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venerdì 26 luglio 2024

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 28 Luglio 2024

 



 

 

2Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

 

 

La prima lettura ci racconta come il profeta Eliseo ha sfamato con una ventina di pani un gruppo di cento persone. Il brano evangelico parla di un prodigio simile, ma di proporzioni molto maggiori, compiuto da Gesù, il quale sfama una grande folla che lo seguiva, circa cinquemila uomini, con solo cinque pani d’orzo e due pesci. La folla, visto il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci compiuto da Gesù, cominciò a dire: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo”. Ecco, quindi, che il miracolo accende le speranze messianiche della moltitudine. Malgrado ciò l’equivoco è enorme: la gente cerca Gesù perché era stata saziata, non perché aveva capito il messaggio del suo gesto. Infatti, sia la moltiplicazione dei pani compiuta da Eliseo sia la moltiplicazione dei pani e dei pesci compiuta da Gesù sono dei gesti profetici (“segni”) che nell’ambiente in cui sono sorti e nella mentalità degli scrittori che li narrano hanno un valore simbolico: i due racconti intendono proclamare l’intervento di Dio - mediante i suoi messaggeri - nei momenti del bisogno umano, la potenza della sua parola, la credibilità dei suoi profeti. Ecco perché la liturgia d’oggi ci invita nel salmo responsoriale a ripetere: “Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente”.

 

L’evento della moltiplicazione dei pani ha anche un significato eucaristico. Giovanni annota che “era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei”. Gesù quella volta non vi partecipò. Lì sul monte egli non mangia l’agnello ma imbandisce un banchetto in cui si distribuisce e si spezza insieme il pane. L’allusione al banchetto eucaristico è già evidente, ma si accresce ancor più se pensiamo che, a differenza dei racconti di moltiplicazione dei Sinottici in cui anche i discepoli sono attivi, qui, come nei racconti sinottici dell’ultima Cena, solo Gesù agisce quando si tratta di prendere, rendere grazie, dare e distribuire il pane, non senza prima aver messo alla prova la fede dei suoi discepoli.

 

Non mancano oggi situazioni umane di autentica necessità, di fame vera e propria, in cui tutti possiamo in qualche modo intervenire secondo i mezzi nostri e le nostre possibilità. I nostri fratelli e le nostre sorelle bisognosi hanno diritto a trovare in ciascuno di noi qualcosa dell’abbondanza di Dio che si è manifestata nel gesto di Gesù che ha sfamato le folle. Nella seconda lettura, san Paolo inizia con questa esortazione: “Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi   esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”. Comportarsi in modo coerente con la chiamata ricevuta significa per Paolo anzitutto “conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace”. La realizzazione di questo ideale di unità e di comunione richiede la disponibilità alla condivisione anche dei beni terreni (cf. orazione colletta).

 

Oggi ancora, come un giorno sul monte, Gesù spezza il pane per noi, anzi in quel pane egli dona a noi tutto se stesso, caparra della nostra eterna comunione con lui.

 

domenica 21 luglio 2024

BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI

 



Premesse

1058.
 Molti animali, per disposizione della stessa provvidenza del Creatore, partecipano in qualche modo alla vita degli uomini, perché prestano loro aiuto nel lavoro o somministrano il cibo o servono di sollievo. Nulla quindi impedisce che in determinate occasioni, per es. nella festa di un santo, si conservi la consuetudine di invocare su di essi la benedizione di Dio.

 

(Dal Benedizionale del Rituale Romano)

 

venerdì 19 luglio 2024

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 21 Luglio 2024

 



 

Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34

 

                   

Il brano evangelico di questa domenica lascia intravedere uno spaccato di umanità del Figlio di Dio. Gesù rivolgendosi agli apostoli, che ritornano dalla missione a cui erano stati mandati, li invita a riposarsi un po’: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’ ”. Gesù vuole rimanere solo con i suoi apostoli dopo la loro prima esperienza missionaria. Egli si prende cura dei suoi discepoli, della loro fatica, della loro stanchezza. Più avanti ancora, ci viene raccontato che la folla cui Gesù con i suoi discepoli si era sottratto, lo segue nella solitudine. Vedendo la gran folla che accorreva da lui, Gesù “ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù si commuove e mette a disposizione di questa gente il suo insegnamento, anzi mette se stesso a disposizione di quanti hanno bisogno di lui. L’atteggiamento di Gesù nei confronti della folla sta a significare che la misericordia di Dio è offerta a tutti.

 

Nella seconda lettura, san Paolo sottolinea che fonte di pace, di vita autentica dell’uomo con Dio e dell’uomo con gli altri uomini non è più la legge ma una persona che si è data senza riserve per gli altri, Cristo Gesù: “Egli infatti è la nostra pace”: perché “è colui che di due (popoli) ha fatto una cosa sola”, perché la sua logica porta ad eliminare ogni squilibrio, a distruggere ciò che è “muro di separazione”, fonte di “inimicizia”, in una parola ciò che oppone uomo a uomo, popolo a popolo. In Gesù si compie la parola profetica di Geremia (cf. prima lettura), il quale, dopo la denuncia contro i pastori malvagi del suo tempo che hanno condotto il popolo di Dio alla rovina, annuncia che Dio invierà un re giusto per far ripartire la storia dell’alleanza con il suo popolo. Il nome di questo re è “Signore-nostra-giustizia”, cioè nostra salvezza. Gesù Cristo, il buon pastore, mandato come re e salvatore, è la parola divina di pace rivolta a tutti gli uomini, mediatore della nostra pace con Dio, punto d’incontro di noi con Dio e dell’uomo con gli altri uomini.

 

Come gli apostoli al ritorno della loro faticosa missione e come la grande folla che seguiva Gesù, anche noi non possiamo fare a meno della “compassione” del Maestro nelle nostre ricerche e nelle nostre fatiche; non possiamo gestire autonomamente i nostri progetti; abbiamo bisogno di riposare in qualcuno che possa dare sicurezza e consistenza al nostro quotidiano impegno, abbiamo bisogno della parola illuminata e illuminante del Signore. Tutti abbiamo bisogno di riposo, di qualche forma di vacanza, di trovare ogni tanto uno spazio di silenzio, ma abbiamo anche grande bisogno di preghiera, di autentico incontro con Dio e con i fratelli per non smarrire il senso profondo della nostra vita, del nostro agire e del nostro sperare. La celebrazione eucaristica è un momento in cui ci è dato di realizzare questo vero incontro con Dio e con i fratelli. Non sprechiamolo!

domenica 14 luglio 2024

LA PARUSIA

 



 

Secondo Bultmann, il ritardo della parusia rappresentò il vero nodo problematico che la Chiesa delle origini dovette tentare di sciogliere. Gli scritti più tardivi del Nuovo Testamento lo registrano e ne sono una testimonianza. La Chiesa delle origini, comunque, non ci riuscì, e per questo tentò di farvi fronte attuando una crescente “de-escatologizzazione” delle asserzioni evangeliche riguardanti la fine. In pratica, il ritardo della parusia costrinse la Chiesa, comunità dei santi, a trasformarsi in istituzione di salvezza, dedita alla pratica sacramentale, e a mutare la riflessione sulle realtà escatologiche in una dottrina sulla fine del mondo, attenta solamente al futuro lontano e alle sorti dell’uomo dopo la morte.

 

La parusia è un evento di salvezza per ogni singolo uomo e per l’umanità intera, per l’umanità e per il mondo; è compimento della salvezza e quindi del mistero pasquale di Cristo; è un evento di salvezza – lontano dal dies irae che ha alimentato anche la fantasia e le paure di molte generazioni – e deve essere attesa nella speranza.

 

 

Fonte: Francesco Brancato, La Bibbia parla dell’aldilà. Tra promessa e compimento, Edizioni Messaggero, Padova 2022, pp. 52, 95.

 

 

venerdì 12 luglio 2024

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 14 Luglio 2024

 


 

 

Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

 

La prima lettura ci racconta lo scontro del profeta Amos col gran sacerdote del santuario di Betel Amasìa. Le denunce del profeta contro il culto idolatrico promosso dal re non sono gradite al gran sacerdote, che sta a servizio del santuario stipendiato dal re e, in conseguenza, Amos viene scacciato come disturbatore della pubblica quiete. Egli però ribadisce che profetizza per ordine del Signore che lo ha inviato a parlare al popolo d’Israele. Il profeta, quindi, parla a nome di Dio ed è responsabile davanti a lui. Il brano evangelico racconta come Gesù manda i Dodici in una prima missione a predicare la conversione. Da parte sua, san Paolo nella seconda lettura afferma che siamo stati “scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati”, perché si realizzi il disegno del Padre di “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose”. In questo progetto si inserisce anche la missione cristiana. Tutte e tre le letture bibliche quindi ci invitano a riflettere sulla natura della missione. Ecco che ritorna il tema della scorsa domenica, ma sotto angolazione diversa. Là il punto focale era da un lato l’invio di Gesù come profeta per eccellenza e dall’altro l’incomprensione e il rigetto che gli riservano i suoi compatrioti. Nella presente domenica l’argomento è quello della vocazione e missione che Dio affida alla Chiesa e a ciascuno di noi per l’attuazione del suo piano di salvezza.

 

Gesù non vuol fare dei suoi un gruppo chiusi di “puri”, di “illuminati”: li manda in missione in mezzo a tutti. Il piano di Dio, infatti, è di “ricondurre” tutte le cose al Cristo. La missione è un rischio; gli inviati possono essere anche non accolti e non ascoltati. I missionari non vanno a fare una crociata, ma una proposta. Come tale deve avvenire al di fuori di ogni ricatto. Le istruzioni che Gesù dà ai discepoli inviati in missione sono un invito a porre la loro fiducia non nell’abbondanza dei mezzi materiali, ma in colui che li manda e nel messaggio che essi sono chiamati ad annunciare. Il bagaglio “leggero” dei Dodici in missione fa spontaneamente pensare al bagaglio “pesante” che a volte sopporta la nostra testimonianza. Non dobbiamo dimenticare mai che la missione consiste nel testimoniare davanti al mondo Gesù Cristo mandato dal Padre, morto e risorto, che ha inviato il suo Spirito perché, per mezzo di lui, tutto ritorni al Padre. Il piano di Dio – lo abbiamo già detto –  è di “ricondurre” tutto al Cristo.

 

Dio ha scelto ciascuno di noi fin dall’eternità e attraverso il battesimo ci ha privilegiati non perché usassimo egoisticamente di questo dono, ma perché diventassimo nel mondo testimoni del suo amore. In casa e al lavoro, per le strade e sulle spiagge, nella gioia e nel dolore, con i vicini, gli amici, i familiari, e anche con chi non ci è amico, siamo chiami a condividere questa nostra speranza. Ciò può comportare, come al profeta Amos e agli apostoli, incomprensioni e sofferenza.

domenica 7 luglio 2024

LO JUBÉ

 





Nella cattedrale gotica di Reims l’altare maggiore si collocava in origine all’incrocio del transetto e il coro avanzava nella navata maggiore per tre campate, occupando uno spazio dilatato all’interno della chiesa. Il settore sacro riservato all’arcivescovo e ai canonici era interamente circondato da una recinzione, che a oriente girava seguendo la curva del deambulatorio, e segnava un limite invalicabile per i fedeli laici. Qui si svolgeva il rito solenne dell’unzione e dell’incoronazione del re di Francia. Questo allestimento liturgico offre l’occasione di parlare di un elemento architettonico di grande importanza nelle cattedrali del medioevo: lo jubé. Si trattava di un pontile traversale, che segnava nella navata maggiore il fronte monumentale del settore riservato al clero, costruito come una struttura imponente, decorata da gruppi di sculture. Queste strutture divisorie, caratteristiche della liturgia medievale, vennero quasi tutte demolite e riconfigurate in età moderna, dopo il concilio di Trento, nel clima della Controriforma, che imponeva una maggiore comunicazione tra il clero e i fedeli. Oggi sopravvivono pochissimi jubé di epoca medievale, e in Italia si conserva un esempio di grande fascino nella canonica di Vezzolano, in Piemonte.

 

Il nome francese (in italiano è in genere definito “pontile”) deriva dalla formula latina di benedizione: “Juve, Domine, benedicere”. Nella parte superiore, infatti, lo jubé presentava una tribuna praticabile, che si affacciava verso le navate, dove i chierici impartivano la benedizione ai fedeli che assistevano alla liturgia senza vedere quello che accadeva all’interno del presbiterio, ascoltando soltanto i canti e le preghiere in latino. A Reims lo jubé assumeva un valore del tutto particolare, legato al rito dell’intronazione. Il nuovo sovrano, dopo aver ricevuto l’unzione all’interno del presbiterio, saliva sullo jubé, si sedeva su un trono collocato sopra al pontile e si mostrava così, per la prima volta, al popolo di Francia. Con un gesto solenne l’arcivescovo di Reims lo abbracciava e i pari del regno gli rendevano omaggio, pronunciando la triplice acclamazione: “Vivat rex in aeternum!”. A quel punto, al suono delle trombe e delle campane, decine di passeri venivano liberati sotto le volte della chiesa, insieme a manciate di monete gettate sulla folla festante.

 

Fonte: Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali gotiche, il Mulino, Bologna 2024, pp. 94-96.

 

 

venerdì 5 luglio 2024

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 7 Luglio 2024

 



 

 

Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

 

La prima lettura ci parla del profeta Ezechiele; essendo membro di una famiglia influente, fu deportato assieme ad altri numerosi compagni di sventura a Babilonia. Qui, nella solitudine dell’esilio sulle rive del fiume Chebàr, Dio gli si manifesta e lo manda a parlare al suo popolo che, nonostante l’elezione divina, è “una genìa di ribelli”. Ezechiele è chiamato a denunciare il peccato di Israele come violazione dell’alleanza con Dio, che si radica nel “cuore indurito”. Da qui derivano la resistenza e il rifiuto della sua missione da parte dei destinatari. La difficile missione del profeta Ezechiele tra i suoi connazionali viene proposta come lo sfondo adatto per capire la disastrosa esperienza di Gesù nel proprio paese, di cui ci parla il brano evangelico. A Nazaret, dove ha passato gran parte della sua vita, Gesù al sabato predica nella sinagoga suscitando un certo stupore e incontrando allo stesso tempo un ostile rifiuto. Di fronte a questa reazione, Gesù non trova altra spiegazione se non quella che la sapienza popolare ha condensato nel proverbio: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Gesù si predispone a percorrere la sorte dei profeti, che nella tradizione biblica sono contestati e rifiutati da coloro ai quali sono inviati. L’esperienza di san Paolo non è stata molto diversa. Ce ne parla egli stesso nel brano della seconda lettura, in cui ci ricorda le difficoltà di ogni genere incontrate nella sua attività di evangelizzatore: oltraggi, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo.

 

Volendo trarre da questi passaggi un insegnamento valido per tutti noi, possiamo rivolgere la nostra attenzione in modo particolare al racconto evangelico. Uno dei motivi della freddezza dei nazzareni nei confronti di Gesù è il fatto che egli non era stato e non sembrava essere che uno di loro. I concittadini di Gesù si erano costruita un’idea del Messia che non combaciava con quella offerta dal “falegname, il figlio di Maria”. Essi non volevano mettere in discussione i loro schemi mentali. Ecco perché passano rapidamente dallo stupore, allo scandalo e poi alla incredulità. Uno dei motivi per cui la parola di Dio può essere inefficace in noi è la durezza del nostro cuore, l’attaccamento incondizionato ai propri schemi di pensiero, alla propria visione delle cose, al proprio modo di affrontare la vita. Il nostro orgoglio ci impedisce talvolta di metterci in discussione e quindi di accogliere il messaggio salvifico che ci invita a cambiare di condotta. L’antifona al Magnificat dei Secondi vespri di questa domenica riprende un versetto del vangelo di san Giovanni (1,11) che parla del prezioso dono che viene offerto a coloro che accolgono il Signore: “Gesù venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. 

         

Dio vuole che la verità si imponga per sé stessa, non per i condizionamenti esterni. Egli, inoltre, si propone come un Dio imprevedibile, che si rivela mediante strumenti e nei momenti più impensati. La sua offerta di salvezza non è legata a formule fisse, e se schemi preferiti ci sono, sono quelli umanamente più fragili, perché si manifesti pienamente la sua potenza (cf. seconda lettura).

 

domenica 30 giugno 2024

LA CORPOREITÀ E LA LITURGIA

 



 

La rivalutazione della liturgia come azione rituale, in cui convergono l’azione salvifica di Dio in Cristo e la risposta accogliente dell’uomo, pone il problema dell’individuazione di un punto di incontro che sia espressivo al tempo stesso dell’agire di Dio e dell’agire dell’uomo. Questo punto di incontro è la corporeità. La liturgia non è una questione di “idee”, ma di “corpo”, o meglio, di “corporeità”, intendendo per corporeità il soggetto umano nella sua integralità. Ciò può essere pienamente comprensibile soltanto se viene superata la tendenza a considerare il corpo come oggetto-strumento di appoggio o di ostacolo allo spirito-mente, dotato da una propria vitalità indipendente dal corpo. Non si tratta del corpo oggetto, ma del corpo vivo che ha ed è storia. Ricordiamo che l’antropologia cristiana considera la persona umana nella sua unità totale e alla luce della sua origine dall’azione creatrice di Dio e della sua vocazione ultima.

 

La trascendenza tipica dell’esperienza religiosa che tiene luogo nell’ambito della celebrazione liturgica non implica la negazione del corpo: come ogni simbolo ha bisogno del significante, così la liturgia, che è simbolica, ha bisogno del corpo, perché nell’esteriorizzazione corporea l’uomo esperimenta la auto trascendenza, in cui si fa sempre più evidente che la salvezza è al di là di ciò che è da lui possedibile o producibile quando si chiude in se stesso. Possiamo ben dire che luogo originario dell’esperienza religiosa e soggetto dell’azione celebrativa è il corpo vissuto.

 

L’ambiguità corporea, lungi dall’essere fuorviante per l’azione liturgica, è in grado di caratterizzarla strutturalmente come incontro vivo tra il corpo di Cristo e il corpo dell’assemblea celebrante. Essa, infatti, ha la medesima struttura dell’azione rituale, che tende a coniugare simbolicamente, in un’unica esperienza, il visibile e l’invisibile, l’identità e la differenza, il già e non ancora.

 

La liturgia considera la persona umana nella sua realtà profonda e negli svariati collegamenti che gli sono propri. La celebrazione deve quindi raggiungere il credente non solo nella sua profondità esistenziale più intima, ma anche nella sua dimensione corporea. Anzi, si può ben dire che il corpo è il primo e più profondo strumento dell'espressione: nel gioco degli atteggiamenti del corpo, l’espressione è altrettanto forte che nella parola; questa, anzi, viene espressa come atteggiamento. La liturgia trova l'unità delle proprie azioni e dei propri simboli nel corpo che agisce e percepisce.

 

La cosiddetta svolta antropologica del nostro tempo ha avuto effetti rilevanti anche in campo liturgico per cui dalla attenzione alla liturgia in se stessa - al mistero in essa celebrato - si è passati all'uomo della liturgia. Non si tratta di contrapporre i "diritti" della liturgia a quelli dell'uomo. La sintesi è appunto l'uomo liturgico, il credente che celebra la liturgia. In questo settore, non esente da possibili deviazioni, ogni ambiguità è facilmente superata se si parte da una giusta visione della liturgia come "luogo" del dialogo salvifico, che impegna i due protagonisti e accentua, nella dimensione di "santificazione" l'azione di Dio e nel "culto" quella dell'uomo: si tratta delle due dimensioni essenziali di ogni azione liturgica (cf. SC, n.7).

 

Contemplata da una prospettiva antropologica, la liturgia cristiana è una realtà viva, comunicativa e, pertanto, in intimo rapporto con la dinamica e le esigenze della crescita spirituale del credente che ad essa partecipa. È necessario però che i fedeli siano introdotti alla comprensione e all'uso del linguaggio simbolico della liturgia affinché possano sintonizzare con il mistero in essa celebrato. L'esperienza spirituale vissuta nella celebrazione liturgica si compie attraverso i segni sensibili (cf. SC, n.7).

 

Bisogna passare dalla logica dell'utilitarismo alla logica simbolica. Nel quadro della logica simbolica, la celebrazione liturgica non è soltanto l'esteriorizzazione di una realtà interiore, ma opera efficacemente questa realtà nel momento stesso in cui la porta ad esprimersi. Il simbolismo liturgico rivelando comunica e coinvolge il credente che è chiamato a co-rispondere. La liturgia si configura come un luogo in cui la partecipazione del credente ingloba l’intera sua persona, intelligenza e corporeità, amore e sensibilità.

 

La liturgia è un poderoso fenomeno di comunicazione. Nella cultura moderna della comunicazione audiovisuale, la celebrazione liturgica potrebbe essere facilmente percepita come uno spazio aperto alla espressione esterna della interiorità dei credenti, e anche un mezzo per educare e formare alla comunicazione con Dio attraverso gesti, parole, simboli e immagini che sono chiamati a riflettere la verità di un culto in spirito e verità. La liturgia è da considerarsi infatti spazio di vera esperienza spirituale e scuola capace di formare alla gestione di questa esperienza.

 

sabato 29 giugno 2024

DOMENICA XIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 30 Giugno 2024

 


 

 

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

 

Nei racconti mitologici dell’antica Mesopotamia troviamo un personaggio, l’eroe nazionale Gilgamesh, il quale, sconvolto dall’esperienza della morte di un suo amico, va in cerca instancabile dell’immortalità. A questo scopo affronta pericoli, ostacoli, difficoltà di ogni genere. Ma tutto si rivela inutile. E alla fine Gilgamesh si sente dire da coloro che conoscono la sapienza: “Quando gli dèi hanno creato l’uomo, hanno tenuto per sé l’immortalità, e a lui hanno dato come eredità la morte”. Diverso è il messaggio della nostra fede. Il libro della Sapienza, da cui è presa la prima lettura, afferma: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli, infatti, ha creato tutte le cose perché esistano”. In questo contesto, possiamo cogliere l’insegnamento del brano evangelico odierno, che riporta due dei miracoli compiuti da Gesù: la guarigione dell’emorroissa e la risurrezione della figlia dodicenne di Giàiro, uno dei capi della sinagoga. Con questi segni Gesù ci si manifesta come Signore della vita, come colui che vuole la vita e non la morte. Ai nostri occhi, secondo la nostra esperienza, la vita si presenta come provvisoria e la morte come definitiva. Ma davanti a Gesù i rapporti si capovolgono: la morte diventa provvisoria e alla vita viene promesso un futuro. Davanti a Gesù la morte diventa sonno; perde quindi il suo carattere di annientamento per assumere quello di trasformazione. Con Cristo la morte ha cessato di essere una condanna senza appello, un evento senza speranza: la vita continua anche dopo, come dono di Dio. Nelle icone orientali della risurrezione, il Signore viene rappresentato con ai piedi le porte degli inferi spezzate mentre solleva con le mani Adamo ed Eva: solo lui può calpestare la morte con la morte.

 

Quando la Bibbia parla di vita e di morte dell’uomo, non si riferisce solo a fenomeni di natura biologica. Essa illustra un concetto anche spirituale e religioso di vita e di morte che ha una fase terrena e un’altra al di là. Il Nuovo Testamento ci insegna ad accogliere come via della vita anche quella che passa attraverso la morte e la morte di croce. Vi è sempre un di più in Dio che può creare vita perfino nella morte. Per accedere alla vita piena e definitiva il Signore chiede la fede: “Non temere, soltanto abbi fede!”, dice Gesù a Giàiro all’annuncio della morte della figlia. E all’emorroissa: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Le guarigioni e le risurrezioni operate da Gesù significano quindi che la salvezza è giunta al mondo. L’uomo muore nel momento in cui cessa di credere e di sperare.

 

Della fede parla anche san Paolo nella seconda lettura: i cristiani di Corinto che sono ricchi “in ogni cosa, nella fede, nella parola…”, sono invitati ad essere generosi e a condividere i loro beni con i cristiani bisognosi della Chiesa di Gerusalemme.

giovedì 27 giugno 2024

SANTI PIETRO E PAOLO APOSTOLI – 29 Giugno 2024

 



Messa del giorno

 

At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

 

La Chiesa celebra e onora assieme nello stesso giorno i due santi apostoli Pietro e Paolo, che “Dio ha voluto unire in gioiosa fraternità” (prefazio della messa). Si tratta di due personaggi molto diversi, ma ambedue spinti dallo stesso amore per Cristo e la sua Chiesa. Secondo sant’Agostino, il loro martirio è segno di unità della Chiesa: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli” (Discorso letto nell’Ufficio delle letture). Celebriamo il mistero della Chiesa, fondata sul sangue e sull’insegnamento degli apostoli (cf. l’orazione colletta).

 

Il brano degli Atti degli Apostoli riportato dalla prima lettura racconta che re Erode fece mettere in prigione Pietro per poi ucciderlo appena passata la Pasqua. Ma Dio lo liberò prodigiosamente in virtù della preghiera incessante della comunità di Gerusalemme. Nella seconda lettura Paolo, ormai al tramonto, fa il bilancio della sua vita e anche lui, nonostante le difficoltà trovate e le prove subite nell’adempimento della sua missione apostolica, dichiara che il Signore gli è stato vicino e, guardando al futuro, conclude: “il Signore mi libererà da ogni male…” Perciò nel salmo responsoriale proclamiamo: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”. La lettura evangelica riporta la confessione di fede che Pietro fa a nome di tutti gli apostoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e la risposta di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…” Il prefazio fa riferimento a questo passaggio quando dice che “Pietro per primo confessò la fede nel Cristo”, ma subito dopo aggiunge: “Paolo illuminò le profondità del mistero”. La fede di Pietro è illuminata dal mirabile magistero di Paolo. Pietro e Paolo sono le colonne della Tradizione cristiana. Pietro, la roccia sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa; Paolo, “il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti” (prefazio).

 

Il prefazio e le orazioni della messa delineano il significato ecclesiologico dei due apostoli. Il prefazio afferma che i santi Pietro e Paolo “in modi diversi hanno radunato l’unica famiglia di Cristo”. E l’orazione dopo la comunione contempla questa unica Chiesa alla luce delle note che hanno caratterizzato l’ideale della primitiva Chiesa gerosolimitana: perseveranza nella frazione del pane, nella dottrina degli apostoli, per formare nel vincolo della carità un cuor solo e un’anima sola. Il testo fa riferimento a At 2,42 (e paralleli), che descrive la vita della comunità primitiva come comunione fraterna o koinonia, termine greco che definisce la comunione di fede con Dio o con Cristo e l’unione profonda tra i credenti che si esprime e si attua nella fede comune, nell’esperienza eucaristica e nella partecipazione spontanea dei beni. Questa comunione dei beni esprime tuttavia una realtà più profonda: la comunione dei cuori e delle anime.

 

La festa degli apostoli Pietro e Paolo ci ricorda che la Chiesa è un mistero di comunione. Possiamo quindi affermare che la missione primaria della Chiesa è quella di essere segno di comunione nel mondo. Il cristiano deve avere un cuore grande, sgombro di pregiudizi, un cuore pulito e trasparente, pronto all’incontro e al servizio. “La Chiesa è famiglia dei figli di Dio, nella quale siamo tutti fratelli […] essa si accresce nel mistico scambio di tutto ciò che ciascuno è e compie nella Chiesa” (CEI, Comunione e Comunità, n. 19).

 

domenica 23 giugno 2024

I NOMI DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

 


 

 

La crisi del sacramento della penitenza, si riflette anche nella mancanza di accordo in teologia sul nome con cui designare il quarto sacramento, a tal punto che alcuni autori lo chiamano semplicemente in questo modo: il quarto sacramento. I nomi che ha ricevuto il nostro sacramento sono diversi e sono da considerarsi tutti complementari tra loro. Nella mentalità attuale, la parola penitenza esprime, di fatto, solo lo sforzo penoso dell’uomo che è invitato a cambiare strada, orientamento... Questo senso restrittivo attribuito alla penitenza la colloca in un contesto poco gioioso! In ogni modo, è il termine preferito dal Concilio di Trento, dai documenti del Vaticano II e dallo stesso Rito della penitenza del 1973 (= RP). La parola conversione (traduzione della metanoia neotestamentaria), in sé stessa, esprime bene la realtà fondamentale della svolta radicale che si deve operare nel peccatore che si avvicina al sacramento, ma forse non esplicita abbastanza che questa svolta si attua nel tempo. Alcuni parlano del sacramento del perdono; così, ad esempio, anche il Catechismo della Chiesa Cattolica usa quest’espressione (CCC, n. 1446). Si noti però che il perdono si trova allo sbocco di un cammino di conversione. La parola confessione, che è stata la denominazione più diffusa negli ultimi secoli ed è ancora largamente adoperata (confessarsi, confessionale, confessore), mette in primo piano solo una parte dell’azione del penitente e può favorire una visione del sacramento come semplice scarico psicologico. Oggi alcuni autori preferiscono l’espressione sacramento della riconciliazione. È una parola che non compare nei vangeli, la troviamo invece in san Paolo, il quale afferma, tra l’altro, che è stato Dio “a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,19). Quindi con questo termine si sottolinea in modo particolare l’azione di Dio in noi. Inoltre, il vocabolo viene considerato adatto ad esprimere l’effetto a cui tende il sacramento: una ripresa di rapporti (ri - conciliazione), la pace ritrovata con Dio, con gli altri, con sé stesso. Ne fa uso abbondante sia il RP che il CCC.

venerdì 21 giugno 2024

NATIVITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA – 23 Giugno 2024

 



Messa vespertina della vigilia

 

Ger 1,4-10; Sal 70; 1Pt 1,8-12; Lc 1,5-17

 

Le tre letture bibliche fanno riferimento a questo ruolo profetico del Battista. Il brano della prima lettura riporta la vocazione di Geremia, chiamato ad essere profeta quando era ancora di giovane età in un momento in cui il popolo di Dio attraversava uno dei più difficili sconvolgimenti della sua storia. Leggendo la vocazione di Geremia si comprende meglio la vocazione di Giovanni, anch’egli chiamato dal Signore “fin dal seno di sua madre” (vangelo) in un momento cruciale della storia di Israele. Geremia è chiamato “per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. Giovanni Battista, come Geremia, è inviato e consacrato da Dio per annunciare contemporaneamente il giudizio e la redenzione del popolo.

 

L’ufficio profetico non è legato alla famiglia o ad un ordine legale, come quello dei sacerdoti e dei leviti, ma è liberamente direttamente trasmesso da Dio stesso, come missione. “Attraverso i profeti, Dio forma il suo popolo nella speranza della salvezza, nell’attesa di una alleanza nuova ed eterna destinata a tutti gli uomini e che sarà inscritta nei cuori” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 64). Queste parole trovano una sua eminente espressione nella missione di Giovanni Battista: Egli “camminerà innanzi [al Signore] con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto” (vangelo). Come i profeti antichi, Giovanni traduce la legge in termini di esistenza vissuta, annunzia l’imminenza dell’ira e della salvezza e, soprattutto, discerne il Messia presente senza essere conosciuto e lo indica. Giovanni chiude l’economia dell’antica alleanza, succedendo all’ultimo dei profeti, Malachia (V secolo a. C.), di cui compie l’ultima predizione: “Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23).

 

I profeti sono amici di Dio che, animati nel profondo dallo Spirito, indicano al popolo il senso degli eventi, ammoniscono, scuotono. Più che predire il futuro, i profeti hanno il dono di capire e interpretare il presente. Non hanno paura di dire anche delle verità scomode, che contrastano con l’indirizzo delle istituzioni politiche e religiose e che possono mettere in pericolo di vita di chi le annunzia. Anche Gesù viene considerato un profeta dai suoi contemporanei (cf. Gv 6,14) ed egli stesso lo afferma di sé (cf. Lc 13,33). Anzi, Gesù non è solo un profeta, ma il profeta, l’inviato dal Padre per annunciare agli uomini la buona novella della salvezza (cf. Lc 4,24). I profeti esistono ancora, sono presenti in mezzo a noi. Il Vaticano II afferma che tutti i cristiani sono chiamati a partecipare al ruolo e alla missione profetica di Cristo. La profezia è quindi un dono e una dimensione comune dell’esistenza cristiana. Questo dono si manifesta in modo particolarmente fecondo in alcuni santi e in semplici e umili credenti che vivono il loro battesimo in profondità. La profezia non mancherà mai nella comunità ecclesiale come forma permanente di memoria che obbliga a non assumere mai nella vita alcun assoluto, ma piuttosto a relativizzare ogni cosa davanti all’unico necessario. 

 

 

 Messa del giorno

 

 Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80

 

La solennità della Natività di san Giovanni Battista è situata sei mesi prima del Natale (in omaggio al testo di Lc 1,36) e tre mesi dopo l’Annunciazione. Già nel secolo III, fondandosi sul simbolismo del Cristo-sole, nella riflessione sulla storia della salvezza fu dedicata particolare attenzione ai solstizi; così si arrivò all’opinione che il Battista fosse concepito all’equinozio di autunno e nato al solstizio di estate, poiché nel solstizio di estate la lunghezza dei giorni incomincia a diminuire, mentre riprende ad aumentare dopo quello di inverno, in cui celebriamo la nascita di Gesù. La tradizione dei Padri vede in questo una conferma alle parole del Battista: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,30). Al momento dovuto, Giovanni Battista scomparirà dalla scena per far posto a Cristo.

 

Le letture bibliche e le preghiere della liturgia odierna sottolineano il ruolo di Giovanni come “Precursore”, come colui che “prepara”, “annuncia”, “indica”, “rende testimonianza alla luce” che è Cristo Signore. Egli, come dice sant’Agostino, “sembra sia posto come un confine fra due Testamenti, l’Antico e il Nuovo” (Discorso proposto dall’Ufficio delle letture). Giovanni Battista è l’ultimo profeta di Israele e il primo del nuovo Israele.

 

La prima lettura riporta un brano del secondo canto del “Servo del Signore”, misteriosa figura messianica che viene presentata come un profeta, oggetto di una predestinazione divina; la sua missione è estesa non solo a Israele, ma anche alle nazioni per illuminarle con la luce della salvezza. Il brano di Isaia è riferito anzitutto a Cristo. Ma anche di Giovanni si può dire: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato”. Anche il Precursore è stato chiamato ad essere “testimone della luce”: “Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce” (Gv 1,8). Sulla stessa linea, nel brano evangelico, san Luca, nel narrare la nascita di Giovanni, stabilisce un certo parallelismo con quella di Cristo, ma al tempo stesso fa emergere la totale finalizzazione del Precursore al Salvatore. La frase finale: “E davvero la mano del Signore era con lui” (v. 66) e l’aggiunta del v. 80 sulla crescita mirabile del bambino evocano le stesse circostanze e realtà che si ripeteranno in modo pieno in Cristo Gesù. Giovanni ci si presenta come vera icona di Cristo.

 

La seconda lettura riporta un brano del discorso tenuto da Paolo ad Antiochia. L’Apostolo sottolinea il ruolo di Precursore del Messia che Giovanni ha saputo interpretare con fedeltà: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”. Giovanni ha avuto l’umiltà e la saggezza di sentirsi solo strumento in ordine a Cristo. Non ha preteso di attirare su di sé gli sguardi degli uomini, ma si è preoccupato unicamente di orientarli verso il Cristo. Ognuno di noi nella storia ha un suo ruolo da compiere, una sua missione da espletare. Ruolo e missione che non devono essere fraintesi o indebitamente esaltati.

 

Come ci ricorda il prefazio della messa, Giovanni non solo è stato eletto e consacrato “a preparare la via a Cristo Signore”, ma anche ha indicato al mondo “l’Agnello del nostro riscatto”. L’orazione dopo la comunione riprende lo stesso tema quando afferma che la Chiesa, “nutrita alla cena dell’Agnello”, è invitata a riconoscere “l’autore della sua rinascita, Cristo, che la parola del Precursore annunziò presente in mezzo agli uomini”.

                   

DOMENICA XII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 23 Giugno 2024

 



 

 

Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

 

 

Il tema del mare unifica il contenuto della prima lettura e quello della lettura evangelica. Con le sue tempeste improvvise e la sua forza invincibile, il mare ha sempre colpito l’immaginazione degli antichi, che lo consideravano un simbolo delle potenze demoniache, perché incontrollabile. Nella Bibbia il mare e l’oscurità sono simbolo del caos iniziale, dominato e vinto dalla potenza creatrice di Dio (cf. Gen 1). Il mare è la sede di tutte le forze ostili a Dio, destinato a scomparire per sempre quando la creazione sarà totalmente rinnovata (cf. Ap 21,1). La vittoria sulle malefiche potenze del mare non è in potere dell’uomo; è solo di Dio, l’unico che riduce la tempesta al silenzio (cf. salmo responsoriale). Su questo scenario, il gesto di Gesù che calma la tempesta sul lago e salva i discepoli dal naufragio acquista tutto il suo significato. Notiamo che si tratta di un miracolo che Gesù non compie per la folla, che è assente; protagonisti del racconto sono Gesù e i discepoli. Si tratta quindi di un evento del quale i discepoli sono chiamati a cogliere il segreto. Quale segreto?

 

Possiamo affermare che il racconto di san Marco ha una doppia finalità: farci conoscere meglio la persona di Gesù e illustrare poi quale dev’essere il nostro rapporto con lui. Infatti, il passo evangelico descrive uno degli eventi più dimostrativi della vera identità di Cristo. È l’unico testo in cui si parla del sonno di Gesù, il quale essendo soggetto a questo bisogno umano appare come vero uomo. Al tempo stesso però Gesù agisce da assoluto e incontrastato padrone delle forze della natura e, in questo modo, si manifesta ai discepoli come vero Dio.

 

Quale dev’essere il nostro rapporto con Gesù, il Cristo, uomo e Dio? San Marco nei versetti anteriori dello stesso capitolo ha raccontato la parabola del seme gettato in terra. Ecco, quindi, che dopo la lezione del seme che germoglia e cresce, indipendentemente dal seminatore, che egli “dorma o vegli, di notte o di giorno”, Gesù si poteva attendere dai suoi discepoli un atteggiamento fiducioso, un atto di fede in colui che aveva preso l’iniziativa della traversata, anche se ora era sprofondato nel sonno. Gesù deve costatare invece che i suoi discepoli non hanno ancora una fede compiuta. D’altra parte, il sonno di Gesù, lo sgomento dei discepoli e la loro mancanza di fede fanno pensare agli avvenimenti raccontati alla fine del Vangelo secondo Marco (Mc 16,10-14). Coloro che erano stati con Gesù hanno rischiato di sprofondare, travolti dal dubbio, al momento della sepoltura del loro Maestro. Non hanno creduto coloro che annunciavano il suo risveglio da morte. Manifestandoci agli Undici, gli ha rimproverati, come in questo caso, per la loro incredulità e la loro inquietudine. La fede ci insegna a non esaltarci nel successo e a non abbatterci nelle tempeste, ma a riconoscere sempre in ogni evento che il Signore è presente e ci accompagna nel cammino della storia. Il Signore non priva mai della sua guida coloro che ha stabilito sulla roccia del suo amore.

 

 

 


domenica 16 giugno 2024

L’ARCHITETTURA GOTICA

 



 

Cosa c’entrano i Goti con l’architettura gotica? Semplicemente nulla. Il termine “gotico” nasce in senso dispregiativo per indicare un’architettura decadente e senza gusto, creata dopo la caduta dell’Impero romano a opera dei barbari. Questa idea, priva di qualsiasi fondamente storico, si affermò nell’Italia del Rinascimento. Gli umanisti del Quattrocento imputavano ai barbari la grande colpa della distruzione della civiltà romana e la causa della successiva decadenza che aveva colpito la cultura e le arti. Il primo sacco di Roma era stato provocato nel 410 da Alarico, re dei Visigoti, e quindi i Goti erano i responsabili della devastazione dell’Impero. I Goti erano un popolo di stirpe germanica e l’Europa romana venne occupata nel corso del V secolo da un’ondata di tribù germaniche, segnando l’epoca delle invasioni. Con maggiore equilibrio la storiografia moderna interpreta questo grande fenomeno come Völkerwanderungen, una grande migrazione di popoli che ha determinato l’inizio della civiltà medievale europea.

In realtà le popolazioni germaniche non avevano nulla a che fare con l’architettura gotica, ma per gli uomini del Rinascimento si era ormai affermata una chiara equivalenza. Goti = barbari più feroci = architettura barbarica. L’aggettivo “gotico” assume così nell’italiano del tardo medioevo il significato di “volgare, rustico”, e in questo senso lo usa Leon Battista Alberti in riferimento alla pittura. In modo simile il grande umanista Lorenzo Valla definisce gotiche le scritture dei codici altomedievali che hanno perduto l’elegante modello delle lettere antiche.

 

Fonte: Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali gotiche, il Mulino, Bologna 2024, pp. 22-23.

 

 

venerdì 14 giugno 2024

DOMENICA XI DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 16 Giugno 2024

 



 

 

Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34

 

La parola di Dio di questa domenica parla di piccolezza, povertà, umiltà e ci invita ad un rapporto di totale e fiduciosa dipendenza da Dio nell’essere e nell’operare. Dio si rivela come colui che dà un futuro all’uomo, in particolare a chi, perché debole e piccolo, è senza speranza. Così vediamo che nella prima lettura il profeta Ezechiele descrive l’azione di Dio adoperando l’allegoria del ramoscello del cedro che egli pianta sui monti di Israele. La piccola pianta - dice il profeta in nome di Dio - “metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”. La robustezza, la fecondità e la longevità dei cedri e delle palme, le piante più rigogliose della Palestina, sono un simbolo espressivo della potenza e ricchezza della vita interiore e soprannaturale degli uomini e donne giusti.

 

Le parole del profeta sono lo sfondo adeguato alla comprensione delle due parabole del vangelo d’oggi che fanno leva sull’immagine del seme che cresce. Gesù parla del regno di Dio, che è come la semente che cresce da se o come “un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto…” Il regno di Dio cresce in noi con il seme della Parola di Dio (cf. salmo responsoriale). La fede del credente nella parola di Dio ha una sua manifestazione nella fiducia che san Paolo conserva anche davanti alla prospettiva della sua morte (cf. seconda lettura). Alla luce della fede, nemmeno la morte è vista come un fallimento, anzi essa può venir trasformata nel compimento pieno dell’obbedienza a Dio.

 

Da queste riflessioni possiamo ricavare alcune lezioni pratiche. Dio dona un futuro specie al povero e al debole, a chi conta su di lui, al chicco di frumento e di senape; stronca invece il superbo, il prepotente, l’autosufficiente, chi attende tutto e solo da se stesso. Tutto ciò quindi che è fondato unicamente su fattori imposti dall’esterno, su valori non assimilati interiormente, prima o poi è destinato al fallimento. Bisogna rispettare la legge della crescita con i suoi passaggi e le sue fatiche.

 

domenica 9 giugno 2024

LE CATTEDRALI GOTICHE

 



 

Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali gotiche, il Mulino, Bologna 2024. 276 pp. (€ 16,00).

Comprendere la storia culturale del gotico significa comprendere un fenomeno che ha segnato in profondità l’identità europea. Le cattedrali ne sono l’incarnazione più parlante (Quarta di copertina).

1. Il gotico: uno stile per l’Europa.

2. La fase formativa: da Saint-Denis a Notre-Dame.

3. Il gotico come sistema: Chartres e la sua famiglia monumentale.

4. In Inghilterra da Canterbury a Lincoln.

5. Alla corte di san Luigi.

6. Sulle sponde del Reno: Colonia e Strasburgo.

7. I regni della penisola iberica.

8. Le cattedrali del Trecento in Inghilterra e in Francia.

9. Praga imperiale.

10. Il duomo di Milano.

 

venerdì 7 giugno 2024

DOMENICA X DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 9 Giugno 2024

 



Gen 3,9-15; Sal 129; 2 Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35

 

 

Al centro delle tre letture bibliche che abbiamo ascoltato troviamo il tema della lotta contro il male morale, ciò che noi chiamiamo “peccato”, una parola che proviene dal verbo latino “peccare”, che in origine significava “inciampare”. È un’esperienza quotidiana che noi non di rado siamo inclini ad inciampare, a peccare. La nostra vita è caratterizzata spesso da cedimenti e sbagli più o meno gravi, più o meno importanti.

 

Questa amara esperienza del peccato la troviamo già nell’origine dell’umanità. La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, intende dare una risposta alla domanda: da dove viene il male morale? La Bibbia risponde a questa domanda con il linguaggio simbolico degli antichi racconti eziologici, cioè quei racconti che intendono spiegare la causa di un fenomeno. Si afferma che la fonte del male morale è l’uomo stesso che “liberamente”, si lascia condizionare dalla tentazione ed opera scelte contrastanti con Colui che dovrebbe essere il valore fondamentale della sua vita. Il racconto biblico di Adamo ed Eva che mangiano il frutto dell’albero proibito, illustra le quattro rotture provocate dal peccato: con Dio, di cui si fugge per paura; con gli uomini, con i quali si rompe la solidarietà; con se stessi, con relativa interiore insicurezza e debolezza; con la natura, che invece di condurre a Dio ne diventa un ostacolo. Il racconto della Genesi si chiude con la maledizione del serpente, il tentatore, e con misteriose parole di speranza per l’umanità: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Profezia di una lotta dura e aspra, ma con un finale vittorioso. In altre parole, l’essere umano, cioè il figlio della donna, avrà la meglio sul serpente tentatore.

 

Questa profezia della Genesi si avvera in Cristo, presentato da san Marco nel brano evangelico d’oggi come “l’uomo forte” che è in grado di difendersi da ogni assalto del male, da “satana”. Giovanni Battista aveva già parlato di Gesù come “uno più forte” che veniva dopo di lui e che battezzava con lo Spirito Santo (cf. Mc 1,7-8). Gesù vince il male perché cede solo alle richieste di Dio e alle urgenze dell’uomo, non ai vari “idoli” del suo tempo. Con lui e in lui è veramente giunto il regno di Dio ed è iniziato il crollo del regno di Satana. Gesù è venuto per trasferirci dal regno delle tenebre, in cui domina Satana e la sua logica di menzogna, al regno del Figlio diletto, quello dove Gesù regna e il vangelo diventa norma dei nostri comportamenti. In questo modo, viene anticipata quella vittoria finale del bene e dell’uomo rappresentata dalla risurrezione, di cui parla san Paolo nella seconda lettura: “colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui”. Siamo deboli, “tutti siamo peccatori” come dice spesso papa Francesco, ma come abbiamo ripetuto dopo la prima lettura: “Il Signore è bontà e misericordia”.

 

 

domenica 2 giugno 2024

MARIA DONNA DEL “CUORE SAPIENTE”

 



 

Maria donna del “cuore sapiente” è l’icona della dimensione contemplativa del culto cristiano. La contemplazione è l’esperienza gioiosa della presenza di Dio e la consapevolezza della sua vicinanza, che si può descrivere con le parole dell’ultimo versetto del Sal 73 [72]: “Il mio bene è stare vicino a Dio...” (v.28). Così si spiega anche san Pietro nella sommità del monte quando contempla il Cristo trasfigurato: “Signore, è bello per noi restare qui...” (Mt 17,4). Questa esperienza è il frutto della conoscenza, della visione e, soprattutto, dell’ascolto. Così si esprime la tradizione monastica, che è quella che meglio ha conservato la terminologia biblica della contemplazione. È noto, infatti, che la Bibbia non usa mai i termini contemplazione, contemplare, ma preferisce i verbi conoscere, vedere e, in modo particolare, ascoltare. Il testo più bello della Regola di san Benedetto al riguardo è forse quella affermazione che troviamo nel Prologo, quando si dice: “Con gli occhi aperti e gli orecchi tesi ascoltiamo ciò che la voce divina ogni giorno ci raccomanda”. La contemplazione cristiana attinge quindi dall’ascolto della Parola il suo nutrimento. Il Vaticano II parla della contemplazione come di “adesione a Dio con la mente e con il cuore” (Perfectae Caritatis, n.5). La contemplazione non è una mistica estatica, evanescente, ma la capacità concreta di cogliere nella realtà dell’amore, del bene, della natura la risposta a Dio che ci ama. In questo contesto, ciò che si avvicina di più all’attività contemplativa è l’atteggiamento dei saggi dell’Antico Testamento, di cui Maria è l’espressione creaturale più perfetta.




L’icona che presiede l’abside di Santa Sofia di Kiev, chiamato del “Muro indistruttibile”, rappresenta la Sapienza, identificata al tempo stesso con Maria e con la Chiesa, nell’atteggiamento dell’orante per eccellenza. Questo mosaico del secolo XI può essere considerato come uno sviluppo dell’orante delle Catacombe, al tempo stesso Vergine e Chiesa; una Chiesa che, sull’esempio di Maria donna del cuore sapiente, è attenta all’ascolto della Parola e adora il Padre “in spirito e verità”. Maria è al centro della Chiesa per la sua fede, obbedienza e assimilazione quotidiana (nel “cuore”) della divina Parola. Da questa prospettiva, Maria appare modello della Chiesa che, proprio nella liturgia, celebra il compiersi in lei della Parola di Dio, e loda il suo Signore per tutto quello che ha udito, visto e che sperimenta ogni giorno nella sua vita.  In Maria del cuore sapiente, come nella liturgia della Chiesa, l’artefice supremo è lo Spirito Santo.


M. Augé