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venerdì 30 ottobre 2020

TUTTI I SANTI – 1 Novembre 2020



 

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a 


Nella festa di tutti i Santi, siamo invitati a contemplare l’assemblea festosa dei nostri fratelli che glorifica in eterno il Padre e, al tempo stesso, a prendere coscienza che anche noi siamo in cammino verso la casa del Padre. Nel nostro pellegrinaggio sulla terra, Dio ci ha dato come “amici e modelli di vita” i santi (prefazio).

 

Nelle letture bibliche e nelle preghiere della Messa di questa solennità possiamo cogliere alcuni temi che illustrano diversi aspetti della santità. La prima lettura, tratta dall’Apocalisse, ci offre lo spettacolo della Gerusalemme celeste, popolata dagli eletti: si tratta di una “moltitudine immensa… di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” che sta “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello”. Questa moltitudine di eletti è indicata dal testo in “centoquarantaquattromila”, dodici volte dodici moltiplicato per mille, un numero simbolico che esprime pienezza. Il regno di Dio non è a numero chiuso, ma aperto a quanti accettano di purificare i loro peccati nel sangue dell’Agnello. La santità non è impresa per pochi eroi, ma tutti nella Chiesa siamo chiamati ad una vita santa, secondo il detto dell’Apostolo: “questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Tutti i fedeli di qualsiasi stato e grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità, “la pienezza dell’amore” (preghiera dopo la comunione). Ciascuno di noi è chiamato a diventare santo, cioè a realizzare in pieno la sua vocazione cristiana.

 

Il traguardo della santità è per tutti perché tutti siamo stati oggetto dell’amore di Dio. Infatti la santità è anzitutto un dono che procede dal “Padre, unica fonte di ogni santità” (preghiera dopo la comunione). San Giovanni, nella seconda lettura, esalta il grande amore che ci ha dato il Padre fino a poter essere chiamati figli di Dio. Ecco quindi che il progetto del Padre è che noi siamo simili all’immagine del Figlio suo Gesù Cristo. La vicenda della santità, la cui radice è la filiazione divina, comprende per Giovanni due tappe, essendo progressiva: lo stadio iniziale, realizzato fin dagli inizi della vita cristiana, e il compimento futuro nella perfetta rassomiglianza col Figlio di Dio, quando “saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

 

E’ santo quindi colui che assomiglia al Figlio di Dio. In questo contesto, le beatitudini proposte dal brano evangelico possono essere lette come il ritratto perfetto di Gesù Cristo. Egli ha vissuto l’ideale delle beatitudini e in lui uomo tutte le promesse di Dio si sono realizzate. Non siamo quindi di fronte a una pura utopia, ma a un programma di vita possibile per ogni discepolo di Gesù, che ha detto: “Imparate da me…” (Mt 11,29). Dietro ad ogni singola beatitudine si può cogliere l’identità di Cristo, uomo nuovo, che noi tutti siamo chiamati a seguire e a imitare.

 

Un nuovo interesse per la santità riaffiora nel nostro tempo. Ci si chiede come poter esprimere una profezia che parli attraverso l’autenticità della vita. Pur nella diffusa scristianizzazione, c’è una sete ardente di spiritualità. Per noi cristiani la santità è una condizione di esistenza che deriva dal rapporto con Dio, anzi è dono di Dio che ci accoglie come figli nel Figlio.

 

L’Eucaristia è la prefigurazione e l’anticipo del festoso banchetto del cielo. Essa è quindi anche un viatico cioè una provvista da viaggio. E’ come il pane che fortificò Elia lungo il sentiero del deserto verso il monte di Dio.

domenica 25 ottobre 2020

LA PREGHIERA COMUNITARIA

 



 

Antonio Landi, La preghiera della comunità nel libro degli Atti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsamo 2020. 109 pp. (€ 14,00).

 

In un tempo segnato da un forte ripiegamento nell’individualismo, che coinvolge anche l’ambito della spiritualità, è opportuno riscoprire la rilevanza della dimensione comunitaria. D’altro canto, è nella preghiera che un’assemblea cristiana prende coscienza di essere popolo redento dal Signore Gesù Cristo e si sente spronata a edificarsi nell’unità. Questa duplice convinzione ha ispirato l’autore nella riflessione sui testi che Luca, autore del terzo vangelo e degli Atti degli apostoli, dedica alla preghiera. La memoria delle origini è un’opportunità preziosa non solo per ricordare in che modo la cristianità antica lodava, ringraziava, supplicava il Signore, ma soprattutto per evidenziare la centralità della preghiera nella vita della comunità e nella sua attività missionaria.

 

Nella prospettiva lucana, essa non è un pio esercizio di devozione né un obbligo in ossequio alle prescrizioni della tradizione giudaica: è vita. Per questo i cristiani primitivi come quelli contemporanei non ne possono far a meno, perché non possono fare a meno di vivere.


(Risvolto del volume)



 

(Risvolto del volume)

venerdì 23 ottobre 2020

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 25 Ottobre 2020



Es 22,20-26; Sal 17 (18); 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40

 

Se vogliamo sintetizzare le prescrizioni del brano dell’Esodo, riportate dalla prima lettura, possiamo dire che Dio si prende cura con molto amore e tenerezza del povero e del debole ed ascolta i loro giusti lamenti. Ecco perché il Signore condanna lo sfruttamento e l’oppressione delle persone deboli e indifese, e ricorda che il valore della persona è sempre superiore alle cose.

 

Nel brano del vangelo d’oggi alla domanda di un dottore della legge su quali sia il più grande comandamento della legge, Gesù risponde: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore...” Ma aggiunge subito dopo: “Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. E conclude affermando che da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti. Gesù parla quindi dell’amore come dimensione globale dell’esistenza, di un amore che abbraccia appunto tutta l’esistenza ed è proiettato in modo inseparabile verso Dio e verso i nostri simili. Questa unità dei due comandamenti non comporta certamente la loro totale identificazione, ma significa che essi sono intrinsecamente associati e interconnessi. Noi siamo tentati di scindere le due cose, dando talvolta il primato a Dio e trascurando il prossimo. Il messaggio evangelico invece ci invita a coniugare i due amori, anzi ad unirli in modo che diventino una medesima esperienza di vita. L’esperienza dell’amore di Dio deve passare attraverso l’amore del prossimo, e viceversa. Questa sintesi è la vera novità cristiana in rapporto al messaggio dell’Antico Testamento. Per il cristianesimo la legge dell’amore diventa la suprema norma a cui tutto va orientato e da cui tutto si fa dipendere.

 

Se Dio ama la creatura umana, chiunque voglia amare Dio deve collocarsi sulla sua stessa lunghezza d’onda, deve amare anche i suoi simili. D’altra parte, come la creatura umana è unitaria, così le sue scelte di fede e di amore devono essere realtà unitarie. Sulla stessa linea, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che accogliere la parola di Dio significa abbandonare ogni idolatria per diventare seguaci, imitatori di Cristo e testimoni della sua carità.

 

L’amore è fatto non solo di parole, ma di cose concrete, di attenzione e sensibilità verso l’altro, soprattutto se questo è in condizione di debolezza ed è indifeso e proprio per questo, esposto maggiormente all’ingiustizia, allo sfruttamento e alla povertà.

 

L’eucaristia a cui partecipiamo è memoriale del sacrificio di Cristo, ed è quindi segno concreto ed espressivo nel segno sacramentale di un Dio che ci ama: “Cristo ci ha amati: per noi ha sacrificato se stesso, offrendosi a Dio in sacrificio di soave profumo” (antifona alla comunione - Ef 5,2).

 

 

domenica 18 ottobre 2020

IL SIGNIFICATO DEL CERO PASQUALE

 



 

Francesco Mazzitelli, Urget unda flammam. Il significato battesimale del cero pasquale (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – “Subsidia” 192), CLV – Edizioni Liturgiche, Roma 2020. 264 pp. (€ 33.00).

Secondo Francesco Mazzitelli, l’uso del cero pasquale sorse nell’Italia settentrionale verso la fine del IV secolo, in un contesto ariano, e fu accolto a Roma, ma non nella liturgia papale, in concomitanza con la condanna del Pelagianesimo.

Secondo il Liber Pontificalis, l’imperatore Costantino fece collocare nel centro della vasca nel battistero lateranense una colonna di porfido, elemento architettonico che sembra aver ispirato l’immersione del cero nel fonte. Questo rito vuole significare la discesa della grazia santificante sull’acqua per la rigenerazione dei neofiti.

In alcune antiche tradizioni liturgiche, il legame tra il cero pasquale e il fonte battesimale venne reso più esplicito collocando la benedizione del cero dopo le letture e prima della benedizione del fonte. Nella liturgia romana, questo legame si allentò gradualmente, quando si cominciò a celebrare la veglia pasquale senza i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Recuperare l’intimo legame tra il cero e il fonte serve a render più esplicita l’altissima vocazione che i cristiani ricevono nel battesimo: diventare, per grazia, partecipi della vita divina (cf. 2 Pt 1,4).

Vale la pena leggere questo libro che getta nuova luce sulle conoscenze che abbiamo della storia e del significato del cero pasquale.

venerdì 16 ottobre 2020

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 18 Ottobre 2020

 



Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21

 

Dio ha scelto l’imperatore persiano Ciro il Grande per far ritornare gli Ebrei in patria (cf. prima lettura) ridando in questo modo libertà e dignità al popolo di Dio. Il re persiano Ciro, che era un despota e non conosceva il vero Dio, diventa in questo modo strumento della misericordia del Signore. Il profeta intende dimostrare che Dio è presente e agisce nella storia, facendo notare come operi in e per mezzo di persone che vivono al di fuori del suo popolo. Ciò ci insegna che Dio è alla guida della storia e sceglie con libertà le vie e i mezzi più opportuni per realizzare il suo progetto. In questo modo il profeta fa una interpretazione della storia alla luce della fede.

 

La fede però, pur avendo il diritto di contemplare l’intervento di Dio nella storia e di dare la propria valutazione dei fatti, non può per questo negare o sottovalutare la responsabilità e i compiti che spettano all’uomo. Nel vangelo d’oggi ce lo ricorda Gesù con la sua famosa affermazione: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, l’unico pronunciamento “politico” esplicito di Gesù. Poche sentenze del Vangelo hanno avuto la fortuna di questa che ci viene oggi ricordata. Non sempre però è stata capita in modo giusto. Gesù, nella risposta al tranello che gli tendono i farisei e gli erodiani, non si schiera né con la reazione né con la rivoluzione. Un “sì” o un “no” sulla legittimità di pagare il tributo a Cesare poteva essere un valido pretesto per screditare Gesù presso l’autorità politica o presso quella religiosa su un tema molto dibattuto. Nella sua risposta, Gesù riconosce il potere romano come dominazione di fatto, anche se non entra in merito alla sua legittimità o meno. La risposta di Gesù suppone implicitamente che quando un cittadino paga le tasse non per questo sottrae qualcosa a Dio; anzi, proprio operando in questo modo egli obbedisce a Dio. Infatti, della volontà divina fa parte anche l’ordine economico, sociale, politico che è chiamato a governare secondo giustizia i rapporti tra gli uomini. Insomma Dio e la politica si collocano su livelli diversi di esperienza, ma non si tratta di livelli contrapposti. Ciò non toglie la possibilità di conflitti che l’esperienza storica mostrerà ben frequenti. E’ compito di ogni credente discernere se un tipo di obbedienza richiestogli si collochi coerentemente entro la sua obbedienza a Dio oppure no. L’uomo non è un “animale” meramente politico, così come non è un “animale” meramente religioso. Le due dimensioni devono stare insieme per raggiungere i loro fini propri a beneficio dell’uomo, che è un essere indivisibile.

 

In ogni caso, non si può relegare Dio entro una sfera puramente interiore, tentazione frequente nei nostri giorni. Il cristiano deve far emergere nella sua vita personale e nei suoi rapporti con gli altri i valori in cui crede: la fede operosa, la carità matura e la speranza costante in Gesù Cristo. Così insegna san Paolo ai cristiani di Tessalonica (cf. seconda lettura). Come preghiamo nell’orazione colletta della Messa, dobbiamo sempre e in ogni circostanza servire il Signore “con lealtà e purezza di spirito”.

 

domenica 11 ottobre 2020

SVILUPPO ORGANICO?

 



La Costituzione Sacrosanctum Concilium, nel dettare le norme generali per la riforma della liturgia, determina tra l’altro nel n. 23 che “le nuove forme in qualche modo scaturiscano organicamente da quelle già esistenti”. Lo studioso però si imbatte non di rado in processi storici in cui questo criterio non è stato osservato. Ecco un esempio: La prassi rituale della comunione eucaristica ha conosciuto nel corso della storia importanti cambiamenti in dipendenza da diverse visioni teologiche dell’Eucaristia, a loro volta condizionate dalla stessa prassi liturgica.

 

Dalla partecipazione generalizzata alla comunione eucaristica nell’età antica, fino al IV secolo, si passa progressivamente a una diserzione diffusa nell’età medievale. In Gallia all’inizio del secolo VI il Sinodo di Agde (506) prescrive la comunione almeno tre volte l’anno, cioè a Natale, Pasqua e Pentecoste. Sei secoli dopo, nel 1215 il Concilio Lateranense IV prescrive la comunione annuale almeno a Pasqua. Queste norme sono sintomo di una rarefazione sempre più diffusa della comunione sacramentale. Nel secolo XII, per via delle controversie eucaristiche si pone una particolare enfasi sulla presenza reale di Cristo nelle specie consacrate e nei fedeli si sviluppa il desiderio cosiddetto di “vedere l’ostia”. Parallelamente cresce la pratica del culto eucaristico fuori della messa: esposizione del pane consacrato, processioni… Possiamo affermare che aumenta la devozione eucaristica ma non la comunione sacramentale. Praticamente questa situazione si protrae fino al secolo XX.

 

Dalla comunione al pane e al calice si giunge a ricevere la sola “specie” del pane, che comincia a prevalere alla fine del sec. XII, per motivi pratici e di rispetto. Nel secolo XIII san Tommaso d’Aquino offre una base dottrinale a questo uso con la dottrina della concomitanza (Summa Theologica III, q. 76, a. 2). Le critiche degli Orientali alla comunione sotto la sola specie del pane, considerata contraria al Vangelo (cf. Gv 6,53) e alla tradizione ecclesiastica, provoca l’intervento nel 1415 del Concilio di Costanza che proibìsce ai sacerdoti, sotto pena di scomunica, di dare ai fedeli la comunione sotto le due specie. Ancora all’inizio del XX secolo, il Diritto Canonico del 1917 nel can. 852 si esprime tassativamente in questi termini: “Sanctissima Eucharistia sub sola specie panis praebeatur”.    

 

Dall’unico pane spezzato si passa dal sec. IX/X in poi alle singole ostie già divise in particole e l’importante rito della frazione diventa irrilevante. Nella stessa epoca, dalla comunione nel corso della celebrazione eucaristica si arriva alla comunione immediatamente prima o dopo la messa e, in seguito, al di fuori della messa come atto rituale autonomo.


Un percorso storico tutt’altro che lineare e organico.

venerdì 9 ottobre 2020

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 11 Ottobre 2020


 

 

Is 25,6-10°; Sal 22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

 

Con questa domenica, mentre l’anno liturgico volge alla fine, i testi della liturgia cominciano a mettere l’accento sui temi delle ultime realtà. Ciò viene fatto oggi adoperando l’immagine biblica ben conosciuta del “banchetto”. Il banchetto è una concreta espressione di gioiosa convivialità. I profeti, soprattutto Isaia, paragonano volentieri la felicità degli eletti a quella dei convitati chiamati da Dio a partecipare a un sontuoso banchetto. La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, servendosi dell’immagine del banchetto preparato dal Signore “per tutti i popoli” vuole darci l’idea della salvezza universale. Grazie anche alla dura esperienza del deserto, Israele ha imparato a interpretare la storia come continua tensione verso un futuro di salvezza. Ciò gli dà la possibilità di vedere la provvisorietà e l’incompiutezza del presente, di sentirsi sempre in cammino verso la stabilizzazione della salvezza universale, e di vivere quindi il presente nella gioiosa speranza del compimento delle promesse divine.

 

Se leggiamo il brano evangelico di Matteo alla luce del testo d’Isaia, il banchetto nuziale di cui parla Gesù nella parabola non va inteso come un semplice momento di festa, ma come il segno del compiersi del dono messianico di Dio, il compimento delle sue promesse che annunciano vita e luce e consolazione. Gesù, riprendendo l’immagine e la speranza del profeta, avvicina i tempi e vede già nell’oggi il compimento delle promesse. Il regno di Dio è giunto nella persona di Gesù, attorno alla quale avviene la convocazione universale. Tutti siamo invitati alla festa di nozze del figlio del re. Le nozze sono quelle di Gesù con l’umanità nel mistero della sua Incarnazione.  

 

La storia cammina verso una conclusione positiva: il dono della salvezza che Dio offre a tutti senza distinzione. Siamo già ora partecipi di questo dono, ma solo in parte. Nell’accoglienza o meno dei suoi valori decidiamo già oggi della nostra sorte, del nostro futuro. La salvezza è decisa dalle scelte di ogni istante. Siamo in cammino, pellegrini nel mondo, protesi verso le realtà definitive, che conosceranno l’eliminazione di ogni sofferenza e la comunione definitiva con Dio. Nelle fatiche di questo cammino lungo e difficile ci guida il Signore Gesù. Perciò anche noi possiamo ripetere con san Paolo (cf. seconda lettura): “Tutto posso in colui che mi dà la forza”.

 

La celebrazione eucaristica è il segno sacramentale del banchetto eterno. In essa Cristo si dona con il suo corpo e il suo sangue e apre a noi il cammino verso il Padre (cf. Preghiera eucaristica V/C).

 

 

domenica 4 ottobre 2020

PREGHIERA E POESIA

 


 

Il nuovo protagonismo delle fedi apre lo scenario a un’epoca postsecolare dove le religioni entrano nel dibattito democratico, spronando le istanze culturali e politiche a un reciproco apprendimento in forza del bene comune. In questo nuovo orizzonte si sono modificato categorie e paradigmi di interpretazione del reale con cui il cristianesimo deve fare i conti per elaborare nuove modalità narrative e immaginative, perché il Vangelo possa avere ancora rilevanza in uno spazio condiviso con altre visioni della vita.

 

Mariangela Petricola ha affrontato questa problematica nel suo recente volume: Teologia e spazio pubblico. Cristianesimo e nuove narrazioni (Cittadella, maggio 2020). Da quest’opera propongo alcuni brani sul rapporto tra preghiera e poesia.

 

“La preghiera come linguaggio della soglia, della periferia esistenziale, trova nel linguaggio poetico un alleato. Le sue risorse sono più ampie rispetto a quelle del linguaggio discorsivo, può suscitare risonanze di senso più ricche e adeguate ad interpretare le sfumature dell’esistenza per poter raggiungere anche quella più lontana dell’esperienza di fede, riuscendo a dare voce pure all’invocazione di chi non crede, perché pregare non è questione meramente religiosa ma umana.

In questo senso più inclusivo si annullano le barriere divisorie tra fede e incredulità e si tocca con mano la concretezza del vivere con tutte le sue comuni espressioni di imprecazione o di ringraziamento, dove a prevalere è la dimensione apofatica del Dio nascosto e incomprensibile. Si può pensare alla poesia come ad un linguaggio più laico, feriale, che raccoglie la voce di chi non riesce ad esprimersi o a ritrovarsi nel linguaggio canonico della preghiera cristiana.

[…]

La poesia invita a prendere coscienza che c’è sempre di più di quanto normalmente siamo disposti ad ammettere, ci educa alla pluralità semantica e simbolica delle parole che meglio ci avvicinano alla Scrittura, ci sprona ad un’ermeneutica più libera e creativa. E allora la contiguità e reciprocità feconda dei linguaggi, filosofico, teologico, poetico, ci indica una direzione, quella dello sconfinamento cordiale dei rispettivi parametri epistemologici nell’esercizio rispettoso della propria singolarità”

[…]

(pp. 114-119)

 

venerdì 2 ottobre 2020

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 4 Ottobre 2020

 


 

Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

 

Al centro dei testi biblici di questa domenica ritorna l’immagine della vigna, molto usata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Il Sal 79, salmo di lamentazione, è una specie di autobiografia di Israele nel momento in cui sente venir meno la luce del volto di Dio, fonte di luce e di speranza. Israele vuole ritornare ad essere la vigna di Dio, curata con premura dal grande vignaiolo. Ora invece, priva di difesa, è territorio di libera caccia e di preda. Alla fine del salmo, la supplica diventa pressante e piena di speranza: “... Signore, Dio degli eserciti, fa che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. Anche noi, nonostante tutte le nostre infedeltà, continuiamo ad essere quella vigna per la quale Dio ha compiuto meraviglie.

 

L’immagine della vigna, sia nella prima lettura che nella parabola del vangelo, si riferisce al popolo d’Israele ed esprime un giudizio di sofferenza su un popolo molto amato, ma che ha deluso e tradito l’amore del proprio Dio. Il profeta Isaia, vissuto all’epoca nella quale, probabilmente, fu composto il salmo responsoriale, pare dare una risposta agli interrogativi posti dal salmista a Dio sulla sua vigna d’Israele. Il testo profetico è un rimprovero a un popolo che si accontenta di una religiosità superficiale, ma non preoccupato di andare oltre le pratiche del tempio per portare frutti nel contesto di una vita sociale segnata da maggior senso della giustizia e moralità nelle relazioni umane, in conformità al patto di alleanza che lega Dio al suo popolo. Tra Dio e il suo popolo non c’è solo un rapporto di possesso (proprietario e proprietà), ma anche e soprattutto un rapporto di amore; la vigna assume i caratteri della persona umana.

 

L’oscura minaccia, presente nell’allegoria della vigna, trova il suo definitivo riscontro al tempo di Gesù e si concretizza come passaggio della vigna, e cioè del regno di Dio, alle nazioni pagane. Il fallimento del popolo dell’antica alleanza non arresta il piano di Dio: esso continua presso tutti coloro che sono disponibili alla fede, pronti ad accogliere e vivere la parola di Dio. La parabola della vigna contiene un severo ammonimento anche per noi cristiani. Un motivo ricorrente nel vangelo di san Matteo è quello di “portare frutti” (Mt 3,8.10; 7,16-20; 12,33; ecc.). L’appartenenza al Regno non è un privilegio formale, ma un dovere, che impegna a professare con le opere la fede nel Signore Gesù. Ciò che abbiamo appartiene a Dio e ci è affidato in gestione; ma Dio appare talvolta lontano, tanto lontano che ci sembra di poter decidere della nostra vita senza fare i conti con lui. Riferendosi ai brani della Scrittura proclamati oggi (Is 5 e Mt 21), il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “La Chiesa è stata piantata dal celeste Agricoltore come vigna scelta. Cristo è la vera Vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui e senza di lui nulla possiamo fare” (n. 755).

 

Da quanto detto si deduce che se noi meditiamo questi brani della Scrittura non è tanto per accusare l’antico popolo d’Israele, quanto per prendere coscienza della propria responsabilità ed aprire il proprio cuore al progetto di Dio sulla storia manifestatosi in Gesù Cristo. Nella seconda lettura, anche oggi come nella domenica scorsa, siamo invitati da san Paolo, che non è solo un maestro di dottrina ma un testimone di ciò che insegna, alla coerenza tra il pensare e l’agire e a non dimenticare il suo esempio: “Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica”. Facendo in questo modo, aggiunge l’Apostolo, “il Dio della pace sarà con voi”.