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domenica 30 giugno 2019

UNA RILETTURA DI GUARDINI





Juan Rego (ed.), Incontri con Romano Guardini. A cento anni da “Lo spirito della liturgia” (Biblioteca di Iniziazione alla Liturgia 5), EDUSC, Roma 2019. 182 pp.


Questo volume vuole aiutare ad una rilettura interdisciplinare dell’opera di Romano Guardini Lo spirito della liturgia cent’anni dopo la sua pubblicazione. L’ordine dei contributi segue la sequenza dei capitoli ideati da Guardini.


La diversità di prospettive da parte degli autori risponde al desiderio di offrire esempi concreti di “incontri”, che possano ispirare i lettori nel loro confronto intellettuale con una delle opere più note del Movimento Liturgico.


Contributi di: Randifer Boquiren, Pilar Rίo, Juan Rego, Albert Gerhards, Silvano Zucal, Graziano Borgonovo, Ivica Zizic.

sabato 29 giugno 2019

DOMENICA XIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 30 Giugno 2019






1Re 19,16b.19-21; Sal 15; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62



Chi sceglie Dio non rimane deluso. Ce lo ricorda il messaggio della presente domenica, che è un invito a seguire il Signore Gesù, a fare di lui il punto centrale di riferimento nella nostra vita.


La prima lettura racconta la vocazione di Eliseo. La chiamata giunge ad Eliseo nell’ordinario della vita quotidiana: mentre Eliseo arava il campo, Elia, “passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello”. Il mantello è segno di colui che lo indossa, prolungamento della sua personalità. Nel caso di Eliseo, la consegna del mantello significa la trasmissione del carisma profetico. Ma non è il semplice mantello a fare il profeta. Dio attende la risposta di Eliseo, il quale lascia i suoi buoi e corre dietro Elia. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone il brano evangelico, soprattutto nella sua seconda parte. San Luca racconta di tre che vogliono seguire Gesù e diventare suoi discepoli. Che significa seguire Gesù, diventare suoi discepoli? E’ lo stesso Gesù a spiegarlo e a indicarci le condizioni per seguirlo. Al primo che si avvicina a lui con volontà di seguirlo, Gesù risponde: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Seguire Gesù significa distacco dalle cose e dagli appoggi umani e materiali. E’ necessaria poi la prontezza e l’abbandono del passato, come ricorda il Signore al secondo che intende seguirlo affermando al tempo stesso che prima vuole andare a seppellire suo padre. Finalmente, chi sceglie il Cristo lo fa definitivamente, per sempre. Sul cammino di colui che diventa discepolo di Gesù c’è una chiamata che spezza i legami con il passato e traccia un nuovo e definitivo percorso per il futuro. Possiamo constatare come Gesù sia più esigente che Elia. Ad Eliseo concede di andare a salutare i familiari e allestire un banchetto di commiato da quelli del suo clan; il distacco è quindi progressivo. Gesù invece vuole una risposta immediata e senza ripensamenti di nessun genere. Con la venuta del Messia, non si è più nel tempo dell’attesa ma in quella del compimento.


Tutti, ciascuno nel proprio stato di vita, siamo chiamati a seguire Gesù. Ciò comporta una scelta radicale, che non si addice a forme di compromesso, o ad esigenze parallele o contrarie al vigore della proposta che ci viene fatta. Seguire Gesù significa collocarlo al primo posto tra i nostri interessi, prima ancora dei vincoli di sangue, dei rapporti affettivi (cf. Mt 10,37). Ma seguire Gesù significa soprattutto avere la certezza che, oltre il cammino pietroso, vi è la felicità della vita vera: “chi segue me avrà la luce della vita” (Gv 8,12: canto al vangelo). La risposta alla chiamata la diamo ogni giorno, sempre che cerchiamo di essere fedeli al vangelo. E’ una risposta che si dà nella gioia libera e totale dell’amore: nella seconda lettura, Paolo dice che “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”. La libertà non si conquista, è un dono che viene dall’alto, ma è altrettanto un impegno concreto. Il discepolo di Gesù è un uomo libero che aderisce a Dio attraverso lo Spirito con tutto il suo cuore e la sua anima. Solo chi segue il dinamismo dello Spirito è libero, perché attingendo alla fonte profonda dell’amore, vive in armonia con se stesso, con gli altri e con Dio.


giovedì 27 giugno 2019

NORMA VERSUS RITO?




Il prof. Andrea Grillo ha gentilmente risposto alle mie perplessità su quanto egli aveva scritto su Rivista di Pastorale Liturgica 334 (pp. 19-23). Anche se i sette acuti chiarimenti del nuovo testo di Grillo (dalla a alla g), meriterebbero tutti la mia attenzione, mi limiterò qui a ciò che credo sia il problema fondamentale. Alla fine del suo intervento, il prof. Grillo afferma: “oso pensare che, nella sostanza, ci troviamo (io e lui) profondamente d’accordo…” Probabilmente siamo d’accordo nella sostanza, ma un po’ meno nel metodo. Mi spiego. A mio avviso, in questa problematica bisogna distinguere: ciò che di fatto succede nelle celebrazioni liturgiche delle nostre chiese; il ruolo dei pastori e degli studiosi o esperti in liturgia; il ruolo dell’autorità della Chiesa.

Di quanto succede nelle celebrazioni liturgiche delle nostre chiese, tutti abbiamo una certa conoscenza: celebrazioni corrette, ma talvolta poco incisive che rischiano di diventare abusive per difetto; celebrazioni arbitrarie, alcune anche aberranti, che stravolgono il senso della liturgia; interventi creativi o nuovi usi che cercano di esprimersi in sintonia con lo spirito della liturgia, ma vanno oltre le norme vigenti. Dinanzi a questo variegato panorama, quale atteggiamento dovrebbe avere l’esperto in liturgia? Secondo me, il liturgista dovrebbe analizzare il fenomeno, valutarne le cause e indicare, dopo un adeguato discernimento, gli aspetti che meritano una certa attenzione sia in senso positivo che negativo. Da parte sua, l’autorità della Chiesa ha il compito di salvaguardare la riforma liturgica di Paolo VI e promuovere, quando sia il caso, degli adeguamenti o cambiamenti. In questo contesto, si ricorda giustamente l’intervento di papa Francesco, attraverso la Congregazione per il culto divino, sulla lavanda dei piedi col decreto In missa in cena Domini (6 gennaio 2016). 

Anche se, come dice Grillo, quando si parla di “creatività” si vuole in ogni caso escludere un “uso arbitrario” dell’ordo, di fatto si rischia di offrire una base teorica che giustifica ogni tipo di creatività, dando spago agli abusi anche a quelli più aberranti. Chi giudica che si tratta di un uso arbitrario o meno?

Grillo afferma: “se la norma è inadeguata, si cambia la norma, non si censura il rito. Infatti non si celebra ‘iuris causa’, ma lo ius esiste ‘ritus causa’ ”. Credo che in questa affermazione ci sia una discutibile contrapposizione tra rito e norma. Il rito è da per sé normativo, non è stabilito dai partecipanti ad esso, che piuttosto devono eseguire sequenze e regole prestabilite. Se la partecipazione ad un rito dipende dalla voglia del momento, giustificata magari dalla volontà di dare parola ai diversi linguaggi della celebrazione, c’è il rischio di manomettere l’azione celebrativa e asservirla ai propri bisogni soggettivi o di gruppo. Credo che Grillo è d’accordo con me che Summorum Pontificum è stato in qualche modo un esempio di questa tendenza quando nella Lettera che accompagna il documento si giustifica il ripristino del vetus ordo affermando, tra l’altro, che “anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro”. Una liturgia a la carte?

Secondo me, il nocciolo della questione sta nel rapporto che intercorre tra rito e norma. Al riguardo, non in vano ho citato nel mio primo intervento SC, nn. 22 e 26. Certamente, come afferma Grillo, la norma liturgica “pretende una ermeneutica più ampia e più duttile”, a mio avviso però ciò non significa che essa possa essere ignorata o stravolta. La norma non dovrebbe ostacolare l’attivazione dei linguaggi molteplici della celebrazione, ma orientarli e metterli al riparo dei soggettivismi.

                                                                                      M. Augé





  




mercoledì 26 giugno 2019

Abusi e nuovi usi: in dialogo con Matias Augé







Pubblicato il 24 giugno 2019 nel blog: Come se non


Dopo la pubblicazione del numero 334 di RPL, dedicato al tema “Fede, liturgia e prassi”, Matia Augé, che ha partecipato con un articolo allo stesso numero, sul suo blog ha dichiarato il suo interesse per una serie di altri articoli apparsi sul medesimo numero, ai quali ha rivolto una serie di considerazioni e domande (cfr. qui).

Poiché sono tra gli autori ai quali il prof. Augé ha rivolto alcune domande critiche, nate da una sua legittima perplessità, colgo l’occasione per rispondere pubblicamente, al fine di alimentare il giusto dibattito che deve nascere da buone domande.

Mi sembra di capire che la perplessità di Augé scaturisca dalla preoccupazione che il concetto di “creatività” introduca una “variabile soggettiva” che rischi di svuotare la liturgia della sua forza e della sua simbolicità. Ovviamente posso rispondere soltanto di ciò che ho scritto io, senza minimamente pregiudicare le intenzioni degli altri autori di cui viene discusso l’articolo. Per quanto mi riguarda vorrei chiarire quanto segue:

a) Per comprendere il “cambio di paradigma” tra “primato dell’abuso” e “primato del nuovo uso” mi sembra molto illuminante il caso del rito di pace. La logica classica, del “ritus servandus”, è talmente proccupata semplicemente di “applicare le norme” che in caso di confusione preferisce rinunciare all’uso piuttosto che cadere in un abuso. Il “primum” della logica classica, per come è stata recepita dopo il Concilio tridentino, è “non si commettano abusi”. A costo di rinunciare agli usi!

b) Ma il percorso del ML, del Concilio e della RL successiva è assai diverso. La loro preoccupazione primaria non è di “evitare gli abusi”, ma di “recuperare gli usi”. Infatti concentrarsi sugli abusi significa che gli usi sono chiari. Ma il Concilio capisce che non è così. Si tratta invece, nei nuovi riti, di entrare in una dinamica in cui anche la “norma” è al servizio di qualcosa di più grande, che potremmo definire il “costituirsi della Chiesa mediante ritus et preces”. Non si tratta, anzitutto, di “osservare norme”, ma di “dare la parola a diversi linguaggi”. La diversa definizione di “ars celebrandi” che troviamo in Sacramentum caritatis attesta precisamente questa evoluzione.

c) L’elemento “creativo” di cui parlano gli articoli discussi, se lo ho inteso bene, richiama esattamente questa differenza. La “rubrica” apre ad una esperienza che non si può tradurre semplicemente in una “applicazione della norma”, ma in una attivazione di linguaggi molteplici, che esprimono e condizionano una esperienza. La rubrica “si canti un canto adatto” implica una elaborazione corporea, ritmica, timbrica, melodica, armonica, agogica, dinamica…

d) La logica dell’abuso, di fronte al rischio, preferisce sospendere la azione. La logica del “nuovo uso” deve attraversare la esperienza espressiva nella sua complessità, esponendosi anche al rischio di abuso, per conseguire un “nuovo uso”. In altri termini, la soluzione peggiore, di fronte alle mediazioni complesse – corporee e canore – del rito di pace è quella di farne a meno. Qui è evidente che la logica del “garantirsi dall’abuso” non riesce a comprendere il primato della “formazione al nuovo uso”, che anticipa e previene la persecuzione del’abuso.

e) Ad un certo punto del suo testo critico, M. Augé sintetizza in modo denso la sua principale perplessità. Egli dice, a proposito della differenza tra ritus servandus e ritus celebrandus: “questa diversità di impostazione può essere descritta nei seguenti termini: ad una visione semplicemente normativa del Messale Tridentino, subentra nel Messale di Paolo VI una visione della celebrazione non solo normativa ma anche dottrinale e orientata alla sua applicazione pastorale”. Questa differenza non è semplicemente “dottrinale”, ma “corporea” e “agita”. Per questo la sua “norma” pretende una ermeneutica più ampia e più duttile. E comunque, se la norma è inadeguata, si cambia la norma, non si censura il rito. Infatti non si celebra “iuris causa”, ma lo ius esiste “ritus causa”.

f) Quindi, quando si parla di “creatività” si vuole in ogni caso escludere un “uso arbitrario” dell’ordo. Ma l’”uso normale” rischia di essere il peggior abuso, anche oggi, nonostante la Riforma Liturgica, poiché lascia intendere, indirettamente, che la celebrazione sia “affare del prete”, di fronte a cui “assisto” anche del tutto “passivamente”. Per uscire da questo “uso normale” – clericale e rigido – occorre proporre “nuovi usi”, che prendono sul serio la “actuosa participatio”. Anche a rischio di essere intesi come abusi: infatti, non è stato forse “abuso” lavare i piedi ad una donna musulmana in carcere durante la Missa in coena domini? La norma ha poi riconosciuto un nuovo uso.
g) Per dirlo ancora più chiaramente, se la liturgia è davvero “linguaggio comune a tutta la Chiesa”, il cammino verso “nuovi usi” – che il Concilio Vaticano II ha richiesto come essenziali alla comunione ecclesiale – esige una seria presa in carico del compito “creativo” di ogni celebrazione. Pensare che celebrare possa ridursi al ripetere un atto nella sua oggettività da parte di un singolo soggetto qualificato, questa a me pare la peggior forma di abuso che si possa commettere. Perché non viola esplicitamente alcuna norma, ma contraddice la verità fondamentale per la quale esistono tutte le “leggi liturgiche”, secondo gli “altiora principia” stabiliti dal Concilio e oggi richiamati da “Magnum Principium” di papa Francesco. Su questo testo proprio Matias Augé ha scritto un bel commento, giusto all’inizio del fascicolo di cui stiamo parlando. Per questo oso pensare che, nella sostanza, ci troviamo profondamente d’accordo, anche se usiamo le stesse parole con significati parzialmente diversi.





domenica 23 giugno 2019

USI E ABUSI IN LITURGIA






Una serie di interventi apparsi nel fascicolo n. 334 (maggio-giugno 3/2019) della Rivista di Pastorale Liturgica mi hanno interessato in modo particolare per la tematica di cui si occupano. Mi riferisco agli articoli di Giuseppe Laiti, Andrea Grillo, Daniele Piazzi e Marco Gallo – Michele Roselli. Riassumendo, possiamo dire che tutti questi autori si domandano in qualche modo se sia possibile una certa “creatività” nella celebrazione liturgica e se essa sia da considerarsi sempre un abuso o, semplicemente, un nuovo uso. 


C’è un uso “abusivo” della liturgia, non creativo ma “difettoso”, di cui si parla poco e che in genere non sembra preoccupare troppo all’autorità della Chiesa, a cui “compete unicamente regolare la sacra liturgia” (SC 22, § 1), perché di fatto si tratta di un uso rispettoso della lettera del rituale, che non introduce cambiamenti di sorta ma è fedele a quanto prescrive il libro liturgico. Tuttavia, è vero che la semplice ripetizione “materiale” del rito non garantisce da sé stessa quella partecipazione conscia, pia e attiva, di cui parla SC 48. Non di rado, le nostre celebrazioni sono di scarsa qualità, mancano di incisività. Come dice Giuseppe Laiti, “non si tratta semplicemente di fare, ma di lasciarsi coinvolgere” (p. 12)


È vero che il rito richiede accoglienza e coinvolgimento. Mi domando però se il coinvolgimento richiesto dal rito esiga anche una creatività. Si afferma infatti che “la celebrazione è sempre creativa” (p. 10). Se per creatività intendiamo che l’assemblea celebra come un corpo vivo come fa, ad esempio, una orchestra quando interpreta uno spartito in modo più o meno originale, non c’è dubbio che ogni celebrazione è, o dovrebbe essere, creativa. Se invece si tratta di una creatività che incoraggia dei cambiamenti nei riti e nelle preghiere della celebrazione, il problema è diverso, anche quando “i cambiamenti non introducono deformazioni” (p. 12). Credo infatti che non basti questo criterio per giustificare un uso “creativo” della liturgia. 


Daniele Piazzi nel suo intervento Nuova eucologia: sempre un abuso? (pp. 28-31), afferma che in questo settore ci sono dei “tentativi ‘fuorilegge’, ma interessanti e perfettibili”, e cita al riguardo le proposte della pubblicazione Servizio della Parola. L’autore propone la creazione di una serie di nuovi testi eucologici (prefazi, embolismi del Padre nostro, ecc.) e si domanda se “davvero tutta e sempre l’eucologia che non è ufficialmente ratificata, ma è ispirata alla Scrittura ed è rispettosa degli stilemi liturgici di una famiglia rituale sia della lingua della assemblea che prega, è per forza un abuso”.  


Certamente, come afferma Andrea Grillo (p. 20), tra il Ritus servandus del Messale Tridentino e il Ritus celebrandus (vedi l’Institutio generalis) del Messale di Paolo VI, c’è una diversità di impostazione. Secondo me, questa diversità di impostazione può essere descritta nei seguenti termini: ad una visione semplicemente normativa del Messale Tridentino, subentra nel Messale di Paolo VI una visione della celebrazione non solo normativa ma anche dottrinale e orientata alla sua applicazione pastorale. Si tratta quindi di norme, che sono al servizio della partecipazione conscia, pia e attiva dell’assemblea. Fino a che punto si può andare oltre le norme del ritus celebrandus con il lodevole scopo di favorire una partecipazione più intensa dell’assemblea all’azione rituale? Farlo sarebbe semplicemente un “nuovo uso” o un “abuso”? 


Queste brevi osservazioni esprimono anzitutto una mia perplessità suscitata dalla lettura degli interventi sopra citati. Vorrei che le mie parole fossero interpretate come un invito ad approfondire la tematica più che come una critica, avendo anche presente che molte delle cose che si dicono in questi interventi possono essere lette in modo poco illuminato e diventare nella prassi e in casi determinati, veramente e propriamente degli abusi. Non credo che la lotta agli abusi in liturgia sia una priorità. Tuttavia ogni iniziativa privata non può dimenticare che “le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa stessa…” (SC 26). 

                                                                              M. Augé                                                                       




venerdì 21 giugno 2019

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE: SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO 23 Giugno 2019





Gen 14,18-20; Sal 109 (110); 1Cor 11,23-26; Lc 9,11b-17


La prima lettura parla di Melchisedek, “re di Salem” e “sacerdote del Dio altissimo”, che, come segno di ospitalità e amicizia, “offrì pane e vino” e “benedisse” Abram che tornava da una vittoriosa campagna militare. La seconda lettura invece riporta la descrizione dell’ultima cena, in cui Gesù istituisce l’eucaristia col pane e col vino, sacrificio della nuova ed eterna alleanza. Il brano evangelico racconta la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù compie gli stessi gesti con cui istituisce poi l’eucaristia: “prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli” (v. 16). Le tre letture fanno riferimento al mistero eucaristico che la Chiesa propone oggi di nuovo alla nostra attenzione dopo averlo contemplato la sera del Giovedì santo con gli occhi rivolti alla Croce del Venerdì santo. Che cos’è l’eucaristia? Non è possibile dare una risposta esauriente. Ci limitiamo ad una lettura del mistero eucaristico a partire dalla persona di Cristo sacerdote, come suggeriscono le letture bibliche odierne.



Possiamo prendere come punto di partenza un aspetto tipico del racconto di Paolo, soffermandoci cioè sul mandato di Gesù, ricorrente ben due volte in questa breve lettura: “fate questo in memoria di me”. Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e neppure ricordare qualcosa o qualcuno. Sullo sfondo del contesto del rituale della Pasqua biblica, “fare memoria” vuol dire rendere presente l’evento salvifico per prendervi parte. Nell’orazione della messa si dice che nell’eucaristia il Signore Gesù “ci ha lasciato il memoriale della sua Pasqua”. Gesù, che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre e di servizio agli uomini, cioè il vero culto e il vero sacrificio, alla fine della sua esistenza la riprende riassumendola ed esprimendola con il gesto simbolico, cultuale, del pane spezzato e condiviso e del calice del vino distribuito. Riassunta in un gesto rituale, ripetibile, celebrativo, Gesù consegna la sua vita ai discepoli perché noi tutti ne facciamo memoria nel rito (“fate questo in memoria di me”) e nella propria esistenza (“prendete e mangiate”) inseparabilmente. Come Cristo ha raccolto la sua esistenza (il vero culto) nei segni, così l’esistenza umana (il culto spirituale) si raccoglie in momenti – segno che in certo qual modo separano dal quotidiano per celebrare però il grande evento che dà senso al quotidiano. Ciò che dà consistenza all’eucaristia non è un rito, ma un’esistenza, quella di Cristo. Ciò che quindi è essenziale in questa celebrazione è la “memoria” di questa esistenza e di questa persona, la comunione con essa, l’appropriazione dei suoi stessi atteggiamenti esistenziali.  



 Il sacerdozio di Cristo non è né rituale né semplicemente esteriore, bensì personale e vitale. Cristo si rende presente nell’eucaristia perché, partecipando ad essa, facciamo nostra la sua vita di oblazione e di condivisione. Celebrare l’eucaristia vuol dire riprodurre in noi i sentimenti di Cristo, di colui che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre donandosi per la nostra salvezza. Egli diventa per noi pane, perché noi impariamo a diventarlo per gli altri.




domenica 16 giugno 2019

PASTORALE LITURGICA






Roberto Tagliaferri (ed.), Pastorale liturgica e altre pratiche della fede (Caro salutis cardo – Contributi 33), CLV Edizioni Liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova, 2018. 492 pp. (€ 46,00).


Il volume intende mettere a fuoco il metodo pastorale proprio della liturgia, nel contesto della svolta pastorale promossa dal Concilio Vaticano II. Oltre al versante epistemologico del tema, si approfondisce la forza pragmatica della liturgia e la si confronta con altre forme pratiche della fede, con le quali si instaura talora un rapporto conflittuale o di confusione. Riconoscere la forma specifica della pragmatica rituale è essenziale non solo per evitare riduzionismi, ma anche per scoprire il grande contributo che essa può dare oggi alla vita di fede, nel quadro di una pastorale organica.

Contributi di: Giorgio Bonaccorso, Umberto Rosario del Giudice, Luigi Girardi, Andrea Grillo, Antonio Lovato, Giovanni Piana, Roberto Tagliaferri, Aldo Natale Terrin.

Il volume raccoglie i contributi di due convegni di studio 2014-15 e 2015-16, organizzati dall’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova.

sabato 15 giugno 2019

DOMENICA DOPO PENTECOSTE: SANTISSIMA TRINITÀ ( C ) – 16 Giugno 2019






Pro 8,22-31; Sal 8; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15



Nel giorno di Pentecoste gli apostoli hanno ricevuto lo Spirito Santo e, fedeli al comando del Maestro, sono partiti per annunciare la buona novella e battezzare tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E’ dunque giusto che la solennità della Ss.ma Trinità segua immediatamente quella della Pentecoste. Nella solennità della Ss.ma Trinità, cantiamo le opere mirabili del Dio creatore e salvatore. In questa domenica più che celebrare un particolare mistero cristiano, celebriamo le radici di tutto.



Le letture bibliche della solennità sono un invito a non fermarsi sulla soglia di un dogma, ma a contemplare la Trinità come un mistero di comunione, di vita e di amore. La lettura del libro dei Proverbi parla della Sapienza come la prima delle opere di Dio e suo strumento nella creazione del mondo, che la tradizione cristiana ha interpretato riferito al Verbo incarnato (cf. Gv 1). San Paolo (seconda lettura) afferma che l’uomo, giustificato per la fede, è “in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. Finalmente, il vangelo ripropone le parole di Gesù che promette lo Spirito Santo per portare a compimento la stessa opera sua in noi. Il disegno di Dio, che si è compiuto pienamente in Cristo, trova attuazione in noi per mezzo dello Spirito Santo. Attraverso Gesù Cristo e guidati dallo Spirito abbiamo accesso al Padre. Possiamo riassumere il messaggio delle tre letture dicendo che Dio crea, salva e santifica. Il mistero della Trinità non è un mistero lontano, ma il mistero della nostra vita che si svolge nel tempo verso l’eternità di Dio. Ecco quindi che la Trinità non si presenta come una realtà misteriosa chiusa in sé stessa, irraggiungibile, ma come comunione di vita che tende ad espandersi e a raggiungere ogni altra realtà, attraendola con il suo amore: Dio non è il solitario perfetto, ma ha voluto essere più persone che si amano in una comunione di essere, di vita e di donazione assoluti.



La solennità della Trinità, celebrata dopo che abbiamo percorso tutte le tappe della storia della salvezza, è un invito a scoprire la fonte e il senso di tutto, il protagonista assoluto della storia della salvezza: il Dio uno e trino. La riflessione sulla Trinità non è quindi semplice speculazione astratta, ma è un tentativo di comprensione del mistero di Dio per meglio comprendere il mistero dell’uomo in Cristo. E’ alla Ss.ma Trinità che riconduciamo insieme il mistero della creazione e il mistero della redenzione. Il Dio in cui crediamo è colui che ci ha creati e ci ha salvati ricomponendo quel che era al principio con quel che ora sperimentiamo in Cristo. Perciò anche la liturgia, il cui cuore è l’eucaristia, è opera della Santa Trinità (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1077). Adorare “l’unico Dio in tre persone” (orazione colletta) non vuol dire alienarci da questo mondo e metterci in una dimensione spirituale o astratta. Cristo, inviato dal Padre, ha ricreato con la forza dello Spirito quel che era stato creato. E’ dunque proprio dal mistero trinitario che prendono nuova luce, mentre aspettiamo la luce eterna, il mondo in cui viviamo, il mistero dell’uomo, e la varietà delle cose.


domenica 9 giugno 2019

LA GIOIA FESTIVA






San Tommaso associa il termine delectatio, che indica il piacere, al termine dilectatio, che indica l’esperienza della “dilatazione” fisica e spirituale insieme, che è conseguenza della gioia cristiana. L’assonanza fonetica tra l’aggettivo laetus (da cui deriva la laetitia) e l’aggettivo latus (largo) fa pensare alla capacità della gioia di dilatare lo sguardo e il cuore, oltre ogni chiusura, verso spazi di comunione e libertà. E’ quello che cerca di fare la festa, la cui vocazione è quella di dilatare la gioia nella globalità delle dimensioni della vita e nella totalità del coinvolgimento interpersonale.

[…]

Lodare, ringraziare, incontrare, mangiare, danzare, giocare, ridere, riposare, correre, camminare: sono i verbi della festa, attraverso i quali prende forma la gioia cristiana. Sono azioni complesse da attivare, dal momento che hanno bisogno di spontaneità e insieme di una certa disciplina, proprio come il rito. Là dove la comunità impara l’arte della festa comunitaria, quest’ultima non diventa più la scusa o l’occasione pastorale per fare delle cose, allo scopo di rianimare la comunità. La festa diventa l’incontro dei sensi con il senso pasquale della vita: il luogo teologico in cui la vita è evangelizzata a partire dai bisogni e dai desideri del cuore; il tempo nel quale il Vangelo è incarnato in una promessa di vita che non mette tra parentesi le fatiche della terra, ma lascia intravedere, alla luce di un cielo più alto e di una speranza più grande, il tempo dei fiori e dei frutti; lo spazio in cui il “corpo spirituale” entra in comunione con il corpo degli altri, della comunità, del creato, nella comunione con Dio,



Fonte: Paolo Tomatis, Il pozzo e la sorgente. Sensi e sentimenti nella liturgia, Messaggero, Padova 2019, pp. 115 e 117.

venerdì 7 giugno 2019

DOMENICA DI PENTECOSTE (C) – 9 Giugno 2019 Messa del giorno






At 2,1-11; Sal 103 (104); Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23b-26

         

Riprendendo le parole del salmo responsoriale, la Chiesa proclama che abitiamo in un mondo amico, nel quale possiamo contemplare la presenza amorosa del Signore. La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito che rinnova mondo e uomini. E’ la Pasqua comunicata, senza misura, alla Chiesa.

Le tre letture bibliche offrono una ricca riflessione sull’azione dello Spirito Santo nella vita cristiana. La prima lettura descrive l’evento della Pentecoste, in cui la Chiesa nascente riceve il dono dello Spirito. L’intreccio dei simboli assume il ruolo di presentare allusivamente lo Spirito e la sua opera. Il vento è improvviso e inarrestabile, il fuoco illumina e riscalda, la parola dà senso e comunica in tutte le lingue. Il dono delle lingue, detto “glossolalia”, significa il dono dei carismi diversi che lo Spirito elargisce; doni diversi, ma donati dallo stesso Spirito, che è sorgente di unità nella diversità. Ecco quindi che Dio irrompe nella nostra vita per ricrearla e unificarla. Ce lo ricorda san Paolo nella seconda lettura: la carne divide; lo Spirito unifica. E’ lo Spirito di Dio che, pur nella diversità di razze e di culture, rende accoglienti gli uni verso gli altri nella carità di Cristo.


Il brano evangelico continua il discorso sugli effetti della presenza dello Spirito nel cuore dei credenti. Lo Spirito è con noi per sempre. E’ la promessa di Gesù: “il Padre vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”. Cristo è stato il primo Paraclito o Consolatore - Protettore dei discepoli; lo Spirito Santo è il secondo Consolatore che accompagna la comunità dei discepoli di Gesù nel loro cammino fino all’incontro definitivo con il Signore. Non abbiamo bisogno di vivere con gli occhi rivolti costantemente verso il cielo dal quale dovrà ritornare un giorno il Figlio dell’uomo, e neppure con gli occhi rivolti ad un passato, al Gesù terreno, che ormai non è più. Noi cristiani abbiamo a che fare con una forma nuova di presenza di Gesù Cristo: il Consolatore, il Protettore, il Sostegno è d’ora in poi lo Spirito Santo, la cui funzione è appunto quella di rendere comprensibile e attuale per noi il Gesù terreno. 


Possiamo sintetizzare con le parole di Atenagora cosa sarebbe il cristianesimo senza o con lo Spirito: “…senza di lui, Dio è lontano, il Cristo è nel passato, il vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità dominio, la missione propaganda, il culto evocazione e l’agire cristiano una morale da schiavi. Ma in lui il cosmo è innalzato e geme nella gestazione del Regno, l’uomo è in lotta contro la carne, il Cristo risorto è presente, il vangelo è potenza di vita, la Chiesa significa comunione trinitaria, l’autorità è al servizio liberatore, la missione una Pentecoste, la liturgia memoriale e anticipazione, l’agire umano è deificato”. Con l’effusione dello Spirito viene “portato a compimento il mistero pasquale” (prefazio). La pasqua non sarebbe completa senza il dono dello Spirito. Il disegno del Padre portato a termine dal Figlio incarnato nel mistero della sua morte e risurrezione trova compimento nel dono dello Spirito, dono di Cristo che proviene dal Padre, fonte ultima dalla quale anch’egli viene. 


L’eucaristia è il “cibo spirituale che ci nutre per la vita eterna”. In questo cibo è “sempre operante in noi la potenza dello Spirito” (orazione dopo la comunione). Anzi, la comunione eucaristica fa sì che lo Spirito “abiti in noi” (cf. 1Cor 3,16) e che “il nostro corpo sia tempio dello Spirito Santo” (cf. 1Cor 6,19).         


domenica 2 giugno 2019

LE IMMAGINI NELLO SPAZIO LITURGICO



 


La tradizione estetica recente, quella della cultura tridentina, ci ha lasciato in eredità una grande passione per un tipo di arte che assolveva al compito di illustrare figurativamente i contenuti della fede. Le chiese di tradizione erano (e sono) costruite come potenti apparati catechistici per immagini. Il ruolo dell’arte nella liturgia si è quindi alquanto identificato con questo compito illustrativo e con la sua natura figurativa (verrà in mente a molti quante parole si siano spese sul dibattito tra figurativo e astratto).


Per molti la questione dell’arte nella liturgia resta il problema di avere quadri, affreschi, mosaici, sculture che semplicemente prolunghino la tradizione figurativa del racconto dogmatico. Mi chiedo se il senso della riforma liturgica non sia stato quello di distogliere relativamente lo sguardo da questo primato della figurazione illustrativa per riportare attenzione sull’azione liturgica, che ha nei suoi luoghi principali gli oggetti estetici di cui avere massima cura.


L’attenzione estetica prevalente, anche in senso artistico, dovrebbe essere reclamata per l’altare, per l’ambone, per il battistero, dove prende sostanza l’esercizio spirituale della fede, che oggi sa stare con più coscienza nella pienezza del gesto che compie, con meno necessità di mediazione illustrativa. Oggi, per fare un esempio, mediamente i credenti frequentano consapevolmente la Scrittura, non hanno bisogno di vederla surrogata mediante le immagini.


La cura estetica andrebbe indirizzata a rendere persuasivo l’atto della parola che sull’ambone rinnova il darsi della rivelazione per il presente. Questo non vuol dire eliminare le immagini dalle chiese. Significa però la sapienza di relativizzarne il compito rispetto allo spirito di una nuova liturgia. Significa anche liberarsi di quella ossessione per il “figurativo” che, coltivata senza i necessari talenti, va seminando nelle nostre chiese oggetti e immagini di una melanconia quasi impossibile da definire.


Mi sembra che anzitutto il compito estetico nella liturgia andrebbe applicato ai gesti e ai luoghi del rito, conquistando più libertà nei confronti delle immagini.



Fonte: Giuliano Zanchi, Luoghi della grazia. La liturgia e i suoi spazi, San Paolo 2018, pp. 144-145.

sabato 1 giugno 2019

ASCENSIONE DEL SIGNORE (C) – 2 Giugno 2019






 At 1,1-11; Sal 46 (47); Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53



Il racconto dell’evento dell’Ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia, la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo dopo l’evento dell’Ascensione del Signore e in attesa di ricongiungerci con lui alla destra del Padre: “viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria” (orazione colletta).


Il brano della lettera agli Ebrei della seconda lettura parla della speranza che l’Ascensione di Cristo ha inaugurato per tutti noi. Cristo è entrato nel cielo, “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore”. La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile; ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo diventerebbe alienazione e inganno se ci distogliesse dalle sue premesse nella storia, dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è da intendersi come evasione religiosa, disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è un lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il traguardo di Dio. Un impegno nel quotidiano quindi, che va vissuto nella speranza del traguardo definitivo: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza”. Gesù congedandosi dei discepoli, li promette il dono dello Spirito e li invia ad annunciare la buona novella a tutte le genti. Non è indifferente che il breve brano del vangelo d’oggi sottolinei che dopo l’Ascensione del Signore, i discepoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. E’ il ritorno al quotidiano sorretti dalla speranza, che trova il suo fondamento nella natura umana di Cristo che è stata glorificata.



In sintesi, possiamo dire che il mistero dell’Ascensione consiste nell’indicare il recupero da parte di Gesù della sua dimensione divina che gli è propria. Ma consiste altresì nel rivelare l’azione che, adesso, Gesù al cospetto di Dio suo Padre svolge in nostro favore mediante lo Spirito Santo che ci ha donato. Il Signore Gesù continua quindi ad essere misteriosamente presente in mezzo a noi mediante il suo Spirito che ci è di guida nel cammino che conduce al traguardo. L’Ascensione più che un invito a evadere dalla terra è un invito ad assumerla come luogo di salvezza, dove già risplende, sia pure parzialmente, la luce dei “cieli nuovi” e della “terra nuova”. Ancorata al presente e al suo impegno nel mondo, la Chiesa non deve svanire verso illusioni, verso spiritualismi senza corpo. I segni di questa visione di speranza (cf. l’orazione colletta) e di realismo devono manifestarsi attraverso una testimonianza cristiana coerente.