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mercoledì 30 dicembre 2020

MARIA SS. MADRE DI DIO – 1 Gennaio 2021

 



Nm 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21

 

Il messaggio della liturgia del primo giorno dell’anno è molteplice. Le letture bibliche e gli altri testi della messa tratteggiano la molteplicità dei temi proposti alla nostra attenzione: la maternità divina di Maria, l’ottava del Natale, la circoncisione di Gesù con l’imposizione del nome, la ricorrenza del primo giorno dell’anno, la giornata della pace. Trattandosi della solennità della Madre di Dio, noi qui ci soffermiamo su questo mistero mariano.

 

“Madre di Dio” è il titolo che le Chiese d’oriente e d’occidente danno unanimemente a Maria, quando la ricordano nella preghiera eucaristica e nella celebrazione della nascita del Signore, quando si rivolgono a lei invocandone l’intercessione. Per aver generato colui che si è fatto nostro fratello, Maria è anche nostra madre. La preghiera dopo la comunione la invoca come “madre di Cristo e di tutta la Chiesa”.

 

Maria è anzitutto madre del Salvatore. Dio ha voluto realizzare il suo piano di salvezza mediante l’incarnazione del Verbo. Perciò, come dice san Paolo nella seconda lettura, Cristo doveva avere una madre: “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna…” Anche se non vi compare il nome proprio di “Maria”, questo testo è straordinariamente importante. Vi si trova il primo spunto della riflessione della fede cristiana su Maria, in stretta connessione con il concetto di “maternità”. La maternità divina di Maria però non si limita all’ordine biologico. La sua è una maternità nel senso più completo, si esprime cioè con l’amore specificamente materno, che è unico e irrepetibile. La sua maternità è pure intuizione profonda, assecondamento completo, disponibilità e cooperazione senza riserve. Maria poi conserva e medita nel cuore tutto ciò che ascolta dal Figlio suo (cf. vangelo). Non si tratta solo di un ricordo e neppure di una semplice meditazione, ma di una partecipazione interiore. “Meditare” significa dire e ridire al proprio cuore quello che si è visto e ascoltato finché la realtà di cui si è stato testimoni non entra a formar parte della propria vita.

 

La prima lettura riporta la formula di benedizione sacerdotale, suggerita da Dio ad Aronne, mostrandoci in Maria la “benedetta fra le donne”, diventata causa di benedizione per tutti noi. La carne di Cristo è la carne che egli trasse dal grembo di Maria, figlia come noi di Adamo; e tale carne è la premessa della nostra solidarietà con Cristo (cf. Eb 2,14). Nel grembo della Vergine si è compiuto il “meraviglioso scambio” per il quale Dio si è “fatto uomo” e l’uomo ha accolto in sé la “divinità” (cf. prefazio III di Natale). La via della divinizzazione dell’uomo è l’umanizzazione di Dio.

 

La celebrazione della divina maternità di Maria è un invito a cominciare il nuovo anno nella consapevolezza che l’amore di Dio, per mezzo di Maria, è entrato nella storia per riscattare la nostra vita dal dominio del tempo e della morte.

 

domenica 27 dicembre 2020

LA MESSA IN TEMPO DI CORONAVIRUS

 



 

Oggi la messa senza masse è quella che viene celebrata di continuo nei letti dei nostri ospedali, dai sofferenti così come da tutto il personale medico e amministrativo. Fermiamoci un istante, in raccoglimento, davanti a questa grande eucaristia, questo mistero di passione, morte e risurrezione. La liturgia invisibile oggi è quella che attraversa le corsie della sofferenza, laddove la malattia trova il conforto, la cura, l’accompagnamento indefesso di uomini e donne che, senza guardare al proprio benessere, si offrono senza sosta, così come ha saputo fare il Cristo salvatore. Sospendiamo il fiato davanti a questo mistero della fede cristiana che continua a riprodursi, anche oggi, forse più che mai.

(Alberto Fabio Ambrosio, La Messa di tutti (Le ispiere) EDB 2020, p.11) 

venerdì 25 dicembre 2020

SANTA FAMIGLIA DI GESU' MARIA E GIUSEPPE (B) - 27 Dicembre 2020

 



Gen 15,1-6; 21,1-3; Sal 104; Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40

 

Il Sal 104 è una lode rivolta al Signore della storia, artefice di atti gloriosi, espressioni di un amore eterno per il suo popolo. Si rivela, così, la struttura intima della fede biblica che non è un’astratta adorazione del Dio misterioso ma la scoperta continua della sua vicinanza e della sua presenza nel tempo spesso opaco dell’uomo. La conclusione che trae il salmista è chiara: Dio è stato fedele alle promesse fatte, il popolo sia fedele a Dio e alle sue leggi, per non rendersi indegno dei favori divini. Dio ha un disegno di salvezza per ciascuno di noi ed è fedele a questo progetto.

 

E’ normale che i brani della Bibbia che ci propone la liturgia odierna siano da noi letti alla luce della festa della Santa Famiglia, in funzione della quale essi vengono proposti. In questi brani si parla di due famiglie, quella di Abramo e Sara nella prima e seconda lettura, e quella di Giuseppe e Maria nella lettura evangelica, e quindi, si parla anche dei loro rispettivi figli avuti in modo straordinario: Isacco e Gesù. Nei due racconti viene messa in evidenza la fede di queste famiglie: nella prima lettura si dice che Abramo “credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”. E la lettera agli Ebrei aggiunge che Sara “per fede [...] ricevette la possibilità di diventare madre...” La lettura evangelica può essere interpretata anche con questa chiave di lettura: Giuseppe e Maria portano Gesù al tempio di Gerusalemme, e compiono ciò che la Legge comanda riguardo a un figlio primogenito, lo consacrano cioè a Dio riconoscendo in questo modo che non loro  ma Dio è il Signore; non per fare la loro volontà, ma quella di Dio; per questo hanno ricevuto in dono dal Signore questo bambino. Atteggiamento di fede e sottomissione al volere di Dio.

 

La festa della Santa Famiglia è stimolatrice di molte riflessioni e orientamenti operativi in un contesto culturale come il nostro, in cui la famiglia non è una realtà pacificamente acquisita e da tutti difesa e promossa. Ma la parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita a riflettere anzitutto sullo spazio che ha la fede nelle nostre famiglie. La famiglia cristiana, per prima cosa, dovrebbe trovare il coraggio della fede. La nascita straordinaria di Isacco e, soprattutto, quella di Gesù ci fanno capire che i figli sono un dono di Dio più che frutto della scelta dell’uomo. Mettere al mondo un figlio è una scelta che per un cristiano rientra pienamente nell’ambito della sua fede: fede nella vita e fede nel Dio della vita: la fede nella vita, quando diventa piena, senza condizioni, trova la sua giustificazione in un Dio che ha creato e conserva il mondo con amore; e viceversa la fede in Dio, quando è sincera ed efficace, conduce a dire un “sì” gioioso e senza condizione alla vita. Ma questa fede non si esaurisce in un “sì” iniziale. La Lettera agli Ebrei richiama anche al sacrificio di Isacco e, nel racconto evangelico di Luca, ascoltiamo l’anziano Simeone che predice a Maria: tuo Figlio sarà “segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. La fede dev’essere pronta ad affrontare il momento della prova. Quando i rapporti familiari vengono compromessi dalle incomprensioni o semplicemente logorati dal tempo, è allora che la fede può e deve venire in aiuto per rinsaldare i legami e rilanciare la comunione. E’ il momento di dare una risposta di fede al Dio fedele.

 

Benché all’origine della sua istituzione vi siano considerazioni pastorali e di spiritualità familiare, la festa della Santa Famiglia è, anzitutto, la celebrazione del mistero dell’Incarnazione, di cui essa evidenzia la concretissima realtà.

mercoledì 23 dicembre 2020

NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2020 Messa del giorno

 



 

Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

 

Tra le letture bibliche della Messa del giorno di Natale, emerge lo splendido brano della prima pagina del vangelo di Giovanni, testo sobrio e solenne al tempo stesso, di profonda dottrina cristologica, vero antidoto contro ogni eventuale lettura sentimentale, fatua e consumistica del mistero natalizio. Oggetto dei 18 versetti del prologo giovanneo è Gesù Cristo, colto nelle sue diverse dimensioni.

 

Anzitutto meritano una particolare attenzione le prime battute del prologo: “In principio era il Verbo…” Il termine “principio” è accompagnato dal verbo essere al tempo imperfetto (“era”). In questo modo, Giovanni intende affermare che una realtà sussiste indipendentemente dai condizionamenti imposti dal decorrere del tempo. Infatti quando l’evangelista vuole significare la delimitazione temporale utilizza i verbi “essere fatto” per dire che una cosa ha avuto inizio in un determinato momento, e “diventare” per alludere a qualche aspetto della mutabilità. Ecco quindi che l’espressione giovannea intende dire che il Verbo era precedentemente all’esistere del tempo, all’ “in principio” in cui l’esistente ha preso inizio, dunque da sempre, dall’eternità. In questo modo, Giovanni ci mostra che il Cristo ingloba in sé non solo l’orizzonte dell’antica Alleanza ma anche quello della creazione.

 

Questo “Verbo” eterno “si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. “Carne”, senza ulteriori specificazioni, non significa semplicemente uomo, ma l’uomo legato alla terra, debole e caduco. Si direbbe che Giovanni intenda sottolineare tutta la diversità e distanza fra il divino e l’umano. Il Verbo che era “presso Dio” ora è “fra noi”, non solo vicino a noi ma pienamente partecipe della nostra umanità. Nel linguaggio biblico “carne” non significa il corpo dell’uomo contrapposto allo spirito, ma l’uomo intero colto nella sua caducità, nella sua debolezza, nel suo essere consegnato alla morte. Possiamo quindi affermare che il cosmo e la storia, lo spazio e il tempo, le cose e l’uomo, l’essere tutto acquistano nel mistero dell’Incarnazione un senso perché in essi si inserisce il Verbo eterno di Dio.

 

Qual è l’atteggiamento dell’uomo dinanzi a questo mistero? Giovanni afferma che il Verbo “venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio…” Dinanzi a questo mistero la reazione è duplice: il rifiuto aggressivo o l’accoglienza fedele. Giovanni qualche versetto prima usa l’espressione: “il mondo non l’ha riconosciuto”. “Riconoscere” e “accogliere” sono due verbi importanti che il seguito del vangelo di Giovanni chiarisce. Riconoscere non è solo ascoltare la parola di Gesù e neppure solo capirne il senso, ma comprendere che le sue parole provengono dal Padre (cf. anche la seconda lettura). Si tratta quindi di riconoscere, ascoltando le parole e vedendo i segni da lui compiuti, che Gesù è il Figlio che viene dal Padre: è dunque il mistero della persona di Gesù, la sua origine, che va compresa e riconosciuta. E accogliere implica apertura, disponibilità e sequela.

 

Nella colletta della messa, riallacciandoci al v. 12 del prologo, chiediamo a Dio che “possiamo condividere la vita divina di suo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.

 

domenica 20 dicembre 2020

IL NUOVO MESSALE ITALIANO

 



 

Solo qualche riflessione sulle principali novità del nuovo Messale in italiano. Si tratta della “traduzione” del Missale Romanm, edizione tipica latina del 2002 (ristampata con qualche cambiamento nel 2008).

- Una delle caratteristiche di questo nuovo Messale è che ha cercato di essere fedele al testo originale latino. Così, ad esempio, l’invito alla comunione: “Beati gli invitati alla Cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, ora recita: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” (dal latino: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui Ad cenam Agni vocati sunt). Il testo latino è più coerente e ricco dottrinalmente. Infatti, in primo luogo, si presenta l’Agnello di Dio (che immediatamente prima è stato invocato tre volte). Poi si parla della cena dell’Agnello (cf. Ap 9,19), e in questo modo il banchetto eucaristico appare come sacramento, anticipo del banchetto celeste. Un altro caso di fedeltà al testo latino lo troviamo nella preghiera eucaristica II, dove si diceva: “Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito”, ora si dirà: “Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità. Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito” (Spiritus tui rore sanctifica). L’immagine della rugiada è biblica, e indica fecondità, prosperità: “Sarò come rugiada per Israele” (Os 14,6). Un altro caso ancora è la formula “Scambiatevi un segno di pace”, che ora diventa: “Scambiatevi la pace” (Offerte vobis pacem).

- Non sempre però la traduzione è fedele alla lettera del testo latino. Così il pro multis della preghiera eucaristica è ancora tradotto “per tutti”, per evitare confusioni. L’espressione corpus meum, quod pro vobis tradetur, conserva il testo anteriore: “offerto in sacrificio per voi” (la parola “sacrifico” non c’è nel testo latino, ma esplicita la forma verbale “offerto”).

- I testi biblici presenti nel Messale sono quelli dell’edizione italiana della Bibbia della CEI del 2007. Così, ad esempio, il nuovo e ormai noto testo del Padre nostro: “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione”. Una eccezione è l’espressione del Gloria: “e pace in terra agli uomini di buona volontà”, che traduce il testo latino et in terra pax hominibus bonae voluntatis, è sostituita con “e pace agli uomini amati dal Signore” (la Bibbia della CEI dice: “e pace agli uomini che egli ama”). La formula scelta è stata preferita perché per numero di sillabe e accenti si adegua meglio alle melodie con cui fin ora il Gloria è stato cantato. Inoltre è più fedele al ricco significato del testo greco εύδοκίαϛ (cf. Lc 2,14), che letteralmente significa “di benevolenza (sua)”. E’ stata modificata anche la breve preghiera che il sacerdote dice nel fare il lavabo: “Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato”, ora diventa: “Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. La modifica è stata introdotta per essere in sintonia con la fonte biblica: Sal 51,4 nella nuova versione della CEI.

- C’è anche qualche cambiamento che intende rispettare le esigenze della lingua italiana, come, ad esempio, il saluto iniziale: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo siano (non più sia) con tutti voi”. La grammatica italiana chiede che il verbo sia coniugato al plurale, essendo tre i sostantivi con i quali si accorda. Si noti che non sempre il latino adopera il verbo in questi saluti come, ad esempio, nella formula Dominus vobiscum. Possiamo collocare qui anche il cambiamento nel ricordo dei vivi della Preghiera eucaristica II: “tutto l’ordine sacerdotale”, che traduce il latino universo clero, viene reso con il più comprensibile e fedele “i presbiteri e i diaconi”.

- Si è cercato di adoperare un linguaggio più inclusivo. Così nel Confesso a Dio, si dice “a voi fratelli e sorelle”. Alla fine della presentazione dei doni, il sacerdote si rivolge ai fedeli con queste parole: “Pregate, fratelli e sorelle, perché il mio e il vostro sacrificio…” E nella preghiera eucaristica, là dove si ricorda i defunti, si dice “Ricordati dei nostri fratelli e sorelle, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione”. E così ogni volta che ci si rivolge all’assemblea come “fratelli”.

- La terza edizione latina del MR ha introdotto nelle domeniche e ferie della Quaresima una “orazione sul popolo” ad libitum, che amplifica e arricchisce il gesto della benedizione finale della Messa. Vi troviamo anche due nuovi prefazi per la celebrazione dei santi pastori e due per i santi e sante dottori della Chiesa: “Nel tuo disegno di amore hai illuminato san N. (santa N.) e con i suoi insegnamenti allieti la Chiesa nella sublime bellezza della tua conoscenza”.

- Il Messale italiano contiene alcuni testi nuovi, non presenti nel Messale latino. Questi testi sono indicati con un asterisco (*). Così, ad esempio, alcune formule del rito penitenziale iniziale.

- La triplice litania del Kyrie, si trova prima in greco e poi la possibilità di dirla o cantarla in italiano.

- Le “collette alternative”, presenti nel Messale italiano fin ora in uso, sono state ritoccate perché meglio esprimano la funzione liturgica della colletta. Possono essere utilizzate come collette oppure come orazioni che chiudono la preghiera dei fedeli. Il testo di queste collette è più aderente alla parola di Dio e più vicino alla vita nel linguaggio utilizzato e nel riferimento alla dimensione antropologica della fede.

 

BIBLIOGRAFIA:

Paolo Tomatis, Al servizio del dono. La nuova edizione del Messale, ELLEDICI, Torino 2020.

Goffredo Boselli, Le nozze dell’Agnello. Guida alla nuova traduzione del Messale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2020.

Conferenza Episcopale Italiana. Ufficio Liturgico Nazionale. Ufficio Catechistico Nazionale, Un Messale per le nostre Assemblee. La terza edizione italiana del Messale Romano: tra Liturgia e Catechesi, Editore: Fondazione di Religione, Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, Roma 2020.

 

venerdì 18 dicembre 2020

DOMENICA IV DI AVVENTO (B) – 20 Dicembre 2020

 

 


2Sam 7,1-5.8b-12.14a.16; Sal 88; Rm 16,25-27; Lc 1,26-38

 

Le letture bibliche di quest’ultima domenica di Avvento, imminente ormai la celebrazione del Natale, mettono in evidenza due temi principali: il primo è quello della fedeltà di Dio, di cui parla il salmo responsoriale. La promessa fatta da Dio per mezzo del profeta Natan a Davide (prima lettura) si è adempiuta nella nascita di Gesù Cristo, il Messia. Egli infatti è figlio di Davide e il suo regno è stabile per sempre. Ciò viene messo in evidenza da san Luca nel brano evangelico. Infatti, le parole di Gabriele a Maria si agganciano strettamente a quelle del profeta Natan. A Davide Dio aveva assicurato un “discendente uscito dalle sue viscere”; a Maria è annunciato un figlio del suo grembo, che “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Per realizzare il suo meraviglioso disegno nascosto da secoli, Dio non ha scelto un re, bensì un’umile ragazza, una vergine dell’oscuro villaggio di Nazaret. Non le ha inviato un profeta, ma il suo angelo, messaggero dell’annuncio più straordinario della storia.

 

Il secondo tema proposto alla nostra attenzione è l’atteggiamento di fede e di obbedienza di Maria, che alle parole dell’angelo risponde: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (parole riprese anche dal canto al vangelo). La bellissima pagina evangelica dell’annunciazione si chiude con l’adesione di Maria ai piani di Dio, a lei svelati dall’angelo. Come Gesù è servo di Dio, offertosi al Padre in un atteggiamento di obbedienza per la salvezza degli uomini, così anche Maria si dichiara serva del Signore pronta a collaborare al suo disegno di salvezza. Dice a questo proposito il Vaticano II: “Dio non si è servito di Maria in modo puramente passivo, ma [...] ella ha cooperato alla salvezza umana nella libertà della sua fede e della sua obbedienza” (Costituzione Lumen Gentium, n.56).


Il piano divino della salvezza viene proposto anche a noi perché lo accettiamo sottomettendo ad esso i nostri progetti e la stessa nostra esistenza. La fede appare così come un atto di obbedienza, nel senso che credere significa lasciare che la propria vita sia illuminata e determinata dal piano di Dio (cf. seconda lettura). Il mistero di salvezza iniziato in Maria continua in noi. Nella Vergine di Nazaret troviamo il modello di vita d’ogni uomo che si apre al dono della salvezza. Anche noi, come Maria, siamo chiamati a prepararci a ricevere il Figlio di Dio “nel cuore e nel corpo”, con totale disponibilità, e così cooperare, con libera fede e incondizionata obbedienza, all’avvento del suo regno in noi e nel mondo intero. Sono i nostri sì quotidiani alla giustizia, alla carità, alla condivisione, alla fedeltà verso il vangelo che rendono sempre più vero ed efficace il Natale di salvezza per noi e per il mondo intero

domenica 13 dicembre 2020

IL CULTO EUCARISTICO FUORI DELLA MESSA

 



 

Lino Emilio Díez Valladares, “Mirabile presenza”. Il culto eucaristico alla luce della riforma liturgica (Preghiera e liturgia 17), Centro Eucaristico, Ponteranica (BG) 2020. 238 pp. (€ 14,00).

 

Questo libro è uno studio sul culto eucaristico fuori della Messa. L’autore, il P. Lino, ricorda giustamente, che tale culto dev’essere compreso alla luce di tutto il mistero eucaristico, cioè l’Eucaristia nella sua integrità e ampiezza. Dopo il Vaticano II, il culto eucaristico fuori della Messa ha subito una crisi sia per quanto riguarda il suo apprezzamento, sia per quanto riguarda la sua pratica da parte dei fedeli. Questa crisi sembra ormai in via di superamento.

Si possono distinguere tre momenti principali nel discorso che l’autore fa nei sei capitoli del volume:

-La storia del sorgere e svilupparsi del culto eucaristico fuori della Messa, che l’autore riassume e affronta in modo critico dagli inizi del secondo millennio fino ai tempi moderni e contemporanei.

-Lo studio dei documenti del magistero relativi a questo tema, frutto della riforma liturgica promossa dal Vaticano II: dall’Enciclica Mysterium fidei di Paolo VI (anno 2065) all’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI (anno 2007).

-Le nuove coordinate del culto eucaristico che oggi emergono: la celebrazione eucaristica fonte del culto eucaristico; la comunione fine del culto eucaristico; la testimonianza frutto del culto eucaristico; la dimensione escatologica segno profetico della vita eterna; la parola di Dio nel culto eucaristico.

Noto che tra i numerosi documenti citati non viene mai preso in considerazione il Direttorio su pietà popolare e liturgia, pubblicato nel 2002 dalla Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti. In questo Direttorio sono importanti al riguardo soprattutto i nn. 160-165. In quest’ultimo numero, ad esempio, si afferma che nei momenti di adorazione al Santissimo Sacramento, “i fedeli dovranno essere aiutati a servirsi della sacra Scrittura quale impareggiabile libro di preghiera, a utilizzare canti e preci idonee, a familiarizzarsi con alcune strutture semplici della liturgia delle ore, a seguire il ritmo dell’anno liturgico, a sostare in preghiera silenziosa…” Questa mia osservazione non toglie nulla alla bontà e completezza del discorso fatto da P. Nilo.

Ringrazio P. Nilo per quest’opera dottrinalmente corretta e nelle proposte pastorali equilibrata.

venerdì 11 dicembre 2020

DOMENICA III DI AVVENTO (B) – 13 Dicembre 2020

 



Is 61,1-2.10-11; Lc 1,46-54; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

 

Le tre letture bibliche dell’odierna domenica contengono altrettanti messaggi, i quali sono da considerarsi complementari. Giovanni Battista annuncia che il Messia viene tra noi come uno “sconosciuto”. Isaia lo presenta come Messia dei “poveri”. Paolo ci invita a “gioire” per la venuta del Messia e ad andargli incontro. Questi temi si collocano come un prolungamento naturale del messaggio della domenica precedente: la gioia che scaturisce dal cuore dell’uomo che riconosce e accoglie Cristo che viene e che è presente nella storia esige una condivisione con i fratelli e, in particolare, un atteggiamento di servizio ai più poveri, come naturale componente della conversione e logica conseguenza dell’incontro con Cristo. Priva di questi segni, la conversione stessa si esaurisce in una sorta di velleitarismo spiritualistico, destinato a rimanere infruttuoso.

 

Il tema della gioia è presente già nell’antifona d’ingresso: “Rallegrateci sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4.5). Lo stesso tema troviamo nell’orazione colletta e in qualche antifona della Liturgia delle ore. La gioia di cui parlano i testi odierni non è una chimera e neppure un sentimento passeggero frutto di un’emozione e di una esaltazione momentanee; è invece una realtà profonda che procede dall’essere stati salvati e dal sapersi, perciò, in pace con “il Dio della pace” (1Ts 5,23), cioè inseriti in quella nuova ed eterna alleanza inaugurata nella storia umana con l’apparizione del Figlio di Dio. E’ questa presenza, questa “vicinanza”, anzi questa intimità di Dio con l’uomo, oramai liberato, a determinare la gioia autentica, a inaugurare la vera “festa” cristiana che non conosce tramonto.

 

La comunione con Cristo, che realizza in pieno la “visita” di Dio al suo popolo per salvarlo non può rimanere un fatto intimistico, che si esaurisce in una sorta di sterile soddisfazione o di appagamento interiore. Per il fatto che Dio è Padre di tutti e vuole tutti salvi, essa non può non estendersi agli altri. Gesù è mandato “per portare il lieto annuncio ai poveri”, per annunciare l’intervento di Dio che salva tutti coloro che sono nella tribolazione o nel bisogno: gli affamati, i prigionieri, coloro che hanno il cuore spezzato, per “promulgare l’anno di misericordia del Signore”.  Questo “anno di misericordia” si riferisce all’anno del giubileo (cfr. Lv 25), quell’anno cinquantesimo in cui venivano condonati i debiti e ciascuno rientrava in possesso delle proprietà che aveva dovuto alienare. Il giubileo intende ricostituire quindi la condizione originaria d’integrità delle persone cancellando tutto quello che aveva potuto guastarla. E’ una prospettiva stupenda secondo la quale comprendere la vita e la missione di Gesù: egli è venuto per liberare l’uomo da ogni malattia e infermità e riportarlo all’integrità della sua condizione iniziale, quando era stato creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27).

 

 

lunedì 7 dicembre 2020

 


IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA – 8 Dicembre 2020

 

Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

 

La Chiesa celebra l’immacolata concezione della vergine Maria nel Tempo di Avvento, in cui la liturgia fa memoria del progetto della salvezza secondo il quale Dio, nella sua misericordia, chiamò i Patriarchi e strinse con loro un’alleanza d’amore; diede la legge di Mosè; suscitò i Profeti; elesse Davide, dalla cui stirpe doveva nascere il Salvatore del mondo: di questa stirpe Maria è figlia eletta, quasi il punto di arrivo. Il nucleo di verità che ci è comunicata dall’immacolata concezione di Maria è quello del rapporto tra il divino e l’umano: tra questi due poli c’è un “punto” d’intersezione che è appunto Maria immacolata.

 

La prima lettura ci ricorda che la buona novella della salvezza è antica quanto la presenza del male nel mondo. E’ attraverso una donna, Eva, che, cedendo alle lusinghe ingannevoli del serpente, il male si introduce nella storia. E’ anche una donna, Maria, che attraverso la sua discendenza, è all’origine della vittoria definitiva del bene sul male. Maria ascolta la parola di Dio che le viene portata dall’angelo e, con la sua accettazione del piano salvifico di Dio fa sì che questa parola si realizzi e che il Verbo si faccia carne “per noi uomini e per la nostra salvezza”.

 

Celebrando l’immacolata concezione di Maria, la Chiesa rende grazie a Dio, la cui potenza redentrice è senza limiti. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che benedice Dio che “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. Ciò che l’Apostolo dice di ognuno di noi vale in modo eminente per la vergine Maria, “piena di grazia”, la madre, “benedetta fra tutte le donne”, di colui attraverso il quale ci viene ogni benedizione a lode del Padre.

 

L’orazione colletta del giorno spiega bene e in poche parole perché e in che modo Maria è immacolata: il Padre nell’immacolata concezione della Vergine ha preparato una degna dimora per il suo Figlio, e in previsione della morte di lui l’ha preservata di ogni macchia di peccato. Maria può cooperare alla redenzione dell’umanità perché prima ella ha ricevuto la pienezza della grazia. La madre del Salvatore è stata oggetto di una particolare scelta da parte del Padre; in seguito a questa egli l’ha costituita punto “vertice” di tutta la storia d’Israele e punto “germinale” del nuovo Israele, la Chiesa.

 

Alla luce del mistero dell’immacolata concezione di Maria si comprende come il peccato è fondamentalmente una ferita all’integrità della persona, una lacerazione che va curata, restaurata. E’ quello che chiediamo nella preghiera dopo la comunione: che il sacramento ricevuto “guarisca in noi le ferite di quella colpa da cui, per singolare privilegio” è stata preservata “la beata Vergine Maria, nella sua immacolata concezione”. Maria immacolata, la prima dei redenti, è un segno di speranza. Ciò che è avvenuto in lei è l’anticipo della vittoria di Cristo risorto sulla morte e sul peccato.

 

domenica 6 dicembre 2020

LA CORONA DELL’AVVENTO

 



La corona dell’Avvento è una struttura di forma circolare formata da rami di piante sempreverdi all’interno della quale sono inserite quattro candele. Le quattro candele che si accendono nelle quattro domeniche di Avvento hanno un nome ed un significato peculiari. Tre sono di colore viola, e una (la terza) di colore rosa. La graduale accensione di ciascuna candela indica la progressiva vittoria della Luce sulle tenebre dovuta alla sempre più prossima venuta del Salvatore. Alcune versioni prevedono la presenza di una quinta candela (bianca) posta al centro del cerchio nel giorno di Natale. Si tratta di una iniziativa sorta qualche secolo fa in Germania tra i protestanti, accolta poi anche dai cattolici tedeschi e, in seguito, diffusasi un po’ dappertutto.

La prima candela è detta “del Profeta“, ricorda infatti il profeta Michea, che aveva predetto che il Messia sarebbe nato a Betlemme, e simboleggia la speranza: “E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origine sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Mi 5,1; testo citato da Mt 2,4-6).

La seconda candela è detta “di Betlemme“, per ricordare la città in cui è nato il Messia, e simboleggia la chiamata universale alla salvezza. Betlemme in arabo significa “Casa della carne”; in ebraico “Casa del pane”.

La terza candela è detta “dei pastori“, i primi che videro ed adorarono il Messia e simboleggia la gioia, da qui il colore rosa: “Appena gli angeli si furono allontanati da loro verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: ‘Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia […] I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto” (Lc 2,15-20).

La quarta candela è detta “dell’Angelo“, che è stato il primo ad annunciare che è “nato per noi un Salvatore”. Simboleggia l’amore: “Un angelo del Signore si presentò a loro [ai pastori] e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: ‘Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, e nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore…’” (Lc 2,9-11).

Ci sono altre interpretazioni simboliche, come, ad esempio, quella che ho visto proposta dal Prof. Alessandro Toniolo, secondo cui le 4 candele di Avvento sono simbolo di speranza, consolazione, gioia, attesa. Gesù bussa per portare speranza; entra per portare consolazione; Maria entra con gioia nella casa di Zaccaria ed Elisabetta (Magnificat). L’angelo entra nella casa di Maria che si mette in attesa. Il Signore viene: Maranatha.

 

venerdì 4 dicembre 2020

DOMENICA II DI AVVENTO (B) – 6 Dicembre 2020

 



 

Is 40,1-5.9-11; Sal 84; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

 

Il Sal 84 nella sua seconda parte, che è quella ripresa dal salmo responsoriale della liturgia odierna, dà voce al profeta che annuncia un messaggio da parte di Dio: messaggio di pace, di misericordia, di verità, di giustizia. In questo messaggio, Dio promette di riprendere il suo posto in mezzo al popolo, purificato dall’esilio e dalle sofferenze. La tradizione cristiana ha riletto questo canto del “ritorno” di Israele alla sua terra e al suo Dio, e del “ritorno” di Dio verso Israele, sua sposa, come la celebrazione dell’abbraccio perfetto in Cristo tra la natura umana e la natura divina. Di Natale in Natale, la promessa del Signore apre davanti alla Chiesa la prospettiva dell’Avvento finale di Cristo, in cui pace e giustizia, amore e verità raccoglieranno in un unico abbraccio il cielo e la terra.

 

Alle parole del profeta Isaia riprese dalla prima lettura: “preparate la via al Signore”, fanno eco le parole di Giovanni Battista raccolte dal brano evangelico: “preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Ogni vero incontro è frutto di un reciproco cammino. Il Signore ci viene incontro, ma ciascuno di noi deve compiere il suo tratto di strada con la propria conversione. Ce lo ricorda san Pietro nella seconda lettura: “nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”. L’insegnamento di fondo che la parola di Dio ci rivolge in questa domenica è quindi un invito alla conversione per ristabilire la comunione col Signore che viene continuamente a noi. Dio entra nella storia umana e si rivela pienamente in Gesù Cristo, per invitare ed ammettere gli uomini alla comunione con sé e fare di tutti gli uomini una comunità di fratelli, che è la Chiesa - nuova Gerusalemme. Questo fatto che interpella in prima persona ogni uomo che vive nel mondo, è un’autentica chiamata alla vera vita, alla vera felicità. La risposta all’invito divino esige l’apertura del cuore, un atteggiamento cioè di disponibilità e di accoglienza, permeato di quella semplicità e povertà che è alla base della fede; e richiede che si scavi nella propria vita una strada e la si percorra, con gioia e coerenza, fino all’incontro definitivo con il Signore.

 

Tra le immagini con cui le letture bibliche d’oggi parlano della conversione c’è quella della “strada” o della “via”, tema biblico classico, che esprime tutto il dinamismo della fede, intesa non tanto come atteggiamento intellettuale, quanto piuttosto come uno stile di vita nel quale si traduce la fedeltà al vangelo e quindi come “sequela” di Cristo. In questa prospettiva la vita cristiana appare come un “cammino” di fede - conversione, compiuto insieme agli altri fratelli per incontrare il Signore che viene e per fare l’esperienza della sua comunione. Ostacoli sul nostro cammino non ne mancano. Vi sono, fra l’altro, le realtà terrene, quando non vengono usate “con la sapienza che viene dal cielo”, come dice la colletta. Perciò nella preghiera dopo la comunione chiediamo a Dio di saper “valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo”.

 

Il Signore e giudice della storia verrà e “in quel giorno tremendo e glorioso passerà il mondo presente e sorgeranno cieli nuovi e terra nuova” (II prefazio dell’Avvento). L’eucaristia facendo memoria della morte e risurrezione di Cristo pone per ciascuno di noi che vi partecipiamo un segno e una caparra di salvezza per quel giorno “tremendo e glorioso”. Infatti nell’eucaristia Cristo ci ammette alla sua comunione, segno e caparra di quella comunione piena e definitiva alla fine dei tempi.

 

 

domenica 29 novembre 2020

DOMANDE RICORRENTI SULLA CELEBRAZIONE

 



 

Silvano Sirboni, Come celebrare il Mistero di Cristo. La liturgia tra domande e risposte (Spazio liturgia 6), Paoline, Milano 2020. 174 pp. (€ 13,00).

 

Don Sirboni, noto liturgia con gande sensibilità pastorale, in questo volume risponde in maniera chiara e semplice a domande ricorrenti sulla celebrazione dei sacramenti e in particolare dell’Eucaristia. Le domande (con le relative risposte) sono distribuite in sei gruppi: l’arte del celebrare; la celebrazione eucaristica; atteggiamenti e gesti; musica e liturgia; ministri e ministeri; questioni varie.

Ecco la risposta a una domanda sul bacio dell’altare nelle concelebrazioni (pp. 74-75):

[…] Il bacio dell’altare, dopo quello di pace, è nella celebrazione liturgica il più antico e venerato come il simbolo stesso di Cristo. Quando all’interno delle chiese, nel primo millennio, non vi era ancora la custodia eucaristica, era l’altare che i fedeli veneravano entrando in chiesa.

Nel tardo Medioevo, quando il sacerdote, per complesse ragioni semplicemente logistiche e per niente teologiche, cominciò a voltare le spalle all’assemblea (X-XI secolo), si moltiplicarono significativamente i baci all’altare ogni volta che il sacerdote voltava a esso le spalle per rivolgersi ai fedeli col saluto rituale: Dominus vobiscum. Questo dice quanto sia importante la mensa eucaristica nella simbologia liturgica. Perché, allora, contrariamente a ciò che è previsto nei riti d’ingresso, al termine della concelebrazione solo il celebrante principale e il diacono baciano l’altare?

Ci troviamo a fronte di una discrepanza. Il Cerimoniale dei vescovi (1984), per quanto riguarda la conclusione della concelebrazione, così recita: “Il vescovo di norma bacia l’altare e fa ad esso la debita riverenza. Anche i concelebranti e tutti coloro che si trovano nel presbiterio salutano l’altare come all’inizio (CE 170).

Le Premesse al Messale Romano (2004), invece, recitano così: “I concelebranti, prima di allontanarsi dall’altare, fanno un profondo inchino. Il celebrante principale, invece, con il diacono venera l’altare (OGMR 251). Quest’ultima norma, più recente, è quella che viene normalmente seguita per ovvie ragioni pratiche. Nelle grandi concelebrazioni presiedute dal Papa sovente i sacerdoti sono già collocati ai loro posti e non è possibile il bacio né all’inizio, né al termine. Del resto l’inchino profondo è un sufficiente gesto di venerazione.

venerdì 27 novembre 2020

DOMENICA I DI AVVENTO (B) – 29 Novembre 2020

 



 

Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

 

Nel tempo di Avvento, diamo voce alle speranze e alle preghiere di tutti gli uomini che condividono con noi l’attesa del compimento definitivo della salvezza: “Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. L’Avvento è il tempo della speranza degli uomini e di tutta la creazione.

 

Il tempo d’Avvento collega la venuta di Cristo a Betlemme con l’attesa del suo secondo avvento glorioso alla fine dei tempi: il Natale è considerata già una festa di trionfo connessa col trionfo redentore della croce e con quello finale del ritorno di Cristo. L’Avvento si presenta quindi come un tempo di attesa del compimento della salvezza: nell’attesa gioiosa della festa della nascita del Redentore, siamo orientati verso il ritorno glorioso del Signore alla fine dei tempi. L’Avvento intende suscitare in noi la nostalgia di Dio.

 

In questa prima domenica d’Avvento, la parola d’ordine, ripetuta per ben quattro volte nel breve brano evangelico, è “vegliate!”, siate pronti ad accogliere il Signore che viene per compiere l’opera della salvezza! Come i servi di cui parla il vangelo d’oggi, anche a noi è stato affidato un compito e abbiamo ricevuto molteplici doni di grazia per portarlo a termine. Vegliare vuol dire essere pronti a rendere conto al Padrone della gestione di quanto abbiamo ricevuto da lui. Bisogna vegliare consapevoli del peso di eternità di ogni venuta, di ogni istante che ci è donato. Gesù non dice cosa farà il padrone se, giungendo all’improvviso, troverà i servi addormentati, ma non c’è nemmeno bisogno di annunciare una qualsiasi punizione; l’essenziale in questo caso è il fallimento doloroso del proprio compito. Ci era stato affidato un incarico ed era proprio quello che dava senso alla nostra vita; averlo dimenticato significa che la nostra esistenza precipita nell’inutilità, nell’amarezza del vuoto. La vita cristiana prende inizio dalla prima venuta del Signore, si sviluppa come cammino verso la seconda e si conclude nell’effettivo incontro con il Signore. Non possiamo mancare a questo appuntamento.

 

Nella seconda lettura, san Paolo ci ricorda che, nell’imprevedibilità del momento preciso del ritorno del Signore, la vigilanza deve diventare impegno e testimonianza davanti al mondo, come tra i cristiani di Corinto a cui è indirizzata la sua lettera: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente, che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”. Vivere da cristiani significa assumere responsabilmente un compito che ci è stato affidato. Ma nell’adempimento di questo compito non siamo soli. Nel brano della prima lettura, il profeta Isaia è consapevole della radicale incapacità dell’uomo di salvarsi da solo. E’ necessario che Dio intervenga in nostro aiuto con l’azione trasformante della sua grazia: Egli va incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle sue vie. La colletta del giorno riprende questo concetto quando si rivolge a Dio affinché “susciti in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al Cristo che viene…”

domenica 22 novembre 2020

ARS CELEBRANDI

 


 

Roberto Tagliaferri (ed.), Competenza rituale. La “messa in scena” della fede come ars celebrandi (“Caro salutis cardo” – Contributi 36), CLV- Edizioni liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2020. 242 pp. (30,00 €).

 

La buona ricezione della liturgia postconciliare si gioca sulla maturazione della capacità di celebrare (ars celebrandi). E’ ormai evidente che l’agire rituale esige una competenza specifica, che consiste anzitutto nel rispettare le regole fondamentali del rito stesso. L’accostamento tra rito e teatro fa emergere aspetti fondamentali di tale competenza, pur dentro un rapporto complesso tra realtà e finzione, tra reale e virtuale. Anche se su piani diversi, entrambe le esperienze hanno la capacità di “mettere in scena” il mondo per trasfomarlo, attivando tutti i linguaggi di una performance globale.

 

Contributi di: Bruno Baratto, Claudio Bernardi, Loris Della Pietra, Claudio Antonio Fontana, Giovanni Moleri, Roberto Tagliaferri, Aldo Natale Terrin, Lorenzo Voltolin.

 

(Quarta di copertina)

venerdì 20 novembre 2020

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 22 Novembre 2020 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO


 

 

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

 

Celebriamo Cristo “Re dell’universo”. Per comprendere correttamente questo titolo dato a Cristo bisogna riferirsi alla tradizione biblica del Dio re-pastore. L’immagine del “re” e del “pastore” nell’antichità erano interscambiabili; così come quelle del “gregge” e del “regno”. Il Sal 22 parla di Dio Pastore buono che pasce il suo popolo, lo fa riposare su pascoli erbosi e lo conduce ad acque tranquille. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Il salmo esprime la grande fiducia nel Signore che illumina, conforta e guida i credenti nei sentieri della vita.

 

L’anno liturgico si chiude sottolineando la centralità di Cristo nella storia e nella vita dell’uomo nonché il suo primato sull’universo. In effetti la solennità di Cristo Re dell’universo non intende riconoscere a Cristo un semplice titolo onorifico, ma il suo diritto a essere il centro della storia umana, la sua chiave di lettura. Il senso della storia del mondo e della vita dell’uomo si decide nel rapporto con Gesù Cristo e il rapporto con Gesù Cristo si decide nel rapporto coi fratelli. Questo doppio tema è quello che illustrano le letture bibliche odierne.

 

La prima lettura contiene un annuncio di speranza che il profeta Ezechiele fa pervenire al popolo d’Israele in un momento travagliato della sua storia. Dinanzi alla incapacità dei capi politici e religiosi d’Israele di essere autentiche guide al servizio del popolo, è Dio stesso che promette di prendersi cura d’Israele. Il Signore “pascerà” direttamente il suo gregge, nella speranza che questi risponderà alle sue premure. La tenerezza infinita di Dio è l’altra faccia della sua sovrana autorità, della sua onnipotenza.

 

La profezia di Ezechiele trova pieno compimento in Cristo. Il brano della lettera ai Corinzi della seconda lettura contempla la storia come un processo attraverso il quale il mondo deve essere sottomesso alla sovranità redentrice di Gesù. Il progetto di Dio è l’uomo liberato dalla schiavitù del peccato e ricondotto alla pienezza della verità e dell’amore e questo progetto è stato realizzato da Gesù Cristo. E quando tutto sarà stato sottomesso a Cristo, “anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Queste parole ci introducono nel brano evangelico d’oggi. Infatti, san Matteo ci presenta a Cristo Signore quando verrà nella sua gloria a giudicare il mondo. Il criterio con cui Cristo giudicherà “tutti i popoli” sarà quello di aver amato, servito, aiutato, consolato chi si sia trovato in situazione di miseria, di povertà, di sofferenza, di malattia, di ingiustizia. Gesù afferma che in ognuna di queste situazioni lui era presente, per cui ogni gesto compiuto in favore del fratello in realtà era diretto a lui. Chi ha amato i fratelli di fatto ha amato Cristo. Ecco perché riconoscere la regalità di Cristo significa imitarne lo spirito, incontrarlo nel fratello e impegnarsi a liberarlo dalle sue necessità. L’amore attua e dilata i confini del regno di Cristo, che non è una realtà né geografica né spaziale né temporale, ma è la sovranità del suo amore, che si attua già nel cuore di ogni uomo e nelle realizzazioni terrene e si compirà in pienezza alla fine quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. seconda lettura). Sintetizzando possiamo dire, riferendoci al grandioso scenario del giudizio finale che “alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce).

 

domenica 15 novembre 2020

L’INVITO ALLA COMUNIONE NEL NUOVO MESSALE ITALIANO

 



 

Goffredo Boselli, Le nozze dell’Agnello. Guida alla nuova traduzione del Messale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2020. 95 pp. (€ 9,00).

 

In questo volumetto, l’autore offre una preziosa e puntuale guida alle novità più rilevanti della nuova traduzione del Messale. In seguito offro le pagine che illustrano i cambiamenti nel rito della comunione (pp. 56-61).

Nei riti di comunione è stata modificata e ritradotta la formula di invito alla comunione che segue immediatamente l’Agnello di Dio. Messale del 1983: “Beati gli invitati alla Cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Messale del 2019: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. La nuova edizione del Messale sceglie di essere fedele al testo dell’edizione latina del Missale Romanum che così recita: “Ecce Agnus Dei. Ecce qui tollit peccata mundi. Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”.

Questa modifica ha un valore rilevante perché in primo luogo ripristina la successione originale della sequenza rituale, che le due precedenti edizioni italiane del Messale avevano scelto di modificare, invertendo l’ordine della frase, forse non comprendendo la mens rituale sottostante. Il presbitero, presentando all’assemblea il pane spezzato e il calice – vertice iconico dell’eucaristia perché il pane è mostrato spezzato e insieme al calice del vino – riprende l’invocazione “Agnello di Dio” della triplice litania appena cantata e lo contempla citando alla lettera l’espressione del Battista nel quarto vangelo “Ecco l’Agnello di Dio”, aggiungendo “ecco colui che toglie i peccati del mondo” dell’ “ecco”, assente nel testo finora in uso.

Ma il valore della novità di questa sequenza rituale consiste soprattutto nell’aver tradotto fedelmente il testo latino “Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”, “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” riconsegnando così alla liturgia la citazione diretta, sebbene non completa, dell’Apocalisse di Giovanni (cf. Ap 19,9) introdotta dalla riforma dell’Ordo Missae del Messale di Paolo VI. Nelle edizioni precedenti, i traduttori italiani hanno preferito rendere “cenam Agni” con “cena del Signore”, ponendo in ombra la dimensione escatologica che questa espressione giovannea contiene ed evoca.

Il Messale di Paolo VI, facendo seguire alla formula “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi”, già presente nel Messale di Pio V, il versetto “Beati qui ad cenam Agni vocati sunt”, fa della beatitudine giovannea il culmine a cui giunge la frazione del pane, aprendo questo rito a una dimensione escatologica essenziale alla celebrazione eucaristica. La tavola del Signore sulla quale la Chiesa celebra il memoriale della Pasqua di Cristo e la tavola della cena dell’Agnello sono un’unica tavola. Quella della Chiesa è sacramento di quella del cielo.

“Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”, salutiamo con gioia e intima soddisfazione questa beatitudine, che invita alla tavola del pane spezzato e dell’unico calice, corpo e sangue del Signore, posti davanti agli occhi dell’assemblea mentre ai suoi orecchi risuona la beatitudine dell’Apocalisse come promessa e profezia del banchetto escatologico, la tavola del Regno promessa da Cristo: “Io preparo per voi un regno […] perché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno” (Lc 22,29).

Va tuttavia osservato che la formula liturgica ha omesso nel testo latino il vocabolo “nozze” presente nel versetto dell’Apocalisse: “Beati gli invitati alla cena di nozze dell’Agnello” (Ap 19,9). La ragione per la quale i riformatori dell’Ordo Missae del Messale di Paolo VI abbiano fatto questa scelta ci resta nascosta. A ben guardare, la nuova traduzione italiana avrebbe potuto completare la citazione giovannea, consapevole che la fedeltà alle Scritture, specie al Nuovo Testamento, è superiore alla fedeltà materiale ad un testo liturgico dell’editio typica. Lo hanno invece fatto i traduttori della nuova edizione del Messale francese, rendendo “Heureux les invités au repas des noces de l’Agneau”. E’ auspicabile che la prossima edizione italiana colmi la mancanza.

 

 

venerdì 13 novembre 2020

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 15 Novembre 2020

 


Prv 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

 

In una atmosfera piena di pace, di serenità e di felicità il Sal 127 celebra la vita piena dell’uomo giusto. Dio lo benedice nel suo lavoro, dandogli la possibilità di coglierne e di goderne i frutti. Il salmo inizia con le parole “Beato chi teme il Signore”, e termina con un augurio che si estende sull’intero popolo d’Israele: “Possa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!”. In questa cornice, le letture bibliche odierne sono un forte richiamo ad una fede feconda; ci viene ricordato che le più sacrosante aspirazioni dell’uomo saranno appagate in pieno solo nella “città futura”, quando nell’intimità della casa del Padre la sposa dell’Agnello radunerà tutti i suoi figli “intorno alla sua mensa”. Raggiunge però questo traguardo colui che “cammina nelle vie del Signore”.

 

Alla fine ormai dell’anno liturgico, anche questa domenica è dominata dal pensiero delle ultime realtà, ma con una particolare sottolineatura: il rimando alla responsabilità personale nel presente come fatto decisivo in ordine al giudizio del futuro. L’uomo è libero di scegliere come spendere la propria esistenza terrena, ma solo chi segue fedelmente le vie indicate dal Signore raggiungerà un traguardo luminoso. La prima lettura fa l’elogio della donna perfetta, di cui si loda sia la sua integrità morale sia la sua capacità di gestire con fermezza, intelligenza ed amabilità la sua casa. La parabola dei talenti riportata dal vangelo si muove su una linea simile: i servi che hanno fatto fruttificare i talenti ricevuti sono lodali e premiati con generosità dal loro padrone. L’unico che sotterra il talento ricevuto viene castigato. Notiamo che un talento costituiva la paga di circa seimila giornate di lavoro. Anche al servo che ne viene affidato uno solo riceve quindi un capitale enorme.

 

Il nostro rapporto col futuro, precisato nella domenica scorsa come un “vegliare”, diventa oggi un “operare” nel concreto quotidiano, in base alle responsabilità avute. Non si tratta solo di attendere il ritorno di Cristo, ma di orientare la storia verso di lui. Dobbiamo vivere quindi non solo in un’attesa vigile ma anche fattiva. Il nostro futuro eterno è legato all’impegno nel quotidiano. Notiamo che il terzo servo di cui parla la parabola evangelica non viene punito perché ha fatto del male, ma perché non ha fatto del bene. Un dono, anche se piccolo, è pur sempre un dono: in quanto tale è un gesto di amore e di fiducia, a cui bisogna corrispondere con altrettanta generosità. Tutti abbiamo ricevuto dei doni; bisogna farli fruttificare. Alla fine della nostra vita ci incontreremo solo con ciò che avremo costruito, ma anche con tutto ciò che avremo avuto il coraggio di aspettarci da Dio. La venuta dell’ultimo giorno, del giorno del Signore, sarà un’amara sorpresa solo per chi avrà sistematicamente ignorato le proprie responsabilità e avrà chiuso il suo cuore alla speranza. Perché il Signore viene già ora, nella fedeltà agli impegni di ogni giorno. Nella seconda lettura, san Paolo ribadisce la stessa dottrina: conoscendo le ultime realtà a cui andiamo incontro, non possiamo comportarci come se non esistessero, ignorandole o adagiandoci in una passiva e inattiva attesa. Ciò che Dio ci chiede è ben poca cosa: la fedeltà alla sua grazia di ogni giorno nel compimento dei doveri quotidiani.

 

Possiamo ben dire che la santa eucaristia a cui partecipiamo costituisce la sintesi massima dei talenti datici da Dio. Perciò la partecipazione fruttuosa ad essa è pegno della gloria futura: ci ottiene la grazia di servire il Signore fedelmente e ci prepara il frutto di un’eternità beata (cf. orazione sulle offerte).

  

domenica 8 novembre 2020

UN LINGUAGGIO INCLUSIVO NEL NUOVO MESSALE

 


La nuova edizione italiana del Missale Romanum nel Confesso dell’atto penitenziale propone: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli e sorelle” anziché il precedente “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli”. La variazione ritorna nel finale della formula di confessione dei peccati: “E supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi fratelli e sorelle, di pregare per me il Signore Dio nostro”. Si tratta di un’evidente attenzione rivolta alle esigenze di un linguaggio inclusivo della varietà dei generi, maschile e femminile.

La coppia “fratelli e sorelle” era già presente nel MR del 1983, ad esempio nella monizione dell’atto penitenziale, dove il sacerdote era invitato a dire, con queste o altre parole: “Fratelli e sorelle, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati”. Ora la ritroviamo ogni volta che il Messale latino si rivolge all’assemblea come “fratelli”: nei riti di presentazione dei doni (“pregate fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio”), così come nel corso della Veglia pasquale (“Fratelli e sorelle, in questa santissima notte…”). Nella stessa Preghiera eucaristica, là dove si ricordano i defunti, la preghiera al Signore è ora rivolta ai fratelli e alle sorelle che si sono addormentati nella speranza della risurrezione.

L’attenzione al cosiddetto linguaggio inclusivo è una caratteristica del nostro tempo, che avverte l’esigenza di superare una cultura ancora troppo sessista e maschilista. La critica proveniente soprattutto dal mondo femminista, ma non solo, è aspra: le donne esistono e abitano il mondo, ma soltanto i maschi abitano il linguaggio. Le donne esistono e abitano la Chiesa e la liturgia, in modo preponderante, ma soltanto i maschi detengono, insieme al linguaggio, il potere. Di fronte a tale richiesta, alcuni dicono che non è aggiustando il linguaggio che si risolve la questione di una reale inclusione del genere femminile all’interno della preghiera liturgica della Chiesa e più in generale della vita sociale: non basta parlare di “sindaca” e di “architetta”, e neppure riferirsi genericamente al “genio femminile” per produrre un vero cambiamento di mentalità nel considerare in modo adeguato il ruolo della donna.

In effetti, pensando alla liturgia, pesa il fatto che a livello di ministeri istituiti (accolito, lettore) non sia ancora prevista l’apertura alle donne, nonostante l’esplicita richiesta proveniente dai vescovi riuniti per il sinodo sulla Parola di Dio del 2008. Questo dei ministeri è un esempio di come l’attenzione ad un linguaggio più giusto non possa essere isolata da una azione più globale, come ci ricordano le persone più attente al mondo del linguaggio e della comunicazione, ciò che non si nomina, non esiste, non viene pensato e preso in considerazione.

Il rischio di allungare le frasi in modo stucchevole può essere presente, e per questo è bene accogliere l’auspicio di un linguaggio inclusivo senza rigidezze ideologiche. La liturgia è piena di espressioni che andrebbero riviste: figli e figli, servi e serve, malati e malate, uomini e donne. Non è sempre possibile modificare un linguaggio proveniente dalle Scritture, che sono fortemente segnate da un modello patriarcale. Tenendo presente tale difficoltà, rimane intatta l’importanza di una attenzione globale ad una liturgia che guarda all’assemblea, al mondo, alla vita e a Dio stesso, non solo con occhi maschili. Il “fratelli e sorelle” della nuova edizione del Messale è come un pro-memoria, perché la voce della liturgia sia una voce capace di unire le differenze (di genere, ma pure di età, di cultura, etnia, ceto sociale, stato di salute fisica…), senza annullarle, ignorandole o appiattendole.

 

Fonte: Paolo Tomatis, Al servizio del dono. La nuova edizione del Messale, ELLEDICI 2020, pp. 33-35