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domenica 25 novembre 2018

I dieci punti per cantare bene alla Messa


L'incontro delle corali. I dieci punti per cantare bene (e senza errori) alla Messa

sabato 24 novembre 2018




«Che cosa si fa quando si è innamorati? Si canta una serenata. Ecco la Chiesa che ama il suo Signore canta le lodi all’Altissimo». Monsignor Marco Frisina racconta con una similitudine il ruolo della musica liturgica. Il prete romano, diplomato al Conservatorio Santa Cecilia della Capitale, autore di brani sacri, colonne sonore, oratori, è il promotore e coordinatore del terzo Incontro internazionale delle corali in Vaticano che oggi ha avuto il suo momento centrale con l’udienza di papa Francesco a settemila cantori giunti da tutto il mondo e che domani si conclude con la Messa nella Basilica di San Pietro.
«Le parole del Papa sono state un incoraggiamento per svolgere con rinnovato entusiasmo quello che è un vero e proprio ministero», afferma Frisina che ripercorre la sua storia personale fra ministero sacerdotale e pentagramma nel libro “Mio canto è il Signore”, una conversazione con Antonio Carriero (Elledici; pagine 112; euro 8,90). E traccia una sorta di decalogo del “buon canto” durante la Messa e della “buona corale”.

1. Il coro accompagna


«Il coro è una realtà ben presente nelle parrocchie italiane. Ma può cadere in alcune tentazioni che ne offuscano l’efficacia», spiega Frisina. E indica come parola chiave: “accompagnare”. «Il coro è non un elemento estraneo all’assemblea. Quindi fa parte del popolo di Dio che vive la celebrazione. Il suo compito è di accompagnare la comunità nella lode di Dio attraverso il canto. Ma deve essere anche accompagnato dalla comunità stessa. Perché è a servizio di essa e non può essere autorefenziale».

2. La Messa non è un concerto

Il canto liturgico non è «un’esibizione», chiarisce il sacerdote compositore. E nel rito «va evitato l’“effetto concerto”». Perché «la liturgia non è spettacolo ma verità. E se il coro è chiamato a dare il meglio di sé, tutto deve avvenire secondo uno spirito di servizio».

3. Attenzione ai canti

I canti vanno scelti tenendo conto della pertinenza liturgica dei brani. «Un canto di Quaresima – afferma Frisina – è diverso da uno pasquale. Quelli di Avvento non sono equiparabili a quelli del tempo di Natale». Da qui il consiglio. «Il Messale e la Liturgia delle Ore indicano quali contenuti devono avere i brani o a che cosa si devono ispirare. La questione della scelta adeguata è essenziale perché il canto deve muovere alla preghiera all’interno di un rito».

4. Brani non astrusi e con riferimenti spirituali

Frisina suggerisce di privilegiare «melodie non troppo astruse e complicate ma facili da apprendere da parte dell’assemblea». E precisa che «sono da preferire canti con un testo di qualità, possibilmente nutriti di Bibbia e di riferimenti agli scritti dei padri della Chiesa o alle preghiere dei santi».

5. Spazio al gregoriano

Attingere al patrimonio musicale del passato è auspicabile, sottolinea il sacerdote. In particolare al gregoriano che «va indubbiamente utilizzato anche se secondo le possibilità della comunità che lo esegue, in quanto non è sempre facile». Certo, chiarisce Frisina, il gregoriano «resta il modello e ci mostra come deve essere un canto liturgico, a partire dal legame con la Parola».

6. Chitarra sì o no?

Monsignor Frisina parla della chitarra come di «uno strumento leggero e delicato che difficilmente riesce a inserirsi in una celebrazione numerosa dove è presente un coro ampio. In questo caso occorre un sostegno armonico più solido, vale a dire l’organo». Comunque, «in una piccola comunità dove l’organo non è presente la chitarra, può essere un sussidio ma legato alle necessità». E serve saperla suonare. «Non va impiegata come si fa nella musica pop. Perché la chitarra è uno strumento a pizzico e non a percussione».

7. Niente canti registrati

Quando non c’è il coro e quando un’assemblea fa fatica a cantare, meglio il silenzio rispetto ai canti registrati. «Il canto registrato è un falso. È di plastica, come i fiori artificiali. Il canto liturgico è espressione di un popolo vero; pertanto non può essere costruito».

8. Nei matrimoni troppe licenze

Musiche da film, brani di un cantautore, colonne sonore entrano nei matrimoni. Ma non va. «Questo è frutto di ignoranza – sostiene il sacerdote – e della superficialità degli sposi che non hanno chiaro il senso liturgico del sacramento che celebrano».

9. Prepararsi bene

Secondo Frisina, ogni celebrazione «richiede sempre un’adeguata preparazione anche se i canti sono conosciuti ed eseguiti in precedenti occasioni».

10. Insegnare a cantare

«La musica sacra – conclude il compositore – apre al mistero. Tocca il cuore, avvicina i lontani, non ha bisogno di traduzioni. Essa unisce ed eleva: ecco il suo potere straordinario. Allora dovremmo imparare e insegnare a cantare. Perché oggi si canta poco nelle nostre chiese e le assemblee non sono abituate a esprimersi con il canto».



Fonte: Avvenire.it


venerdì 23 novembre 2018

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO – 25 Novembre 2018 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO





Dn 7,13-14; Sal 92 (93); Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37



Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo nell’ultima domenica dell’anno liturgico, quasi come sintesi di tutto ciò che abbiamo celebrato durante l’anno. Infatti ogni domenica, “giorno del Signore”, proclama la sovrana signoria di Cristo. Alla fine di questo percorso annuale, l’ultima domenica intende celebrare in modo più organico ciò che costituisce il nocciolo di ogni celebrazione domenicale. Le letture bibliche odierne illustrano alcuni aspetti di questo mistero: Cristo centro della nostra vita e Signore della storia.



Tutti i poteri e regni di questo mondo sono destinati prima o poi a fallire, a scomparire. Il testo profetico della prima lettura invece, parlando del futuro regno messianico, lo descrive come un regno “eterno, che non finirà mai”. Il sovrano di questo regno messianico preannunciato dai profeti è Gesù. Nel brano evangelico, vediamo che per tre volte Gesù dice: “Il mio regno”, e per due volte si preoccupa di chiarire che questo regno è completamente al di fuori degli schemi mondani: “Il mio regno non è di questo mondo”, e cioè il regno di Cristo è diverso dei poteri mondani, si colloca su di un altro piano. Il regno di Gesù non si costruisce con la forza che si impone dall’esterno, ma con la forza interiore della verità che trasforma l’uomo dal di dentro. Infatti il suo compito - lo dice egli stesso - è quello di “dare testimonianza alla verità”. Il fondamento della regalità di Cristo è quindi la testimonianza che egli rende alla verità. Sappiamo che Pilato non ha capito queste parole di Gesù. Cos’è la verità?



Nel vangelo di san Giovanni, che ci tramanda il passaggio in questione, la verità non è un concetto astratto o un principio filosofico, ma la rivelazione concreta di Dio e del suo amore; la verità è che Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito. Gesù ha reso testimonianza a questa verità, ha manifestato cioè questo amore di Dio con le sue parole e le sue opere, con la sua vita e, soprattutto, con la sua morte, che è la suprema sua testimonianza a favore della verità. Come dice san Giovanni nel brano dell’Apocalisse proposto come seconda lettura, egli ci ha amati e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue. La signoria di Cristo significa che Dio non permette che il mondo vada in rovina; anzi in lui lo ha portato definitivamente alla salvezza.



Dire regno di Cristo significa dire giustizia, pace, libertà, dignità umana, amore, liberazione dal peccato e da ogni forma di male (cf. il prefazio). Nella misura in cui questi valori s’impadroniscono di noi e della storia, il regno di Dio si compie o, meglio, il regno di Dio accelera il suo compimento. Ecco quindi che il regno di Cristo cresce in noi nella misura in cui diamo spazio a questi valori, nella misura in cui ne siamo protagonisti nella storia.




domenica 18 novembre 2018

ALCUNI PARADOSSI CELEBRATIVI




Manuel Belli, Sacramenti tra dire e fare. Piccoli paradossi e rompicapi celebrativi (Giornale di Teologia 412), Queriniana, Brescia 2018. 263 pp. (€ 18,00).

L’autore, giovane professore di teologia sacramentaria, ci offre in questo libro una stimolante riflessione sui paradossi e rompicapi celebrativi. Dopo un primo e breve capitolo dedicato a “come sta la riforma liturgica”, il resto dei capitoli affrontano tematiche su alcuni sacramenti: l’eucaristia (cap. 2o), l’iniziazione cristiana (cap. 5o-7o), la confessione (cap. 8o), il ministero ordinato (cap. 9o), il matrimonio cap. 10o). Il tutto si chiude con “Quasi una conclusione”.

La riforma liturgica (cap. 1o) più che un punto di arrivo, è un punto di partenza. Ridotta a una rivisitazione dei testi, essa termina il suo compito con l’edizione dei libri. In questo contesto, l’autore denuncia giustamente la deriva di carattere intellettualistico nella pratica liturgica: il rito sarebbe qualcosa da capire e quindi si moltiplicano le spiegazioni. Da un lato il rito è esposto a una sua riduzione minimale e dall’altro si sviluppa un pensiero didascalico che vede nel rito semplicemente la sua occasione. Non si tratta di dichiarare una “non pensabilità” dei riti, ma di adottare una forma di pensiero del complesso delle questioni rituali in gioco.

Nel cap. 2o sono analizzati i paradossi di cinque momenti della celebrazione eucaristica. L’autore si pone questo interrogativo: che ne è di un rito che “si fa” quando viene pensato come qualcosa che “si dice”? L’eucaristia è fatta dalla Chiesa e realizza la Chiesa in un rito in cui i credenti attestano di essere  fisicamente convocati, ma osservando la gestualità dell’assemblea liturgica, la celebrazione sembra piuttosto una somma di individualità che partecipa all’atto liturgico più che un corpo ecclesiale che celebra il mistero della propria unità. Così, ad esempio, la dislocazione spaziale in chiesa non raramente denota alcuni “privati” che assistono ad una celebrazione più che ad un corpo ecclesiale che celebra insieme l’eucaristia.

Gli altri momenti della celebrazione della messa analizzati sono: l’atto penitenziale (raramente l’esame di coscienza dura più di una decina di secondi); l’ascolto delle letture (la disponibilità dell’intera assemblea del libro liturgico non la rende un popolo in ascolto, ma una somma di singoli che studia); la presentazione dei doni del pane e del vino (una battuta: ci vuole più fede a credere che il pane eucaristico sia pane, che non a credere che in quel pane ci sia Cristo!); la frazione del pane (dovrebbe esprimere la condivisione del medesimo, ma si riduce a spezzare a metà la particola del prete, che poi lui stesso consuma).

Non è facile riassumere i due impegnativi capitoli sulla transustanziazione (3o) ed i plurali linguaggi di presenza (4o). La dottrina della transustanziazione richiede numerosissime spiegazioni previe (e non sempre condivisibili) degli strumenti metafisici evocati, in quanto non evidenti. Dopo Cartesio, parlare di sostanza non è più lo stesso che ai tempi di Tommaso d’Aquino. Far diventare la transustanziazione l’unico discorso cristiano sull’eucaristia è limitante. L’eucaristia è prima di tutto un atto liturgico, e quest’ultimo è luogo della presenza di Cristo, non è semplicemente l’occasione della transustanziazione.

Il cap. 5o sulla prima comunione dei bambini, il “rompicapo dell’iniziazione cristiana” (cap. 6o) e lo specifico della confermazione (cap. 7o) si inseriscono in un dibattito di una certa attualità, soprattutto in Italia. Come ricuperare la prassi catecumenale antica? Ordine o disordine della celebrazione dei tre sacramenti dell’iniziazione? Andrea Grillo propone di tornare alle evidenze rituali e antropologiche: nella Chiesa si entra essendo lavati nel battesimo, profumati nella cresima, nutriti nell’eucaristia.

Sulla crisi della confessione (cap. 8o) si afferma che la contrazione del sacramento della penitenza nella coppia “confessione-assoluzione” ha generato anche una sua insignificanza. La penitenza non è tutta nel confessionale e quindi non basta ricondurre ad esso i fedeli. La penitenza è la vita cristiana tout court, letta sotto il profilo della lotta continua con ciò che non è secondo il vangelo di Cristo.

Sui “disordini del ministero ordinato” (cap. 9o), il Vaticano II ha espresso l’idea che il presbiterato si concretizza nell’entrare a far parte del presbiterio (cf. LG 28; PO 8). Il ministero del presbitero, dunque, non può essere pensato al singolare. Con lo svilupparsi del cristianesimo rurale, il numero dei presbiteri aumentò e le forme di collegialità cambiarono. Le immagini del presbitero che si sviluppano iniziarono ad essere individuali. Ecco quindi un primo nodo paradossale del ministero ordinato: teologicamente plurale, di fatto singolare.

Il matrimonio (cap. 10o) ha condiviso la sorte di tutti gli altri sacramenti: la teologia infatti ha prodotto una riflessione sulle categorie di comprensione dei sacramenti stessi, trascurando ciò che del sacramento è l’elemento più evidente, ossia la sua forma rituale. La rimozione del rito del matrimonio, la poca cura per l’aspetto esistenziale del matrimonio e le difficoltà in termini di reintegrazione delle situazioni ferite appartengono ad un’unica logica, ossia il difficile accostamento di storia e verità. L’idea del matrimonio come “sacramento naturale” non deve porre in contrapposizione natura e storicità.

Il prof. Manuel Belli afferma che ha scritto un libro di domande più che di risposte. La lettura però del suo libro, di cui ho tracciato una superficiale sintesi, è fortemente salutare per evitare gli errori e aprire il cammino alle risposte.  


venerdì 16 novembre 2018

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 18 Novembre 2018




 


Dn 12,1-3; Sal 15 (16); Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32



Avviandoci ormai alla conclusione dell’anno liturgico, le letture bibliche di questa penultima domenica ci invitano a riflettere sulle ultime realtà, sulla fine della storia e del mondo, quando cioè si compirà in modo definitivo la salvezza che ora possediamo solo nella speranza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume la fede della Chiesa su questo punto con le seguenti parole: “Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia” (n.1040). Le letture bibliche odierne ci invitano ad approfondire alcuni aspetti di queste ultime realtà.



Il brano del libro di Daniele, proposto come prima lettura, è uno dei testi più caratteristici dell’Antico Testamento sul tema della retribuzione finale: la salvezza verrà data in modo pieno e definitivo a quanti hanno operato il bene. Il brano evangelico descrive il ritorno del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi che verrà a “radunare i suoi eletti”. Siamo invitati a vegliare ed essere pronti (cf. canto al vangelo) perché “quanto a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Queste misteriose parole, con cui si conclude il brano evangelico odierno, danno una vigorosa lezione ai profeti di sventura intenti a determinare la fine del mondo. Chi ha fede e fiducia, non ha bisogno di fare questi calcoli.




Ascoltando le parole con cui Gesù descrive la fine dei tempi, siamo talvolta presi dallo spavento. Notiamo però che il linguaggio usato dal Vangelo, chiamato linguaggio apocalittico, proprio della tradizione ebraica, in fondo è un linguaggio che viene adoperato per rivelare (apocalisse significa “rivelazione”) il senso della storia e il destino dell’uomo. Dio ha su di noi “progetti di pace e non di sventura” (antifona d’ingresso - Ger 29,11.12.14). La seconda lettura apre il cuore alla fiducia in Cristo, nostro giudice, il quale sta alla destra di Dio, ma ha offerto se stesso per il perdono dei nostri peccati. Il perdono acquistato con il sangue di Cristo è sempre più grande di tutte le nostre infedeltà. Ciò che all’esterno appare come catastrofe e rovina in verità è il compimento della salvezza. Questo mondo va verso una fine, verso quel “giorno del Signore” già invocato dai credenti di Israele, giorno di salvezza e di giudizio. E ciò avviene per un preciso disegno di Dio che è Signore della storia e del tempo.


Chi prende sul serio l’incertezza e caducità di ogni cosa terrena, si apre al dono della salvezza. Ma il pensiero della morte, della fine della nostra esistenza terrena non ci deve indurre ad un atteggiamento di disimpegno nei confronti della vita presente. Il servizio fedele e responsabile prepara “il frutto di un’eternità beata” (orazione sulle offerte). Il futuro quindi appartiene anche alle nostre mani, e ogni carenza di impegno diventa anche carenza di salvezza

domenica 11 novembre 2018

IL SACRO E LA RELIGIONE





Sergio Givone, Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione, Solferino, Milano 2018. 189 pp.

Comunque si voglia definire il sacro, esso viene prima della religione perché viene prima che la religione svolga e organizzi in sistema le infinite epifanie del sacro stesso. È a partire da una parola assolutamente iniziale (“sì, questo è bene che sia”) e quindi da un interdetto fondante (“no, questo no!”) che, come possiamo immaginare, tutte le religioni di questa terra lavorano instancabilmente a produrre miti e riti attraverso i quali gli uomini si raccontano la loro storia, convertono il disordine nel quale versano in un ordine possibile, trovano uno scopo e danno un senso alla loro vite.

(p. 159)


Indice generale dell’opera:

Prefazione; 1. Ha senso la vita? 2. Legge e Amore; 3. Un pensiero di altri mondi; 4. Tempo intermedio e Apocalisse; 5. “Guardiamo nell’Aperto”; 6. Potere spirituale e potere temporale; 7. Il sacro, nonostante tutto; Cenni bibliografici.  





venerdì 9 novembre 2018

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 11 Novembre 2018




 


1Re 17,10-16; Sal 145 (146); Eb 9,24-28; Mc 12,38-44



È donando dalla nostra povertà che noi diventiamo veramente ricchi davanti a Dio. In sintesi, è questo il messaggio che sembra emergere dalle letture bibliche. La prima lettura e il brano evangelico parlano della generosità di due povere vedove. La povera vedova di Zarepta, che aiuta il profeta Elia e la vedova lodata da Gesù perché i pochi spiccioli gettati nella cassetta delle offerte del Tempio rappresentano tutto quanto essa ha per vivere. Malgrado la loro povertà le due donne che la parola di Dio ci presenta trovano ancora qualcosa da dare: la prima accetta di dividere il poco che ha con uno straniero, mentre lei e suo figlio sono sulla soglia della morte; l’altra, in un atto di omaggio a Dio e di adorazione, dà il denaro di cui aveva bisogno per vivere. Ambedue si rivelano adorne delle qualità che devono caratterizzare la figura del discepolo di Cristo: disponibilità ad accogliere la parola di Dio, abbandono incondizionato al suo volere, prontezza a donare e a perdere anche la vita. L’offerta povera di queste donne è offerta amorosa e totale della vita.



Soffermiamoci brevemente sulla scena evangelica. Nel cortile del Tempio, al quale avevano accesso anche le donne, erano allineate tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Ci sono molti ricchi che fanno laute offerte, di cui il sacerdote ripete ad alta voce l’entità, suscitando l’ammirazione dei presenti. E c’è una povera vedova che offre pochi spiccioli e non suscita nessun mormorio di ammirazione. Gesù però la scorge e richiama l’attenzione dei discepoli contrapponendo la condotta della vedova alla vanità, ambizioni e privilegi degli scribi, che erano i maestri della legge dell’Antico Testamento, e alla ostentazione vanitosa di tanti ricchi che gettavano molte monete nella cassetta delle offerte. Questi, dice Gesù, danno del loro superfluo, mentre invece la povera vedova dà tutto quanto possiede. A partire dalle azioni più semplici e quotidiane Gesù sa leggere l’intenzione profonda del cuore; egli giudica non secondo le apparenze ma in verità, poiché è capace di vedere in profondità ciò che tutti vedono, grazie ad uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo secondo il sentire di Dio. A parte la sete di potere e di arrivismo che ovunque regna, bisognerebbe vedere fino a che punto noi cristiani siamo capaci di gesti generosi di ospitalità e di partecipazione alle sofferenze dei nostri simili. Dio non ci chiede il nostro denaro, ma chiede la nostra persona, e cioè la nostra disponibilità a donarsi per il bene degli altri.



In questo contesto, possiamo collocare l’esempio supremo di Cristo, di cui  parla la seconda lettura. Egli ci rende partecipi della sua vita divina offrendo se stesso: “Cristo si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti”. È donando noi stessi che ciascuno di noi partecipa veramente al dono della salvezza che Gesù ci offre. Il senso dell’eucaristia è questo: l’innesto sempre nuovo della nostra vita dentro all'unico e perfetto sacrificio di Cristo.


domenica 4 novembre 2018

I SALMI NELLA PREGHIERA DELLA CHIESA




Ludwig Monti, I Salmi: preghiera e vita. Commento al Salterio (Spiritualità biblica), Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2018. 1889 pp. (€ 60,00).


Nella Prefazione a questo possente volume, il card. Ravasi afferma che “il commentario di Ludwig Monti segnerà una tappa importante e duratura nella sterminata bibliografia dedicata al Salterio: è certamente la più ricca, fresca, limpida e completa lettura dei salmi ora a disposizione”.

L’opera ha anche senza dubbio un interesse liturgico. Infatti, come dice l’autore nell’Introduzione, uno dei principi di fondo che lo ha guidato è quello dell’esegesi liturgica dei salmi: leggere i salmi, e più in generale la Bibbia, alla luce della liturgia e viceversa. Si tratta di un principio antichissimo, che va completato con l’aiuto della grande tradizione, cioè dei padri della Chiesa. Liturgia e padri, in continua comunicazione, sono gli assi dell’esegesi liturgica, le due parole chiave per comprendere e pregare i salmi in ambito cristiano.   

Scendendo nello specifico, l’autore si fa alcune semplici domande che mai si dovrebbero trascurare: come un determinato salmo è stato ed è interpretato all’interno di una determinata celebrazione liturgica? Come i singoli salmi sono stati e sono collocati lungo le varie ore della giornata? Quali significati un salmo riveste, di volta in volta, nei diversi tempi liturgici in cui è utilizzato, o nella celebrazione di una festa, o nella memoria di un santo?

Monti è un monaco, e il suo libro non è solo frutto di una ricerca rigorosa ma è maturato anche in vent’anni di preghiera monastica, ritmata dalla consuetudine quotidiana con il Salterio.


venerdì 2 novembre 2018

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 4 Novembre 2018




Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mt 12,28b-34



Il comandamento di amare Dio e il comandamento di amare il prossimo erano ben conosciuto nell’Antico Testamento. Alla domanda che gli fa lo scriba su quale sia il primo comandamento, Gesù riprende la professione di fede che ogni giorno ripeteva l’ebreo nella sua preghiera, testo che inizia con le parole “Ascolta, o Israele”, ed è riportato nella prima lettura. Ma Egli arricchisce il testo in modo considerevole. Infatti, Gesù commenta insieme due comandamenti e li rende una sola cosa. Più in concreto, Gesù propone non solo l’amore di Dio, ma anche del prossimo nonché l’amore di se stesso: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Chi dunque non è capace di amare se stesso, non è capace di amare il prossimo e, di conseguenza, non sa amare Dio. Sono tre amori che hanno una sola ed identica radice.



Ma cosa significa amare, in particolare, cosa significa amare Dio? Possiamo rispondere riprendendo le parole della preghiera ebraica citata da Gesù: “Ascolta, o Israele”. L’ascolto è già un movimento di amore in quanto ascoltando mi apro all’altro e accolgo in me la sua presenza. L’ascolto fonda un legame, una relazione in cui io esco dal mio egoismo, dal mio isolamento e mi apro alla relazione verso un altro. L’ascolto pone l’uomo nella situazione di relazione e di libertà che è essenziale per amare. Un amore imposto è un amore falso.



Amare Dio, poi, non consiste in un ricordo passeggero di Dio all’inizio o alla fine della giornata; non consiste neppure in invocarlo nel momento del bisogno. Nelle parole di Gesù ritorna insistente un vocabolo che esprime totalità e continuità: “tutto il tuo cuore”, “tutta la tua mente”, “tutta la tua forza”. Si tratta quindi di un amore che si impadronisce di tutta la nostra esistenza, che invade ogni nostro pensiero e ogni azione, che dà forma alla vita. Quando l’amore a Dio non ha queste caratteristiche, la nostra fede e la nostra pratica religiosa si impoveriscono, possono diventare formalismo, legalismo, forse addirittura superstizione.



Ricordiamo, finalmente, che l’amore è anche un dono che Dio ci elargisce. Lo abbiamo affermato all’inizio della messa quando abbiamo pregato: “Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti (e quindi di amarti) in modo lodevole”. Chiediamo questo dono.