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domenica 28 aprile 2019

LA MESSA ADATTATA ALL’INDOLE DEL POPOLO CONGOLESE






Il 30 aprile del 1988 la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti approvò il nuovo Ordinario della Messa adattato all’indole e caratteristiche del popolo congolese. La scorsa Domenica di Pasqua ho partecipato alla Messa nella chiesa della Natività di Gesù (“Deo Infanti sacrum” è scritto nell’architrave della chiesa), in cui la comunità congolese di Roma si raduna per le celebrazioni liturgiche. 


Musiche, colori, grande partecipazione con movimenti ritmici, danze e gesti vari. Tutto l’essere rende culto, e non solo lo spirito: espressioni corporali, orali, musicali, plastiche, decorative. La celebrazione è iniziata con la processione del presbitero celebrante con i diversi ministranti presieduta dalla Croce. Il coro ha cantato più volte e con entusiasmo l’Alleluia con una musica travolgente. 


La celebrazione è pervasa da un senso di comunione molto forte, tipico della vita dell’africano: comunione degli uomini con Dio e tra loro, tra i vivi e i defunti, tra gli uomini e il cosmo. Mi ha colpito, in modo particolare, la danza intorno all’altare durante il Gloria. Il presbitero celebrante (con l’incensiere in mano) e i diversi ministranti girano più volte intorno all'altare a ritmo di danza. Questa danza intende manifestare la volontà di comunicare alla forza vitale che proviene dall’altare del sacrificio di Cristo. Da notare anche che i fedeli tengono le mani alzate durante le preghiere sacerdotali; un modo per manifestare la comunione con la preghiera del sacerdote che presiede la Messa.


Sono alcune delle sensazioni che ho percepito durante la celebrazione. Mi sono domandato: i cosiddetti abusi, che purtroppo non mancano nelle celebrazioni liturgiche, non sono forse un segno che le nostre assemblee hanno bisogno di qualcosa di simile (naturalmente, "mutatis mutandis") a quello che ho visto e sperimentato nella piccola chiesa della Natività di Gesù? Alcuni diranno che in questo modo si rischia di celebrare sé stessi, di ridurre la Messa ad una festa “orizzontale”, in cui il mistero non occupa il posto centrale. Forse, talvolta…, ma il problema rimane.


M. A.



venerdì 26 aprile 2019

DOMENICA II DI PASQUA (C) o della Divina Misericordia 28.04.2019






At 5,12-16;  Sal 117 (118); Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31



Il contenuto delle tre letture di questa domenica può essere considerato da diverse prospettive, ma tutte e tre le letture hanno al centro Gesù Cristo risorto e la fede in lui. La prima lettura ci racconta che il numero di coloro che credevano nel Signore aumentava. La seconda lettura è un brano del primo capitolo dell’Apocalisse,  dove san Giovanni narra la visione che egli ha avuto di Cristo risorto, il quale al tempo stesso che lo incoraggia a scrivere le cose che ha visto, proclama solennemente: “Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiave della morte e degli inferi”. Finalmente, il brano evangelico ci tramanda la toccante storia dell’atto di fede in Cristo risorto dell’apostolo san Tommaso.

Il grande pensatore cristiano Dietrich Bonhoeffer, scrivendo dal carcere berlinese nel 1944, pochi giorni prima di essere impiccato, riassumeva così il senso di tutta la sua esistenza: “Io vorrei imparare a credere…” Il cristiano è colui che impara a credere giorno per giorno sino al termine della sua vita. L’odierno racconto evangelico è il ritratto della storia della fede di un uomo che ha dovuto imparare a credere, e che ha avuto bisogno dei suoi tempi. Dinanzi alla testimonianza degli altri apostoli che hanno visto il Risorto, Tommaso afferma che se non mette il dito nel posto dei chiodi e non mette la mano nel costato del Cristo, non crederà. Tommaso ha bisogno di vedere e toccare, ha bisogno dei suoi tempi. Al termine della prova di appello offertagli dal Signore, Tommaso proclama la sua professione di fede, la più sublime dell’intero vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”. La Chiesa annuncia al mondo l’evento pasquale: “Abbiamo visto il Signore”, ma con pazienza e umiltà deve attendere che il mistero della libertà umana possa lentamente e gioiosamente giungere all’atto di fede: “Mio Signore e mio Dio!” Cristo risorto non diventerà mai “Signore” della Chiesa, se non diventa prima ancora “Signore” del cuore e della vita di ciascuno di noi.

La fede di Tommaso, come quella degli altri primi discepoli, si fonda sull’incontro personale con Gesù risorto. Questi fatti sono documentati nel vangelo che è stato scritto, dice san Giovanni, “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Infatti la nostra fede si fonda sulla solida piattaforma della testimonianza storica documentata nei vangeli e si trasmette nella lunga catena dei credenti che formano la Chiesa. Ricordiamo che Gesù chiama beati coloro che crederanno per testimonianza (come noi). Anche se la nostra fede ha travagli simili a quella di Tommaso, siamo certi che anche per noi è possibile alla fine proclamare in totale limpidità la nostra fede nel Risorto. Siamo invitati a farlo ogni volta che ci avviciniamo alla comunione, quando alle parole del ministro “Il corpo di Cristo”, rispondiamo “Amen”.

domenica 21 aprile 2019

L’ALTARE






Monastero di Bose



XVII CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE: L’Altare. Recenti acquisizioni. Nuove problematiche.

Bose, 30 – 31 maggio e 1 giugno 2019.



L’altare è stato il tema del Convegno liturgico internazionale di Bose nel 2003. Vi torniamo per presentare le più recenti acquisizioni storiografiche e affrontare le nuove problematiche emerse. Particolare attenzione sarà riservata ai fondamenti neotestamentari dell’altare cristiano e all’immaginario di cui anche oggi è oggetto, alla complessa compresenza tra l’altare storico e le esigenze della riforma liturgica conciliare, al legame indissociabile tra altare e ambone, al rapporto tra ricerca artistica, produzione seriale e funzionalità. Decisiva sarà la testimonianza dell’esperienza di architetti e artisti che si sono misurati con il tema dello spazio liturgico e la realizzazione di altari.


Segreteria del Convegno: Tel. +39 015.679.185 – Fax +39 015.679.294






venerdì 19 aprile 2019

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO 21 Aprile 2019






At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9



Il salmo responsoriale è tratto dal Sal 117 (118), inno di gioia e di vittoria che era recitato nella cena pasquale giudaica. Esso ricordava agli ebrei i giorni in cui Dio era intervenuto per liberarli dalla schiavitù dell’Egitto e da tutti i loro nemici; ricordava i giorni gloriosi nei quali la destra del Signore aveva operato con potenza; la Pasqua era la grande festa del popolo ebraico, il giorno che il Signore aveva fatto per il suo popolo. La nostra Pasqua è Cristo (cf. seconda lettura alternativa); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore; è questo il giorno dell’uomo rinato a vita nuova per mezzo di Cristo. Il Sal 117 (118) è proclamato in ogni eucaristia della settimana pasquale e nella liturgia delle ore di tutte le domeniche.



La risurrezione di Cristo rappresenta il centro del mistero cristiano, e la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano. Il vangelo parla di Pietro e Giovanni che vanno a visitare il sepolcro di Gesù e lo trovano vuoto. Il sepolcro vuoto è il primo segno della risurrezione. Da quella tomba vuota inizia il cristianesimo. Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata.



Ci soffermiamo brevemente sul contenuto della seconda lettura (Col 3,1-4), perché in essa il mistero che celebriamo viene visto in stretto rapporto con la vita cristiana. San Paolo nella Lettera ai Colossesi sviluppa il tema della centralità di Cristo nella vita del cristiano: la vita del cristiano è una vita in Cristo. In questo contesto acquista senso il breve brano odierno. Se il cristiano è risorto in Cristo, non può che condurre una vita da risorto, interessandosi cioè delle “cose di lassù” (v.2). Le “cose di lassù” di cui parla san Paolo è Cristo stesso “seduto alla destra di Dio” (v.1), cioè il Risorto costituito in potere rappresenta “le cose di lassù”: non un mondo evanescente, astratto, fantastico ma illusorio, un mondo quindi fuori della storia, ma una persona storica, la cui vicenda di morte e risurrezione diventa norma di comportamento, profezia, tipo di ogni vita impegnata per i valori del regno di Dio. L’Apostolo pone quindi alla base dell’etica cristiana non una filosofia, ma un concreto evento di salvezza con cui confrontarsi, anzi, una persona: la persona di Cristo. Cercare le “cose di lassù” significa spogliarsi dell’uomo vecchio con le sue azioni e rivestirsi dell’uomo nuovo. Sentimenti, ovvero “valori” pasquali che presiedono a questa novità di vita, sono: misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, pazienza, perdono, soprattutto carità, pace e fedeltà alla Parola di Cristo (cf. Col 3,5-17). Ecco qui un programma di vita cristiana pasquale.



L’eucaristia si conosce, si celebra e si vive alla luce della fede nella morte e risurrezione del Signore. Compiendo il rito della Pasqua i figli d’Israele sono stati partecipi, di generazione in generazione, della stessa liberazione e salvezza sperimentata dai loro padri nella notte in cui il Signore li fece uscire dal paese d’Egitto. Celebrando l’eucaristia, i cristiani, di generazione in generazione, siamo partecipi del “corpo donato” e del “sangue versato” di Cristo, quale evento decisivo della liberazione di tutta l’umanità dalla forza del peccato e dal potere della morte.


mercoledì 17 aprile 2019

TRIDUO PASQUALE





CRUCEM TUAM ADORAMUS, DOMINE, EL SANCTAM RESURRECTIONEM TUAM LAUDAMUS ET GLORIFICAMUS: ECCE ENIM PROPTER LIGNUM VENIT GUADIUM IN UNIVERSO MUNDO

(Ant. Adoratio sanctae Crucis)

domenica 14 aprile 2019

AMBIENTI CHE PREFERISCONO IL “VETUS ORDO”




 


Dignitatis Humanae Institute è un’associazione ultra-conservatrice, e una lobby politica, di cui il cardinale Burke è presidente e nel cui direttivo figura una dozzina di cardinali. Il consiglio di amministrazione di questa organizzazione “tradizionalista” riunisce i prelati più estremisti del Vaticano e raccoglie gli ordini e i gruppi più oscuri del cattolicesimo: monarchici legittimisti, acerrimi sostenitori dell’Ordine di Malta e dell’Ordine equestre del Santo sepolcro, sostenitori dell’antico rito e alcuni parlamentari europei fondamentalisti cattolici. (Fonte: Frédéric Martel, Sodoma, Feltrinelli, Milano 2019, p. 45).


 


La principessa Gloria von Thurn undTaxis, figura tipica della destra cattolica oltranzista, nel suo castello di Sankt Emmeram ha una cappella privata in cui il suo cappellano monsignor Wilhelm Imkamp celebra ogni mattina una messa in latino secondo il rito antico (ivi p. 124).

sabato 13 aprile 2019

DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE (C) 14 Aprile 2019






Is 50,4-7; Sal 21 (22); Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56



Gesù agonizzante attribuisce a sé il Sal 21, preghiera di lamentazione, riprendendone le prime battute: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (cf. Mc 15,34), parole che noi ripetiamo oggi come ritornello del salmo responsoriale. Il salmo in questione è un testo di grande desolazione, segnato da immagini forti. L’orante, immerso nella sofferenza e vicino alla morte, sente il silenzio di Dio e l’ostilità degli uomini. Ma all’improvviso, la supplica diventa fiduciosa attesa dell’aiuto di Dio e poi ringraziamento festoso al Signore, re dell’universo. All’inizio della settimana di passione, questo salmo ci introduce adeguatamente nella celebrazione del mistero pasquale di Gesù, che va dalla morte alla vita, dalle ombre del sepolcro alla luce della risurrezione. Su questa linea, la colletta della messa ci invita ad avere sempre presente il grande insegnamento della passione di Cristo, per poter partecipare alla gloria della sua risurrezione.



Nella celebrazione odierna sono evocati i due momenti del mistero pasquale: la commemorazione del trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme, con cui egli afferma la sua dignità messianica, e la sua morte in croce, che indica il modo con cui essa si esprime. La passione e morte sono narrate con dovizia di dettagli nella lettura evangelica della passione secondo Luca, a cui si affiancano le altre due letture, che creano il clima adatto per l’ascolto della passione: la lettura profetica presenta la figura misteriosa del Servo sofferente, che assume su di sé le colpe di tutti e le riscatta; quella apostolica è un inno cristologico in cui si afferma che il Figlio di Dio proprio perché ha accettato i limiti e la povertà della condizione umana, Dio “l’ha esaltato”.

Il racconto della passione è così denso che non avrebbe bisogno di commenti. Tuttavia notiamo alcune caratteristiche della redazione di Luca, un racconto pieno di tenerezza, impostato secondo un’ottica personale ed esortativa: spuntano nel succedersi degli eventi le continue reazioni tra il discepolo che assiste e il Cristo sofferente. Seguendo Gesù nella passione, il discepolo – ciascuno di noi – è invitato ad una adesione personale ed esistenziale. Come Simone di Cirene e le pie donne, che seguono Gesù anche in questi momenti decisivi e drammatici, pure noi siamo invitati a seguirlo e a portare la croce dietro a lui. Nel racconto del momento supremo della crocifissione e morte di Gesù, san Luca ricorda tre espressioni del Salvatore che non trovano riscontro negli altri evangelisti. Anzitutto le parole di perdono per i crocifissori: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il Salvatore con la sua preghiera di perdono per i suoi carnefici si fa norma ed esempio vivente di quanto aveva insegnato ai discepoli. Poi al buon ladrone Gesù morente rivolge queste parole: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Anche queste sono parole di perdono e di bontà; parole, poi, che aprono il cuore di tutti noi alla speranza e invitano a guardare in avanti verso la luce della Pasqua di risurrezione. Finalmente nel racconto lucano, Gesù muore con la preghiera sulle labbra: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, parole prese dal Sal 31,6 che faceva parte della preghiera serale degli ebrei. Con queste parole Gesù morente non manifesta soltanto il suo abbandono fiducioso, ma anche la sua piena accettazione del piano di salvezza voluto dal Padre; in tal modo Gesù muore come il perfetto giusto che si rimette nelle mani del Padre.   

“Con la sua morte lavò le nostre colpe e con la sua risurrezione ci acquistò la salvezza” (prefazio). Questo mistero si ripresenta sacramentalmente nel sacrificio eucaristico.

venerdì 5 aprile 2019

CINQUANT'ANNI DEL MESSALE ROMANO DI PAOLO vi




Una riforma per il rinnovamento
della Chiesa

Cinquant’anni del Messale Romano promulgato da Paolo VI 

05 aprile 2019

Cinquant’anni fa, il 3 aprile 1969, con la costituzione apostolica Missalis Romani, san Paolo VI promulgava il Missale Romanum rinnovato per decreto del concilio ecumenico Vaticano II. In essa indicava e motivava i cambiamenti più rilevanti apportati a questo libro liturgico, circa la preghiera eucaristica, il rito della messa, il lezionario. Il 6 aprile seguente, il dicastero competente pubblicava il decreto sul nuovo Ordo Missae, compreso l’Institutio generalis Missalis Romani, e il 25 maggio il decreto sull’Ordo lectionum Missae; l’anno successivo avrebbero visto la luce l’edizione tipica del Missale Romanum e dei volumi del suo Lectionarium.

Per portare a buon fine un’opera come questa ci è voluto il coraggio di Paolo VI, animato dalla sollecitudine pastorale per il popolo di Dio. Ne era consapevole egli stesso, che ha misurato per primo con lucidità il travaglio da affrontare e insieme la necessità di affrontarlo. Lo ha ricordato in numerosi discorsi, al Consilium, ai fedeli e al clero, guidando, spiegando, difendendo, promuovendo la riforma liturgica che ha nel Messale la sua più chiara espressione; e ciò al fine di rinnovare la Sposa di Cristo, giacché è mediante l’azione liturgica, in particolare la messa, che la Chiesa sperimenta la comunione trasfigurante con Cristo, per Cristo e in Cristo. Il Messale serve a celebrare la messa, e la messa serve a rinnovare la vita di chi vi partecipa.



Per quanto la riforma del Messale possa essere sembrata da subito una operazione innovativa di grande portata, come di fatto fu, si deve riconoscere che il terreno era stato preparato da tempo. Lo richiamava Paolo VI nella costituzione apostolica, menzionando dapprima l’intervento per l’adeguamento del Messale compiuto da Pio XII, negli anni Cinquanta, circa la veglia pasquale e i riti della Settimana santa. Era il primo passo, al tempo in cui il movimento liturgico fermentava il tessuto ecclesiale. Ora, dopo quanto provvisto da Giovanni XXIII, i padri conciliari si erano pronunciati chiedendo la revisione generale del Messale e non una cosmesi.

Il Papa volle dunque dare attuazione a tali disposizioni: «Il recente Concilio Ecumenico Vaticano II, promulgando la Costituzione Sacrosanctum Concilium, ha posto le basi della riforma generale del Messale Romano, stabilendo che: “L’ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà, da essi significate, siano espresse più chiaramente” (cf SC 21); che: “L’Ordinamento rituale della Messa sia riveduto in modo che apparisca più chiaramente la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione, e sia resa più facile la pia e attiva partecipazione dei fedeli” (cf SC 50); e inoltre: “Perché la mensa della Parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia” (cf SC 51)» (costituzione apostolica).



Quasi a parare le inevitabili obiezioni, il Papa precisava che «non bisogna pensare che tale revisione del Messale Romano sia stata improvvisata», essendo confortata dal progresso della scienza liturgica e dalla conoscenza delle antiche fonti liturgiche sconosciute ai riformatori tridentini. Tre furono gli ambiti maggiormente interessati. Anzitutto la decisione paolina di aggiungere al Canone romano altre tre preghiere eucaristiche, oltre all’arricchimento dei prefazi, «presi dall’antica tradizione della Chiesa Romana, o composti ex novo». Quindi l’Ordo Missae, circa il quale si spiegava come «i riti, pur conservandone fedelmente la sostanza, sono stati semplificati (cf SC 50). Si sono pure tralasciati quegli elementi che con il passare dei secoli furono duplicati o meno utilmente aggiunti (ibid.), soprattutto nei riti dell’offerta del pane e del vino e in quelli della frazione del pane e della Comunione. Si sono pure ristabiliti, secondo le tradizioni dei Padri, alcuni elementi che con il tempo erano andati perduti (cf ibid.); per esempio l’omelia (cf SC 52), la preghiera universale o preghiera dei fedeli (cf SC 53), l’atto penitenziale, cioè l’atto di riconciliazione con Dio e con i fratelli, all’inizio della Messa, che giustamente è stato rivalutato». Infine, il lezionario: secondo la prescrizione conciliare che «in un determinato numero di anni, si leggano al popolo le parti più importanti della Sacra Scrittura» (cf SC 51), l’ordinamento delle letture domenicali è stato disposto in un ciclo triennale, completato dal ciclo biennale per i giorni feriali.

Due esempi attestano come il Papa abbia seguito in prima persona i lavori di revisione della lex orandi del Messale, sentito il parere della Curia romana e di altre istanze. Il primo è un autografo sull’Ordo Missae: «Mercoledì, 6 novembre 1968 - ore 19-20.30. Abbiamo letto nuovamente, col Rev. P. Annibale Bugnini, il nuovo “Ordo Missae”, compitato dal “Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia”, in seguito alle osservazioni fatte da noi, dalla Curia Romana, dalla S. Congregazione dei Riti, dai partecipanti alla xi sessione plenaria del “Consilium” stesso, e da altri ecclesiastici e fedeli; e dopo attenta considerazione delle varie modifiche proposte, di cui molte sono state accolte, abbiamo dato al nuovo “Ordo Missae” la nostra approvazione, in Domino. Paulus pp. vi» (pubblicato su «L’Osservatore Romano» il 9 maggio 2018, a pagina 8). Il secondo autografo riguarda il Lezionario: «Non ci è possibile, nel brevissimo spazio di tempo che ci è indicato, prendere accurata e completa visione di questo nuovo ed ampio “Ordo Lectionum Missae”. Ma fondati sulla fiducia delle persone esperte e pie, che lo hanno con lungo studio preparato, e su quella dovuta alla sacra Congregazione per il Culto Divino, che lo ha con tanta perizia e sollecitudine esaminato e composto, volentieri noi lo approviamo, in nomine Domini. Nella Festa di S. Giovanni Battista, 24 Giugno 1969 Paulus pp. vi».



Con la sollecitudine del pastore, Paolo VI ha voluto spiegare e illustrare i motivi della riforma liturgica, la sua portata e l’estensione che andava assumendo, aiutando a cogliere tutto il positivo senza tacere delle resistenze che si opponevano al cambiamento, come delle fughe fuori pista che la deturpavano. Lo ricordava in questi termini all’udienza generale del 19 novembre 1969: «La riforma che sta per essere divulgata corrisponde ad un mandato autorevole della Chiesa; è un atto di obbedienza; è un fatto di coerenza della Chiesa con se stessa; è un passo in avanti della sua tradizione autentica; è una dimostrazione di fedeltà e di vitalità, alla quale tutti dobbiamo prontamente aderire. Non è un arbitrio. Non è un esperimento caduco o facoltativo. Non è un’improvvisazione di qualche dilettante» (Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 1122).



Cosciente della propria autorità egli confermava la bontà della riforma liturgica nel discorso al Concistoro del 24 maggio 1976: «È nel nome della Tradizione che noi domandiamo a tutti i nostri figli, a tutte le comunità cattoliche, di celebrare, in dignità e fervore la Liturgia rinnovata. L’adozione del nuovo “Ordo Missae ” non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l’Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell’antica forma, con l’autorizzazione dell’Ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populo. Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino. La stessa disponibilità noi esigiamo, con la stessa autorità suprema che ci viene da Cristo Gesù, a tutte le altre riforme liturgiche, disciplinari, pastorali, maturate in questi anni in applicazione ai decreti conciliari. Ogni iniziativa che miri a ostacolarli non può arrogarsi la prerogativa di rendere un servizio alla Chiesa: in effetti reca ad essa grave danno» (Insegnamenti di Paolo VI, XIV [1976], 389).



Il Missale Romanum ha poi conosciuto traduzioni in diverse lingue, approvate dalle Conferenze dei vescovi e confermate dalla Sede apostolica. Così scriveva Paolo VI nella costituzione con cui lo promulgava: «Confidiamo che questo Messale sarà accolto dai fedeli come mezzo per testimoniare e affermare l’unità di tutti, e che per mezzo di esso, in tanta varietà di lingue, salirà al Padre celeste, per mezzo del nostro sommo Sacerdote Gesù Cristo, nello Spirito Santo, più fragrante di ogni incenso, una sola e identica preghiera».



Sono passati 50 anni, un giubileo! C’è da ringraziare il Signore. C’è da essere grati a Paolo VI per quanto ha offerto — soffrendo — alla Chiesa. Nel suo pensiero come nella sua opera, la riforma liturgica post-conciliare, in obbedienza a Sacrosanctum Concilium, non era finalizzata semplicemente alla revisione della forma celebrativa, ma al rinnovamento della Chiesa, mistero su cui il Papa si era soffermato nella sua enciclica programmatica, l’Ecclesiam suam.

di Corrado Maggioni
Sottosegretario
della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti


Fonte: L'Osservatore Romano 6 aprile 2019

giovedì 4 aprile 2019

DOMENICA V DI QUARESIMA (C) – 7 Aprile 2019






Is 43,16-21; Sal 125; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11



La prima parte del salmo responsoriale riflette l’esultanza degli Israeliti per il loro ritorno in patria dalla schiavitù babilonese. Nella supplica della seconda parte invece il salmista si rivolge a Dio perché porti a compimento il suo progetto e non abbandoni il popolo nella faticosa opera di restaurazione. E’ un salmo di speranza, che emerge e si rivela proprio quando a livello umano non appare un minimo di spazio su cui appoggiarla. Dio è grande e fedele, ma ogni gioia passa attraverso la faticosa purificazione del cuore. Come il Signore ha un tempo liberato il suo popolo dalla schiavitù, così egli offre oggi a noi la libertà dalla schiavitù di noi stessi, dei nostri peccati.

Filo conduttore dei vari testi odierni potrebbe essere il tema dell’esodo. Una delle costanti nelle pagine dell’Antico Testamento, che si espande nel messaggio cristiano del Nuovo Testamento, è quella della liberazione dalla schiavitù personale, interiore, sociale e politica. Il profeta Isaia (prima lettura) evoca l’evento dell’esodo, il cui ricordo è visto dal profeta come incentivo che apre il cuore d’Israele al futuro in cui Dio si ripromette di intervenire con nuovi prodigi in favore del suo popolo. L’apertura verso un futuro di speranza e di liberazione piena rilancia questo messaggio e lo orienta verso Cristo, supremo perfezionatore della liberazione qui annunciata. San Paolo (seconda lettura) dice di voler dimenticare il passato e di essere proteso verso il futuro; si tratta quindi anche qui di un esodo, sia pure a livello personale. Egli ricorda il suo passato per riaffermare la scelta che ha fatto di Cristo, “per il quale – afferma – ho lasciato perdere tutte le cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo…” 

Nel vangelo vediamo Gesù circondato da un gruppo di scribi e farisei che gli conducono una donna accusata di adulterio. Gli Scribi ed i farisei si rivolgono a Gesù accusando la donna, parlano della donna ma non alla donna. Gesù invece risponde a loro, poi si rivolge direttamente all’adultera: prima parla con lei degli altri (“Nessuno ti ha condannata?”); infine le rivolge la parola decisiva di perdono (“Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più”). Da una parte, gli scribi e i farisei, negatori di ogni perdono. Dall’altra parte, Gesù che pur non eludendo il problema del peccato della donna, contesta non la validità della denuncia degli accusatori, ma la loro presunta giustizia, il loro erigersi a giudici e difensori del diritto divino: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Gesù invita i suoi avversari a guardarsi dentro, a vagliare il proprio cuore, sentimenti e desideri; solo così parole e azioni potranno essere autentiche.

Non mancano oggi storie scandalistiche. Ce n’è tutta una gamma che va dal piccolo pettegolezzo fino agli affari e vicende delle persone in vista, cose che forniscono un inesauribile materiale ai vari rotocalchi. Anche qui queste vicende vengono presentate talvolta in un atteggiamento accusatore di indignazione morale, con il quale si intende giustificare a se stessi e agli altri il fatto che ci si occupa di simili argomenti. Il Vangelo ci invita a volare più in alto, guardando le cose dei nostri simili con occhi di misericordia. Là dove c’è una persona piegata in due sotto il peso delle colpe, là ci deve essere il dono della liberazione e della vita nuova. Ricordiamo finalmente che il futuro della salvezza, pur rimanendo sempre un dono gratuito dell’amore di Dio, è però legato anche al nostro impegno concreto. Dopo il dono del perdono, Gesù aggiunge: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”, parole che rivelano il senso dell’intero racconto che, possiamo dire, viene interpretato come un esodo morale di conversione.