La liturgia è “l’esercizio della funzione (munus) sacerdotale di Cristo” (SC 7); è anche opera della Chiesa, in cui “ciascuno, svolge il proprio ufficio (munus)” (SC 28). I pastori “esercitano in essa la funzione (munus) di dispensatori dei misteri di Dio” (SC 19). Partecipando alla liturgia il Signore “fa di noi stessi un’offerta (munus) eterna a lui” (SC 12). “Munus” può esprimere bene il mistero liturgico nella sua globalità.
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domenica 28 maggio 2023
venerdì 26 maggio 2023
DOMENICA DI PENTECOSTE (A) – 28 Maggio 2023 Messa del giorno
At 2,1-11; Sal 103 (104); 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23
La
Chiesa proclama che abitiamo in un mondo amico, nel quale possiamo contemplare
la presenza amorosa del Signore. La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito
di Dio che rinnova mondo e uomini. Ecco perché siamo invitati a rendere grazie
al Signore e a cantare: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra”.
La
solennità di Pentecoste, che “porta a compimento il mistero pasquale” (prefazio),
commemora il dono dello Spirito divino effuso sugli apostoli e su tutti noi. Lo
Spirito è il dono più prezioso di Cristo risorto, principio di una nuova
creazione, di una nuova realtà, è l’amore di Dio effuso nei nostri cuori per
rinnovare la faccia della terra. Abbiamo sentito nel vangelo come Gesù appare
agli apostoli e li saluta con queste parole: “Pace a voi! Come il Padre ha
mandato me, anche io mando voi”. Dopo aver detto questo, alita su di loro e
dice: “Ricevete lo Spirito Santo...” La
prima lettura ci racconta in dettaglio la scena della discesa dello Spirito
sugli apostoli riuniti nel cenacolo cinquanta giorni dopo Pasqua. Ma la
Pentecoste non è un evento isolato nel tempo; è un prodigio che si prolunga
nella storia. Infatti, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che tutti noi
abbiamo ricevuto lo stesso Spirito nel quale siamo stati battezzati. Lo Spirito
è effuso su tutti ed è all’origine dei diversi doni che sono in noi non solo
per l’utilità personale ma anche “per il bene comune”.
Possiamo
soffermarci su quest’idea, che è centrale nell’insegnamento dell’apostolo
Paolo. Egli illustra la sua dottrina con un’immagine eloquente, il corpo: tutti formiamo un solo corpo, ma
in molte membra; membra diverse, ma unite a formare un unico organismo. Lo
Spirito Santo è il garante dell’unità che tiene unita e ben compaginata la
Chiesa come un corpo, in cui la diversità di funzione e ruolo delle varie
membra è al servizio del bene dell’organismo intero. La prima lettura ci
ricorda che san Pietro nel suo primo annuncio del Vangelo nel giorno di
Pentecoste era capito nella propria lingua dai numerosi stranieri convenuti a
Gerusalemme. Lo Spirito di Pentecoste è una forza unificatrice che si contrappone
vittoriosamente alla logica di divisione della torre di Babele (cf. Gen 11). Lo
Spirito è principio di unità nella varietà. Il progetto di Dio è un mondo ricco
nella varietà e saldo nella comunione. La varietà dei doni che lo Spirito Santo
elargisce generosamente per il bene comune, esige il mutuo riconoscimento della
dignità dell’altro e la collaborazione reciproca. Ognuno di noi è parte integrante
e insostituibile nel grandioso progetto di Dio sulla storia. Nessuno è
superfluo in questa storia, ma ognuno, con la sua particolare vita, con i suoi
eroismi e anche con le sue debolezze, è chiamato a mettersi generosamente al
servizio degli altri perché il Regno di Dio si compia.
Nell’orazione
sulle offerte chiediamo al Padre che mandi lo Spirito “perché riveli pienamente
ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio”. Lo Spirito Santo ci fa
percepire il senso profondo della redenzione e, in particolare, la grandezza e
il valore del mistero eucaristico.
domenica 21 maggio 2023
COMUNITÀ LITURGICA E CELEBRATIVA
La vita comunitaria è molto più che una
istituzione. È la realizzazione di un modo di rapportarsi, insito nel disegno
di Dio creatore, che è stato minacciato fin dall’inizio della storia, a causa
del ripiegarsi dell’uomo su se stesso, dell’egoismo e della lotta per il
potere. Da qui sono sorte le invidie, le divisioni e le guerre fratricide. Ecco
perché Gesù conclude la sua esistenza con la morte in croce “per riunire
insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). D’allora la comunità dei
discepoli di Gesù sarà perseverante “nell’insegnamento degli apostoli e nella
comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere […] Tutti i credenti
stavano insieme e avevano ogni cosa in comune […] Ogni giorno erano
perseveranti insieme nel tempio e spezzando il pane nelle case, prendevano cibo
con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il
popolo” (At 2,42.44.46-47). Da notare in questa descrizione della vita della
primitiva comunità di Gerusalemme, l’armonia tra celebrazione del culto e vita
comune.
La celebrazione
liturgica è un fatto comunitario e insieme personale, che impegna il
coinvolgimento libero e responsabile dei singoli partecipanti nell’azione
cultuale che è essenzialmente e costitutivamente ecclesiale. Parlare di partecipazione
interna e di partecipazione esterna come di due momenti diversi e separabili, è
ambiguo e deviante. Il Concilio Vaticano II ha avuto il merito di condensare in
una espressione lapidaria e ormai nota le modalità della partecipazione: “per ritus et preces id [= mysterium fidei] bene
intellegentes” (SC
48): “comprendendo bene [il mistero della fede] nei suoi riti e nelle sue
preghiere”. I riti e le preghiere non sono una realtà esterna, ma sono la
mediazione con cui si accede al mistero che si celebra. La stessa comprensione
di cui parla il testo non si ferma ai riti, né raggiunge il mistero della fede
senza di essi; al contrario, si comprende il mistero della fede proprio
attraverso i riti e le preghiere con cui si celebra.
Il rito comprende
parola e gesto, e deve essere interpretato come azione. È famosa l’affermazione
dell’intellettuale africano del Senegal Léopold Senghor: “Gli occidentali
dicono (con Renato Cartesio): penso, quindi sono; noi africani diciamo: danzo,
quindi esisto”. Dobbiamo ricuperare il valore del rito, azione simbolica, come
strumento di partecipazione e via attraverso cui entriamo nella profondità del
mistero.
Il teologo irlandese
Thomas O’Loughlin, con un suo stile molto particolare, afferma che benché si
potrebbe partecipare grazie ad un ascolto orante e ad un’attenzione assorta e
silenziosa, noi siamo il popolo dell’incarnazione, dei corpi tanto quanto delle
menti e dello spirito (Cf. Th. O’Loughlin, Riti corretti. Perché
celebrare bene conviene, Queriniana, Brescia 2020, 77). E, come nota
Aristotele, ci impegniamo maggiormente in ciò che ci coinvolge attraverso i
sensi: più veniamo coinvolti mediante i cinque sensi, più siamo interessati a
quel che accade intorno a noi.
Una celebrazione è intessuta di segni e di simboli, di parole e di azioni (cfr.
CCC 1145 e 1153). La partecipazione si svolge attraverso questi diversi
linguaggi.
Papa Francesco ha detto: “La liturgia non è “il campo del fai-da-te”, ma
l’epifania della comunione ecclesiale. Perciò, nelle preghiere e nei gesti
risuona il “noi” e non l’“io”; la comunità reale, non il soggetto ideale” (Discorso
alla Plenaria della CCDDS, 14.02.2019). La celebrazione liturgica ci
sradica dal nostro individualismo e ci educa a stare insieme, a condividere, a
pregare insieme. L’individualismo soffoca il senso della comunità.
L’eucaristia è presenza di Cristo, memoria efficace del suo sacrificio y
comunione ad esso. In tempi passati queste tre dimensioni dell’eucaristia
(presenza, sacrificio e comunione) sono state vissute talvolta come devozioni
private e separate: così dal secolo XII/XIII in poi la presenza di Cristo era
adorata nelle esposizioni del Santissimo, ma la comunione era una prassi
privata fatta poche volte e fuori della messa. La liturgia ci insegna a vivere
queste tre dimensioni dell’eucaristia in modo unitario e comunitario. Se le
separiamo sarebbe come illudersi di poter gustare una parmigiana di melanzane,
mangiando prima il pomodoro, poi le melanzane e poi la mozzarella, gradevoli
anche separatamente ma niente a che vedere con il gusto di una buona
parmigiana.
Caratteristica della modernità è una forte e crescente disaffezione verso
il rito, la tradizione e il linguaggio simbolico, che va di pari passo con la
crescita dell’individualismo. E ciò viene da lontano. Secondo alcuni studiosi,
nella storia culturale e religiosa europea degli ultimi secoli c’è stata una
tendenza a la comprensione fredda e intellettuale della religione e
conseguentemente della liturgia. Anzitutto troviamo una progressiva
“razionalizzazione” della religione e un primato attribuito alla ragione a
partire dall’illuminista Immanuel Kant, secondo il quale l’essenza della
religione è la “fede razionale”, o meglio una ragione che sappia controllare la
fede. Friedrich Schleiermacher, uno dei massimi rappresentanti del romanticismo
tedesco, volendo combattere il razionalismo di Kant, esalterà l’esperienza
religiosa, concepita però come “pura esperienza interiore” e questa
interpretata come semplice “sentimento”. In questo modo, se tutto viene interiorizzato,
la liturgia come rito perde la sua capacità simbolica. Ciò spiegherebbe la
crescente “testualizzazione” della liturgia a scapito della sua dimensione propriamente rituale (Cf. Aldo Natale Terrin, Liturgia come gioco, Morcelliana 2014, 11-16).
Alcuni anni fa, la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Lettera
Placuit Deo (22.02.2018) su alcuni aspetti della salvezza cristiana,
quando si descrive l’impatto delle trasformazioni culturali attuali sul
significato della salvezza cristiana, si afferma: “si diffonde la visione di una salvezza meramente interiore, la quale
suscita magari una forte convinzione personale, oppure un intenso sentimento,
di essere uniti a Dio, ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre
relazioni con gli altri e con il mondo creato. Con questa prospettiva diviene
difficile cogliere il senso dell’Incarnazione del Verbo, per cui Egli si è
fatto membro della famiglia umana, assumendo la nostra carne e la nostra
storia, per noi uomini e per la nostra salvezza”. Quindi, per quanto a noi riguarda qui, si
tratta di un tipo di spiritualità che non guarisce e non rinnova le nostre
relazioni con gli altri, non crea uno spirito comunitario.
La liturgia invece è un antidoto contro l’individualismo. Alla
celebrazione cultuale siamo convocati come comunità e in essa siamo coinvolti
in una azione comunitaria che, a sua volta, può rinvigorire i nostri legami
come comunità.
venerdì 19 maggio 2023
ASCENSIONE DEL SIGNORE (A) – 21 Maggio 2023 Messa del giorno
At
1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20
L’ascensione
di Cristo al cielo è il momento culminante della Pasqua del Signore: il suo
trionfo e la sua glorificazione personale dopo l’apparente disfatta della morte
in croce. Con la sua ascensione, Cristo è stabilito re dei secoli, Signore dell’universo,
sacerdote e mediatore unico tra Dio e gli uomini, capo del suo corpo mistico
(cf. seconda lettura).
Il
racconto dell’evento dell’ascensione del Signore è affidato alla prima lettura,
costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia, la
preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi
alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo
vivendo tra l’ascensione del Signore e il suo ritorno alla fine dei tempi. San
Paolo nella seconda lettura parla della speranza che l’ascensione di Cristo inaugura.
Cristo, entrando nel mondo di Dio, rende accessibili a tutti noi le realtà
divine. Guidati da questa speranza, siamo in grado di valutare in modo giusto
le realtà terrene. Gesù è passato in mezzo a tutte queste realtà del mondo
tenendo fisso lo sguardo verso il Padre, senza deviare dalla strada della sua
missione. La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in
alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per
restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo
spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo
lo ha reso accessibile, ma non per questo deve far dimenticare il cammino che
dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo
diventa alienazione e inganno se ci distoglie dalle sue premesse nella storia,
dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è evasione religiosa,
disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è il
lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il
traguardo di Dio. Perciò questo messaggio è destinato ad essere annunciato a
tutti gli uomini.
Infatti,
Gesù congedandosi dei discepoli, li invia in missione. Il breve brano del
vangelo d’oggi è tutto incentrato su queste parole di Gesù: “A me è stato dato
ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque a fare discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con
voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Se il fatto della missione rende
la Chiesa apostolica, cioè inviata
nel mondo, i destinatari la rendono cattolica,
cioè universale. Una caratteristica quest’ultima che si rende visibile quando la
comunità cristiana non appare chiusa in sé stessa, autoreferenziale, ma aperta
a tutti, veramente incarnata in ogni situazione e travaglio umano, totalmente
presente al mondo per il suo servizio. Solo allora il termine cattolica acquista il suo pieno senso.
La missione della Chiesa ha il compito di incontrare l’uomo e di condurlo al di
là di sé stesso, a Cristo. Il ritorno di Cristo al Padre inaugura quindi il
cammino della Chiesa e della sua missione nel mondo per condurre tutti gli
uomini con Cristo al Padre.
Nell’eucaristia
la Chiesa pellegrina sulla terra riaccende continuamente la speranza della
patria eterna (cf. orazione dopo la comunione).
domenica 14 maggio 2023
DIO MISERICORDIOSO
Nelle antiche religioni pagane
la divinità è concepita a immagine e somiglianza degli esseri umani. Così, ad
esempio, gli dei dell’Olimpo, venerati dagli antichi greci e anche dagli
etruschi che assorbirono la mitologia greca, venivano immaginati con le
sembianze umane e con abitudini di vita simili a quelle degli uomini. Avevano
qualità e poteri sovrumani, ma allo stesso tempo possedevano i difetti tipici
degli umani. Invece nella Bibbia ebraico-cristiana è l’essere umano ad essere
concepito a immagine e somiglianza di Dio. Leggiamo nel libro della Genesi:
“Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza’”
(Gen 1,26). Ecco, quindi, che l’antropomorfismo con cui si esprime la Bibbia,
non significa che Dio sia come uno di noi, ma è semplicemente il modo con cui
Dio diventa in qualche modo comprensibile a noi. Infatti, Dio è trascendente e
irraggiungibile. Dice san Paolo che Dio “abita una luce inaccessibile: nessuno
fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo” (1Tm 6,16). Quando parliamo
quindi di Dio, nel nostro caso della misericordia di Dio, bisogna aver sempre
presente questo divario che c’è tra Lui e noi. Il nostro linguaggio è inadeguato
ad esprimere ciò che Dio è. A questo proposito, Papa Francesco in una delle sue
omelie a Santa Marta, a proposito della misericordia di Dio, ha detto: “Dio ci
perdona come Padre, non come un impiegato del tribunale”
“Paziente e misericordioso” è
il binomio che riassume meglio la descrizione che di Dio fa l’Antico
Testamento. Il suo essere misericordioso trova riscontro concreto in tante
azioni della storia della salvezza dove la bontà prevale sulla punizione. “Il
suo amore è per sempre” è il ritornello che viene riportato ad ogni versetto
del Sal 136 mentre si narra l’agire di Dio nella creazione e nella storia
d’Israele.
Il Figlio di Dio incarnato,
Gesù Cristo, è il volto della misericordia del Padre. La missione che Gesù ha
ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino
nella sua pienezza. “Dio è amore” (1
Gv 4,8.16), afferma per la prima e unica volta in tutta la Sacra
Scrittura l’evangelista Giovanni. Questo amore è ormai reso visibile e
tangibile in tutta la vita di Gesù. I segni che egli compie, soprattutto nei
confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti,
sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla
in Lui è privo di compassione.
Quando si leggono i vangeli,
si resta sorpresi nel constatare con quanta frequenza Gesù lascia trasparire la
sua compassione di fronte alle più diverse situazioni umane di sofferenza,
fisica o morale che sia. Nel linguaggio del Vangelo, compassione è una parola
che ha a che vedere con le “viscere”: “essere commosso fino alle viscere”. È un
sentimento, o meglio uno sconvolgimento che prende nell’intimo viscerale
appunto. E Gesù passa dal sentimento all’intervento, all’azione concreta.
L’evangelista Luca parla
frequentemente della misericordia/compassione; il suo Vangelo è stato chiamato
il Vangelo della misericordia. Qui vorrei invitarvi a ricordare tre passaggi in
cui il tema della misericordia è in primo piano: il racconto della risurrezione
del figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17), e due parabole: quella del buon
Samaritano (Lc 10,25-37) e quella del padre misericordioso nei confronti del
figlio prodigo (Lc 15,11-32). Questi tre brani hanno un significato, un
messaggio, che va aldilà delle situazioni concrete raccontate. Vi troviamo le
situazioni umane più tipiche:
La morte, nella sua
manifestazione più drammatica e con quel clima di angoscia che sconvolge i
protagonisti: un giovane dinanzi alla morte e una madre che perde il suo unico
figlio; la malvagità umana, o meglio, le sue infinite vittime abbandonate sul
ciglio di tutte le strade del mondo; le situazioni di perdizione, nelle quali
gli individui, più o meno coscientemente, hanno svenduto la propria dignità e
si ritrovano così umiliati nell’intimo da non riuscir più nemmeno a
sperare.
Dio è misericordioso, ma è
anche giusto. Come si possono conciliare questi due attributi divini? Noi siamo
inclini a parlare della giustizia di Dio interpretandola semplicemente come una
giustizia giudiziaria, secondo le nostre categorie giuridiche. Secondo la
Bibbia però la giustizia divina non può ridursi all’esercizio di un giudizio.
San Paolo ci ricorda che Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano
alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). La giustizia di Dio è anzitutto
misericordiosa fedeltà alla sua volontà di salvezza. Possiamo dire che Dio è
giusto perché è fedele alla sua alleanza con l’umanità, anche quando noi siamo
infedeli ad essa. Per capire meglio questo concetto di giustizia divina,
occorre anche dire che la misericordia di Dio è possibile soltanto se è unita
al suo perdono. La misericordia senza perdono non avrebbe senso; al massimo
manifesterebbe un sentimento che assomiglia alla tolleranza o, peggio,
all’indifferenza. Potrebbe perfino essere fraintesa, e colui che ne è
beneficiario potrebbe pensare che gli è andata bene, non imparando nulla dai
suoi errori. Provvidenzialmente, finché si vive, l’atteggiamento offensivo
dell’uomo è ricambiato dall’amore misericordioso di Dio, che lo richiama
continuamente invitandolo a ravvedersi.
E l’inferno? E’ nota la
battuta di Hans Urs von Balthasar: “L’inferno c’è, ma
è vuoto”. Ma come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita
misericordia di Dio? Il Catechismo della
Chiesa Cattolica risponde con le parole seguenti: “Morire in peccato
mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di
Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera
scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio
e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’” (n. 1033). Dio ci ha creati liberi e responsabili, e
quindi rispetta le nostre decisioni. L’inferno è la possibilità negativa che si
possa perdere consapevolmente la salvezza eterna.
San Paolo nella sua prima
Lettera ai cristiani di Corinto, dopo aver denunciato gli scandali provocati da
alcuni in quella comunità, si fa una domanda retorica: “Devo venire da voi con
il bastone o con dolcezza d’animo?”. Certamente san Paolo va a Corinto con un
cuore misericordioso È innegabile che oggi si preferisce parlare più della
misericordia di Dio piuttosto che della sua giustizia. E ciò è vero anche a
livello del supremo magistero della Chiesa. Ricordiamo l’enciclica Dives in misericordia di Giovanni Paolo
II (anno 1980); l’enciclica Deus caritas
est di Benedetto XVI (anno 2005) e il magistero di papa Francesco
culminante nella iniziativa di indire un Giubileo straordinario della
Misericordia. Forse gli uomini e le donne di questa nostra epoca abbiamo più
bisogno non tanto di temere un Dio giusto, quanto di confidare in un Dio
misericordioso. D’altra parte, confidare nella misericordia di Dio non nega
certo la sua giustizia; semmai, la esalta.
La misericordia di Dio ci
insegna che è importante non chiuderci nelle nostre sofferenze, nei nostri
piccoli o grandi problemi, al fine di poter accogliere le sofferenze ed i
problemi degli altri. Papa Francesco adopera frequentemente l’espressione
“uscire da se stessi”. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco
e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi mentali che
finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da
se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci
la misericordia che salva e dona speranza. Gesù, dopo il discorso sulle
beatitudini, dice a tutti noi: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è
misericordioso” (Lc 6,36).
Con Platone, ma poi
soprattutto con lo stoicismo, che considerava la compassione e la misericordia
come una malattia dell’animo – aegritudo
animi – la filosofia aveva considerato la misericordia alla pari di una
debolezza umana (cf. Apologia 34c
ss.) che si opponeva ad un comportamento guidato dalla ragione. Per il
cristianesimo invece la misericordia è la virtù dei forti, di coloro che,
dimentichi di sé, sono capaci di avvicinarsi con uno sguardo compassionevole
alle miserie degli altri.
M. Augé
venerdì 12 maggio 2023
DOMENICA VI DI PASQUA (A) – 14 Maggio 2023
At
8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21
La
domenica odierna comincia a preparare la solennità della Pentecoste,
annunciando il dono dello Spirito Santo. Gesù, tornando al Padre, non lascia
soli coloro che credono in Lui. Rimane tra loro in una forma nuova, tramite “un
altro Paraclito”, “lo Spirito della verità” (vangelo). Questo Spirito è
comunicato mediante il ministero degli apostoli a coloro che credono in Cristo
(prima lettura), perché li sostenga e li animi edificandoli in comunità viva,
capace di rendere ragione della propria fede (seconda lettura).
Gesù
risorto non rinnega la solidarietà con gli uomini. La sua morte e risurrezione
segnano il passaggio da una presenza visibile ma esteriore a una presenza
interiore, meno palpabile dai sensi ma non per questo meno reale ed efficace.
Questa presenza è realizzata dallo Spirito Santo, dono del Padre, che rimane
con i discepoli di Gesù per sempre. Il compito dello Spirito viene indicato dai
due nomi che nel vangelo d’oggi riceve: “Paraclito”, che in greco significa
“Consolatore”, e “Spirito della verità”.
Cominciamo
dal secondo titolo: “Spirito della verità”. La verità di cui parla il vangelo
di san Giovanni è la rivelazione dell’amore del Padre per noi, che si
concretizza nello stesso Gesù. È Lui la verità! Lo Spirito appare quindi come
colui che introduce nella piena conoscenza di Cristo, che ci insegna ad amarlo
e a servirlo. Chi non crede che Gesù è la rivelazione dell’amore del Padre,
rimane nel suo cuore ermeticamente chiuso ad ogni influsso dello Spirito Santo.
Coloro invece che credono in Gesù, con il dono dello Spirito, sono chiamati ad
una intimità ancora maggior con Gesù: Egli non solo è “vicino” a loro, ma è
veramente “in loro”. Dicevamo poi che
questo Spirito è il “Paraclito”. Il termine proviene dal linguaggio giuridico
greco e indica uno che viene “chiamato vicino” ad un accusato perché lo aiuti e
lo difenda. Da questo significato proviene quello derivato di “Consolatore”.
Solo san Giovanni usa questo termine per indicare sia lo Spirito Santo (14,
16.26; 15,26; 16,7) sia Gesù stesso (1Gv 2,1). Quindi il Paraclito è, al pari
di Gesù, un “altro Consolatore”. Lo Spirito Santo è dato a nostra difesa, a
sostegno cioè del nostro compito di testimonianza nel mondo, affinché siamo sempre
pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi
(cf. 1Pt 3,15).
Caratteristica
propria dello Spirito Santo è quella di essere “il dono” per eccellenza.
L’azione dello Spirito è essenzialmente “dono di sé”. Rendersi perciò conto
della sua presenza in noi significa prendere coscienza che la nostra esistenza è
avvolta dalla presenza premurosa di Dio e questo fatto, se viene recepito a
fondo, è capace di trasfigurare profondamente la vita intera. San Cirillo di
Gerusalemme afferma che “ciò che lo Spirito Santo tocca è santificato e trasformato
totalmente” (Catechesi XXIII).
domenica 7 maggio 2023
LA RIFORMA LITURGICA
Pietro
Sorci, Riforma della Liturgia e riforma della Chiesa (Bibliotheca “Ephemerides
Liturgicae” “Subsidia” 206), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2022. 122 pp. (€
20,00).
Se
“la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo
stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC 10), l’”accurata
riforma generale della liturgia” (SC 21), voluta dal Concilio Vaticano II e
attuata con immane sforzo, con la collaborazione di numerosi storici, biblisti,
studiosi di liturgia, teologi e pastori di tutto il mondo, implica una riforma e un rinnovamento della Chiesa, della
sua coscienza, della sua spiritualità, del suo modo di presentarsi al mondo e
della sua prassi pastorale. Il volume, nei suoi cinque capitoli percorre il
cammino non privo di difficoltà e di resistenze, della riforma liturgica, per
concludere che la liturgia come la Chiesa è semper riformanda.
Introduzione
(Rosario La Delfa), La liturgia riforma la Chiesa, non la Chiesa la liturgia.
1.
La liturgia a 60 anni dalla Sacrosanctum Concilium.
2. La liturgia culmen et
fons della vita della Chiesa (SC10).
3. Le riforme della liturgia
attraverso i secoli.
4. La riforma liturgica del
Vaticano II.
5. Riforma della liturgia e
riforma della Chiesa.
Postfazione (Cosimo
Scordato) Verso la riforma sempre da compiere.
venerdì 5 maggio 2023
DOMENICA V DI PASQUA (A) – 7 Maggio 2023
At
6,1-7; Sal 32; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12
La
lettura evangelica propone un brano del discorso di addio pronunciato da Gesù
nel contesto dell’ultima Cena. Gesù parla della sua dipartita da questo mondo e
del suo ritorno alla casa del Padre, dove va a preparare un posto anche per i
suoi discepoli. San Tommaso desidera conoscere la via per arrivare al luogo
dove Gesù afferma che sta per andare. Gesù risponde di essere lui stesso la
via, ma non solo: egli aggiunge che è anche la verità e la vita. Queste parole
non devono essere interpretate in modo astratto. Gesù propone la propria
persona, il proprio messaggio come ciò che rende “vero” il nostro sguardo su di
noi stessi, che dà autenticità ai nostri desideri più profondi, che dona cioè
senso e vigore alla vita e la riempie di speranza e di un orizzonte aperto,
duraturo, eterno e per questo degno di essere ricercato e perseguito. Gesù morto e risorto è la via unica che
conduce al Padre, la verità che illumina, la vita eterna che ci viene donata
già ora nel nostro cammino verso la gloria definitiva. Insomma, Gesù è la via per giungere alla vera vita, ossia alla verità
della vita.
Dinanzi
a questi discorsi, Filippo taglia corto e dice a Gesù: “Signore, mostraci il
Padre e ci basta”. La risposta di Gesù è sorprendente: “Chi ha visto me ha
visto il Padre”. Filippo cerca una visione, una apparizione. Gesù gli ricorda
che solo lui, nella sua concreta umanità, è il luogo in cui si può scorgere la
realtà di Dio. In lui il Dio invisibile si è fatto visibile, conoscibile
raggiungibile. È dunque osservando l’umanità di Gesù (parole e opere) che si
può comprendere chi è Dio.
La
seconda lettura riprende e sviluppa la stessa dottrina della centralità di
Cristo nella nostra vita; lo fa adoperando un’altra immagine, quella della
“pietra”. San Pietro paragona la comunità dei credenti ad un “edificio
spirituale, per un sacerdozio santo…”, fondato su Cristo “pietra d’angolo”
dell’edificio. Con la sua risurrezione, Cristo si è mostrato davanti agli
uomini come roccia su cui fondare l’edificio di una nuova comunità, quella dei
credenti in Lui, che sono a loro volta chiamati “pietre vive”. Per coloro
invece che rifiutano Cristo quale pietra angolare, essa diventa “sasso
d’inciampo e pietra di scandalo”.
Della
nuova comunità fondata su Cristo, che è la Chiesa, e dei suoi primi passi nella
storia, parla la prima lettura. Si tratta di una comunità che, pur nelle sue
contraddizioni e tensioni, vive in atteggiamento di “servizio” (servizio della
Parola e servizio dei poveri) ad esempio di colui che ha detto: “Il Figlio
dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita
in riscatto per molti” (Mc 10,45). In questo modo, la Chiesa, quale strumento
di salvezza, è chiamata a rendere presente ed operante, nel tempo e nel mondo,
la grazia del Risorto, di colui che è il solo Salvatore, la via unica che
conduce al Padre.
La
funzione mediatrice di Cristo e il carisma sacerdotale della Chiesa trovano il
loro esercizio privilegiato nella celebrazione eucaristica. Qui avviene il
misterioso scambio di doni che rende possibile la comunione con Dio, unico e
sommo bene. Nella celebrazione eucaristica si verifica quel processo che ci fa
passare “dalla nativa fragilità umana alla vita nuova nel Cristo risorto” (orazione
dopo la comunione).