi, Effatà Editrice 2009 [edizione originale in francese del 1973], cap. 14 “Il Consilium”) valuta diversamente sia Bugnini che l’operato del Consilium. Così, ad esempio, a p. 182 scrive: “… è importante sapere come si è fatta la riforma liturgica. Essa ha suscitato molte discussioni che sono degenerate a volte in querelles di fronti contrapposti. A tal proposito ho letto recentemente in un settimanale parigino l’opinione di un domenicano molto conosciuto. Secondo lui, la nuova liturgia è l’opera di alcuni uomini di sinistra senza cultura e senza alcuna conoscenza della tradizione. Con veemenza mi sento di contraddire questo buon Padre: i consultori che ho incontrato per la maggior parte mi hanno dato l’impressione di essere persone colte e, in ogni caso, di conoscere molto bene la tradizione liturgica […] Pressoché tutti erano convinti che una riforma fosse necessaria, ma non sempre si trovavano d’accordo sui modi. Discutevamo seriamente per trovare una soluzione e non di rado avveniva che si raggiungesse alla fine un’unanimità quasi totale. Se la riforma non è un capolavoro, bisogna almeno riconoscere che essa è il risultato di un lavoro onesto e coscienzioso…”

Secondo mi risulta, la documentazione che riguarda i lavori del “Consilium” è ancora segretata. Speriamo che quando sia possibile consultare questa documentazione, si possa valutare con più oggettività l’operato del suddetto “Consilium”.

M. A.

DOMENICA III DI AVVENTO (A)




Vieni, Signore,a salvarci

 

Is 35,1-6a.8a.10; Sal 145 (146); Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

 

Il Sal 145 è un inno di gioia e di lode in onore del Dio fedele e liberatore d’Israele. Il salmista, dopo aver valutato l’impotenza e l’inconsistenza umana di fronte all’onnipotenza divina, fa una descrizione particolareggiata dell’azione misericordiosa di Dio verso i bisognosi e gli abbandonati: il Signore “rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati [...] ridona la vista ai cechi...” Noi preghiamo il salmo consapevoli che in Cristo, Verbo di Dio incarnato, si è manifestata la bontà misericordiosa e provvidente  di Dio “per rendere giustizia agli oppressi” (cf. At 10,39; Lc 4,18), per dare il pane agli affamati (cf. Gv 6,11.51), per sciogliere i prigionieri e aprire gli occhi ai ciechi (cf. Lc 4,18; Mt 9,29-30; 20,34; Gv 9,7), ecc. L’Avvento è attesa gioiosa del Signore che viene a salvarci.

 

Il brano evangelico odierno esordisce con queste parole: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. E’ la domanda che i discepoli di Giovanni Battista rivolgono a Gesù. E’ una domanda che ha una sua attualità. L’interrogativo ci deve tenere costantemente aperti a una nuova visuale delle cose che ci permetta di riconoscere l’azione sempre nuova di Dio nella storia. Chi è per noi Gesù? Abbiamo riconosciuto in lui il nostro Salvatore? Gesù alla domanda rivoltagli da Giovanni per bocca dei suoi dei discepoli, invece di rispondergli con un sì o con un no, lo rimanda a quelle opere di cui Giovanni aveva sentito parlare, opere che documentano attraverso una libera citazione del profeta Isaia (brano riproposto come prima lettura) che egli è veramente il Messia inviato da Dio. Per Giovanni, tormentato dal dubbio, la parola di Gesù è un invito a fidarsi di lui, a credere. L’uomo che è in attesa di salvezza, ha nelle parole e nelle opere di Gesù una risposta definitiva. In lui la salvezza di Dio ha fatto irruzione nella nostra vita.

 

Da parte sua, san Giacomo, nella seconda lettura, ci invita a perseverare in un atteggiamento di pazienza. E’ vero - lo abbiamo detto - la salvezza di Dio si è manifestata nel suo Figlio fatto uomo, egli è il Salvatore promesso. I frutti pieni della sua venuta però li dobbiamo raccogliere giorno dopo giorno nell’operosità paziente e incessante. Per san Giacomo, il mistero della nostra salvezza è simile al ciclo della natura nel suo rinnovarsi incessante, che alla fine non delude l’attesa paziente e testarda del contadino. Abbiamo bisogno di tempo affinché il regno di Dio cresca e maturi nella storia, in ciascun di noi. La pazienza esige disponibilità e cooperazione alla crescita. Il domani di salvezza definitiva che attendiamo è anche nelle nostri mani.

 

La salvezza di Dio è vicina a noi, anzi è in mezzo a noi, e ciò dev’essere motivo di gioia. Non è la gioia di chi non trova ostacoli da affrontare; è la gioia di chi accetta il piano di Dio su di lui e si sente al suo posto, sa che la sua vita è al sicuro e può compiere le sue scelte con piena libertà interiore. Nei momenti di smarrimento o di sofferenza, nei momenti di stanchezza, quando le certezze sembrano svanire, la fede ci assicura che Dio viene a salvarci, che la nostra attesa non è vana. Se abbiamo riconosciuto Gesù come nostro Salvatore, il nostro cuore non ha nulla da temere.      

 

Gesù è vicino a noi come Salvatore soprattutto nell’eucaristia. L’antifona di comunione lo afferma riproponendo le parole di Is 35,4, tratte dalla prima lettura d’oggi: “Coraggio, non abbiate timore; ecco, il nostro Dio viene a salvarci”. E l’orazione sulle offerte precisa che il sacrificio eucaristico rende “efficace in noi l’opera della salvezza”.

 

giovedì 8 dicembre 2016

"LA CIVILTÀ CATTOLICA" SCENDE IN CAMPO


 

Nel fascicolo della rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica, che sarà pubblicato il prossimo  10 dicembre, c’è un articolo del Prof. Cesare Giraudo s.i. dal titolo «La riforma liturgica a 50 anni dal Vaticano II. “Parlare di riforma della riforma” è un errore» (fascicolo 3995 [10 dicembre 2016] 432-445). Si tratta di un articolo che merita attenzione dato che, come si sa, La Civiltà Cattolica è esaminata in fase di bozza dalla Segreteria di Stato della Santa Sede, da cui ha l’approvazione definitiva. Offro in seguito una breve sintesi del contenuto dell’articolo del Prof. Giraudo.

Si tratta di un testo di ampio respiro, che parte dalla consapevolezza che ancora si incontrano cattolici “che non nascondono le loro perplessità nei confronti della riforma liturgica” (p. 432). Dopo un cenno alle diverse riforme liturgiche nel corso dei secoli, l’autore si sofferma sulla Sacrosanctum Concilium, e nota che il documento non adopera le parole reformare/reformatio, ma la coppia instaurare/instauratio, il cui significato è “far stare di nuovo”, cioè riportare qualcosa allo stato originario (p. 433). In questo contesto di ritorno allo stato originario, l’autore interpretata anche l’affermazione di Pio V nella bolla Quam primum con cui il Pontefice promulga il Messale restituito “all’originaria normativa rituale dei santi Padri” (ad pristinam sanctorum Patrum normam ac ritum), parole e programma che troviamo pure in SC 50. Dato, poi, che di fatto il Messale di Pio V non fu altro che il Missale secundum consuetudinem Romanae Curiae con qualche ritocco, l’autore può affermare che quell’incompiuto progetto del concilio di Trento e di Pio V è stato ripreso da un altro concilio, il Vaticano II, e da un altro Pontefice, Paolo VI. Perciò è giusto affermare che, con l’aiuto dei progressi nelle discipline liturgiche compiuti negli ultimi quattro secoli, il Messale di Paolo VI è il coronamento di un sogno che ebbe Pio V (p. 436-438).

Il Prof. Giraudo riconosce che nella riforma liturgica attuata dopo il Vaticano II, “accanto alle luci, di certo preminenti, non mancano le ombre”. Infatti “la risposta al progetto che emerge dai Praenotanda dei libri liturgici, a cinquant’anni dalla loro promulgazione, lascia ancora molto a desiderare” (p. 439). Dopo un elenco sintetico delle luci e delle ombre, l’autore pone a confronto le diverse opinioni sulla riforma liturgica e indica alcuni rimedi proposti per rilanciarla. In questo contesto, si sofferma sulla conferenza tenuta a Londra il 5 luglio scorso dal card. Sarah, in cui il Prefetto del culto prospettava come rimedio una eventuale riforma della riforma e, in concreto, proponeva l’orientamento comune di sacerdoti e fedeli, rivolti insieme nella stessa direzione. In data 11 luglio, un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede precisava che sull’orientamento dell’altare non c’erano delle novità e inoltre affermava che era meglio evitare di usare l’espressione “riforma della riforma”, riferita alla liturgia. Il Prof. Giraudo aggiunge quanto papa Francesco ha dichiarato con chiarezza in una intervista rilasciata recentemente a p. Antonio Spadaro: “Il Vaticano II e la Sacrosanctum Concilium si devono portare avanti come sono. Parlare di ‘riforma della riforma’ è un errore” (p. 443).

L’autore termina affermando che i veri rimedi da tutti condivisibili sono due. In primo luogo occorre puntare sulla necessaria e urgente riscoperta del sacro, che sia Benedetto XVI con Summorum Pontificum sia papa Francesco in varie occasioni ci hanno ricordato. “Se abbiamo perso la dimensione del sacro, dobbiamo riscoprirla e farla nostra il più presto possibile, attraverso il giusto impiego di quei segni gestuali e verbali che aiutano a tenerla desta, quali un certo doveroso mantenimento della lingua latina e del patrimonio musicale che ha caratterizzato l’intera tradizione dell’Occidente” (p. 444). Vi è poi il tema della formazione liturgica. Resta infatti molto da fare per giungere a un’assimilazione completa della costituzione SC. “La riforma liturgica è malata per il semplice motivo che i suoi odierni fruitori l’hanno recepita in maniera debole. Si tratta di una malattia da curare, non di un malato da sopprimere” (p. 445).

Il testo del Prof. Giraudo è tutto da leggere. In modo pacato e chiaro sono toccati i principali punti dell’attuale dibattito liturgico.

M. A.

mercoledì 7 dicembre 2016

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA


 

Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie

 

Gn 3,9-15.20; Sal 97 (98); Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

 

Il Sal 97 è un canto “nuovo” innalzato al Signore per le meraviglie che ha operato e continua ad operare nella creazione e nella storia. Tra queste meraviglie, la Chiesa contempla oggi Maria Immacolata, il capolavoro di Dio. La stessa Madre di Gesù ha ripreso il v. 3 di questo salmo nel suo Magnificat per celebrare l’opera di salvezza che Dio ha realizzato in lei. In Maria preservata immune da ogni macchia di colpa originale, in previsione della morte di Cristo (cf. la colletta), noi contempliamo compiuto in modo meraviglioso il disegno amoroso che Dio ha su tutti noi. In Maria immacolata infatti celebriamo l’alba della redenzione, l’inizio della nuova umanità o, come dice il prefazio della messa, “l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo senza macchia e senza ruga, splendente di bellezza”. Il ritornello del salmo responsoriale sintetizza molto bene i sentimenti della Chiesa in questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria.
 
Secondo ha interpretato la tradizione, Maria è figurata dal Protovangelo nella donna nemica e vittoriosa di Satana, evento che viene proposto come prima lettura  (Gn 3,9-13) assieme alla disobbedienza di Adamo ed Eva (Gn 3,14-15). La scelta di questo brano intende mettere in evidenza il peccato sul quale Maria è vittoriosa e suggerire l’idea di Maria come nuova Eva. Come Adamo ed Eva sono personaggi emblematici per esprimere l’umanità caduta nel peccato, così Gesù, nuovo Adamo, e sua madre, nuova Eva, diventano personaggi altrettanto emblematici che enunciano l’umanità rinnovata. “Il nodo della disobbedienza di Eva è stato sciolto dall’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva aveva legato con la sua incredulità, la vergine Maria l’ha slegato con la sua fede” (S. Ireneo; Cost. Lumen Gentium, n. 56).
           
La lettura evangelica propone l’evento dell’Annunciazione: l’angelo proclama Maria “piena di grazia”, testo classico del Nuovo Testamento in cui la tradizione ha visto annunciata la verità dell’Immacolata Concezione di Maria. E’ senza dubbio la pagina più letta nella liturgia, più meditata dagli artisti, più riprodotta in tele e nelle sculture. I Padri della Chiesa hanno visto in questo evento la contropartita di ciò che è successo nella caduta del paradiso terrestre: Eva non ascolta il precetto di Dio, Maria invece ascolta il messaggio dell’angelo inviato da Dio; Eva disobbedisce alla parola di Dio, Maria invece pronuncia il suo “si” ubbidiente al piano di Dio su di lei: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”; Eva significa “madre di tutti i viventi”, Maria lo è in senso più profondo in quanto è madre dei redenti mediante la morte del Figlio suo, vincitore del male e della morte. Maria, generando il Cristo, ha posto nella terra il “seme” indistruttibile del bene, della giustizia e della speranza. Esso si radicherà e trasformerà l’umanità intera. E’ la stessa realtà che descrive il brano introduttivo alla lettera agli Efesini (seconda lettura) in cui l’Apostolo afferma che Dio, in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. Questa singolare elezione trova un’applicazione particolarissima in Maria. L’Immacolata è il primo segno della vittoria pasquale di Cristo. Con lei, l’umanità ritrova la strada per percorrere una storia di santità, non più di peccato. L’Immacolata è quindi un segno di speranza. Ciò che è avvenuto in lei è anticipo e frutto al tempo stesso della vittoria di Cristo risorto sulla morte e sul peccato. L’eucaristia, ripresentazione sacramentale del mistero pasquale, “guarisce in noi le ferite di quella colpa da cui, per singolare privilegio”, Maria è stata preservata nella sua immacolata concezione (orazione dopo la comunione).
 
 

domenica 4 dicembre 2016

L’INDIVIDUO E LA COMUNITÀ NELLA LITURGIA


 

Roberto Tagliaferri – Aldo Terrin (edd.), La pastoralità e la questione dell’individuo nella liturgia (“Caro salutis cardo” – Contributi 30), Centro Liturgico Vincenziano, Roma – Abbazia di Saanta Giustina, Padova 2016. 297 pp.

Il volume è diviso in due parti: 1. La questione pastorale del Vaticano II; 2. La liturgia pastorale tra individuo e comunità. La prima parte contiene tre studi: “Il Vaticano II. Un Concilio per il XXI secolo” (Gilles Routhier); “Il concetto di pastoralità nel Concilio Vaticano II: la dinamica interno-esterno” (Roberto Tagliaferri); “L’apporto delle scienze umane alla liturgia pastorale” (Aldo Natale Terrin). La parte seconda, quella più lunga, tratta un tema di grande attualità: “Il soggetto individuale nell’esperienza orante attestata nell’epistolario paolino” (Rinaldo Fabris); “Dal rito al teatro: il corpo a corpo nella liturgia di tipo neo-pentecostale” (Enzo Pace); “L’io e il noi nell’esperienza del sacro” (A.N. Terrin); “L’io e il noi nel movimento liturgico” (Paolo Tomatis); “Fides Ecclesiae e Fides Subiecti. La questione contemporanea” (Sergio Ubbiali); “Il soggetto individuale nel linguaggio liturgico attuale” (Luigi Girardi).

Se nel Movimento Liturgico il ricupero della liturgia è avvenuto in gran parte all’insegna della sua dimensione ecclesiale e oggettiva, oggi sembra che l’oscillazione pastorale rimetta in primo piano le esigenze singolari dell’individuo. Il Vaticano II ha avuto una attenzione “particolare” richiamando l’esigenza dell’inculturazione e dell’adattamento, ma il problema ancora più specifico del rapporto tra l’individuo e il soggetto plurale rimane inevaso a livello riflessivo e bisognoso di un nuovo riequilibrio.

La Chiesa, e quindi anche la liturgia, è costretta a confrontarsi con i contesti storici differenti come quello occidentale, dove la sensibilità verso l’individuo mette in crisi i riti tradizionali di tipo sociale. L’esperienza religiosa, compresa quella cristiana, è sempre più un fatto personale. C’è un certo “relativismo” della fede cristiana, non nella sua sostanza, ma nel modo in cui viene recepita a livello socio-culturale. Oggi ci sono modi di credere troppo diversi all’interno della stessa visione cattolica. Ma questa tendenza è veicolata dalla cultura. Se il singolo è fine a se stesso nella cultura attuale, significa che stiamo vivendo un periodo in cui la persona è il centro della libertà e dell’autonomia così come è al centro delle sue credenze.   

Nel veloce passaggio da una società autoritaria ad una società democratica è stato gioco-forza per il Concilio far proprio l’anelito di partecipazione dei soggetti al culto. Per questo la ricerca delle condizioni per un’effettiva partecipazione liturgica, che ha ispirato il lavoro della riforma, ha posto le basi per un profondo ripensamento della relazione tra l’io e il noi. E’ vero che la liturgia usa prevalentemente il noi, però non esclude l’io o vi si contrappone, ma lo include. Il culto cristiano non disprezza gli “slanci del cuore”, ma neppure li abbandona alla pura evasione del sé, alla totale dispersione dell’io: piuttosto li raccoglie nella concentrazione di un ordine e di una misura che fonda l’estetico nell’etico.

venerdì 2 dicembre 2016

DOMENICA II DI AVVENTO (A)


 

 
Vieni, Signore, re di giustizia e di pace
 
Is 11,1-10; Sal 71 (72); Rm 15,4-9; Mt 3,1-12
 
Nel salmo 71 viene esaltata una gloriosa e ideale figura di re. Il testo salmico aveva già secondo la tradizione ebraica chiari riferimenti al futuro Messia e al suo regno. Tutto ciò che nel testo sa di iperbole nei confronti di un re terreno e del suo regno: “Nei suoi giorni fiorisca il giusto e abbondi la pace”, assume piena verità storica nella presenza messianica di Cristo, il re preannunziato. Al tempo stesso che chiediamo che questo regno venga definitivamente: “venga il tuo regno”, prendiamo coscienza del nostro compito di realizzare le opere del regno, che sono opere di giustizia e di pace. Se la domenica scorsa ci invitava a vivere in attesa vigilante del Signore che viene, oggi siamo incoraggiati a rendere significativa questa attesa con una vita che sia già ora e qui espressione dei valori del regno di Dio che viene.
 
La prima lettura ci presenta l’immagine di una società perfetta, in apparenza utopica. Isaia la descrive con accenti toccanti: “il lupo dimorerà insieme con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà...” Queste e altre raffigurazioni, che ci ricordano le favole ed i cartoni animati della nostra infanzia e che sono in contrasto con la realtà faticosa e spesso violenta che distingue la nostra vita quotidiana, vogliono esprimere una società in cui i contrasti vengono composti armonicamente e dove regna indisturbata la giustizia e la pace. Questa società, secondo il profeta Isaia, è quella inaugurata dal Messia sul quale “si poserà lo Spirito del Signore” per deporre nella storia di questo mondo un seme nuovo di giustizia e di pace.
 
Nel brano del vangelo ascoltiamo san Giovanni Battista che annuncia la venuta del Messia, il quale ci “battezzerà in Spirito Santo e fuoco”, il fuoco che brucia la pula e annienta i peccatori. Perciò il Precursore invita i suoi ascoltatori alla conversione: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” E’ quindi colui che viene, il Messia, a rendere visibile la vicinanza del Regno. La società perfetta, profetizzata da Isaia, è dono dello Spirito del Messia ma esige anche la nostra operosità. Il regno messianico non diventa una realtà nel mondo senza la nostra conversione. La 3a ant. dell’Ufficio di letture ribadisce lo stesso insegnamento quando afferma: “Purifichiamo i nostri cuori, per camminare nella giustizia incontro al Re: egli viene, non tarderà”.
 
Nella seconda lettura, san Paolo dando uno sguardo rapido all’insieme delle Scritture prende atto che esse convergono sul mistero di Cristo e tracciano la via della salvezza che il cristiano è chiamato a percorrere per rimanere perseverante, trovare consolazione e tenere viva la speranza. Ma non è solo una speranza emotiva, bensì una relazione viva con il Cristo. La società perfetta di cui abbiamo parlato, è possibile solo se abbiamo “gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù” e, in questo modo, impariamo a vedere nei nostri simili i fratelli e le sorelle figli dello stesso Padre.
 
La celebrazione eucaristica è segno efficace di questo regno di giustizia e di pace, di cui attendiamo la piena realizzazione. Nell’assemblea eucaristica, infatti, si attua l’unità degli uomini in Cristo: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,17). Perciò stesso l’eucaristia ci insegna “a valutare con sapienza i beni della terra nella continua ricerca dei beni del cielo” (preghiera dopo la comunione).