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domenica 29 novembre 2020

DOMANDE RICORRENTI SULLA CELEBRAZIONE

 



 

Silvano Sirboni, Come celebrare il Mistero di Cristo. La liturgia tra domande e risposte (Spazio liturgia 6), Paoline, Milano 2020. 174 pp. (€ 13,00).

 

Don Sirboni, noto liturgia con gande sensibilità pastorale, in questo volume risponde in maniera chiara e semplice a domande ricorrenti sulla celebrazione dei sacramenti e in particolare dell’Eucaristia. Le domande (con le relative risposte) sono distribuite in sei gruppi: l’arte del celebrare; la celebrazione eucaristica; atteggiamenti e gesti; musica e liturgia; ministri e ministeri; questioni varie.

Ecco la risposta a una domanda sul bacio dell’altare nelle concelebrazioni (pp. 74-75):

[…] Il bacio dell’altare, dopo quello di pace, è nella celebrazione liturgica il più antico e venerato come il simbolo stesso di Cristo. Quando all’interno delle chiese, nel primo millennio, non vi era ancora la custodia eucaristica, era l’altare che i fedeli veneravano entrando in chiesa.

Nel tardo Medioevo, quando il sacerdote, per complesse ragioni semplicemente logistiche e per niente teologiche, cominciò a voltare le spalle all’assemblea (X-XI secolo), si moltiplicarono significativamente i baci all’altare ogni volta che il sacerdote voltava a esso le spalle per rivolgersi ai fedeli col saluto rituale: Dominus vobiscum. Questo dice quanto sia importante la mensa eucaristica nella simbologia liturgica. Perché, allora, contrariamente a ciò che è previsto nei riti d’ingresso, al termine della concelebrazione solo il celebrante principale e il diacono baciano l’altare?

Ci troviamo a fronte di una discrepanza. Il Cerimoniale dei vescovi (1984), per quanto riguarda la conclusione della concelebrazione, così recita: “Il vescovo di norma bacia l’altare e fa ad esso la debita riverenza. Anche i concelebranti e tutti coloro che si trovano nel presbiterio salutano l’altare come all’inizio (CE 170).

Le Premesse al Messale Romano (2004), invece, recitano così: “I concelebranti, prima di allontanarsi dall’altare, fanno un profondo inchino. Il celebrante principale, invece, con il diacono venera l’altare (OGMR 251). Quest’ultima norma, più recente, è quella che viene normalmente seguita per ovvie ragioni pratiche. Nelle grandi concelebrazioni presiedute dal Papa sovente i sacerdoti sono già collocati ai loro posti e non è possibile il bacio né all’inizio, né al termine. Del resto l’inchino profondo è un sufficiente gesto di venerazione.

venerdì 27 novembre 2020

DOMENICA I DI AVVENTO (B) – 29 Novembre 2020

 



 

Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

 

Nel tempo di Avvento, diamo voce alle speranze e alle preghiere di tutti gli uomini che condividono con noi l’attesa del compimento definitivo della salvezza: “Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. L’Avvento è il tempo della speranza degli uomini e di tutta la creazione.

 

Il tempo d’Avvento collega la venuta di Cristo a Betlemme con l’attesa del suo secondo avvento glorioso alla fine dei tempi: il Natale è considerata già una festa di trionfo connessa col trionfo redentore della croce e con quello finale del ritorno di Cristo. L’Avvento si presenta quindi come un tempo di attesa del compimento della salvezza: nell’attesa gioiosa della festa della nascita del Redentore, siamo orientati verso il ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi. L’Avvento intende suscitare in noi la nostalgia di Dio.

 

In questa prima domenica d’Avvento, la parola d’ordine, ripetuta per ben quattro volte nel breve brano evangelico, è “vegliate!”, siate pronti ad accogliere il Signore che viene per compiere l’opera della salvezza! Come i servi di cui parla il vangelo d’oggi, anche a noi è stato affidato un compito e abbiamo ricevuto molteplici doni di grazia per portarlo a termine. Vegliare vuol dire essere pronti a rendere conto al Padrone della gestione di quanto abbiamo ricevuto da lui. Bisogna vegliare consapevoli del peso di eternità di ogni venuta, di ogni istante che ci è donato. Gesù non dice cosa farà il padrone se, giungendo all’improvviso, troverà i servi addormentati, ma non c’è nemmeno bisogno di annunciare una qualsiasi punizione; l’essenziale in questo caso è il fallimento doloroso del proprio compito. Ci era stato affidato un incarico ed era proprio quello che dava senso alla nostra vita; averlo dimenticato significa che la nostra esistenza precipita nell’inutilità, nell’amarezza del vuoto. La vita cristiana prende inizio dalla prima venuta del Signore, si sviluppa come cammino verso la seconda e si conclude nell’effettivo incontro con il Signore. Non possiamo mancare a questo appuntamento.

 

Nella seconda lettura, san Paolo ci ricorda che, nell’imprevedibilità del momento preciso del ritorno del Signore, la vigilanza deve diventare impegno e testimonianza davanti al mondo, come tra i cristiani di Corinto a cui è indirizzata la sua lettera: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente, che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”. Vivere da cristiani significa assumere responsabilmente un compito che ci è stato affidato. Ma nell’adempimento di questo compito non siamo soli. Nel brano della prima lettura, il profeta Isaia è consapevole della radicale incapacità dell’uomo di salvarsi da solo. E’ necessario che Dio intervenga in nostro aiuto con l’azione trasformante della sua grazia: Egli va incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle sue vie. La colletta del giorno riprende questo concetto quando si rivolge a Dio affinché “susciti in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al Cristo che viene…”

domenica 22 novembre 2020

ARS CELEBRANDI

 


 

Roberto Tagliaferri (ed.), Competenza rituale. La “messa in scena” della fede come ars celebrandi (“Caro salutis cardo” – Contributi 36), CLV- Edizioni liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2020. 242 pp. (30,00 €).

 

La buona ricezione della liturgia postconciliare si gioca sulla maturazione della capacità di celebrare (ars celebrandi). E’ ormai evidente che l’agire rituale esige una competenza specifica, che consiste anzitutto nel rispettare le regole fondamentali del rito stesso. L’accostamento tra rito e teatro fa emergere aspetti fondamentali di tale competenza, pur dentro un rapporto complesso tra realtà e finzione, tra reale e virtuale. Anche se su piani diversi, entrambe le esperienze hanno la capacità di “mettere in scena” il mondo per trasfomarlo, attivando tutti i linguaggi di una performance globale.

 

Contributi di: Bruno Baratto, Claudio Bernardi, Loris Della Pietra, Claudio Antonio Fontana, Giovanni Moleri, Roberto Tagliaferri, Aldo Natale Terrin, Lorenzo Voltolin.

 

(Quarta di copertina)

venerdì 20 novembre 2020

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 22 Novembre 2020 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO


 

 

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

 

Celebriamo Cristo “Re dell’universo”. Per comprendere correttamente questo titolo dato a Cristo bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. L’immagine del “re” e del “pastore” nell’antichità erano interscambiabili; così come quelle del “gregge” e del “regno”. Il Sal 22 parla di Dio Pastore buono che pasce il suo popolo, lo fa riposare su pascoli erbosi e lo conduce ad acque tranquille. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Il salmo esprime la grande fiducia nel Signore che illumina, conforta e guida i credenti nei sentieri della vita.

 

L’anno liturgico si chiude sottolineando la centralità di Cristo nella storia e nella vita dell’uomo nonché il suo primato sull’universo. In effetti la solennità di Cristo Re dell’universo non intende riconoscere a Cristo un semplice titolo onorifico, ma il suo diritto a essere il centro della storia umana, la sua chiave di lettura. Il senso della storia del mondo e della vita dell’uomo si decide nel rapporto con Gesù Cristo e il rapporto con Gesù Cristo si decide nel rapporto coi fratelli. Questo doppio tema è quello che illustrano le letture bibliche odierne.

 

La prima lettura contiene un annuncio di speranza che il profeta Ezechiele fa pervenire al popolo d’Israele in un momento travagliato della sua storia. Dinanzi alla incapacità dei capi politici e religiosi d’Israele di essere autentiche guide al servizio del popolo, è Dio stesso che promette di prendersi cura d’Israele. Il Signore “pascerà” direttamente il suo gregge, nella speranza che questi risponderà alle sue premure. La tenerezza infinita di Dio è l’altra faccia della sua sovrana autorità, della sua onnipotenza.

 

La profezia di Ezechiele trova pieno compimento in Cristo. Il brano della lettera ai Corinzi della seconda lettura contempla la storia come un processo attraverso il quale il mondo deve essere sottomesso alla sovranità redentrice di Gesù. Il progetto di Dio è l’uomo liberato dalla schiavitù del peccato e ricondotto alla pienezza della verità e dell’amore e questo progetto è stato realizzato da Gesù Cristo. E quando tutto sarà stato sottomesso a Cristo, “anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Queste parole ci introducono nel brano evangelico d’oggi. Infatti, san Matteo ci presenta a Cristo Signore quando verrà nella sua gloria a giudicare il mondo. Il criterio con cui Cristo giudicherà “tutti i popoli” sarà quello di aver amato, servito, aiutato, consolato chi si sia trovato in situazione di miseria, di povertà, di sofferenza, di malattia, di ingiustizia. Gesù afferma che in ognuna di queste situazioni lui era presente, per cui ogni gesto compiuto in favore del fratello in realtà era diretto a lui. Chi ha amato i fratelli di fatto ha amato Cristo. Ecco perché riconoscere la regalità di Cristo significa imitarne lo spirito, incontrarlo nel fratello e impegnarsi a liberarlo dalle sue necessità. L’amore attua e dilata i confini del regno di Cristo, che non è una realtà né geografica né spaziale né temporale, ma è la sovranità del suo amore, che si attua già nel cuore di ogni uomo e nelle realizzazioni terrene e si compirà in pienezza alla fine quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. seconda lettura). Sintetizzando possiamo dire, riferendoci al grandioso scenario del giudizio finale che “alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce).

 

domenica 15 novembre 2020

L’INVITO ALLA COMUNIONE NEL NUOVO MESSALE ITALIANO

 



 

Goffredo Boselli, Le nozze dell’Agnello. Guida alla nuova traduzione del Messale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2020. 95 pp. (€ 9,00).

 

In questo volumetto, l’autore offre una preziosa e puntuale guida alle novità più rilevanti della nuova traduzione del Messale. In seguito offro le pagine che illustrano i cambiamenti nel rito della comunione (pp. 56-61).

Nei riti di comunione è stata modificata e ritradotta la formula di invito alla comunione che segue immediatamente l’Agnello di Dio. Messale del 1983: “Beati gli invitati alla Cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Messale del 2019: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. La nuova edizione del Messale sceglie di essere fedele al testo dell’edizione latina del Missale Romanum che così recita: “Ecce Agnus Dei. Ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”.

Questa modifica ha un valore rilevante perché in primo luogo ripristina la successione originale della sequenza rituale, che le due precedenti edizioni italiane del Messale avevano scelto di modificare, invertendo l’ordine della frase, forse non comprendendo la mens rituale sottostante. Il presbitero, presentando all’assemblea il pane spezzato e il calice – vertice iconico dell’eucaristia perché il pane è mostrato spezzato e insieme al calice del vino – riprende l’invocazione “Agnello di Dio” della triplice litania appena cantata e lo contempla citando alla lettera l’espressione del Battista nel quarto vangelo “Ecco l’Agnello di Dio”, aggiungendo “ecco colui che toglie i peccati del mondo” dell’ “ecco”, assente nel testo finora in uso.

Ma il valore della novità di questa sequenza rituale consiste soprattutto nell’aver tradotto fedelmente il testo latino “Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”, “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” riconsegnando così alla liturgia la citazione diretta, sebbene non completa, dell’Apocalisse di Giovanni (cf. Ap 19,9) introdotta dalla riforma dell’Ordo Missae del Messale di Paolo VI. Nelle edizioni precedenti, i traduttori italiani hanno preferito rendere “cenam Agni” con “cena del Signore”, ponendo in ombra la dimensione escatologica che questa espressione giovannea contiene ed evoca.

Il Messale di Paolo VI, facendo seguire alla formula “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi”, già presente nel Messale di Pio V, il versetto “Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”, fa della beatitudine giovannea il culmine a cui giunge la frazione del pane, aprendo questo rito a una dimensione escatologica essenziale alla celebrazione eucaristica. La tavola del Signore sulla quale la Chiesa celebra il memoriale della Pasqua di Cristo e la tavola della cena dell’Agnello sono un’unica tavola. Quella della Chiesa è sacramento di quella del cielo.

“Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”, salutiamo con gioia e intima soddisfazione questa beatitudine, che invita alla tavola del pane spezzato e dell’unico calice, corpo e sangue del Signore, posti davanti agli occhi dell’assemblea mentre ai suoi orecchi risuona la beatitudine dell’Apocalisse come promessa e profezia del banchetto escatologico, la tavola del Regno promessa da Cristo: “Io preparo per voi un regno […] perché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno” (Lc 22,29).

Va tuttavia osservato che la formula liturgica ha omesso nel testo latino il vocabolo “nozze” presente nel versetto dell’Apocalisse: “Beati gli invitati alla cena di nozze dell’Agnello” (Ap 19,9). La ragione per la quale i riformatori dell’Ordo Missae del Messale di Paolo VI abbiano fatto questa scelta ci resta nascosta. A ben guardare, la nuova traduzione italiana avrebbe potuto completare la citazione giovannea, consapevole che la fedeltà alle Scritture, specie al Nuovo Testamento, è superiore alla fedeltà materiale ad un testo liturgico dell’editio typica. Lo hanno invece fatto i traduttori della nuova edizione del Messale francese, rendendo “Heureux les invités au repas des noces de l’Agneau”. E’ auspicabile che la prossima edizione italiana colmi la mancanza.

 

 

venerdì 13 novembre 2020

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 15 Novembre 2020

 


Prv 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

 

In una atmosfera piena di pace, di serenità e di felicità il Sal 127 celebra la vita piena dell’uomo giusto. Dio lo benedice nel suo lavoro, dandogli la possibilità di coglierne e di goderne i frutti. Il salmo inizia con le parole “Beato chi teme il Signore”, e termina con un augurio che si estende sull’intero popolo d’Israele: “Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!”. In questa cornice, le letture bibliche odierne sono un forte richiamo ad una fede feconda; ci viene ricordato che le più sacrosante aspirazioni dell’uomo saranno appagate in pieno solo nella “città futura”, quando nell’intimità della casa del Padre la sposa dell’Agnello radunerà tutti i suoi figli “intorno alla sua mensa”. Raggiunge però questo traguardo colui che “cammina nelle vie del Signore”.

 

Alla fine ormai dell’anno liturgico, anche questa domenica è dominata dal pensiero delle ultime realtà, ma con una particolare sottolineatura: il rimando alla responsabilità personale nel presente come fatto decisivo in ordine al giudizio del futuro. L’uomo è libero di scegliere come spendere la propria esistenza terrena, ma solo chi segue fedelmente le vie indicate dal Signore raggiungerà un traguardo luminoso. La prima lettura fa l’elogio della donna perfetta, di cui si loda sia la sua integrità morale sia la sua capacità di gestire con fermezza, intelligenza ed amabilità la sua casa. La parabola dei talenti riportata dal vangelo si muove su una linea simile: i servi che hanno fatto fruttificare i talenti ricevuti sono lodali e premiati con generosità dal loro padrone. L’unico che sotterra il talento ricevuto viene castigato. Notiamo che un talento costituiva la paga di circa seimila giornate di lavoro. Anche al servo che ne viene affidato uno solo riceve quindi un capitale enorme.

 

Il nostro rapporto col futuro, precisato nella domenica scorsa come un “vegliare”, diventa oggi un “operare” nel concreto quotidiano, in base alle responsabilità avute. Non si tratta solo di attendere il ritorno di Cristo, ma di orientare la storia verso di lui. Dobbiamo vivere quindi non solo in un’attesa vigile ma anche fattiva. Il nostro futuro eterno è legato all’impegno nel quotidiano. Notiamo che il terzo servo di cui parla la parabola evangelica non viene punito perché ha fatto del male, ma perché non ha fatto del bene. Un dono, anche se piccolo, è pur sempre un dono: in quanto tale è un gesto di amore e di fiducia, a cui bisogna corrispondere con altrettanta generosità. Tutti abbiamo ricevuto dei doni; bisogna farli fruttificare. Alla fine della nostra vita ci incontreremo solo con ciò che avremo costruito, ma anche con tutto ciò che avremo avuto il coraggio di aspettarci da Dio. La venuta dell’ultimo giorno, del giorno del Signore, sarà un’amara sorpresa solo per chi avrà sistematicamente ignorato le proprie responsabilità e avrà chiuso il suo cuore alla speranza. Perché il Signore viene già ora, nella fedeltà agli impegni di ogni giorno. Nella seconda lettura, san Paolo ribadisce la stessa dottrina: conoscendo le ultime realtà a cui andiamo incontro, non possiamo comportarci come se non esistessero, ignorandole o adagiandoci in una passiva e inattiva attesa. Ciò che Dio ci chiede è ben poca cosa: la fedeltà alla sua grazia di ogni giorno nel compimento dei doveri quotidiani.

 

Possiamo ben dire che la santa eucaristia a cui partecipiamo costituisce la sintesi massima dei talenti datici da Dio. Perciò la partecipazione fruttuosa ad essa è pegno della gloria futura: ci ottiene la grazia di servire il Signore fedelmente e ci prepara il frutto di un’eternità beata (cf. orazione sulle offerte).

  

domenica 8 novembre 2020

UN LINGUAGGIO INCLUSIVO NEL NUOVO MESSALE

 


La nuova edizione italiana del Missale Romanum nel Confesso dell’atto penitenziale propone: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli e sorelle” anziché il precedente “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli”. La variazione ritorna nel finale della formula di confessione dei peccati: “E supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi fratelli e sorelle, di pregare per me il Signore Dio nostro”. Si tratta di un’evidente attenzione rivolta alle esigenze di un linguaggio inclusivo della varietà dei generi, maschile e femminile.

La coppia “fratelli e sorelle” era già presente nel MR del 1983, ad esempio nella monizione dell’atto penitenziale, dove il sacerdote era invitato a dire, con queste o altre parole: “Fratelli e sorelle, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati”. Ora la ritroviamo ogni volta che il Messale latino si rivolge all’assemblea come “fratelli”: nei riti di presentazione dei doni (“pregate fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio”), così come nel corso della Veglia pasquale (“Fratelli e sorelle, in questa santissima notte…”). Nella stessa Preghiera eucaristica, là dove si ricordano i defunti, la preghiera al Signore è ora rivolta ai fratelli e alle sorelle che si sono addormentati nella speranza della risurrezione.

L’attenzione al cosiddetto linguaggio inclusivo è una caratteristica del nostro tempo, che avverte l’esigenza di superare una cultura ancora troppo sessista e maschilista. La critica proveniente soprattutto dal mondo femminista, ma non solo, è aspra: le donne esistono e abitano il mondo, ma soltanto i maschi abitano il linguaggio. Le donne esistono e abitano la Chiesa e la liturgia, in modo preponderante, ma soltanto i maschi detengono, insieme al linguaggio, il potere. Di fronte a tale richiesta, alcuni dicono che non è aggiustando il linguaggio che si risolve la questione di una reale inclusione del genere femminile all’interno della preghiera liturgica della Chiesa e più in generale della vita sociale: non basta parlare di “sindaca” e di “architetta”, e neppure riferirsi genericamente al “genio femminile” per produrre un vero cambiamento di mentalità nel considerare in modo adeguato il ruolo della donna.

In effetti, pensando alla liturgia, pesa il fatto che a livello di ministeri istituiti (accolito, lettore) non sia ancora prevista l’apertura alle donne, nonostante l’esplicita richiesta proveniente dai vescovi riuniti per il sinodo sulla Parola di Dio del 2008. Questo dei ministeri è un esempio di come l’attenzione ad un linguaggio più giusto non possa essere isolata da una azione più globale, come ci ricordano le persone più attente al mondo del linguaggio e della comunicazione, ciò che non si nomina, non esiste, non viene pensato e preso in considerazione.

Il rischio di allungare le frasi in modo stucchevole può essere presente, e per questo è bene accogliere l’auspicio di un linguaggio inclusivo senza rigidezze ideologiche. La liturgia è piena di espressioni che andrebbero riviste: figli e figli, servi e serve, malati e malate, uomini e donne. Non è sempre possibile modificare un linguaggio proveniente dalle Scritture, che sono fortemente segnate da un modello patriarcale. Tenendo presente tale difficoltà, rimane intatta l’importanza di una attenzione globale ad una liturgia che guarda all’assemblea, al mondo, alla vita e a Dio stesso, non solo con occhi maschili. Il “fratelli e sorelle” della nuova edizione del Messale è come un pro-memoria, perché la voce della liturgia sia una voce capace di unire le differenze (di genere, ma pure di età, di cultura, etnia, ceto sociale, stato di salute fisica…), senza annullarle, ignorandole o appiattendole.

 

Fonte: Paolo Tomatis, Al servizio del dono. La nuova edizione del Messale, ELLEDICI 2020, pp. 33-35

venerdì 6 novembre 2020

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO (A) - 8 Novembre 2020

 



Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13

 

Il Sal 62 dà voce all’anima assetata del Signore. Un desiderio ardente sospinge il salmista, che ricerca Dio come il terreno palestinese arido, assetato, screpolato dalla calura attende l’acqua. Cercare Dio, aver sete di lui, significa che egli è già venuto a cercare noi e ha ridestato in noi, figli prodighi, la coscienza della nostra povertà e il bisogno di tornare alla sorgente della vita. Il salmo è un grido assetato di amore, che Dio stesso suscita nel profondo di ogni anima che lo cerca con cuore sincero, e che si stringe a lui sostenuta dalla forza della sua grazia.


L’anno liturgico volge ormai al termine. Le tre domeniche che lo chiudono orientano la nostra attenzione verso il traguardo delle “cose ultime” (i cosiddetti “novissimi”). Il tema odierno è la venuta gloriosa e definitiva del Signore alla fine dei tempi. In questo contesto, siamo invitati a vivere in attesa vigilante. La prima lettura parla della sapienza che si fa volentieri trovare da coloro che la cercano. Questo brano anticotestamentario si deve leggere in funzione del vangelo, che ci propone la parabola delle vergini stolte e sagge che sono in attesa dello sposo. Così come le vergini sagge erano pronte ad accogliere lo sposo e sono entrate con lui alla sala del banchetto di nozze, così l’uomo e la donna saggi sono pronti ad accogliere il Signore quando egli verrà per entrare con lui nel regno del Padre. La sapienza di cui parla la Bibbia non è quindi una pura conoscenza intellettuale; è piuttosto quella capacità di trovare il giusto cammino della vita. Il saggio è colui che sa leggere alla luce di Dio i fatti, le persone, i sentimenti, i segni il più delle volte ambigui o ambivalenti degli avvenimenti storici; in questo modo, il vero saggio vive con consapevolezza la logica della tensione tra possesso e attesa, tra certezza e speranza. In altre parti del vangelo l’incontro definitivo con il Signore è talvolta rappresentato come un giudizio. In questa parabola invece emerge un altro simbolo, quello delle nozze, proprio per sottolineare la dimensione dell’amore, della comunione di vita. Questo ci rivela come davanti a Dio non siamo passivi, ma chiamati a collaborare con lui per divenire artefici della nostra salvezza.

 

La vigilanza a cui ci esorta la parola di Dio oggi è un invito a pensare all’atteggiamento fondamentale della nostra vita, impegnata nel tempo ma senza mai perdere di vista l’eternità. Nella seconda lettura san Paolo si rivolge ai primi cristiani di Tessalonica che soffrono con angoscia per il distacco dai propri cari e s’interrogano sulla sorte dei defunti. L’apostolo ricorda a questi primi cristiani la fede nella morte e risurrezione del Cristo, quale premessa e fondamento della speranza in una vita ultraterrena. Nonostante la morte e al di là della morte, noi speriamo che la vicenda storica avrà una conclusione positiva. Non il vuoto ma l’incontro definitivo con il Cristo definisce la visione cristiana sulla conclusione della vicenda terrena.

 

Ogni celebrazione eucaristica di per sé è già partecipazione al banchetto celeste, realizzata però nel segno sacramentale, nell’attesa cioè della sua completa e definitiva manifestazione. Ecco perché noi cristiani preghiamo, soprattutto nella celebrazione eucaristica, per affrettare il ritorno di Cristo dicendogli: “Vieni, Signore” (1Cor 16,22; Ap 22,17-20).

 

domenica 1 novembre 2020

IL VALORE UNIVERSALE DEL RITO

 


 

I filosofi cinesi riflettevano sulla natura e sugli usi del rito nello stesso modo in cui i filosofi greci cercavano di definire la legge e di costruire un sistema giuridico ideale. Mentre i filosofi greci riflettevano sull’essere delle cose, nella stessa epoca i loro omologhi cinesi discutevano sull’azione umana (il cui paradigma è fornito dall’azione rituale): questo era il centro delle loro riflessioni.

Parlare di “ritualizzazione” significa evocare il modo in cui viene codificato un comportamento, che così diventa normativo. Gli psicologi spesso considerano la ritualizzazione come un meccanismo che permette di controllare socialmente la manifestazione delle emozioni. La “deritualizzazione” costituisce il fenomeno opposto. Chi controlla il rito controlla l’immagine che la società dà di sé stessa.

I riti spesso si incrociano con dimensioni religiose, sociali e politiche.

Gli effetti e le ragioni del fare rituale costituiscono uno dei temi essenziali della riflessione dei pensatori cinesi, almeno dall’epoca di Confucio fino all’inizio dell’impero Han.

I riti esplicitamente sacri possono essere visti come un’estensione deliberata, intensificata e altamente elaborata dell’intercomunicazione civile quotidiana.

Confucio vede nella pratica rituale i caratteri di un ideale sociale: “La vita umana nella sua totalità alla fine appare come un rituale, allo stesso tempo vasto, spontaneo e santo: la comunità degli uomini”. Pertanto, i difetti che si possono eventualmente notare nel funzionamento del rituale rivelano le lacune sociali stesse.

L’esercizio dei riti al di fuori del substrato fornito dalla virtù di umanità è solo una lettera morta, una lettera dalla quale si è allontanato lo spirito.

Se il potere era in grado di strumentalizzare il rito – e non ha esitato a farlo –, gli autori cinesi lo hanno al tempo stesso teorizzato come esercizio di una funzione regolatrice di controllo, di pacificazione e di limitazione degli appetiti: il rito opera una trasformazione umana e spirituale che inserisce l’uomo in un orizzonte sempre più vasto.

La lettera della legge come quella del rito reca la morte se lo spirito non la vivifica e conduce a superarla. Nel mondo giudeo-cristiano, come pure in quello cinese, tutti i processi di umanizzazione partono dal cuore e riconducono ad esso.  

Cf. Benoît Vermander S.I., “Rituale o ritualismo? Lo spirito del confucianesimo”, in La Civiltà Cattolica, n. 4086 (19 sett./3 ott. 2020), pp. 471-480.