Una serie di interventi
apparsi nel fascicolo n. 334 (maggio-giugno 3/2019) della Rivista di
Pastorale Liturgica mi hanno interessato in modo particolare per la
tematica di cui si occupano. Mi riferisco agli articoli di Giuseppe Laiti,
Andrea Grillo, Daniele Piazzi e Marco Gallo – Michele Roselli. Riassumendo,
possiamo dire che tutti questi autori si domandano in qualche modo se sia
possibile una certa “creatività” nella celebrazione liturgica e se essa sia da
considerarsi sempre un abuso o, semplicemente, un nuovo uso.
C’è un uso “abusivo” della
liturgia, non creativo ma “difettoso”, di cui si parla poco e che in genere non
sembra preoccupare troppo all’autorità della Chiesa, a cui “compete unicamente
regolare la sacra liturgia” (SC 22, § 1), perché di fatto si tratta di un uso
rispettoso della lettera del rituale, che non introduce cambiamenti di sorta ma
è fedele a quanto prescrive il libro liturgico. Tuttavia, è vero che la
semplice ripetizione “materiale” del rito non garantisce da sé stessa quella
partecipazione conscia, pia e attiva, di cui parla SC 48. Non di rado, le
nostre celebrazioni sono di scarsa qualità, mancano di incisività. Come dice
Giuseppe Laiti, “non si tratta semplicemente di fare, ma di lasciarsi
coinvolgere” (p. 12)
È vero che il rito richiede
accoglienza e coinvolgimento. Mi domando però se il coinvolgimento richiesto
dal rito esiga anche una creatività. Si afferma infatti che “la celebrazione è
sempre creativa” (p. 10). Se per creatività intendiamo che l’assemblea celebra
come un corpo vivo come fa, ad esempio, una orchestra quando interpreta uno
spartito in modo più o meno originale, non c’è dubbio che ogni celebrazione è,
o dovrebbe essere, creativa. Se invece si tratta di una creatività che
incoraggia dei cambiamenti nei riti e nelle preghiere della celebrazione, il
problema è diverso, anche quando “i cambiamenti non introducono deformazioni”
(p. 12). Credo infatti che non basti questo criterio per giustificare un uso
“creativo” della liturgia.
Daniele Piazzi nel suo
intervento Nuova eucologia: sempre un abuso? (pp. 28-31), afferma che in
questo settore ci sono dei “tentativi ‘fuorilegge’, ma interessanti e
perfettibili”, e cita al riguardo le proposte della pubblicazione Servizio
della Parola. L’autore propone la creazione di una serie di nuovi testi
eucologici (prefazi, embolismi del Padre nostro, ecc.) e si domanda se “davvero
tutta e sempre l’eucologia che non è ufficialmente ratificata, ma è
ispirata alla Scrittura ed è rispettosa degli stilemi liturgici di una famiglia
rituale sia della lingua della assemblea che prega, è per forza un abuso”.
Certamente, come afferma
Andrea Grillo (p. 20), tra il Ritus servandus del Messale Tridentino e
il Ritus celebrandus (vedi l’Institutio generalis) del Messale di
Paolo VI, c’è una diversità di impostazione. Secondo me, questa diversità di
impostazione può essere descritta nei seguenti termini: ad una visione
semplicemente normativa del Messale Tridentino, subentra nel Messale di Paolo
VI una visione della celebrazione non solo normativa ma anche dottrinale e
orientata alla sua applicazione pastorale. Si tratta quindi di norme, che sono
al servizio della partecipazione conscia, pia e attiva dell’assemblea. Fino a
che punto si può andare oltre le norme del ritus celebrandus con il
lodevole scopo di favorire una partecipazione più intensa dell’assemblea
all’azione rituale? Farlo sarebbe semplicemente un “nuovo uso” o un “abuso”?
Queste brevi osservazioni
esprimono anzitutto una mia perplessità suscitata dalla lettura degli
interventi sopra citati. Vorrei che le mie parole fossero interpretate come un
invito ad approfondire la tematica più che come una critica, avendo anche
presente che molte delle cose che si dicono in questi interventi possono essere
lette in modo poco illuminato e diventare nella prassi e in casi determinati,
veramente e propriamente degli abusi. Non credo che la lotta agli abusi in liturgia
sia una priorità. Tuttavia ogni iniziativa privata non può dimenticare che “le
azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa
stessa…” (SC 26).
M. Augé