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domenica 30 aprile 2023

I COMPLESSI LINGUAGGI RITUALI NON VERBALI

 



 

Si può convenire che la liturgia, come è uscita dalla riforma conciliare, è essenzialmente una performance complessa in cui prevalgono i linguaggi non verbali. È curioso che lo studio della liturgia anche in atenei famosi, privilegi i linguaggi verbali e le fonti letterarie, come se questa mediazione ecclesiale dipendesse dalla semantica. Anche sotto il profilo squisitamente comunicativo è risaputo che solo il 7% dei messaggi interpersonali dipenda dalle parole, il 38% dal tono della voce, il 55% dai linguaggi non verbali del corpo. Mentre si scrivono infiniti commenti alle letture bibliche, si dimentica che l’importante è l’intonazione della voce, la magia della foné. Un intero universo, parzialmente sconosciuto, si apre alla ricerca teologica per approfondire forse in modo più puntuale l’affermazione di SC 7: “La liturgia è azione sacra per eccellenza, e nessuna altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia”.

 

Il vero snodo riguarda lo stretto legame teandrico della liturgia per cui la sua efficacia non va posta esclusivamente sul conto di Dio, ma anche sulla speciale azione antropologica del rito. Su questo fronte la ricerca è appena avviata per un ripensamento di tutta la sacramentaria.

 

Fonte: Roberto Tagliaferri, I complessi linguaggi rituali non verbali, in D. Messina – V. Trapani (ed.), “Per ritus. I linguaggi rituali alla prova della complessità”, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2022, pp. 117-118.

 

venerdì 28 aprile 2023

DOMENICA IV DI PASQUA (A) – 30 Aprile 2023

 



 

At 2,14a.36-41; Sal 22; 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10

 

Nel brano del vangelo, Gesù si autodefinisce “buon pastore”. L’attesa di un “pastore” che sapesse guidare con giustizia il popolo era sempre stata viva in Israele (cf. Sal 22; Ez 34). Appropriandosi di questa immagine, Gesù intende presentarsi come il Messia atteso, autentica guida, in grado di salvare l’uomo, a differenza di qualsiasi altro, “ladro” e “brigante”. Gesù usa poi un’altra immagine di cui pure si appropria: “io sono la porta delle pecore”. Il tema della “porta” che dà accesso alle realtà celesti era frequente nella tradizione giudaica (cf., ad esempio, Gen 28,17). Gesù è quindi l’unica porta attraverso cui abbiamo accesso alla gloria: egli ci guida “ai pascoli eterni del cielo” (orazione dopo la comunione).

 

Gesù non fa derivare la sua autorità sull’uomo dal ricatto o da imposizioni di qualsiasi genere, ma, come dice san Pietro nella seconda lettura, dall’esempio che egli dà e dalla positività dei valori che propone: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”. Il pastore cammina davanti alle sue pecore (cf. Gv 10,4), si pone alla loro testa e le guida, con l’esempio, dentro la realtà della storia.

 

Come si entra a far parte del gregge o della comunità di Gesù? Ce lo spiega la prima lettura, tratta dal discorso in cui san Pietro annuncia alla folla di Gerusalemme il Cristo morto e risorto. Alla domanda degli ascoltatori a Pietro e agli apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”, Pietro risponde indicando la triplice via che introduce nella Chiesa di Gesù: “Convertitevi”. Il pentimento o la conversione è la richiesta fondamentale. “Ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo”. L’essere battezzati nel nome di Gesù Cristo equivale ad essere inseriti nel mistero della sua persona e della sua opera. Dopo “riceverete il dono dello Spirito Santo”. Dal Signore risorto che dona lo Spirito nasce la comunità dei risorti. All’annuncio del vangelo, fa seguito la conversione, il battesimo e il dono dello Spirito. Solo così si forma parte della Chiesa. Di questa Chiesa, Cristo è porta di accesso ed è pastore che la guida. Quando, dopo la risurrezione, Gesù affida a Pietro la guida della sua comunità, gli chiede come unica condizione: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?” (Gv 21,15). Solo chi ama Gesù e agisce sotto il suo impulso può guidare correttamente e con frutto la comunità cristiana verso i pascoli della vita eterna.

 

In questo momento in cui celebriamo l’eucaristia, ricordiamo che Cristo risorto esercita le sue funzioni di buon pastore soprattutto nell’eucaristia. Qui viene in mezzo a noi, qui ci nutre col pascolo della sua parola e soprattutto, con il suo corpo e il suo sangue. Qui ci dona l’abbondanza della Vita.

 

 

domenica 23 aprile 2023

LA LITURGIA IN PREPARAZIONE AL GIUBILEO 2025

 



 

Il Dicastero per l’Evangelizzazione ha pubblicato una serie di quaderni in preparazione al Giubileo del 2025. Si tratta di riprendere tra le mani i testi fondamentali del Vaticano II per approfondirne il contenuto. Tra questi piccoli “Quaderni del Concilio”, il n. 6 è dedicato alla liturgia: La liturgia nel mistero della Chiesa, Shalom Editrice, 89 pagine. Vi è anzitutto un testo firmato dal Prof. Arturo Elberti, con quattro capitoli (pp. 7 – 70): La stagione del Vaticano II; Una chiave di lettura; Il centro del cammino liturgico; Liturgia ed economia della salvezza. In Appendice (pp. 71 – 89), troviamo: alcuni testi della Sacrosanctum Concilium; dei Principi e norme per la Liturgia delle Ore; dell’omelia di Giovanni Paolo II nel ventennio della Sacrosanctum Concilium; della Lettera Vicesimus Quintus Annus di Giovanni Paolo II; dell’incontro con i parroci e il clero di Roma di Benedetto XVI (14.02.2013); dell’omelia di papa Francesco nella basilica di San Paolo fuori le mura (14.04,2013).

 

Lo stile del quaderno è semplice e rivolto a quanti , in particolare ai giovani, intendono partecipare in modo sempre più consapevole e fruttuoso alla liturgia vissuta dalla Chiesa.

venerdì 21 aprile 2023

DOMENICA III DI PASQUA (A) – 23 Aprile 2023

 



 

 

At 2,14a.22-33; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

 

Tra le letture che abbiamo ascoltato campeggia la stupenda pagina del vangelo di san Luca. Gesù si fa compagno di viaggio di due dei suoi discepoli che si allontanano da Gerusalemme dove hanno visto morire Gesù e fallire le loro aspettative. Sconfortati, fanno ritorno alla cittadina di Emmaus. Essi non hanno capito il mistero della croce. Avviliti e delusi, lasciano Gerusalemme e con essa ogni speranza in colui che fu il loro Maestro e che hanno fin qui seguito con grande entusiasmo. Le vicende dei giorni dolorosi della passione li hanno profondamente trasformati. Non capiscono e non credono più nelle parole di Gesù. Ma ecco che nel cammino si fa loro compagno di strada un misterioso personaggio senza rivelare la propria identità. È Gesù, il quale, dopo aver ascoltato le perplessità dei due discepoli, li guida attraverso una rilettura dei libri della Scrittura ad una comprensione degli avvenimenti dolorosi dei giorni passati. Le parole e la compagnia di Gesù riempiono il cuore dei discepoli di gioia e calore. Per questo essi pregano il loro compagno di viaggio di trattenersi con loro. Seduti a tavola, nel momento dello spezzare il pane, i due discepoli riconoscono in quel personaggio il loro Signore. Scomparso Gesù dalla loro presenza, i discepoli di Emmaus ritrovano la voglia di continuare insieme con gli altri compagni rimasti a Gerusalemme una vita di testimonianza e di annuncio del vangelo di Gesù.

 

La prima e la seconda lettura riprendono brani del discorso di san Pietro, in cui l’apostolo annuncia il mistero di Cristo morto e risorto. Passato il momento dello smarrimento, Pietro e gli altri discepoli annunciano con coraggio il vangelo di Gesù e le sue implicazioni nella vita di coloro che accolgono questo messaggio di salvezza. “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni”. In questo mistero noi tutti siamo stati redenti affinché, liberati “dalla nostra vuota condotta”, cioè da una esistenza priva di significato e di valore, ritroviamo in Dio la nostra speranza.

 

Nei discepoli di Emmaus possiamo riconoscere noi stessi in continua ricerca della comprensione del mistero di Gesù. Come loro, anche noi siamo invitati a ripercorrere un cammino di fede attraverso l’ascolto della Parola che ci conduca a riconoscere il Risorto presente in mezzo a noi, in modo particolare nella partecipazione all’eucaristia, e, una volta riconosciuto, a far partecipi i nostri fratelli di questa esperienza.

 

La celebrazione eucaristica ripercorre ritualmente l’itinerario pedagogico scelto da Gesù per farsi riconoscere dai due discepoli delusi: Egli ci raccoglie attorno all’ascolto della Parola e spezza il pane per noi, perché sappiamo riconoscerlo e annunciarlo ai fratelli: “Quando si è fatta vera esperienza del Risorto, nutrendosi del suo corpo e del suo sangue, non si può tenere solo per sé la gioia provata” (San Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine”, n. 24). 

domenica 16 aprile 2023

LITURGIA E COMPLESSITÀ

 



 

 

D. Messina – V. Trapani (ed.), Per ritus. I linguaggi rituali alla prova della complessità, CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2022. 241 pp.

 

Secondo l’Enciclopedia Treccani, la complessità è “Caratteristica di un sistema (perciò detto complesso), concepito come un aggregato organico e strutturato di parti tra loro interagenti, in base alla quale il comportamento globale del sistema non è immediatamente riconducibile a quello dei singoli costituenti, dipendendo dal modo in cui essi interagiscono”.

 

I contributi raccolti nel volume propongono un percorso che intende contribuire alla riflessione già intrapresa da alcuni sulle dinamiche tra liturgia e complessità. Fondamentalmente si vogliono porre questioni, prospettare nuove vie da percorrere, creare connessioni e immaginare insieme e in sinergia una rivisitazione critica del celebrare “per signa sensibilia” (cf. SC 7).

 

Dopo l’Introduzione e uno studio di Giorgio Bonaccorso su “L’epistemologia della complessità. Spunti per la liturgia”, il volume si divide in tre Parti: Contesto complesso (interventi di Manuel Belli, Pietro Sorci, Massimo Naro); Grammatica e sintassi rituali complesse (interventi di Valeria Trapani, Roberto Tagliaferri, Fabio Trudu); Ritualità alla prova della complessità pastorale (interventi di Domenico Messina, Maria Rita di Pasquale, Alberto Giardina, Crispino Valenziano, Cosimo Scordato).

 

venerdì 14 aprile 2023

DOMENICA II DI PASQUA (A) o della Divina Misericordia - 16 Aprile 2023

 



At 2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31

 

 

Il brano evangelico parla di Tommaso che ha visto, ha contemplato i segni della passione sul corpo glorificato del Signore. Possiamo dire che in questi segni l’apostolo ha contemplato le meraviglie dell’amore misericordioso di Dio che, compiute nella storia antica, si riassumono tutte nell’evento mirabile della risurrezione del Signore.

 

Alla professione di fede nel Signore risorto si giunge attraverso un cammino che per i primi discepoli, in particolare per san Tommaso, è stato un cammino “difficile”. In questo contesto, siamo condotti a riscoprire e rinvigorire la nostra fede nella presenza del Risorto in mezzo a noi. Notiamo che l’apostolo Tommaso approda alla fede nella risurrezione del Signore quando ritrova la comunità, il gruppo dei discepoli. Da parte sua, la Chiesa è chiamata a rendere visibile la presenza di Cristo risorto testimoniando una vita di comunione a tutti i livelli, come la primitiva comunità cristiana di Gerusalemme di cui ci parla la prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli: in essa “l’unione fraterna” si esprime non solo nell’ascolto dell’insegnamento degli apostoli e nei momenti della preghiera e della celebrazione eucaristica, ma anche e inseparabilmente negli altri settori della vita. Vediamo infatti che coloro che erano venuti alla fede stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune. Diventiamo testimoni del Risorto nella misura in cui siamo capaci di stabilire con gli altri rapporti di comunione, di dedizione, di solidarietà a tutti i livelli. Non il prodigio, ma l’amore che si fa dono, condivisione, pane spezzato, è il vero miracolo che testimonia la presenza del Signore risorto nella storia degli uomini.

 

La seconda lettura è una esortazione alla perseveranza nella fede gioiosa, che ci fa pregustare la meta della nostra salvezza. Questa gioia è dono del Risorto. Nel giorno di Pasqua i discepoli sono passati dalla paura che li ha dispersi alla gioia che li ha rinsaldati nella comunione: san Tommaso (come prima i due discepoli di Emmaus) ritrova con la fede in Cristo la gioia della comunione con gli altri. La confessione di fede di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, la gioia, lo slancio e l’amore. Non dice “Signore Dio”, ma “il mio Signore e il mio Dio”.

 

Le parole di Gesù “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” danno un particolare rilievo alla scena, la quale assume grande importanza, divenendo il punto di passaggio dalla visione alla testimonianza, dai segni all’annuncio. Si apre sul tempo della Chiesa. Credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di toccare e vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Di fronte a Tommaso che vuol toccare e vedere per credere, Cristo Risorto non si tira indietro e lancia a noi la sfida: quanto la nostra vita di credenti, quanto la nostra vita di consacrati è credibile, tangibile? Le obiezioni del Tommaso di ieri come dei Tommaso di oggi sono ragionevoli, ci interpellano, vanno prese sul serio,

 

La celebrazione eucaristica ci dovrebbe aiutare a riconoscere Cristo presente nella comunità e a testimoniarlo ai fratelli con una degna condotta di vita. Il Risorto è con noi, verità fondamentale e fondante della nostra fede. Egli continua ad ammaestrarci mediante l’insegnamento degli apostoli, ritorna presente in mezzo a noi nella “frazione del pane”. A nostra volta noi lo incontriamo “nella preghiera” e gli rendiamo testimonianza mediante la comunione fraterna. Incontrare Cristo Risorto significa, in fondo, incontrare il proprio fratello, col quale Cristo ha voluto identificarsi.

 

 

domenica 9 aprile 2023

LA RISERVA DELL’EUCARISTIA Dal IX secolo al Concilio tridentino

 



 

Dal IX secolo in avanti, per tutto l’Occidente, la consuetudine di conservare l’Eucaristia nelle chiese divenne comune, mentre non si hanno più testimonianze che il Pane eucaristico venisse ancora consegnato ai laici perché lo portassero e lo custodissero nelle proprie abitazioni. Tuttavia, le modalità con le quali venivano conservate le specie eucaristiche poteva essere varie, come diversi potevano essere i luoghi dove venivano custodite.

Innanzitutto, rimane l’antica pratica di conservare l’Eucaristia in un luogo attiguo alla chiesa, generalmente nella sacrestia, dove si trovava un armadio riservato ad accogliere il contenitore per il pane consacrato nella Messa. Nel 1311 il Sinodo di Ravenna lasciò al sacerdote la facoltà di scegliere, tra la sacrestia e la chiesa, il luogo ritenuto più opportuno per conservare la riserva eucaristica.

Verso la fine del primo millennio cominciò l’uso di porre la pisside eucaristica sopra l’altare, assieme alle reliquie dei santi. Così infatti ci ricorda Raterio, vescovo di Verona, quando nel 933 prescrive ai presbiteri che sull’altare non si deve mettere niente, tranne le teche e le reliquie, o i quattro vangeli e i vasi o pissidi con il corpo e sangue del Signore per il viatico agli infermi. Spesso il contenitore dell’Eucaristia, di diversa forma e grandezza, veniva ricoperto di una seta a forma di tenda circolare, che poi darà il nome stesso di “tabernacolo”, cioè appunto “tenda” se detta in latino, o “conopeo”, termine anch’esso che significa “tenda” se detta in greco. Ben presto però la pisside, invece di essere coperta con la stoffa, venne posta in una cassetta di legno, oppure di metallo, che molto spesso aveva il tetto piramidale e quasi sempre di modeste dimensioni e mobile: potremmo considerarla il precursore del tabernacolo, come inteso oggi. Il Concilio Lateranense IV (1215) prescrisse che l’Eucaristia, come il crisma, fosse chiusa a chiave e ben sicura per timore che venisse sottratta e profanata. Guglielmo Durando, vescovo di Mende, negli ultimo anni del XIII secolo attesta che sopra la parte posteriore dell’altare, “super posteriori parte altaris”, era collocata un’arca o “tabernacolo” in cui si custodiva la pisside con il Corpo di Cristo, nostra propiziazione (cfr. Eb 9; Rm 3,25) e che veniva chiamato proprio propitiatorium, a imitazione del propiziatorio dell’ Antico Testamento posto a coperchio dell’arca dell’Alleanza, considerata il luogo della presenza di Dio (cfr. Es 25,17-22; Lv 16,2.14-15). Era questo un sistema di custodia assai diffuso anche in Italia nel XIII-XIV secolo.

Altra consuetudine, a cominciare dall’XI secolo e diffusasi principalmente in Francia e in Inghilterra, meno in Italia, è quella di conservare l’Eucaristia in custodie a forma di colomba e sospese sopra l’altare. Come vaso simbolico era già in uso dal IV secolo nei battisteri per contenere il crisma. Questa colomba eucaristica, di dimensioni pure qui modeste, recava sul dorso un coperchio a chiusura di un incavo, dentro il quale si poneva la pisside con le particole, e poggiava sopra un piatto appeso con catenelle alla cupola o alla volta del ciborio – quindi al cielo – oppure a lato dell’altare. Un velo bianco poteva coprire la colomba.

Sempre dopo il Mille troviamo quella che sarà la forma per diversi secoli più adottata in Italia, e pure in Germania, perché ritenuta più pratica e sicura: il tabernacolo murale. Si tratta di una nicchia ricavata nel muro dell’abside, generalmente a fianco dell’altare, in cornu Evangelii, oppure nel coro, e munita di una porticina con serratura. Speso questa edicola si proponeva con un timpano sorretto da due colonnine tortili, in cui l’apparato decorativo si limitava a una ornamentazione a rilievo piuttosto sobria e all’impiego anche del mosaico. Nel periodo gotico e anche rinascimentale, questi tabernacoli a muro ebbero una larga diffusione, crebbero nelle dimensioni, si arricchirono di sculture a rilievo con simboli eucaristici e divennero sempre più dei capolavori che ancora oggi si possono ammirare, come quello di San Clemente a Roma (XIII secolo) e quello di Spoleto (XV secolo). Dal XVII secolo, con le prescrizioni post-tridentine del tabernacolo sull’altare, vennero abbandonati e usati per conservare gli oli santi.

A partire dal XIII secolo, soprattutto in Germania e nelle chiese del Nord Europa, vennero realizzatele edicole eucaristiche. Si presentavano come costruzioni imponenti e ricche, spesso monumentali, in legno e marmo, a forma di torre, la cui altezza talvolta raggiungeva quasi la volta, di prevalente stile ogivale. Venivano erette vicino all’altare e custodivano l’ostia consacrata in un vaso trasparente, posto dietro una grata metallica in modo da lasciarla vedere, o intravedere, perennemente. L’origine di tali edicole si può trovare nel forte desiderio, così vivo nella pietà popolare del tempo, di “vedere” le specie eucaristiche, sia nella celebrazione con l’elevazione della particola e del calice, sia fuori, nelle cosiddette mostranze e nell’accrescersi delle esposizioni eucaristiche. Di fronte agli interventi di molti Sinodi per contenere e limitare il moltiplicarsi delle forme di pietà popolare verso l’Eucaristia che spesso rasentavano la superstizione e l’esagerazione, le edicole divenivano una sorta di compromesso capace di contenere e insieme soddisfare il mai sazio desiderio dei fedeli di vedere l’ostia consacrata, trasformando in questo modo il luogo della riserva eucaristica in una specie di esposizione permanente del Santissimo Sacramento.

 

Fonte: Diego Giovanni Ravelli, La Domus Ecclesiae. I luoghi della celebrazione, San Paolo 2022, pp. 150-154 (le note non sono state riprese). 

    

martedì 4 aprile 2023

TRIDUO PASQUALE

 


GIOVEDI SANTO: MESSA VESPERTINA “IN CENA DOMINI”

6 Aprile 2023

 

 

Es 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

 

Il brano evangelico d’oggi inizia con queste parole: “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.  La sera del Giovedì Santo celebriamo l’ora di Gesù, l’ora in cui egli manifesta pienamente sé stesso facendosi dono per noi. Nell’eucaristia facciamo memoria di Gesù, del suo dono personale in nostro favore e siamo inviati ai nostri fratelli per farli partecipi della “pienezza di carità e di vita” (cf. colletta della messa) attinta dal mistero eucaristico.

 

Nel racconto fondatore dell’eucaristia riportato da san Paolo (cf. seconda lettura) si pone nelle labbra di Gesù per ben due volte, dopo le parole sul pane e quelle sul calice, l’ordine: “fate questo in memoria di me”. Cosa significa fare, ripetere questi gesti “in memoria” di Gesù? Per cogliere il significato di questa espressione bisogna risalire all’istituzione della Pasqua ebraica, di cui ci parla la prima lettura; dopo le prescrizioni rituali riportate dal testo, il brano conclude con queste parole: “Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore…” Nella cultura giudeo-cristiana, ricordare o fare memoria esprime la convinzione che l’evento salvifico si attualizza nella storia. In questo senso, l’eucaristia non è un ricordo solo interiore o un segno senza riscontro nella realtà, ma ripresentazione efficace nel sacramento del sacrificio di Cristo nell’oggi della Chiesa in tensione verso la realtà gloriosa del Cristo risorto.  

 

La memoria di Gesù è dinamica: essa proietta in avanti la Chiesa che in questo modo ha preso contatto con il suo Signore e che deve esprimere nell’esistenza ordinaria quello che Gesù ha vissuto sulla terra, vale a dire l’amore a Dio a agli uomini “sino alla fine”. Questo è il senso della lavanda dei piedi (cf. vangelo), tramandata solo da Giovani al posto dell’istituzione eucaristica. In questo modo, san Giovanni presenta l’eucaristia come il sacramento dell’abbassamento, dell’obbedienza, del sacrificio spirituale e dell’amore di Cristo, del dono totale di sé per la salvezza di noi tutti.

 

Possiamo concludere affermando che il messaggio del Giovedì Santo è tutto qui: vivere, ad esempio di Cristo, la nostra fede come dono di noi stessi al servizio dei nostri fratelli, nella obbedienza a Dio Padre. Questo è il senso dell’eucaristia, questa è la missione fondamentale del sacerdozio ministeriale nella Chiesa e questo è il nocciolo della vita cristiana sintetizzata nel comandamento nuovo dato da Gesù quando dice: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12).

 

 

VENERDI’ SANTO: PASSIONE DEL SIGNORE – 7 Aprile 2023

 

Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

 Le tre letture bibliche di questo Venerdì santo accentuano la dimensione gloriosa della croce, anche se non manca il simbolismo della croce – scandalo. Nel racconto della passione secondo Giovanni e, in genere nel quarto vangelo, la croce è già la gloria di Dio anticipata. Vediamolo più in dettaglio soffermandoci su alcune caratteristiche del racconto della passione nel vangelo di san Giovanni, in particolare nell’arresto di Gesù e nel momento della sua morte.

 

Una prima caratteristica è la consapevolezza. Gesù è pienamente consapevole di tutto ciò che sta per accadere contro di lui. La consapevolezza di Gesù nei confronti della passione e morte è segnalata tre volte nel vangelo di Giovanni (13,1; 18,4; 19,28). E in tutti e tre i casi è adoperato un verbo greco (oida) che indica una consapevolezza piena, chiara e stabile. Dopo la consapevolezza, il secondo tratto è la libertà. Giovanni racconta che Gesù “uscì fuori”, andando lui stesso incontro a coloro che venivano ad arrestarlo. Gesù non è un uomo impotente nelle mani dei suoi aguzzini, ma un uomo che si consegna da sé.  Gesù si preoccupa addirittura dei suoi discepoli e dice a coloro che vengono ad arrestarlo: “se cercate me, lasciate che questi se ne vadano”. E’ sempre Lui che domina e dirige tutta la scena. Quando Pietro colpisce con la spada Malco, il servo del sommo sacerdote, la risposta di Gesù al gesto di Pietro è un secco rifiuto di ogni tipo di resistenza: “Rimetti la spada nel fodero”. La ragione è la volontà del Padre, alla quale Gesù non intende in alcun modo di sottrarsi.

 

Se ora ci spostiamo alla fine del racconto, nei momenti vicini alla morte di Gesù, notiamo che anche qui Egli è pienamente consapevole degli eventi tragici di cui è protagonista, eventi che Gesù gestisce appunto come vero protagonista. In questa parte del racconto, ricorre tre volte il verbo “compiere”. Che cosa è compiuto? Dopo aver preso l’aceto, Gesù dice “E’ compiuto”, che non significa semplicemente che la fine è giunta. Bensì: l’opera che il Padre ha affidato a Gesù, è compiuta, realizzata fino in fondo; Gesù ha condotto fino al limite estremo il suo amore (“li amò sino alla fine”, leggevamo ieri nel vangelo). Le Scritture si sono compiute. La Croce non è un compimento come gli altri, ma il termine a cui tutta la Scrittura, e dunque il disegno di Dio tendeva. Subito dopo Giovanni descrive la morte di Gesù dicendo che Egli “consegnò lo spirito”. Gesù muore cosciente e consenziente: è Lui che china il capo e rende lo spirito. Gesù conclude la sua opera in un atto di serena consapevolezza e nell’atteggiamento che gli è stato abituale lungo tutta la vita: il dono.

 

Un soldato trafigge il fianco di Gesù con la lancia e “subito ne uscì sangue e acqua”, dice Giovanni. Perché il sangue e l’acqua? Il sangue è il segno del valore redentore del sacrificio di Gesù, e l’acqua è il simbolo dello Spirito Santo e della vita che di quel sacrificio sono il frutto. Dalla Croce del Venerdì santo scaturiscono per tutta l’umanità questi doni che durano per sempre.

 

 

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – 8/9 Aprile 2023

 

Gen 1,1-2,2; Gen 22,1-18; Es 14,15-15,1; Is 54,5-14; Is 55,1-11; Bar 3,9-15.32-4,4; Ez 36,16-17a.18-28; Rm 6,3-11; dal Sal 117; Mt 28,1-10.

 

La celebrazione della Veglia pasquale si divide in quattro parti: la liturgia della luce o “lucernario”, la liturgia della Parola, la liturgia battesimale e la liturgia eucaristica. I diversi momenti celebrativi della Veglia hanno un filo conduttore: l’unità del disegno salvifico di Dio che si compie nella Pasqua di Cristo per noi.

 

L’antico testo dell’Annuncio pasquale è percorso da una profonda coscienza teologica di tipo sapienziale e contemplativo, che si nutre di stupore e di adorazione, di lode e di ringraziamento e in tale linguaggio si esprime: si parte dalla contemplazione della storia delle opere salvifiche compiute da Dio, il cui primo atto è la creazione del cosmo e dell’uomo, per arrivare alla nuova creazione dell’uomo in Cristo morto e risorto: “il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti”. Ciò che l’annuncio pasquale proclama con accenti lirici, viene in seguito ripreso dalle letture bibliche, che in modo progressivo introducono i partecipanti nella contemplazione dei principali eventi della storia salvifica: la creazione (Gen 1,1-2,2); il sacrificio di Abramo (Gen 22,1-18); il passaggio del Mar Rosso (Es 14,15-15,1); la Gerusalemme nuova, ricostruita dopo l’esilio (Is 54,5-14); la chiamata ad una alleanza eterna (Is 55,1-11); la guida splendente della luce del Signore (Bar 3,9-15.32,4-4); la promessa di un’acqua pura e purificatrice (Ez 36,16-28); il battesimo, mistero pasquale (Rm 6,3-11); l’annuncio della Risurrezione (Mt 28,1-10). Più che una descrizione storica in senso moderno, la storia della salvezza, tratteggiata dalle letture bibliche, è da interpretarsi come una confessione di fede nell’azione salvifica di Dio e quindi come storia unitaria che trova in Cristo senso pieno e compimento.

 

Le orazioni che si recitano dopo le singole letture anticotestamentarie interpretano questi brani in chiave cristologica, ecclesiale e sacramentale. Così siamo invitati a passare: dalla prima creazione alla “creazione nuova”, più mirabile ancora, che si opera nella nostra redenzione; dal gesto sacrificale di Abramo sul figlio Isacco al sacrificio di Cristo; dalla liberazione del popolo di Dio attraverso il Mar Rosso al battesimo sacramento della nostra liberazione; dalla Gerusalemme nuova, ricostruita dopo l’esilio, alla Chiesa nuovo popolo di Dio; dalla chiamata ad una alleanza eterna alla realtà di questa alleanza sigillata nella Pasqua di Cristo e partecipata nei sacramenti; dall’invito a camminare illuminati dalla Sapienza divina alla luce dello Spirito che ci è stata elargita nel battesimo; dalla promessa di un’acqua pura e purificatrice all’acqua battesimale che ci purifica e ci trasforma.

 

Dopo le letture bibliche segue la liturgia battesimale che ci immerge nella morte di Gesù per una vita nuova nello Spirito. Finalmente, la celebrazione eucaristica, momento culminante della Veglia, che è in modo pieno il sacramento della Pasqua, cioè memoriale del sacrificio della Croce e presenza del Cristo risorto, completamento dell’iniziazione cristiana, pregustazione della Pasqua eterna. La celebrazione della Pasqua significa quindi per noi tutti la ripresa di un programma di vita che si realizza in un impegno permanente di rinnovamento mai pienamente raggiunto. Questo è il frutto della Pasqua indicato dalla colletta della messa: che “tutti i tuoi figli, rinnovati nel corpo e nell’anima, siano sempre fedeli al tuo servizio”. Solo la nostra morte vissuta “in Cristo” potrà compiere il senso dell’esistenza cristiana. Nel frattempo, si tratta di rimanere fedeli a quel germe di vita nuova che abbiamo ricevuto nel battesimo e cresce e si consolida nella eucaristia  fino al compiersi in noi della Pasqua definitiva.



DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO

9 Aprile 2023

 

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (oppure: Mt 28,1-10)

  

La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore.

 

La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano. Il vangelo narra l’evento storico della risurrezione di Gesù, ripensato e raccontato a scopo di fede: Giovanni sottolinea che si tratta di una vera risurrezione, ma l’interesse prevalente dell’evangelista sembra essere di carattere ecclesiale; egli, infatti, sottolinea anzitutto l’itinerario di fede dei discepoli nel Cristo risorto. Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata.

 

Ci possiamo soffermare brevemente sulla seconda lettura alternativa, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, dove l’affermazione centrale del brano è: “Cristo, nostra Pasqua è stato immolato!”, parole riprese poi dall’antifona alla comunione. Il prefazio pasquale I parla di Cristo “vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo”. La sequenza adopera l’espressione: “vittima pasquale”, riferita sempre a Cristo, e aggiunge: “L’agnello ha redento il suo gregge”. Nell’Antico Testamento l’immolazione dell’agnello era l’elemento essenziale della celebrazione della Pasqua (cf. Es 12). Il Nuovo Testamento, e particolarmente il vangelo di Giovanni, hanno considerato l’agnello pasquale come figura di Gesù. Egli muore sulla croce nella Parasceve, nell’ora in cui nel tempio si immolavano gli agnelli per la celebrazione della cena pasquale. Lo stesso apostolo Giovanni nell’Apocalisse descrive la glorificazione dell’Agnello: “L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione […] A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli” (Ap 5, 12-13). L’agnello sgozzato e glorificato è la nostra Pasqua!

 

Giovanni Crisostomo, parlando dell’eucaristia, dice: “Noi offriamo sempre il medesimo Agnello, e non oggi uno e domani un altro, ma sempre lo stesso. Per questa ragione il sacrificio è sempre uno solo […] Anche ora noi offriamo quella vittima, che allora fu offerta e che mai si consumerà” (Omelie sulla Lettera agli Ebrei 17,3). Compiendo il rito pasquale gli Israeliti sono stati partecipi, di generazione in generazione, della stessa liberazione e salvezza sperimentata dai loro padri nella notte in cui il Signore li fece uscire dall’Egitto. Celebrando l’eucaristia, i cristiani siamo partecipi dell’Agnello pasquale, del “corpo donato” e del “sangue versato” di Cristo, quale evento decisivo della liberazione di tutta l’umanità dalla forza del peccato e dal potere della morte.

 

La fede nella risurrezione, che è il cuore della fede cristiana, non coincide con una semplice fiducia nella vita, concetto caro ad una certa cultura odierna, ma credere nella vita che nasce dalla morte grazie alla forza dell’amore di Cristo. Essa consente di entrare nelle situazioni di morte guardando oltre la morte e vivendo la risurrezione, ovvero amando e cercando di amare come Cristo ha amato noi.