Dopo la pubblicazione del numero 334 di RPL, dedicato al tema “Fede,
liturgia e prassi”, Matia Augé, che ha partecipato con un articolo allo stesso
numero, sul suo blog ha dichiarato il suo interesse per una serie di altri
articoli apparsi sul medesimo numero, ai quali ha rivolto una serie di
considerazioni e domande (cfr. qui).
Poiché sono tra gli autori ai quali il prof. Augé ha rivolto alcune domande
critiche, nate da una sua legittima perplessità, colgo l’occasione per
rispondere pubblicamente, al fine di alimentare il giusto dibattito che deve
nascere da buone domande.
Mi sembra di capire che la perplessità di Augé scaturisca dalla
preoccupazione che il concetto di “creatività” introduca una “variabile
soggettiva” che rischi di svuotare la liturgia della sua forza e della sua
simbolicità. Ovviamente posso rispondere soltanto di ciò che ho scritto io,
senza minimamente pregiudicare le intenzioni degli altri autori di cui viene
discusso l’articolo. Per quanto mi riguarda vorrei chiarire quanto segue:
a) Per comprendere il “cambio di paradigma” tra “primato dell’abuso” e
“primato del nuovo uso” mi sembra molto illuminante il caso del rito di pace.
La logica classica, del “ritus servandus”, è talmente proccupata semplicemente
di “applicare le norme” che in caso di confusione preferisce rinunciare all’uso
piuttosto che cadere in un abuso. Il “primum” della logica classica, per come è
stata recepita dopo il Concilio tridentino, è “non si commettano abusi”. A
costo di rinunciare agli usi!
b) Ma il percorso del ML, del Concilio e della RL successiva è assai
diverso. La loro preoccupazione primaria non è di “evitare gli abusi”, ma di
“recuperare gli usi”. Infatti concentrarsi sugli abusi significa che gli usi
sono chiari. Ma il Concilio capisce che non è così. Si tratta invece, nei
nuovi riti, di entrare in una dinamica in cui anche la “norma” è al servizio di
qualcosa di più grande, che potremmo definire il “costituirsi della Chiesa
mediante ritus et preces”. Non si tratta, anzitutto, di “osservare norme”, ma
di “dare la parola a diversi linguaggi”. La diversa definizione di “ars
celebrandi” che troviamo in Sacramentum caritatis attesta precisamente
questa evoluzione.
c) L’elemento “creativo” di cui parlano gli articoli discussi, se lo ho
inteso bene, richiama esattamente questa differenza. La “rubrica” apre ad una
esperienza che non si può tradurre semplicemente in una “applicazione della
norma”, ma in una attivazione di linguaggi molteplici, che esprimono e
condizionano una esperienza. La rubrica “si canti un canto adatto” implica una
elaborazione corporea, ritmica, timbrica, melodica, armonica, agogica,
dinamica…
d) La logica dell’abuso, di fronte al rischio, preferisce sospendere la
azione. La logica del “nuovo uso” deve attraversare la esperienza espressiva
nella sua complessità, esponendosi anche al rischio di abuso, per conseguire un
“nuovo uso”. In altri termini, la soluzione peggiore, di fronte alle mediazioni
complesse – corporee e canore – del rito di pace è quella di farne a meno. Qui
è evidente che la logica del “garantirsi dall’abuso” non riesce a comprendere
il primato della “formazione al nuovo uso”, che anticipa e previene la
persecuzione del’abuso.
e) Ad un certo punto del suo testo critico, M. Augé sintetizza in modo
denso la sua principale perplessità. Egli dice, a proposito della differenza
tra ritus servandus e ritus celebrandus: “questa diversità di
impostazione può essere descritta nei seguenti termini: ad una visione
semplicemente normativa del Messale Tridentino, subentra nel Messale di Paolo
VI una visione della celebrazione non solo normativa ma anche dottrinale e
orientata alla sua applicazione pastorale”. Questa differenza non è
semplicemente “dottrinale”, ma “corporea” e “agita”. Per questo la sua “norma”
pretende una ermeneutica più ampia e più duttile. E comunque, se la norma è
inadeguata, si cambia la norma, non si censura il rito. Infatti non si celebra
“iuris causa”, ma lo ius esiste “ritus causa”.
f) Quindi, quando si parla di “creatività” si vuole in ogni caso escludere
un “uso arbitrario” dell’ordo. Ma l’”uso normale” rischia di essere il peggior
abuso, anche oggi, nonostante la Riforma Liturgica, poiché lascia intendere,
indirettamente, che la celebrazione sia “affare del prete”, di fronte a cui
“assisto” anche del tutto “passivamente”. Per uscire da questo “uso normale” –
clericale e rigido – occorre proporre “nuovi usi”, che prendono sul serio la
“actuosa participatio”. Anche a rischio di essere intesi come abusi: infatti,
non è stato forse “abuso” lavare i piedi ad una donna musulmana in carcere
durante la Missa in coena domini? La norma ha poi riconosciuto un nuovo uso.
g) Per dirlo ancora più
chiaramente, se la liturgia è davvero “linguaggio comune a tutta la Chiesa”, il
cammino verso “nuovi usi” – che il Concilio Vaticano II ha richiesto come
essenziali alla comunione ecclesiale – esige una seria presa in carico del
compito “creativo” di ogni celebrazione. Pensare che celebrare possa ridursi al
ripetere un atto nella sua oggettività da parte di un singolo soggetto
qualificato, questa a me pare la peggior forma di abuso che si possa
commettere. Perché non viola esplicitamente alcuna norma, ma contraddice la
verità fondamentale per la quale esistono tutte le “leggi liturgiche”, secondo
gli “altiora principia” stabiliti dal Concilio e oggi richiamati da “Magnum
Principium” di papa Francesco. Su questo testo proprio Matias Augé ha scritto
un bel commento, giusto all’inizio del fascicolo di cui stiamo parlando. Per
questo oso pensare che, nella sostanza, ci troviamo profondamente d’accordo,
anche se usiamo le stesse parole con significati parzialmente diversi.