Translate

venerdì 28 febbraio 2020

DOMENICA I DI QUARESIMA ( A ) – 1 Marzo 2020




Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 50 (51); Rm 5,12-19; Mt 4,1-11


Nella prima domenica di Quaresima, recitiamo il Sal 50, salmo penitenziale per eccellenza, che abbiamo trovato già nel Mercoledì delle ceneri e ritroveremo ancora in seguito. Si tratta di una delle più belle suppliche del salterio per la spontaneità e la profondità dei sentimenti che in esso sono espressi. All’inizio del cammino quaresimale, questo salmo diventa il segno della nostra sincera volontà di conversione. Se il senso della colpa che il testo esprime è vivissimo, più intensa è, però, l’esperienza del perdono, della novità dello spirito, della gioia di sentirsi salvato dal Dio misericordioso. Perciò si potrebbe ben dire che più che un canto penitenziale, il Sal 50 è la celebrazione della risurrezione alla vita nello spirito della parabola del figlio prodigo che ritorna alla casa del padre.

La prima lettura racconta il peccato di Adamo ed Eva, i quali disobbediscono al progetto che Dio ha su di loro. Il brano del vangelo, invece, ci propone l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto secondo la versione di san Matteo. Dalle tentazioni Gesù esce vittorioso accettando fino in fondo la volontà del Padre. Ecco quindi che alla disobbedienza di Adamo si contrappone l’obbedienza di Cristo, due personaggi che fanno scelte opposte; scelte nelle quali noi tutti siamo coinvolti. Ce lo fa capire san Paolo nella seconda lettura, quando stabilisce un confronto fra Adamo, responsabile della prima caduta umana che ha scatenato nel mondo la forza ostile del peccato, e Gesù Cristo, grazie al quale “si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita”. Gesù ha il potere di salvare l’uomo, perché ha, nella sua umanità, la capacità di ricollegare validamente l’uomo con Dio.

Come in Adamo e come in Gesù, la tentazione ci pone di fronte alla continua necessità di decidere e di scegliere. Le tre tentazioni subite da Gesù nel deserto possono essere considerate paradigmatiche di quelle a cui noi tutti siamo continuamente esposti. Gesù è tentato dal potere, dal successo e dal desiderio di usare per il proprio vantaggio le doti che ha ricevuto per il servizio degli altri e, in questo modo, sganciarsi dalla propria missione. Egli vince le tentazioni contrapponendo al tentatore la parola di Dio, e cioè il progetto che il Padre ha su di lui: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (canto al vangelo - Mt 4,4). Adamo ha voluto gestire in proprio, in assoluta autonomia il suo destino, e ha incontrato la morte. Cristo invece ha riconosciuto la propria dipendenza da Dio, e ha incontrato la vita: Egli non ha avuto paura di sottomettere la sua libertà al volere di Dio, perché ha capito che la sottomissione a Dio libera l’uomo della sottomissione agli idoli.

“La Scrittura e la Tradizione della Chiesa richiamano continuamente la presenza e l’universalità del peccato nella storia dell’uomo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 401). Infatti in ciascuno di noi c’è l’eredità del fallimento di Adamo ed Eva, ma c’è anche il dono della giustificazione operata da Cristo, di cui il battesimo è segno efficace. Convertirsi vuol dire prendere coscienza del progetto di Dio su di noi e fare le scelte secondo questo progetto, fidarsi più di Dio che delle lusinghe del tentatore. In altre parole, convertirsi significa entrare nella corrente salvifica che ci trasforma da Adamo – uomo peccatore in Adamo uomo – fedele. La Quaresima, “segno sacramentale della nostra conversione” (colletta) è il tempo favorevole per tale progetto (cf. orazione sulle offerte).



martedì 25 febbraio 2020

MERCOLEDI DELLE CENERI – 26 Febbraio 2020




Gl 2,12-18; Sal 50 (51); 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18

Il salmo responsoriale riprende alcuni versetti del Sal 50, una delle più belle e profonde suppliche del salterio. Il Miserere, grande salmo penitenziale, accompagna la Chiesa nell’esercizio della penitenza quaresimale e nella preparazione alla Pasqua. Il salmista si rivolge a Dio supplicandogli che intervenga attuando una nuova creazione nel cuore del credente, purificato dal suo peccato, affinché questi possa proclamare la lode del Signore. All’inizio della Quaresima, questo salmo ci colloca nel giusto atteggiamento penitenziale per intraprendere “un cammino di conversione” (colletta della messa) che ci conduca a celebrare con “cuore puro” e “spirito saldo” la Pasqua del Signore.

Le due prime letture della messa d’oggi parlano della conversione. Le calamità che ai tempi di Gioele hanno colpito la terra di Giuda (la siccità e l’invasione delle cavallette) diventano per il profeta un segno per invitare il popolo alla conversione: “Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti” (prima lettura). San Paolo, nella seconda lettura, ci ricorda che la conversione, nella prospettiva cristiana, non è il cammino che noi dobbiamo fare per andare a Dio, ma piuttosto il cammino di riscoperta di quanto Dio in Cristo Gesù ha fatto per noi: “lasciatevi riconciliare con Dio”. Notiamo inoltre che il verbo greco (kattalàssô) usato per indicare la riconciliazione è quello usato per la riconciliazione tra due sposi dopo una infedeltà. Ritorna così un simbolismo caro ai profeti: la relazione che intercorre tra Dio e la sua creatura è analoga a quella che unisce due persone innamorate. L’Apostolo ci invita a non perdere l’occasione per riallacciare questo legame di intimità con Dio. La Quaresima è il “momento favorevole” per ritrovare o rinsaldare tale legame.

Il brano evangelico illustra il significato delle pratiche quaresimali tradizionali: l’elemosina, la preghiera e il digiuno, con un continuo richiamo a superare il formalismo. Gesù ne parla nel contesto del discorso sulla nuova giustizia, superiore all’antica; egli illustra le caratteristiche di questa nuova giustizia e le applica alle tre pratiche fondamentali della pietà giudaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non elimina queste pratiche; egli vuole solo che le compiamo con sincerità, senza ipocrisia di sorta. Siamo chiamati a vivere ogni giorno una continua lotta contro l’ipocrisia, per non falsare la nostra relazione con il Padre, che dev’essere vissuta nell’intimità del cuore.
         
La Quaresima, che iniziamo oggi, è un tempo propizio per la maturazione individuale e collettiva della fede. Fuori di una prospettiva di fede, essa corre il pericolo di svilirsi in un periodo di tempo in cui lo sforzo morale e le pratiche ascetiche rischiano di diventare fine a se stesse e pertanto possono condizionare negativamente l’approfondimento di un’autentica esperienza di vita cristiana. La Chiesa non insiste più, come ha fatto in tempi passati, nelle pratiche penitenziali in sé come gesti puntuali da compiere. Mutati i tempi, possono e debbono cambiare anche i modi concreti di esprimere l’ascesi; non può scomparire però il sincero slancio di conversione verso Dio. L’austero rito delle ceneri, che sostituisce oggi l’atto penitenziale dell’inizio della messa, è un invito a intraprendere l’itinerario spirituale della Quaresima per giungere completamente rinnovati a celebrare la Pasqua di Cristo Signore (cf. preghiera di benedizione delle ceneri). La partecipazione all’eucaristia ci è di sostegno in questo cammino (cf. orazione dopo la comunione).


domenica 23 febbraio 2020

DALLA CASULA ALLA PIANETA


  



Nel corso del tempo, la veste (la casula), che originariamente giungeva ai talloni da tutti i lati, subì delle variazioni nella lunghezza sulle braccia e sulle gambe. Divenne un indumento semi-rigido, foderato, che non copriva alcuna parte delle braccia e andava indossato allacciandolo sui fianchi.

[…]

Le norme in vigore circa l’uso delle vesti, derivanti dalle istruzioni di san Carlo Borromeo e chiarite nel Thesaurus sacrorum rituum di Bartolomeo Gavanto, non furono del tutto recepite e attuate. Le premure e le norme del Borromeo non valsero allo scopo. Rimasero inefficaci anche gli interventi di Benedetto XIV, pontefice nella prima metà del XVIII secolo, che scrisse un Trattato istruttivo sulla santa messa nel quale affrontò con rigore scientifico, citando gli studi a lui precedenti, l’origine dei paramenti sacri e il loro appropriato uso secondo i vari riti e il canone dei colori liturgici. Egli lamentava come la pianeta si fosse “talmente deformata che dall’originaria non conservava più che il nome”.

Di taglio in taglio, di riduzione in riduzione la casula così ieratica e maestosa, venne ridotta all’insignificante pianeta moderna a forma di chitarra o violoncello, a seconda dei Paesi.

Come si sia arrivati dalla casula ampia alla pianeta, che ancor oggi si tende a far ritornare nell’uso liturgico, è una domanda che ha una risposta non del tutto documentabile. Certamente ha molto inciso il solennizzarsi del culto, con elevazioni, incensazioni ecc., ma anche l’uso di stoffe sempre più rigide, appesantite da ricami con applicazioni, ori, sete, perle.


Fonte: Emmanuela Viviano, Vestire è servire. Casula e stola: storia e significato, Paoline, Milano 2019, pp. 32 e 34-35 (le note non sono state riportate)

venerdì 21 febbraio 2020

DOMENICA VII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 23 Febbraio 2020




Lev 19,1-2.17-18; Sal 102 (103); 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

Possiamo soffermarci sulle ultime parole del brano evangelico. Gesù afferma: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Un ideale immenso che però è già proposto nell’Antico Testamento come ci ricorda la prima lettura d’oggi presa dal libro del Levitico: “Il Signore parlò a Mosè e disse: Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”. Il fatto che Gesù esiga da noi la perfezione del Padre, significa che esiste in noi questa capacità, avendoci trasformati in veri figli di Dio. Possiamo dire che in noi c’è il DNA di Dio Padre e del suo Figlio Gesù Cristo.

Gesù esige da noi la perfezione e santità di Dio in un contesto ben preciso. Lo fa parlando della paternità e tenerezza di Dio che ama tutti i suoi figli, e fa sorgere il suo sole anche sui cattivi e fa piovere anche sugli ingiusti, beneficando con i suoi doni anche i peccatori. Orbene Dio vuole che lo imitiamo, soprattutto in questo suo amore. Perciò dobbiamo impegnarci ad astenerci dall’odio, dalla vendetta e dal rancore verso il prossimo.

Nella nostra società, attraversata tuttora dall’odio e dalla violenza, il messaggio della fraternità universale esercita sempre un certo fascino. Non di rado però in nome della decantata fraternità universale si calpestano i valori più sacrosanti della coscienza cristiana e religiosa in genere predicando e imponendo di fatto un relativismo etico, che induce a ritenere inesistente un criterio oggettivo e universale per stabilire il fondamento e la corretta gerarchia di valori. Non essendo riconosciuta a priori alcuna verità come unico criterio pratico di discernimento dei valori, ci si affida all’opinione della maggioranza per stabilire le norme della convivenza pacifica tra gli uomini. Ogni scelta che riesce ad avere il consenso dei più diventa vincolante per tutti. Non è questa la fraternità universale proposta dal Vangelo. Essa svanisce se non è fondata nella verità della nostra comune figliolanza nei riguardi di Dio Padre di tutti. Non si può costruire una società fraterna che non rispetti la coscienza religiosa di ogni singola persona e il suo diritto a manifestarla. 

“Nella libertà religiosa trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana” (Benedetto XVI).


domenica 16 febbraio 2020

RELIGIONE E VIOLENZA




Gianfranco Ravasi, La santa violenza (Intersezioni 530), il Mulino, Bologna 2019. 164 pp. (€ 14,00).


A esplorare l’intreccio incandescente fra religione e violenza ci conduce in queste pagine una guida d’eccezione. Ecco le guerre di Dio, la violenza che reca il marchio sacrale: presente in molti luoghi dell’Antico Testamento, dal conflitto fra tribù alla guerra santa, quasi scompare nei Vangeli, alla luce del dirompente messaggio di Cristo. Poi è la volta del fondamentalismo, “la lettera che uccide”, un fenomeno che oggi riguarda soprattutto l’islam, ma che si inscrive anche nella tradizione ebraico-cristiana. Infine, tocchiamo il tema, vivo e lacerante ai nostri giorni, del rapporto con lo straniero, un incontro che può generare esclusione e rigetto, come emerge in vari passi biblici nazionalistici o etnocentrici, ma che può diventare anche dialogo, aprendosi all’universalismo della salvezza e all’uguaglianza di tutti gli esseri umani.

(risvolto)

venerdì 14 febbraio 2020

DOMENICA VI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 16 Febbraio 2020




Sir 15,15-20 (nv 16-21); Sal 118 (119); 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37.


Il salmo responsoriale propone alcuni versetti delle cinque prime strofe del Sal 118, il più lungo del Salterio. Il tema fondamentale del salmo è la legge divina nel suo senso più vasto e religioso di rivelazione del volere divino nella storia sacra, con efficacia sulla vita dei singoli credenti. Possiamo considerare questo testo salmico come una specie di meditazione della legge di amore insegnata da Cristo a compimento della legge mosaica. Ognuno è libero di scegliere la strada che preferisce, ma soltanto chi cammina alla luce della legge del Signore raggiungerà il traguardo della vita. Ecco il messaggio di questa domenica, illustrato dalle letture bibliche.
         
Nel brano evangelico, Gesù afferma che non è venuto ad abolire la Legge, ma a dare pieno compimento ad essa. Tra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento c’è continuità ma c’è anche progresso, anzi tra i due Testamenti ci sono pure delle vere e proprie rotture. Infatti, Gesù dopo aver affermato che non è venuto ad abolire ma a dare compimento, continua il suo discorso dicendo “Avete inteso che fu detto agli antichi … Ma io vi dico …” Gesù non distrugge il passato, ma lo completa definitivamente nel campo della conoscenza di Dio e in quello morale. Con il suo ripetuto “ma io vi dico”, Gesù manifesta una consapevolezza che va oltre quella dei profeti dell’Antico Testamento: la sua è l’autorità del Messia, superiore a Mosè. La legge di Mosè e la legge di Cristo non sono quindi leggi in contrasto fra loro, ma bisogna pure coglierne le diversità anche profonde. Più in concreto, possiamo domandarci in che cosa consiste lo specifico della legge cristiana e come può dirsi in continuità e al tempo stesso in una certa rottura con la legge degli antichi?

Il brano del vangelo odierno ci pone di fronte ad una serie di antitesi che toccano diversi punti della Legge anticotestamentaria, scelti evidentemente tra i molti altri possibili. Non è però una scelta fatta a caso: tre riguardano il comportamento verso il prossimo e tutti e tre mettono in luce la carità. Possiamo dire che ad un’etica del “lecito” viene sostituita un’etica dell’ “amore”. In Cristo il regno di Dio si è fatto vicino, l’amore di Dio si è rivelato con una più grande chiarezza, il perdono ci è offerto con una misericordia gratuita e senza limiti, allora il nostro comportamento deve esprimersi con una generosità nuova, anzi con la generosità dell’amore. Ci viene rivelata in modo nuovo la paternità di Dio e ci viene quindi chiesta con maggiore enfasi un’etica filiale. Più che preoccuparci di determinare fino a che punto possiamo spingerci per non cadere sotto il giudizio di condanna, occorre chiederci che cosa ci faccia crescere con maggiore vigore nell’amore di Dio e del prossimo.

Come i profeti dell’Antico Testamento che l’hanno preceduto, anche Gesù si è sforzato di ricuperare il centro della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso. Nel Nuovo Testamento il comportamento morale diventa maggiormente opera dell’uomo integrale e si unifica assai più nella legge suprema dell’amore di Dio e degli uomini. Nella Nuova Alleanza l’amore diventa quindi il principio che ispira tutta la vita dei discepoli di Cristo. Come dice l’orazione colletta della messa, Dio ha promesso di essere presente in coloro che lo amano e con cuore retto e sincero custodiscono la sua parola.



mercoledì 12 febbraio 2020

L’INCULTURAZIONE DELLA LITURGIA IN AMAZZONIA




Dall’Esortazione Apostolica post-sinodale “Querida Amazonia”, firmata da  papa Francesco il 2 febbraio 2020:

81. L’inculturazione della spiritualità cristiana nelle culture dei popoli originari trova nei Sacramenti una via di particolare valore, perché in essi si incontrano il divino e il cosmico, la grazia e il creato. In Amazzonia essi non dovrebbero essere intesi come una separazione rispetto al creato. Infatti, «sono un modo privilegiato in cui la natura viene assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale».[114] Sono un compimento del creato, in cui la natura è elevata per essere luogo e strumento della grazia, per «abbracciare il mondo su un piano diverso».[115]

82. Nell’Eucaristia, Dio «al culmine del mistero dell’Incarnazione, volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia. […] [Essa] unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato».[116] Per questo motivo può essere «motivazione per le nostre preoccupazioni per l’ambiente, e ci orienta ad essere custodi di tutto il creato».[117] Quindi «non fuggiamo dal mondo né neghiamo la natura quando vogliamo incontrarci con Dio».[118] Questo ci consente di raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli. Già il Concilio Vaticano II aveva richiesto questo sforzo di inculturazione della liturgia nei popoli indigeni,[119] ma sono trascorsi più di cinquant’anni e abbiamo fatto pochi progressi in questa direzione.[120]

83. Nella domenica «la spiritualità cristiana integra il valore del riposo e della festa. L’essere umano tende a ridurre il riposo contemplativo all’ambito dello sterile e dell’inutile, dimenticando che così si toglie all’opera che si compie la cosa più importante: il suo significato. Siamo chiamati a includere nel nostro operare una dimensione ricettiva e gratuita».[121] I popoli originari conoscono questa gratuità e questo sano ozio contemplativo. Le nostre celebrazioni dovrebbero aiutarli a vivere questa esperienza nella liturgia domenicale e incontrare la luce della Parola e dell’Eucaristia che illumina le nostre vite concrete.

84. I Sacramenti mostrano e comunicano il Dio vicino che viene con misericordia a guarire e fortificare i suoi figli. Pertanto devono essere accessibili, soprattutto ai poveri, e non devono mai essere negati per motivi di denaro. Neppure è ammissibile, di fronte ai poveri e ai dimenticati dell’Amazzonia, una disciplina che escluda e allontani, perché in questo modo essi alla fine vengono scartati da una Chiesa trasformata in dogana. Piuttosto, «nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio».[122] Per la Chiesa, la misericordia può diventare una mera espressione romantica se non si manifesta concretamente nell’impegno pastorale.[123]


sabato 8 febbraio 2020

LA CASULA E LA STOLA




Emmanuela Viviano, Vestire è servire. Casula e stola: storia e significato (Spazio Liturgia 5), Paoline, Milano 2019. 174 pp. (€ 13,00).


Il volumetto di Emmanuela Viviano si inserisce in quella rivalutazione dei segni della liturgia che caratterizza in modo particolare la letteratura dell’ultimo decennio. Si è sempre più consapevoli che la qualità dei segni della celebrazione liturgica incide sulla qualità della celebrazione stessa e sulla sua capacità significativa e pedagogica. In queste pagine l’attenzione dell’Autrice è rivolta unicamente alla casula, veste propria del vescovo e del presbitero, e alla stola, adoperata dai tre gradi del sacramento dell’ordine (vescovo,  presbitero e diacono).

Il sottotitolo del volume accenna al metodo della trattazione: “storia e significato”. L’uso primitivo non distingueva i membri della gerarchia con alcuna veste o insegna, così a Roma fino ai primi decenni del V secolo. Ben presto però inizia una evoluzione che pur non introducendo forme e simbologie nuove nel vestito, giunge man mano a formare un abito usato dai ministri propriamente per il culto. Così da abito che serve a qualcosa diventerà abito che significa qualcosa.

Lasciando al lettore il compito di addentrarsi nei dettagli di questa storia, descritta con cura dall’Autrice, ricordo quanto se ne ricava sul significato della casula e della stola: “Non si tratta di vesti che conferiscono un potere nella Chiesa o nell’ambito liturgico, ma definiscono una ministerialità e, soprattutto, ricordano a coloro che le indossano che ‘vestire è servire’”.   


venerdì 7 febbraio 2020

DOMENICA V DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) - 9 Febbraio.2020




Is 58,7-10; Sal 111 (112); 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16


Il brano del vangelo d’oggi inizia con queste impegnative parole di Gesù: “Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo”. I discepoli di Gesù siamo chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo e come tali dobbiamo apparire apertamente e pubblicamente agli occhi degli uomini. Come discepoli del Signore dobbiamo vivere le beatitudini in questo mondo. Perciò siamo chiamati a testimoniare ciò in cui crediamo per il bene degli uomini di questo mondo. Essere luce, essere sale. Due immagini semplici che danno però il senso di ciò che intendono esprimere: sapore e luminosità. I discepoli di Gesù siamo uomini e donne come tutti gli altri, viviamo e operiamo in mezzo alla società. Eppure Gesù afferma che qualcosa ci deve distinguere dagli altri: dovremmo essere capaci di conferire alla vita della nostra società il vero sapore delle cose, fare gustare ai nostri simili i veri valori del Vangelo, e dovremmo essere capaci di illuminarli col buon esempio della nostra vita.

In queste due immagini evangeliche l’accento è posto sull’essere più che sul fare. Gesù ci invita ad “essere” sale, ad “essere” luce. Come dice san Tommaso d’Aquino, “l’agire è conseguenza dell’essere” (agere sequitur esse). Si può far luce o si può dare sapore solo se si è luce e sale.

Siamo quindi chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo attraverso il nostro modo di vivere. Gesù lo dice esplicitamente quando esige che gli uomini possano vedere “le nostre opere buone”. La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, specifica questa esigenza della vita cristiana attraverso l’elenco di quelle che la tradizione ha chiamato “opere di misericordia”. Attraverso queste opere di misericordia, la luce dell’amore di Dio si diffonde nel mondo. Non si è luce del mondo perché messaggeri di una dottrina sublime o propagatori di un grande movimento religioso, ma perché il vangelo delle beatitudini, incarnato nella nostra vita, diventa segno luminoso in mezzo al mondo.

I cristiani abbiamo ricevuto un compito da eseguire. Un compito a servizio del mondo. Lo possiamo riassumere dicendo che siamo chiamati a dare senso al vivere, il vero senso alle cose. La vita è fatta da piccole cose, in famiglia, nel lavoro, nel riposo, nell’amicizia. E’ in questo piccole cose che si deve trovare il senso dell’esistere. Così come non è difficile per chi è innamorato dare alle piccole cose un valore grande, così non dovrebbe essere difficile per chi è innamorato di Cristo e ha una fede viva dare ad ogni piccolo impegno della sua esistenza un riferimento essenziale a Dio. In questo modo ogni cosa acquisterebbe sapore. Cristo insapora l’esistenza umana con il suo Vangelo, e noi saremo sale della terra se la nostra vita diventerà tuta compenetrata del Vangelo di Cristo.

La preghiera che recitiamo alla fine della messa riassume bene il messaggio della parola di Dio di questa domenica, adoperando un’altra immagine cara al Vangelo: chiediamo di essere uniti a Cristo per portare “frutti di vita eterna per la salvezza del mondo” (preghiera dopo la comunione).


domenica 2 febbraio 2020

IL PANE PER L’EUCARISTIA




Il Codice di Diritto Canonico afferma: “Nella celebrazione eucaristica, secondo l’antica tradizione della Chiesa latina, il sacerdote usa pane azzimo, ovunque egli celebri” (c. 926).

Mi è stato chiesto di spiegare a quando risale questa “antica tradizione”, di cui parla il Codice. Nel corso dei sec. IX - XI, tra Latini e Greci è sorto un dibattito sull’uso del pane per l’Eucaristia: se doveva essere lievitato oppure azzimo. Nei primi otto secoli, il pane lievitato era usanza condivisa tra Oriente e Occidente, ma in ambiente gallicano si iniziò ad utilizzare il pane azzimo (le “ostie”). La prima menzione di questo uso si trova negli scritti di Alcuino di York (+ 804) e del suo discepolo Rabano Mauro (+ 856), artefici del Rinascimento Carolingio. Questa usanza andò diffondendosi lentamente in Occidente. L’accresciuta venerazione per l’Eucaristia porterà a dare la preferenza alle sottili particole bianche di pane, più facilmente spezzabili senza che briciole ne andassero perdute. E’ nota l’acredine con cui nel sec. XI Michele Cerulario, patriarca de Costantinopoli attaccò la Chiesa latina per alcune sue osservanze disciplinari proprie, fra cui quella del pane azzimo.

Questo cambiamento della qualità del pane in Occidente avrà alcune conseguenze nel rito della Messa. L’offerta del pane (pane casalingo) per l’Eucaristia fatta dai fedeli si tramuterà in offerta in denaro. Si comincia, poi, a rinunciare sempre più al rito della frazione del pane, e l’Agnus Dei, canto che accompagnava il rito della frazione, tende a diventare il canto per la Comunione o anche per il rito della pace.

Notiamo che la riforma di Paolo VI ha rivalutato sia l’offerta della materia del sacrificio da parte dei fedeli (cf. Ordinamento generale del Messale Romano, n. 74) sia la frazione del pane (cf. ivi, nn. 72, 321). Si richiede quindi che il pane eucaristico, sebbene azzimo e confezionato nella forma tradizionale, appaia come cibo e sia fatto in modo che il sacerdote possa spezzare l’ostia in più parti e distribuirle almeno ad alcuni fedeli.