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sabato 31 marzo 2018

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO 1 Aprile 2018






At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa vespertina: Lc 24,13-35)

Il salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria, proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.

Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro e dell’ “altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto. Nel racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve svelarsi.

L’itinerario di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. E’ sempre alla luce della Scrittura che si rivela il senso dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della fede.     
        
La risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.

venerdì 30 marzo 2018

VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE SANTA – 1 Aprile 2018






Gn 1,1-2,2; dal Sal 103 (104), oppure dal Sal 32 (33) - Gn 22,1-18; dal Sal 15 (16) - Es 14,15-15,1; da Es 15,1-18 - Is 54,5-14; dal Sal 29 (30) - Is 55,1-11; da Is 12,2-6 - Bar 3,9-15.32 - 4,4; dal Sal 18 (19) - Ez 36,16-17a.18-28; dai Sal 41-42 (42-43), oppure (quando si celebra il battesimo) da Is 12,2-6, oppure dal Sal 50 (51) - Rm 6,3-11; dal Sal 117 (118); Mc 16,1-7.



Dopo i sette brani dell’Antico Testamento, con i rispettivi salmi responsoriali, si legge un breve passo della Lettera di san Paolo ai Romani, il relativo salmo responsoriale e, in seguito, nell’Anno B, si proclama il vangelo della risurrezione secondo Marco. Le letture dell’Antico Testamento possono essere ridotte a tre e, in casi particolari, solo a due; ma non dev’essere mai tralasciata la lettura dell’Esodo sul passaggio del Mar Rosso. Il nuovo “esodo” si verifica prima di tutto nel Cristo, nel suo passaggio dalla morte alla vita, dal mondo al Padre, dall’umiliazione alla gloria. E’ questa la Pasqua di Cristo, che diventa Pasqua di tutti noi nel fonte battesimale, in cui siamo stati liberati dalla schiavitù del peccato affinché “possiamo camminare in una vita nuova” (epistola).

La Veglia pasquale, che sant’Agostino chiama “madre di tutte le veglie”, è il cuore dell’anno liturgico, da cui si irradia ogni altra celebrazione. Colta nella sua globalità, con i gesti, i simboli e i testi che la differenziano da tutte le altre celebrazioni cristiane, è la più grande catechesi della storia della salvezza. Noi qui ci limitiamo ad una breve riflessione sul racconto del vangelo di san Marco, il brano evangelico che viene proclamato nell’Anno B del Lezionario.

Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme, le tre donne che nel mattino del primo giorno della settimana si recarono al sepolcro, sono le stesse che sul Golgota assistettero da lontano alla morte di Gesù. Queste tre donne, passato il sabato comprarono oli aromatici per ungere il corpo di Gesù, e al mattino presto si recarono al sepolcro per compiere su Gesù il rito dell’unzione del suo corpo che ancora non era stato fatto. Entrate nel sepolcro, trovarono un giovane vestito di una veste bianca, seduto sulla destra, ed “ebbero paura” dice Marco. E’ l’atteggiamento di chi è consapevole di trovarsi di fronte ad un’epifania divina: il mistero appare come un realtà terribile che svela la distanza infinita tra il Creatore e la creatura. Ora le donne sono messe in contatto con la rivelazione stessa di Dio che mostra loro la straordinaria potenza della risurrezione all’interno della vicenda umana. Ma il giovane le rassicura: “Non abbiate paura! […] Gesù è risorto…” E aggiunge: “Andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: ‘Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto’ ”. Le donne, ancora terrorizzate, sono incapaci di pronunciare una sola parola, ma compiono la loro missione. Per Marco non sono le donne le testimoni dell’ “inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). I testimoni su cui si fonda la nostra fede sono i discepoli e Pietro in modo particolare.

Il nucleo del Vangelo, come “buona notizia” proclamata fin dall’inizio ai giudei e greci, è racchiuso in queste parole: “Cristo è risorto dai morti”. La risurrezione di Gesù è un evento che si radica nella storia, ma che può essere conosciuto solo nella fede. La risurrezione è un atto di Dio e l’agire di Dio è oggetto di fede non di indagine storica. La fede è un cammino pasquale di morte a se stessi, alle proprie certezze, alle proprie evidenze, per nascere alla verità di Dio e del suo messaggio. Sembra talvolta però che il Gesù in cui crediamo sia ancora morto. Gesù è morto quando lo teniamo fuori dalla nostra vita, morto se la sua Parola non trasforma profondamente i nostri cuori. Gesù è morto e sepolto quando la nostra diventa una religione senza fede, un quieto nonché ambiguo appartenere alla cultura cristiana senza che il fuoco della sua presenza contagi la nostra e altrui vita.

giovedì 29 marzo 2018

VENERDI’ SANTO: PASSIONE DEL SIGNORE – 30 Marzo 2018






Is 52,13-53,12; Sal 30 (31); Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42



Il racconto della passione secondo Giovanni va letto alla luce delle altre due letture. Il brano d’Isaia mostra il volto di un personaggio misterioso, sfigurato e macerato, oppresso da spaventose sofferenze e sottoposto alle più odiose persecuzioni, disprezzato dagli uomini, percosso a morte e apparentemente abbandonato dallo stesso Dio. In realtà, però, la sua sofferenza è feconda: egli offre se stesso per il peccato delle moltitudini, e il Signore ne fa il capo di un innumerevole popolo di giustificati. Qualunque sia nel testo profetico l’identità di questo “Servo di Dio”, la liturgia del Venerdì santo ce lo propone come immagine del Cristo, il giusto oltraggiato, la cui morte ha salvato gli uomini dal peccato e che Dio ha esaltato nella sua gloria. La seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, esalta la grandezza e l’efficacia dell’offerta sacrificale del Cristo, intronizzato presso Dio come “il sommo sacerdote” per eccellenza, diventato per sua obbedienza “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.



Il racconto della passione e morte del Cristo secondo Giovanni, pur ricalcando la tradizione precedente testimoniata dagli altri evangelisti, è costruito con un’angolazione di lettura degli eventi molto diversa che riflette un modo differente di rileggere il quarto canto del Servo di Dio di Isaia, proposto come prima lettura. Mentre Matteo, Marco e Luca fanno forza sulle umiliazioni e sofferenze del Servo di Dio, Giovanni mette l’accento sulla glorificazione ed esaltazione dello stesso Servo. L’evangelista legge gli eventi tenendo d’occhio il risultato finale. Non c’è da meravigliarsi se qualche studioso della Bibbia abbia intitolato l’intero racconto giovanneo della passione e morte di Gesù: “Il libro della gloria”. Così vediamo che nel suo racconto, Giovanni sottolinea che Gesù va liberamente incontro alla croce: non è un “consegnato”, ma “uno che si consegna”. E’ Egli che dirige gli eventi, non gli uomini che l’hanno catturato. Egli è sì sofferente, ma immerso in un alone di maestà e di gloria fino alla fine quando pronuncia con calma e solennità le sue ultime parole: “E’ compiuto”. Giovanni intende in tutta la vicenda della passione ricordare che l’umiliato è già il vincitore. Certamente egli racconta prima la passione e poi la risurrezione. Tuttavia sovrappone l’umiliazione e la gloria. Durante la passione Gesù è già il Figlio di Dio, e questa convinzione trasfigura ogni racconto: colui che è arrestato è in realtà il vincitore, colui che è processato è in realtà il giudice, il Crocifisso è già il glorificato. Per Giovanni la Croce è lo specchio della gloria.



La liturgia del Venerdì santo non separa mai le due sponde degli eventi pasquali. Così, ad esempio, nell’adorazione della Croce, uno dei momenti culminanti della celebrazione, la Chiesa canta: “Adoriamo la tua Croce, Signore, lodiamo e glorifichiamo la tua santa risurrezione. Dal legno della Croce è venuta la gioia in tutto il mondo”. In modo simile si esprimono la preghiera dopo la comunione e la benedizione finale.

martedì 27 marzo 2018

GIOVEDI SANTO: MESSA VESPERTINA “IN CENA DOMINI” 29 Marzo 2018






Es 12,1-8.11-14; Sal 115 (116); 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15



E’ evidente che le preghiere e le letture bibliche della Messa in cena Domini”, hanno come tema il fatto dell’istituzione dell’eucaristia. Va però osservato che questo tema è più rigorosamente proposto se lo si incentra attorno a quello della “consegna” (in latino: traditio), e questo secondo un doppio significato: quello della “consegna/tradimento” di Cristo da parte di Giuda e, in modo particolare, quello della “consegna” che Gesù fa di se stesso sia nell’evento storico della sua passione e morte, sia attraverso l’evento rituale della cena/eucaristia.

Nella nostra riflessione, partiamo dal racconto dell’istituzione dell’eucaristia riportato da san Paolo nella prima lettura. Dando ai discepoli il pane spezzato e dicendo loro: “Questo è il mio corpo che è per voi”, Gesù anticipa e interpreta l’evento della sua passione come consegna totale di se stesso a noi. Il “corpo” infatti, nel linguaggio biblico, non indica propriamente l’organismo fisico di una persona, ma essa stessa in quanto capace di esprimersi e di manifestarsi, la persona nella sua concreta relazionalità con gli altri e con il mondo e al tempo stesso nella sua condizione di mortalità. Di fatto Gesù ha interpretato tutta la sua esistenza in chiave di “servizio”, come esprime bene l’episodio della lavanda dei piedi riportato da Giovanni. Con il suo gesto e le sue parole sul pane nell’ultima cena, Gesù ha presentato per così dire ai discepoli – sia pure in modo velato e misterioso – il significato della sua morte quale supremo atto di donazione di se stesso, nella logica di quella radicale carità che egli aveva costantemente predicato: “Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (canto al vangelo).

La morte di Gesù in croce rappresenta l’estrema attuazione del dono di se stesso che Gesù ha compiuto, vivendo fino in fondo la logica dell’amore totale e senza condizioni per il Padre e per gli uomini. Ma questo dono non rimane solo un gesto eroico e commovente, che però esaurisce il suo senso nel compiersi come atto espressivo di amore. E’ invece un fatto da cui deriva un reale beneficio per noi, un grande bene. Gesù fa dono di se stesso “per noi”. Lo ha fatto nell’evento della sua morte in croce, e lo ha fatto nel sacramento dell’eucaristia. In ciò che è avvenuto sul calvario e in ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena è in gioco la stessa realtà di fondo. Il senso più profondo di ciò che è avvenuto sul calvario, è il dono totale di se stesso che Gesù ha compiuto una volta per sempre, in modo definitivo, nella morte liberamente accettata. Questa stessa realtà, il dono di se stesso per noi, è la verità profonda di ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena. Di questa realtà Gesù ha fatto il suo “testamento”. Dicendo “ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”, Gesù ha lasciato in eredità a tutta la Chiesa lungo i secoli, come realtà perennemente presente nel gesto rituale dell’eucaristia, quel dono di se stesso e della sua vita per noi, che egli portò all’estremo compimento sul piano storico nella sua passione e morte.   

La liturgia del Giovedì santo celebra l’eucaristia, memoriale della Pasqua di Cristo, sacramento del suo amore infinito per noi e di quello che dobbiamo avere gli uni per gli altri, e l’istituzione del ministero sacerdotale, che deve essere compreso ed esercitato, sull’esempio del Signore, come servizio dei fratelli e delle sorelle nella comunità. Come dice la colletta della messa, “dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita”.



domenica 25 marzo 2018

UN BEL LIBRO SU MARIA DI NAZARET






Adriana Valerio, docente di storia del cristianesimo e delle chiese all’Università Federico II di Napoli, ci offre in poche pagine una bella sintesi di Maria di Nazaret. Storia, tradizioni, dogmi (Farsi un’Idea 262), il Mulino 2017, pp. 118 (€ 11,00). Offro qui la Premessa (Il “caso Maria”) all’opera.

Scrivere di Maria, la madre di Gesù di Nazaret, è impresa quanto mai ardua; i dati storici che la riguardano, infatti, si intrecciano con l’elaborazione teologica delle comunità cristiane delle origini, le formulazioni dottrinali dei primi secoli, la vita liturgica delle Chiese strutturate, le apparizioni mistiche e la devozione popolare che hanno portato a riconoscere in lei la donna privilegiata e unica: vergine, Madre di Dio, immacolata, assunta in cielo.

Più che una conoscenza derivata dagli elementi presenti nel Nuovo Testamento, la persona comune ha un’immagine di Maria che proviene dalle definizioni dogmatiche che a volte ne hanno offuscato la concreta umanità. Le formule dottrinali, infatti, si sono imposte a tal punto nella vita dei fedeli e nell’immaginario simbolico della cristianità da mettere in ombra gli esili fili della sua figura storica che si è caricata nel tempo di significati che la trascendono toccando in profondità il sentimento religioso delle persone che a lei si sono affidate e si affidano. Per questo, tra i piani della storia e quelli della fede, non è facile stabilire una netta separazione dal momento che le stesse fonti a nostra disposizione si collocano nell’ambito della riflessione teologica e dell’esperienza di fede.

Per avvicinarsi alla madre di Gesù è allora importante considerare questa complessa galassia di fonti, tradizioni e sentimenti che ne hanno costruito un’identità a suo modo fluida e variopinta: un volto – il suo – fatto da tanti volti quante sono le Madonne disseminate nei differenti contesti culturali e geografici toccati dal cristianesimo.

Non è mancato chi, negli ultimi anni, ha attaccato frontalmente il culto della Vergine mettendo in discussione la legittimità e certe modalità della sua stessa venerazione, ritenendo che non poche volte, Maria abbia assunto la funzione quasi di una dea accanto a Dio Trinità e che i privilegi a le attribuiti (verginità perpetua, esenzione della colpa delle origini, incorruzione del corpo e assunzione in cielo) rimandino ad una visione del mondo miracolistica e pre-moderna poco compatibile con i paradigmi scientifici della nostra epoca.

Come affrontare allora il “caso Maria”? Abbiamo cercato di tenere presenti i tanti aspetti che la riguardano: i racconti della prima letteratura cristiana canonica e apocrifa; la fede popolare che ha sostenuto il suo culto trovando espressione non solo in atti di devozione ma anche in opere letterarie e artistiche; le riflessioni teologiche sulla sua persona; l’evoluzione dogmatica; infine, i nuovi scenari interpretativi che si sono aperti dopo il Concilio Vaticano II e che si sono oggi arricchiti grazie all’apporto delle scienze umane e teologiche: antropologia, psicologia, semiotica, esegesi biblica, teologia femminista ecc. Alcuni riferimenti, anche se brevi, alla presenza di Maria nel culto ortodosso, nel mondo protestante e nella religione islamica sottolineano l’importanza di questa figura che travalica la tradizione cattolica.

venerdì 23 marzo 2018

DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (B) 25 Marzo 2018






Is 50,4-7; Sal 21 (22); Fil 2,6-11; Mc 14,1 – 15,47



Gesù agonizzante attribuisce a sé la preghiera di lamentazione del Sal 21 riprendendone le prime battute (cf. Mc 15,34), che noi ripetiamo oggi come ritornello del salmo responsoriale: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Questo salmo è un testo di grande desolazione, segnato da immagini forti prettamente orientali. L’orante, immerso nella sofferenza e vicino alla morte, sente il silenzio di Dio e l’ostilità degli uomini. Ma all’improvviso, la supplica diventa fiduciosa attesa dell’aiuto di Dio e poi ringraziamento festoso al Signore, re dell’universo. All’inizio della settimana di passione, questa preghiera ci introduce adeguatamente nella celebrazione del mistero pasquale di Gesù, che va dalla morte alla vita, dal sepolcro alla risurrezione.

L’Unto del Signore, il Messia che è stato accolto dalle folle di Gerusalemme osannanti è quello stesso Gesù che, pochi giorni dopo, è stato consegnato ai suoi nemici e messo in croce. I due momenti non sono dissociabili, come non lo sono il momento della morte in croce e quello della risurrezione. 

La prima lettura ci proietta dall’esperienza dolorosa e personale del profeta alla sofferenza redentrice di Cristo, narrata da san Marco nel lungo brano evangelico odierno con uno stile scarno e plastico e con particolari accentuazioni del carattere drammatico e sconcertante della passione di Gesù. Il racconto della passione viene interpretato come il compimento della missione storica di Gesù. Tutto il vangelo di san Marco è orientato alla passione di Gesù, a tal punto che qualcuno ha detto che questo vangelo è un racconto della passione con una lunga introduzione. Con grande consapevolezza e libertà, Gesù percorre il cammino della sua vita che ha come traguardo la morte in croce. La sua passione il Signore esteriormente l’ha subita, ma interiormente e volontariamente l’ha presa su di sé. Per lui la morte in croce non è un incidente inatteso, è una vera scelta. Questa libertà sovrana di Gesù è espressione della sua obbedienza totale al Padre. E’ ciò che ricorda san Paolo nella seconda lettura: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. 

Le ultime parole di Gesù sono quelle drammatiche con cui inizia il Sal 21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Noi sappiamo che non ci sono salmi di disperazione né salmisti che credono in un vero abbandono di Dio; anzi, i salmi che esprimono la preghiera di un sofferente sono sempre colmi di fiducia, di fede e speranza. Qui è il Figlio che si lamenta e si abbandona al Padre. Come nel Getsemani, l’angoscia lo attanaglia, e come là chiede aiuto al Padre. E’ una invocazione a Dio in forma di domanda che avrà una risposta solo dopo la morte di Gesù. Il centurione che gli sta di fronte, vistolo spirare in quel modo, esclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Non sappiamo cosa il centurione pagano abbia potuto capire; nelle sue parole noi riconosciamo l’atto di fede della comunità cristiana. E’ lì e in quel momento che paradossalmente si rivela la vera identità di Gesù, e si verifica l’autenticità della fede cristiana. In questa scena si riassume quindi il percorso interiore che san Marco propone ai lettori del suo vangelo. Solo chi segue Gesù fino al luogo della crocifissione è in grado di riconoscerlo e proclamarlo Figlio di Dio. La croce è il vertice della rivelazione di Dio. E’ nel dono totale di Cristo che Dio rivela il suo amore gratuito e la strada della salvezza per ciascuno di noi.

mercoledì 21 marzo 2018

UN MODO DISTORTO DI SCRIVERE LA STORIA DELLA RIFORMA LITURGICA





Dall’ottimo Blog Sacramentum Futuri, riprendo qui sotto un testo che prova come talvolta la storia della riforma liturgica è fatta in modo distorto o, come dicevo in questo blog qualche giorno fa, in modo ideologico. Diversi decenni fa, quando insegnavo nell’Istituto “Regina Mundi” di Roma, sono stato accusato di affermare che Paolo VI svuotava la dottrina di Trento sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. L’accusa era stata scritta in una lettera anonima inviata alle diverse Curie Generalizie delle Suore che avevano alunne nell’Istituto, e diceva così: “il prof. Augé afferma: Paolo VI nella "Mysterium fidei" difende certamente la dottrina del Concilio di Trento, ma la spiega con tanta cautela che perde la sua forza [gran parte delle obiezioni dei Luterani]”. La lettera anonima omettendo le parole del mio testo, qui fra parentesi e in neretto, mi faceva dire tutt’altra cosa di quanto affermavo.



A PROPOSITO DI FAKE NEWS VATICANE. sTRANE CITAZIONI, PURTROPPO, NON MANCANO


Marzo 17, 2018

Nonostante il post precedente (1) ci abbia portato alle altezze del Paradiso, siamo stati troppo presto precipitati di nuovo a livello terra terra. A malincuore e contrariati – avremmo preferito pubblicare ben altri contributi -, non possiamo esimerci di scrivere queste piccole note, in questi giorni agitati dalla polemica intorno all’ormai famigerata lettera di Benedetto XVI a mons. Viganò, lettera che sembrerebbe essere stata personale e riservata, resa pubblica parzialmente e in un contesto assai diverso. Al di là delle intenzioni, sulle quali non ci pronunciamo, si tratta comunque di una caduta di stile e di professionalità da parte di chi deve gestire il settore, così importante oggi, dell’informazione e della comunicazione.



Con queste premesse, mentre cercavamo documentazione per una questione altra, sui cui ci stiamo interrogando da qualche giorno, ci è capitato di soffermarci su testo in pdf, disponibile on line sulla piattaforma web della Fondazione Joseph Ratzinger. Si tratta di una lezione tenuta da Nicola Bux, il 3 maggio 2016, nel contesto del master «Joseph Ratzinger: studi e spiritualità», sul tema: «La riforma liturgica del Concilio Vaticano II e la sua applicazione secondo Joseph Ratzinger – Benedetto XVI» (2). Confessiamo apertamente che non abbiamo letto tutto il testo e che ne abbiamo scorso rapidamente le pagine. Un dettaglio, tuttavia, ha attirato la nostra attenzione: una citazione del famoso studio di Annibale Bugnini sulla riforma liturgica, racchiusa fra le virgolette, era riferita in nota all’edizione in lingua inglese dello stesso testo. Davvero curioso: un testo presentato in italiano (probabilmente anche pensato in italiano) ricorre, in citazione, ad una traduzione inglese di un testo pubblicato in edizione originale italiana, pur riportando nell’argomentare del discorso, una versione italiana dell’edizione inglese citata. Vedere per credere:



Di certo, oggi la liturgia si dibatte tra lo ius della Chiesa universale, negato ormai anche in linea di principio, e le richieste arbitrarie di una diocesi o di una parrocchia. Ma, pare che Annibale Bugnini ritenesse le aberrazioni secondarie: è emblematica la sua ammissione circa le responsabilità del Consilium: «ha sempre ritenuto che il modo migliore per prevenire gli abusi fosse di anticiparli piuttosto che reprimerli; di dare ai vescovi e alle conferenze episcopali mezzi adeguati per promuovere la pastorale liturgica piuttosto che inviare loro ‘decreti’ anacronistici che non sarebbero stati né applicati né eseguiti»(9)

(9) Cfr A.BUGNINI, The reform of the liturgy, 1948-1975, tr. M.O’Connell (Collegeville,MN.1990), p. 257, 486.



Con un pò di difficoltà (i due numeri di pagina indicati lascerebbero pensare ad un testo articolato, estrapolato da due passaggi diversi e piuttosto lontani fra loro; non parrebbe così, da quanto ci risulta) siamo riusciti a ritrovare il paragrafo citato da Bux nell’edizione originale: esso suona in modo decisamente diverso:

In termini generali, la Congregazione per il Culto Divino prese sul serio, e non in senso meramente oratorio, meno ancora pletorico o opportunistico, il compito assegnatole da Paolo VI nell’ottobre 1966: «impedire gli abusi, stimolare i ritardatari e i renitenti, risvegliare energie, favorire buone iniziative». E per impedire gli abusi ha sempre creduto che il mezzo migliore fosse quello di prevenirli, più che respingerli; di dare ai vescovi e alle Conferenze episcopali i mezzi adeguati per promuovere la pastorale liturgica, più che inviare anacronistici “verdetti”, né ascoltati né seguiti (3).



Come si vede, innanzitutto il soggetto della frase citata da Bux non era il Consilium ma la Congregazione per il Culto Divino, nel cui organigramma il Consilium fu inquadrato in una fase della sua attività; i due soggetti non coincidevano. La generalizzazione che Bux compie si potrebbe pure tollerare, capendone il senso. Ciò che invece appare assai più grave l’alterazione dei tre verbi: dove nel testo originale abbiamo impedire, prevenire e respingere, nel testo di Bux troviamo rispettivamente prevenire, anticipare, reprimere. In tal modo, si insinua che grazie a Bugnini gli abusi fossero tollerati al punto da essere addirittura, in un certo senso, assecondati o, peggio, suggeriti: nel contesto del paragrafo il senso di prevenire pare discostarsi dall’impedire originale, così come l’anticipare dal prevenire (4). Non sarebbe stato meglio citare il testo originale? Certo, esso non era così funzionale all’intenzione dell’autore, che pare voler attribuire al Bugnini, che di colpe ne avrà avute sicuramente nel corso della sua vita, la responsabilità di aver aperto la porta ai fenomeni di cui siamo oggi tutti testimoni. Non neghiamo certamente –  lo sperimentiamo frequentemente anche in diverse parrocchie romane – che ci troviamo di fronte ad abusi ripetuti ed anche gravi (talora è più grave l’ignoranza che la disobbedienza), ma le questioni sono assai più complesse.

Non si può pensare di liquidare il problema con una citazione scopiazzata, e per giunta in modo maldestro.




(1) Si trattava della canonizzazione di Paolo VI (qui).

(2) Cf. qui e qui.

(3) A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975) («Bibliotheca Ephemerides Liturgicae» «Subsidia» 30), Roma 1997², 480.                                             
(4) Appena dopo la citazione, Bux aggiunge: «La linea-guida di quell’organismo era che, tollerando ufficialmente gli abusi, questi avrebbero cessato d’essere tali».


LA COMUNIONE IN BOCCA O SULLA MANO







Dalla catechesi di papa Francesco oggi mercoledì 21marzo:



“[…] La Chiesa desidera vivamente che anche i fedeli ricevano il Corpo del Signore con ostie consacrate nella stessa Messa; e il segno del banchetto eucaristico si esprime con maggior pienezza se la santa Comunione viene fatta sotto le due specie, pur sapendo che la dottrina cattolica insegna che sotto una sola specie si riceve il Cristo tutto intero (cfr Ordinamento Generale del Messale Romano, 85; 281-282). Secondo la prassi ecclesiale, il fedele si accosta normalmente all’Eucaristia in forma processionale, come abbiamo detto, e si comunica in piedi con devozione, oppure in ginocchio, come stabilito dalla Conferenza Episcopale, ricevendo il sacramento in bocca o, dove è permesso, sulla mano, come preferisce (cfr OGMR, 160-161). Dopo la Comunione, a custodire in cuore il dono ricevuto ci aiuta il silenzio, la preghiera silenziosa. Allungare un po’ quel momento di silenzio, parlando con Gesù nel cuore ci aiuta tanto, come pure cantare un salmo o un inno di lode (cfr OGMR, 88) che ci aiuti a essere con il Signore […]



http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2018/documents/papa-francesco_20180321_udienza-generale.html




domenica 18 marzo 2018

LA TIPOLOGIA DALLA BIBBIA ALLA LITURGIA






Nikolaj Aracki Rosenfeld, Celebrare l’alleanza. La tipologia dalla Bibbia alla Liturgia (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 184), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2017. 535 pp.

Lo scopo del presente volume è di illustrare un quadro in cui la tipologia biblica, recentemente ripresa da diversi autori – fra i quali Leonhard Goppelt, Jean Daniélou e Paul Beauchamp – offre una visione nuova della Liturgia e del mondo sacramentale. Questa visione è nuova in quanto più antica. È un recupero dei fondamenti biblici e patristici, che tiene conto anche delle conclusioni maggiori dell’esegesi storico-critica e post-critica. La sintesi finale è basata sulle convergenze più evidenti delle linee veterotestamentarie, neotestamentarie e patristiche. Essa offre un orientamento della tipologia verso le realtà celebrate: il typos passa dal passato al futuro incarnandosi nell’hodie del rito-celebrazione dell’Alleanza, che nel mondo biblico è declinata in termini di nuzialità. L’Alleanza nuziale celebrata nella Liturgia della Chiesa, con i suoi fondamenti nella creazione e nella storia della salvezza, si estende verso il pieno compimento nelle nozze dell’Agnello. A questo mistero pasquale l’umanità è invitata a partecipare “oggi” nella Sacra Liturgia: “Beati, qui ad cenam nuptiarum Agni vocati sunt!” (Ap 19,9).

(Quarta di copertina)

venerdì 16 marzo 2018

DOMENICA V DI QUARESIMA ( B ) – 18 Marzo 2018









Ger 31,31-34; Sal 50 (51); Eb 5,7-9; Gv 12,20-33





Vicini ormai alla celebrazione della Pasqua, la tematica di questa domenica quaresimale ci propone il mistero di Cristo che, morendo sulla croce, diventa principio di salvezza per tutti. E’ Gesù stesso a rivelare il senso salvifico della sua morte (cf. vangelo). Alcuni greci venuti a Gerusalemme per la festa della Pasqua, esprimono il desiderio di vedere Gesù. Si tratta di uomini che, pur non appartenendo al popolo d’Israele, sono timorati di Dio e cercatori sinceri della verità. Il loro desiderio non è una semplice curiosità, non si esaurisce in un semplice vedere, ma è un desiderio di conoscere e di credere. Questi greci vengono presentati dall’evangelista come personaggi emblematici, che rappresentano in qualche modo tutti coloro che cercano Gesù. Così viene interpretato dallo stesso Gesù che, vedendo in questi greci il primo frutto della sua passione, si dilunga in un discorso sulla sua imminente morte concluso con queste parole: “Io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista aggiunge: “Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”. Per mezzo di Gesù, l’uomo che si era allontanato da Dio ritorna a lui. All’antica alleanza ristretta al popolo d’Israele, succede la nuova e definitiva alleanza aperta a tutti i popoli.

Questa “alleanza nuova” è annunciata nel secolo VI a.C. dal profeta Geremia in una pagina che è uno dei vertici dell’Antico Testamento, proposta oggi come prima lettura. E’ la sola ed unica volta che una tale espressione ricorre nelle pagine dell’Antico Testamento. Tre sono i tratti caratteristici di questa nuova alleanza: l’interiorità (“porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”); poi la spontaneità della relazione con Dio (“tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande”). Infine il perdono del peccato che ha reso precaria l’antica alleanza (“perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”). La nuova alleanza è scritta nel cuore. La morte di Gesù in croce ci insegna che Dio scrive la sua legge nel cuore dell’uomo amandolo fino all’estremo. L’amore infatti si impone non con la minaccia della punizione ma con la dolcezza del desiderio.

Il breve brano della lettera agli Ebrei, proposto come seconda lettura, illustra la stessa dottrina riscontrata nelle altre letture bibliche. Il dono della nuova alleanza è fatto persona in Gesù. Nella solidarietà e fedeltà, vissute nella forma estrema in un contesto di sofferenza mortale, Cristo diventa “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”. In altre parole, nel dono totale di sé al Padre Gesù sancisce la nuova ed eterna alleanza, diventa quindi il perfetto mediatore tra Dio e gli uomini. La croce ci insegna che l’efficacia della nostra vita è direttamente proporzionale alla capacità di dimenticare noi stessi. Nel mistero pasquale di morte e risurrezione si manifesta l’amore i Dio e si stabilisce l’alleanza nuova, che l’eucaristia continuamente ripresenta e realizza per noi.

domenica 11 marzo 2018

COMMUNIONEM MANIBUS ACCIPERE SCANDALUM PUSILLORUM






In un post dello scorso 4 marzo mi sono occupato di alcuni aspetti della prima parte, quella storica, del libro di Federico Bortoli (La distribuzione della Comunione sulla mano). Anche il resto del libro merita la nostra attenzione. Così, ad esempio, il cap. 2: “L’introduzione della Comunione sulla mano dopo il Concilio Vaticano II”. L’Autore nota che la pratica della Comunione sulla mano iniziò a diffondersi in alcuni luoghi, in particolare in Germania, Olanda, Belgio e Francia. In seguito, per ben 14 pagine, si descrivono gli interventi del Consilium e della Sacra Congregazione dei Riti per fermare questa novità; si ricorda la concessione accordata alla Conferenza Episcopale Tedesca, che, avendo suscitato vivaci proteste, è stata sospesa dal Santo Padre; in questo contesto, si illustrano i diversi interventi di Mons. Bafile, allora nunzio apostolico in Germania, e via dicendo. Bisogna ammettere che Bortoli offre un panorama assai preciso e completo di queste vicende, sempre però per ribadire, come egli affermerà verso la fine del libro, che “la Comunione sulla lingua e in ginocchio costituisce ciò che è giusto nella distribuzione dell’Eucaristia” (p. 272) o, come si dice nella Prefazione al volume, il lavoro di Bortoli potrebbe “favorire un ripensamento generale sul modo di distribuire la Santa Comunione” (p. 15). Ma mi domando se vale la pena questo accanimento contro la Comunione sulla mano e questa difesa ad oltranza della Comunione sulla lingua.

La liturgia romana in altri tempi ha accolto usi nati altrove (l’introduzione del Credo, l’elevazione delle Specie alla Consacrazione, ecc.). Un caso paradigmatico, e ben più importante di quanto non sia comunicarsi sulla mano o sulla bocca, è la storia del sacramento della riconciliazione. Ricordo qui solo il passaggio, nel sec. V/VI, dalla severa penitenza “canonica” a quella “tariffata” più morbida. La cosiddetta penitenza “tariffata” è d’origine celtica e monastica, e all’inizio ha incontrato una forte opposizione in alcuni ambienti ecclesiali. È nota la condanna nel celebre canone 3 del concilio di Toledo (589), nel quale i vescovi ispanici riprovano questa novità con parole durissime e senza riserve considerandola un “modo assolutamente indegno (foedissime)” di celebrare il sacramento della penitenza.   

Il nostro Autore si sforza per mettere in luce la inopportunità della comunione sulla mano, una novità che non può essere considerata un’applicazione della Sacrosanctum Concilium (p. 81 e passim). È un modo sbagliato di considerare la Costituzione conciliare, assai comune però in ambienti tradizionalisti per criticare la riforma di Paolo VI, proprio quei ambienti che spesso e volentieri declassano il Vaticano II affermando che è semplicemente un Concilio “pastorale”... Una Costituzione non dice e non deve dire tutto.

La storia ci insegna a non scandalizzarci dinanzi a delle novità che non toccano la sostanza della fede, novità che vanno “governate” con prudenza e apertura di mente. Anche comunicarsi in piedi porgendo le mani al ministro può essere un gesto ricco di significati. Inoltre, come dice l’Ordinamento generale del Messale Romano, “con il canto di comunione si esprime, mediante l’accordo delle voci, l’unione spirituale di coloro che si comunicano, si manifesta la gioia del cuore e si pone maggiormente in luce il carattere ‘comunitario’ della processione di coloro che si accostano a ricevere l’Eucaristia” (n. 86). Bortoli parla giustamente dell’importanza dei segni nella liturgia (pp. 257-261). Prima di criticare i (possibili) abusi, cerchiamo di valutare gli usi. Non si tratta solo di adorazione, riverenza e rispetto (una ossessione del volume), ma anche di gioia e di unione spirituale di coloro che si comunicano.

sabato 10 marzo 2018

DOMENICA IV DI QUARESIMA ( B ) – 11 Marzo 2018




2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136 (137); Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

La Pasqua ormai vicina (cf. colletta), la Chiesa ci invita alla gioia (cf. antifona d’ingresso). Infatti, il Figlio dell’uomo è stato innalzato in croce, dice il brano evangelico, affinché chiunque crede in lui, abbia la vita eterna. Per far capire che cosa vuol dire credere nel Figlio dell’uomo, l’odierno brano del vangelo di Giovanni rimanda alla storia del popolo d’Israele che nel cammino del deserto si era ribellato contro Mosè e contro lo stesso Dio, per cui molti furono puniti con i morsi di serpenti velenosi e morirono. Avendo però gli israeliti riconosciuto il loro peccato, Dio promette che chiunque, morso dai serpenti, guarderà il serpente di rame collocato sopra un’asta, resterà in vita. La storia di Israele va interpretata come un messaggio profetico nel suo aspetto di severo giudizio sull’infedeltà del popolo e nel suo aspetto di accorato invito al pentimento fondato sulla fedeltà incondizionata di Dio. Il serpente innalzato da Mosè nel deserto è una prefigurazione di Gesù innalzato sulla croce. Il serpente di rame salvava perché presupponeva la fede nella parola di Dio che promette la salvezza. In modo analogo Gesù morto in croce è fonte di salvezza per chiunque vi riconosce la rivelazione dell’amore di Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito; chiunque crede in lui ha la vita eterna” (canto al vangelo).

Alla nostra infedeltà e al nostro peccato si contrappongono la fedeltà e l’amore misericordioso di Dio. Al peccato che conduce l’uomo alla schiavitù e alla morte si contrappone l’amore di Dio che dona liberazione e salvezza. La prima lettura illustra lo stesso concetto: al peccato d’Israele che gli ha meritato la punizione della deportazione in Babilonia, si contrappone l’amore di Dio che, fedele alla sua parola, libera il suo popolo dall’oppressione e lo riconduce a Gerusalemme. La nostra salvezza non è fondata sui nostri meriti, ma sull’infinita ricchezza della misericordia di Dio. E’ ciò che ricorda san Paolo ai primi cristiani di Efeso: la salvezza “non viene da voi, ma è dono di Dio” (cf. seconda lettura). E tutto ciò, aggiunge l’Apostolo, trova pieno compimento in Cristo Gesù: “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo”. L’ultima parola di Dio non è la morte ma la vita.

Quando si parla di “colpa” o di peccato si ha a che fare con il compimento o il fallimento di una esistenza: solo chi ha forte il senso della dignità dell’uomo davanti a Dio, del suo destino eterno, è capace di percepire quanto grande sia la tragedia del peccato. Paradossalmente però il peccato rivela chi è Dio: quanto più profondo è il rifiuto dell’uomo, tanto più grande appare l’abisso dell’amore divino, che la croce mostra in tutta la sua concretezza e veracità.


domenica 4 marzo 2018

LA DISTRIBUZIONE DELLA COMUNIONE SULLA MANO: STORIA O IDEOLOGIA?






Alla brillante recensione di Claudio U. Cortoni del libro di Federico Bortoli (La distribuzione della comunione sulla mano. Profili storici, giuridici e pastorali, Cantagalli 2018), pubblicata in questo blog lo scorso giovedì 1 di marzo (presa dal blog di Andrea Grillo),vorrei aggiungere una mia personale e umile riflessione. 

Bortoli afferma che, superato il tempo delle persecuzioni, la santa comunione iniziò (dal secolo IV/V in poi) a distribuirsi non più sulla mano ma in bocca. L’autore cita una serie di testi dei Padri, dai quali egli stesso riconosce non si può ricavare con certezza tale tesi. Il Bortoli però si sofferma in modo particolare su una testimonianza secondo cui Innocenzo I avrebbe deciso di distribuire la comunione sulla lingua ai laici per la Chiesa di Roma nell’anno 404 (pp. 39-41). Questa decisione viene riportata dal Mansi (vol. X) in una nota in calce che si riferisce al Sinodo di Rouen: due secoli dopo il pontificato di Innocenzo I, il vescovo di Rouen Audoeno (610-684), dopo aver visto che a Roma si distribuiva la comunione in bocca, l’avrebbe imposto nella sua diocesi appunto nel Sinodo di Rouen (cf. canone 2), celebrato tra il 649 e il 653.

Il nostro autore si meraviglia che sia Righetti che Jungmann asseriscano che il suddetto Sinodo sia stato celebrato alla fine del secolo IX quando invece in Mansi appare chiaramente la datazione sopra riportata di metà secolo VII. Io mi meraviglio invece che Bortoli non sappia che dopo la pubblicazione dei volumi del Mansi ci sono stati una serie di studi che ritengono che il suddetto Sinodo di Rouen è della fine del secolo IX. Infatti, tra l’altro, il contenuto di alcuni canoni di questo Sinodo sono di chiara ispirazione carolingia. Non sto qui ora a spiegare la complessa questione critica che ho sintetizzato nel mio studio: A proposito della comunione sulla mano (in “Ecclesia Orans” 1991, pp. 293-304). Bortoli conosce questo mio articolo che cita nell’elenco bibliografico a p. 338 e anche a p. 237. Se l’ha letto e non è d’accordo con quanto ivi espongo, dovrebbe controbattere con argomenti. 

A p. 39 Bortoli afferma che papa Gregorio Magno (+ 604) era solito distribuire l’Eucaristia sulla lingua. Anche qui si dà per buona la testimonianza riportata di Giovanni Diacono nella biografia del santo Pontefice: vedendo il Papa l’atteggiamento irriverente di una matrona nel momento della comunione, ritirò subito la sua mano dalla bocca della dama. Pure qui Bortoli dovrebbe controbattere l’opinione di Jungmann che ritiene l’episodio una leggenda, interpolata, del sec. IX; lo dimostrerebbe, tra l’altro, che la formula usata nel porgere l’Eucaristia è una formula del sec. IX. Rimando per più dettagli a quanto ho scritto nel mio articolo sopra citato.

Con il lavoro pubblicato nel suo libro, il Bortoli ha conseguito il Dottorato in Diritto Canonico presso la Pontifica Università della Santa Croce di Roma. Non fa onore alla Facoltà di Diritto Canonico di questa Università un lavoro in cui si interpretano i dati storici citati e altri non citati con tale superficialità.

In conclusione, per quanto riguarda la storia della distribuzione della comunione sulla mano, il libro di Bortoli non apporta delle novità. Il passaggio della comunione sulla mano alla comunione in bocca coincide con il passaggio del pane fermentato al pane azzimo; le finissime particole di pane azzimo, che già nel sec. IX prendono la forma tondeggiante e si assottigliano sempre di più, aderiscono molto meglio alla bocca di quanto non facciano i solidi pezzi di pane fermentato.

La rivalutazione positiva, poi, della dimensione della presenza reale, a metà del secolo IX, e il conseguente aumento delle manifestazioni di rispetto e di adorazione verso l’Eucaristia, va di pari passo con un vistoso allontanamento dalla comunione eucaristica. Il rispetto può diventare anche allontanamento. Il ricupero attuale di una “familiarità” rispettosa con l’Eucaristia è positivo, senza negare i progressi della storia, li purifica allo stesso tempo dagli eccessi polemici.


sabato 3 marzo 2018

MEMORIA DELLA BEATA VERGINE MARIA MADRE DELLA CHIESA






CONGREGATIO DE CULTO DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM

DECRETO
sulla celebrazione
della beata Vergine Maria
Madre della Chiesa
nel Calendario Romano Generale

La gioiosa venerazione riservata alla Madre di Dio dalla Chiesa contemporanea, alla luce della riflessione sul mistero di Cristo e sulla sua propria natura, non poteva dimenticare quella figura di Donna (cf. Gal 4, 4), la Vergine Maria, che è Madre di Cristo e insieme Madre della Chiesa.

Ciò era già in qualche modo presente nel sentire ecclesiale a partire dalle parole premonitrici di sant’Agostino e di san Leone Magno. Il primo, infatti, dice che Maria è madre delle membra di Cristo, perché ha cooperato con la sua carità alla rinascita dei fedeli nella Chiesa; l’altro poi, quando dice che la nascita del Capo è anche la nascita del Corpo, indica che Maria è al contempo madre di Cristo, Figlio di Dio, e madre delle membra del suo corpo mistico, cioè della Chiesa. Queste considerazioni derivano dalla divina maternità di Maria e dalla sua intima unione all’opera del Redentore, culminata nell’ora della croce.

La Madre infatti, che stava presso la croce (cf. Gv 19, 25), accettò il testamento di amore del Figlio suo ed accolse tutti gli uomini, impersonati dal discepolo amato, come figli da rigenerare alla vita divina, divenendo amorosa nutrice della Chiesa che Cristo in croce, emettendo lo Spirito, ha generato. A sua volta, nel discepolo amato, Cristo elesse tutti i discepoli come vicari del suo amore verso la Madre, affidandola loro affinché con affetto filiale la accogliessero.

Premurosa guida della Chiesa nascente, Maria iniziò pertanto la propria missione materna già nel cenacolo, pregando con gli Apostoli in attesa della venuta dello Spirito Santo (cf. At 1, 14). In questo sentire, nel corso dei secoli, la pietà cristiana ha onorato Maria con i titoli, in qualche modo equivalenti, di Madre dei discepoli, dei fedeli, dei credenti, di tutti coloro che rinascono in Cristo e anche di “Madre della Chiesa”, come appare in testi di autori spirituali e pure del magistero di Benedetto XIV e Leone XIII.

Da ciò chiaramente risulta su quale fondamento il beato papa Paolo VI, il 21 novembre 1964, a conclusione della terza Sessione del Concilio Vaticano II, dichiarò la beata Vergine Maria «Madre della Chiesa, cioè di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei Pastori, che la chiamano Madre amantissima», e stabilì che «l’intero popolo cristiano rendesse sempre più onore alla Madre di Dio con questo soavissimo nome».

La Sede Apostolica pertanto, in occasione dell’Anno Santo della Riconciliazione (1975), propose una messa votiva in onore della beata Maria Madre della Chiesa, successivamente inserita nel Messale Romano; diede anche facoltà di aggiungere l’invocazione di questo titolo nelle Litanie Lauretane (1980) e pubblicò altri formulari nella raccolta di messe della beata Vergine Maria (1986); ad alcune nazioni, diocesi e famiglie religiose che ne facevano richiesta, concesse di aggiungere questa celebrazione nel loro Calendario particolare.

Il Sommo Pontefice Francesco, considerando attentamente quanto la promozione di questa devozione possa favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei Pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana, ha stabilito che la memoria della beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, sia iscritta nel Calendario Romano nel Lunedì dopo Pentecoste e celebrata ogni anno.

Questa celebrazione ci aiuterà a ricordare che la vita cristiana, per crescere, deve essere ancorata al mistero della Croce, all’oblazione di Cristo nel convito eucaristico, alla Vergine offerente, Madre del Redentore e dei redenti.

Tale memoria dovrà quindi apparire in tutti i Calendari e Libri liturgici per la celebrazione della Messa e della Liturgia delle Ore; i relativi testi liturgici sono allegati a questo decreto e le loro traduzioni, approvate dalle Conferenze Episcopali, saranno pubblicate dopo la conferma di questo Dicastero.

Dove la celebrazione della beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, a norma del diritto particolare approvato, già si celebra in un giorno diverso con un grado liturgico più elevato, anche in futuro può essere celebrata nel medesimo modo.

Nonostante qualsiasi cosa in contrario.

Dalla sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 11 febbraio 2018, memoria della beata Maria Vergine di Lourdes.

Robert Card. Sarah
Prefetto
+ Arthur Roche
Arcivescovo Segretario

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino.html

DOMENICA III DI QUARESIMA ( B ) – 4 Marzo 2018





Es 20,1-17; Sal 18 (19); 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25



La liturgia odierna ci invita a rileggere, in chiave cristiana e pasquale, la pagina biblica dei dieci comandamenti o “dieci parole”, la cui promulgazione è riportata dalla prima lettura. Notiamo che il racconto non inizia con un comandamento ma col ricordo dell’opera divina di salvezza: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile”. Il comportamento etico dell’uomo viene proposto dalla Bibbia come risposta a Dio che si manifesta nella storia come liberatore e salvatore. D’altra parte, l’opera divina di salvezza ha il suo momento culminante nell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio Gesù Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato. Cristo è quindi colui che dà senso e qualità etica all’agire cristiano. Ciò viene confermato da san Paolo che nella seconda lettura afferma che la legge, o meglio la volontà salvifica di Dio non si manifesta né attraverso l’osservanza legale né attraverso la ricerca della ragione, ma in Cristo crocifisso: la croce, che testimonia l’amore folle di Dio per tutti gli uomini senza distinzione, contesta energicamente le idee correnti sul potere e sulla saggezza. La croce di Cristo, oltre che essere il frutto di una storia di iniquità e di peccato, è anche e soprattutto la storia di un amore assoluto che risplende proprio là dove si consuma l’odio.

Nel contesto delle due prime letture, il cui contenuto abbiamo succintamente illustrato, possiamo capire meglio il messaggio del brano evangelico di questa domenica. Apparentemente il racconto evangelico parla di tutt’altro argomento: Gesù scaccia i venditori e cambiamonete dal tempio. Possiamo interpretare questo gesto alla luce del messaggio dei profeti che avevano annunciato una futura purificazione del tempio (cf. Zc 14,21; Ml 3,1). Col suo modo di agire, provocato dallo zelo per la casa del Signore (cf. Sal 69,10), Gesù fa capire che il giorno annunciato dai profeti è venuto. Il gesto di Gesù che scaccia dal tempio i mercanti e i cambiamonete è quindi un gesto profetico che rivela l’identità di Gesù e il ruolo provvisorio del tempio e, in generale, il superamento delle istituzioni dell’Antico Testamento: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Con queste parole, Cristo dichiara superata la legge antica, di cui il tempio è simbolo centrale, e colloca se stesso come punto di riferimento dei nuovi rapporti dell’uomo con Dio. Cristo è egli stesso la nuova legge, colui che ha sancito l’alleanza definitiva tra Dio e gli uomini versando il proprio sangue sulla croce; il corpo di Cristo morto e risorto è il centro del nuovo culto e il tempio della nuova alleanza, in quanto è il luogo della presenza definitiva di Dio in mezzo a gli uomini. Liberati in virtù di Cristo, possiamo vivere ormai una comunione profonda con Dio e con i fratelli. Tutto ciò è frutto della passione, morte e risurrezione di Gesù. È il segno che Gesù offre all’incredulità manifestata dai suoi interlocutori.

Gesù divenuto il nuovo tempio, inaugura un nuovo culto, il cui culmine è l’eucaristia, il suo corpo donato e il suo sangue versato per la nostra salvezza.