Vacanze, dal verbo latino “vacare”, che significa avere tempo
libero per…, e quindi dedicarsi a…
“Vacare Deo” significa avere del tempo libero per Dio, consacrare del tempo a Dio.
Ci rivediamo a settembre.
La liturgia è “l’esercizio della funzione (munus) sacerdotale di Cristo” (SC 7); è anche opera della Chiesa, in cui “ciascuno, svolge il proprio ufficio (munus)” (SC 28). I pastori “esercitano in essa la funzione (munus) di dispensatori dei misteri di Dio” (SC 19). Partecipando alla liturgia il Signore “fa di noi stessi un’offerta (munus) eterna a lui” (SC 12). “Munus” può esprimere bene il mistero liturgico nella sua globalità.
Vacanze, dal verbo latino “vacare”, che significa avere tempo
libero per…, e quindi dedicarsi a…
“Vacare Deo” significa avere del tempo libero per Dio, consacrare del tempo a Dio.
Ci rivediamo a settembre.
Qo 1,2; 2,21-23; Sal 89; Col
3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Il
riconoscimento della fragilità e della caducità della nostra esistenza di
fronte all’infinita grandezza di Dio e alla sua pienezza di vita, è la
condizione prima per stabilire la verità nei nostri rapporti con Dio, sia nella
preghiera che nella vita.
Il
breve brano della prima lettura ci offre una visione profondamente disincantata
della vita che ci lascia un po’ perplessi. Qoèlet, che di per sé vuol dire
“Predicatore”, pseudonimo sotto cui si cela l’autore di questo libro
dell’Antico Testamento, descrive un mondo che è vanità: “vanità delle vanità,
tutto è vanità”. Si tratta di un pessimista che vede attorno a se soltanto il
vuoto, il nulla, l’assurdità del vivere e dell’affannarsi quotidiano. Le cose,
la vita, il mondo, tutto ciò che l’uomo ha costruito, è destinato a passare ad
altri o a scomparire. Il Qoèlet guarda con disincanto, cinismo e profondo
pessimismo al fondo delle esperienze umane. Su questo filone sapienziale si
innesta il brano del vangelo, dove Gesù insegna a valutare e usare i beni
terreni nell’orizzonte della fede in Dio creatore e Signore della vita. La sua
istruzione prende lo spunto dall’intervento di uno della folla che gli dice:
“Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Nella sua risposta,
Gesù non si perde nella “casistica”, ma rimane al suo livello altissimo di
Maestro, che sa scoprire e indicare le ragioni ultime che determinano le
divisioni e i contrasti fra gli uomini e che si riassumono praticamente
nell’egoismo e nella cupidigia. Egli affida la sua risposta alla parabola del
ricco insensato: un uomo abile nel coltivo dei suoi campi, ha raggiunto un buon
raccolto e sogna per sé un futuro roseo. Ma Dio interviene e lo chiama “stolto”
e aggiunge: “questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”. E conclude il
brano: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”.
Gesù non condanna il successo economico, ma ciò che a questo successo è stato
sacrificato; il ricco della parabola ha reso gonfio il suo portafoglio, ma ha
reso arido il suo cuore.
La
parola di Dio che ci viene rivolta oggi è un invito a riflettere sulla scala
dei valori che devono governare la nostra vita. Anche san Paolo nel brano della
seconda lettura si muove nella stessa linea quando invita a guardare in alto,
“dove è Cristo seduto alla destra di Dio”. Le cose terrene non sono il nostro
orizzonte ultimo. Prendere coscienza della relatività del presente e delle
cose, la loro fondamentale fragilità, la loro inadeguatezza, può avere una
grande importanza ai fini di una retta impostazione della vita orientandola
verso i beni definitivi. Non di soldi, ma di ben altre ricchezze ha bisogno il
nostro cuore.
Possiamo
concludere queste riflessioni dando uno sguardo all’affresco di Raffaello,
chiamato “La scuola di Atene”, in cui sono raffigurati Aristotele e Platone. Il
primo ha una mano protesa sulla terra, ma accanto Platone ha l’indice puntato
verso il cielo. In questo quadro Raffaello ha saputo esprimere in modo geniale
la duplice tendenza e vocazione dell’uomo, di conquistare la terra e di mirare
al di là di essa, di esplorare la natura e di guardare oltre l’orizzonte del
sensibile, che oggi si chiamerebbe lavorare e contemplare, impegnarsi nel
quotidiano con lo sguardo fisso dove sono i valori trascendenti. L’eucaristia è
al tempo stesso presenza e caparra di questi valori trascendenti e definitivi.
“Sei un mito”, “È un mistero”,
“Non fare l’eroe”. Sono frasi che fanno parte del nostro
linguaggio quotidiano. Ma come venivano usate le parole mito, eroe e mistero in
origine? E attraverso quali passaggi si sono trasformate per arrivare al
significato che hanno oggi? Il linguaggio religioso dei greci ha subito
bizzarre trasformazioni nella modernità, spesso laicizzandosi, e perdendo ogni
rapporto con la dimensione del sacro. Si pensi al caso della parola “orgia”,
anticamente legata al mondo dei riti religiosi, ma poi risemantizzata in un
senso profano e, addirittura, osceno. È successo però anche il contrario.
Parole che all’inizio non avevano nulla a che fare con il culto divino sono
diventate pilastri linguistici della nuova religione di Gesù. Cristo, Vangelo,
Chiesa, cattolico, angelo, diocesi, vescovo: tutti termini il cui uso nel mondo
pagano rinviava spesso a significati e contesti d’altro genere. Mentre toccherà
a una parola inventata da Platone, “teologia”, designare quella scienza suprema
del divino che i grandi maestri come Pietro Abelardo o Tommaso d’Aquino
insegnavano nelle università medievali.
Fonte: Giorgio Ieranò, Le
parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda, Marsilio, Venezia
2022, p. 61.
Gen 18,20-21.23-32; Sal
137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13
Il
ritornello del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi ha
risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e
terza lettura di questa domenica.
La
prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si
rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e
Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo, però, questi giusti
non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione
di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso
tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione
“salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si
trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli
disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre
nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di
fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.
Notiamo
anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello
stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia
intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo
di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo
rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare:
Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi
discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda
lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la
morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il
“debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali.
Un’antica tradizione raccomanda di recitare il Padre nostro “tre volte al
giorno” (Didaché 8,3), mattino, mezzogiorno
e sera, come preghiera fondamentale che conserva in noi l’atteggiamento filiale
verso Dio. Sintesi di tutto il vangelo, come afferma Tertulliano, il Padre nostro
più che una formula da recitare, esprime un atteggiamento da interiorizzare.
La
preghiera si può compiere più facilmente durante il tempo libero delle vacanze.
Non è però una semplice attività da eseguire accanto ad altre. Nella preghiera diventiamo
noi stessi nel modo più autentico, ci ritroviamo senza maschera, esprimiamo il nostro
nucleo più intimo. Dopo la rivelazione del mistero della preghiera filiale di
Cristo, per noi cristiani questo nucleo più intimo è il nostro essere “figli”,
con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia in
Dio, nostro Padre. Pregare non significa cercare di imporre a Dio la nostra
volontà, ma chiedergli di renderci disponibili alla sua, al suo progetto di
salvezza (“venga il tuo regno”). Troppo spesso le nostre preghiere guardano
invece l’immediato, senza incrociare lo sguardo di Colui che sa in cosa
consista la nostra felicità.
Una visione
antropocentrica, frequente oggi, rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la
preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento
del proprio equilibrio psicologico. La preghiera invece è anzitutto ascolto,
non solo della natura, della storia, di se stessi, ma ascolto soprattutto della
Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf.
Gv 1,1), per l’uomo “in principio è l’ascolto”.
Loris Della Pietra – Gianni Cavagnoli, “Rendiamo grazie al
Signore nostro Dio”. La preghiera eucaristica, modello della preghiera
cristiana (Preghiera e Liturgia 22), Centro eucaristico, Ponteranica 2022.
123 pp. (€ 13,00).
Gli autori di questo volumetto, due noti liturgisti,
affermano che è alla scuola della preghiera liturgica, quella della Chiesa, che
si apprende a pregare. In particolare, è la Preghiera eucaristica, momento
centrale e culminante dell’intera celebrazione della Messa, il modello che
viene proposto.
Con chiarezza e precisione di concetti, gli autori conducono
il lettore alla conoscenza di questa straordinaria preghiera: Autentica scuola di
preghiera cristiana; Rendere grazie; L’acclamazione alla santità divina;
L’epiclesi; Il racconto dell’istituzione eucaristica; La “memoria” del mistero
pasquale di Cristo; L’offerta del sacrificio eucaristico; Le intercessioni in
comunione con tutta la Chiesa; La dossologia.
Gen 18,1-10a; Sal 14; Col
1,24-28; Lc 10,38-42
Gli
antichi rabbini consideravano questo salmo una specie di compendio della legge
data da Dio ad Israele. Soltanto un cuore semplice, sincero, amante della
giustizia, libero da ogni cattiveria riesce a percepire la presenza di Dio nelle
vicende di ogni giorno. Soltanto un cuore trasparente, umile e mite, capace di
ascoltare la parola del Signore si rende degno di abitare in eterno nella casa
del Signore. Le tre letture odierne ci invitano a passare dall’ospitalità che
il Signore concede a noi, all’ospitalità che noi siamo chiamati ad offrire a
Dio.
Il
racconto proposto dal vangelo d’oggi è assai noto a tutti. Ci si potrebbe
soffermare subito su Marta e Maria, spesso viste arbitrariamente come simboli
contrapposti di una vita data all’attività, al servizio, alle opere, come
quella di Marta, e di una vita data invece alla preghiera, alla contemplazione,
come quella di Maria. E’ però più opportuno dare uno sguardo anche alle altre
letture bibliche, in particolare alla prima. Vediamo infatti che sia la prima
lettura che il racconto evangelico parlano dell’ospitalità: quella offerta da
Abramo a tre personaggi misteriosi arrivati a casa sua, e quella offerta dalle
sorelle Marta e Maria a Gesù. Possiamo quindi affermare che il tema centrale di
questa domenica è l’ospitalità: sia Abramo che le sorelle di Lazzaro vengono
presentati come modelli di accoglienza dell’ospite. Nei due episodi
quest’ospite è Dio stesso. Possiamo perciò circoscrivere l’argomento e dire che
si tratta di dare ospitalità a Dio. Non di rado la nostra vita appare
frammentata, vuota, in balia degli eventi. Dio può dare senso e armonia alla
nostra esistenza. E’ necessario però mettersi in atteggiamento di ascolto della
sua parola, come Maria.
Le
due sorelle rappresentano due modi diversi, non in contrasto ma complementari,
di accogliere il Signore. Non si tratta di proclamare la superiorità della
contemplazione sull’azione ma di richiamare sia Marta che Maria all’esigenza
dell’ascolto della parola di Dio che deve precedere, alimentare e sostenere
ogni scelta religiosa e umana del discepolo di Gesù. Perciò Maria è raffigurata
nell’atteggiamento del discepolo davanti al maestro, “ai piedi del Signore”
mentre ascolta la sua parola. Abbiamo bisogno di nutrire in noi un atteggiamento
di ascolto della parola di Dio, sia che la nostra vita sia come quella di
Marta, indaffarata in un lavoro che assorbe, o come quella di Maria, soli
nell’interno di una casa quotidiana e solitaria. Nella seconda lettura, Paolo,
che ha ricevuto da Dio la missione di “portare a compimento la sua parola”, ci
ricorda che l’ascolto di cui parliamo porta all’impegno nel quotidiano. Anche
il canto al vangelo parla di “coloro che custodiscono la parola di Dio” e “producono
frutto con perseveranza” (cf. Lc 8,15). E nella colletta alternativa chiediamo
che “nulla anteponiamo all’ascolto della parola di Dio”. Non ha senso la contrapposizione
tra ascoltare e darsi da fare, tra contemplare e agire. Si tratta di due momenti
che si compenetrano a vicenda. L’ascolto della Parola offre le motivazioni
profonde che danno senso al servizio. Ecco, quindi, che ci viene offerta una
linea per dare unità alla vita: l’ascolto. Tutti abbiamo bisogno di ascoltare
la parola del Signore, che è capace di avvolgere di luce nuova il nostro lavoro,
il nostro riposo, le nostre preoccupazioni, le nostre lotte quotidiane.
La religiosità non è solo un sentimento, o una guida morale,
o un vademecum sociale. È anche un modo razionale e irrazionale insieme, di
fare i conti con la dimensione del tragico nella storia e di scendere a patti
con il mistero. Con Nietzsche ci eravamo convinti che “non esistono fatti, solo
interpretazioni”. Poi qualcosa ci cambia per sempre la vita, come la Grande
Epidemia, con migliaia di vittime, la paura lo spaesamento, la disruption che provoca,
e ci accorgiamo che i fatti esistono, altroché.
Comprendiamo allora che la religione non può essere ridotta a
un dispensatore di generi di conforto. Né possiamo richiuderla in un rapporto
privato a due, tra fedele e Dio, perché ci serve invece che continui a
rappresentare, come è stato per secoli, un fattore di civilizzazione.
[…]
La religione non serve solo a pregare in privato, è un legame
di comunità, e la fede ha rilevanza nel dibattito pubblico. La Chiesa si chiama
così perché viene da ecclesia, che in greco designava l’assemblea, la
riunione, l’adunanza, esattamente come la riunione dei cittadini nell’agorà
nella democrazia ateniese.
La religione è dunque un fatto sociale, prima ancora che
personale. Secondo il fondatore della sociologia, Émile Durkheim, la sua
originaria ragione d’essere sarebbe proprio quella di tenere insieme la
comunità di uomini. Ce ne accorgiamo quando non c’è, o quando si rinchiude o si
estremizza, e non esercita più con efficacia il suo magistero.
Fonte: Antonio Polito, Le regole del cammino. In viaggio
verso il tempo che ci attende (Universale Economica Feltrinelli), Marsilio,
Venezia 2022, pp. 101-102.
Dt 30,10-14; Sal 18; Col
1,15-20; Lc 10,25-37
Il tema del
comandamento dell’amore vicendevole, di cui parla il brano evangelico, ci viene
proposto più volte lungo l’anno liturgico. Si tratta della legge fondamentale
del credente, quella legge di cui Mosè tesse le lodi nella la prima lettura.
Alla domanda del dottore della legge su che cosa debba egli fare per ereditare
la vita eterna, Gesù non risponde ma rimanda l’interlocutore a ciò che sta
scritto nella Legge di Mosè e che lo stesso dottore della legge riassume bene
così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come
te stesso”. Partendo dall’amore di sé e da quello di Dio, diventa autentico
l’amore per l’altro. Diversamente, c’è il pericolo di amare il prossimo,
presentandogli il conto. La novità però dell’insegnamento di Gesù sta nella
risposta alla seconda domanda formulata dallo scriba: “chi è il mio prossimo?”,
questione dibattuta dal rabbinismo. A questa domanda Gesù risponde con la
splendida parabola del Samaritano. Con questa parabola Gesù invita a superare
ogni diatriba teorica ed evasiva sul contenuto reale da dare al termine
“prossimo”: ogni uomo che si trova in bisogno sia esso amico o nemico, è
“prossimo” a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto
con lui.
Cosa fa il
Samaritano? Prima di tutto si ferma perché
si muove a compassione, che qui è vero amore. Per chi ha sempre troppo da fare,
preso dai propri interessi, fermarsi per interessi altrui significa accorgersi
che esiste un altro, che soffre e che è nel bisogno. In secondo luogo, si fa vicino all’uomo sofferente, non solo fisicamente ma anche con una
vicinanza affettiva: se i cuori sono distanti, la vicinanza fisica non serve.
In terzo luogo, si prodiga nei primi aiuti, cioè si rimbocca le maniche e
offre un aiuto concreto. Finalmente, il buon Samaritano si assicura che il suo assistito possa ricuperarsi pienamente dalla
disavventura. Non si accontenta di fare una buona azione, ma si preoccupa
dell’individuo incontrato per caso affinché questi possa ritornare alla vita
normale.
Nella seconda
lettura si parla di Cristo “immagine del Dio invisibile”, espressione perfetta
del volto del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Nel malcapitato i
Padri vedono l’umanità peccatrice e nel buon Samaritano vedono il Cristo, che
su tale umanità si china per prendersene cura. In Cristo Dio si è fatto
“vicino” (cf Rm 10,5-10) e in lui e con lui è possibile amare il prossimo.
Nell’eucaristia “l’agape di Dio viene
a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi.
Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente
l’insegnamento di Gesù sull’amore” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).