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domenica 29 marzo 2020

IL "MISERERE"






Sal 51 (50) Salmo di pentimento

1 Al maestro del coro, Salmo. Di Davide. 2 Quando il
profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea.
3 Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
4 Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro.
5 Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
6 Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto: così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio.
7 Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre.
8 Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza.
9 Aspergimi con rami d’issòpo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve.
10 Fammi sentire gioia e letizia: esulteranno le ossa che hai spezzato.
11 Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.
12 Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
13 Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi dal tuo santo spirito.
14 Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso.
15 Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno.
16 Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza: la mia lingua esalterà la tua giustizia.
17 Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
18 Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti.
19 Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.
20 Nella tua bontà fa’ grazia a Sion, ricostruisci le mura di Gerusalemme.
21 Allora gradirai i sacrifici legittimi, l’olocausto e l’intera oblazione; allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.


Come dice l’inizio del Sal 51 (vv. 1-2), si tratterebbe di una preghiera attribuita a Davide dopo che il profeta Natan lo aveva rimproverato per aver peccato di adulterio e di omicidio (2 Sam 12). Oggi invece molti esegeti attribuiscono la data della composizione del salmo all’epoca dell’esilio o anche dopo l’esilio. Si tratta di un testo che comunque sarebbe ispirato alla vicenda del re Davide. La tradizione cristiana colloca questo salmo tra i sette “salmi penitenziali”, il più noto e più vibrante dei sette salmi penitenziali. Il testo, noto come salmo “Miserere” (per il suo incipit in latino), la Liturgia delle Ore lo propone a noi ogni venerdì dell’anno come primo salmo delle Lodi, e ha come sottotitolo: “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente e rivestite l’uomo nuovo” (Ef 4,23-24).

È un salmo di una perfetta unità tematica, quale poteva essere composto da un giudeo formato dai profeti dell’esilio. Nella sua struttura possiamo distinguere due grandi parti: il regno del peccato (vv. 3-11) e il regno della grazia (vv. 12-19). Nei due ultimi versetti (20-21), il salmo termina con una preghiera per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e per la restaurazione del culto divino del tempio. Probabilmente questa supplica finale è stata aggiunta per l’uso liturgico dopo l’esilio. Vi si scorge la volontà di applicare all’intera comunità credente ciò che prima si è detto del singolo. Infatti, con questa supplica Israele chiedeva perdono e grazia nelle sue numerose prevaricazioni.

Facciamo ora una lettura del salmo seguendo lo svolgersi del testo. In una breve invocazione iniziale (vv. 3-4), l’orante si prostra davanti al Dio della grande misericordia perché abbia pietà di lui e lo purifichi dal suo peccato Si invoca la misericordia e la pietà di Dio, due qualità o attributi divini che affondano le loro radici nel patto che Dio stesso aveva fatto con Israele, attributi ch e sono stati citati nella grande dichiarazione con cui Dio si presenta a Mosè in Esodo 34,6 e altrove: “Il Signore Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”.  Il peccato è quindi un tradimento al patto sancito con Dio.

L’orante riconosce umilmente la sua colpa, conscio di aver peccato davanti a Dio, il cui giudizio nei suoi confronti non può essere che giusto (vv. 5-6). Egli rinuncia autogiustificarsi e riconosce la giustizia di Dio. Con l’espressione iperbolica “contro te, contro te solo ho peccato”, si afferma che il peccato è sempre una offesa a Dio anche quando immediatamente ha per oggetto il prossimo.   

 “Nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (v. 7). Alcuni vedono in queste parole una allusione al peccato originale (cf. Rom 5,12ss). Possiamo affermare soltanto che l’autore del salmo tenta di esprimere quell’inclinazione al male che è tipica della condizione umana. Si risale all’origine per indicare quella radicale condizione di peccato che a un certo punto ciascuno di noi scopre in sé. “La Scrittura e la Tradizione della Chiesa richiamano continuamente la presenza e l’universalità del peccato nella storia dell’uomo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 401). Ma questa situazione non sprofonda l’orante nella disperazione, perché è vero che l’uomo nasce nel peccato, ma è anche vero che Dio comincia a insegnargli la sapienza fin dal grembo materno: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza” (v. 8).

Nei vv. 9-11 si torna a invocare il perdono con richieste che riprendono quelle iniziali: cancellare, lavare, purificare (nei vv. 3-4); e ora nei vv. 9,11: purificare, lavare, cancellare. Non si tratta di una semplice ripetizione; l’autore arricchisce queste tre richieste con alcune immagini: il peccato va tolto mediante l’issopo, pianta aromatica a cui, nelle aspersioni sacrificali, si attribuivano poteri purificatori (cf. Es 12,22; Lv 14,6; Nm 19,6). Il biancore della neve ricorda le parole di Isaia nell’oracolo per Giuda e Gerusalemme: “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve” (Is 1,18). L’orante chiede al Signore: “Fammi sentire gioia e letizia”, coppia di parole molto cara a Geremia (15,16; 16,9; 33,11; 48,33). Si afferma poi che “esulteranno le ossa che hai spezzato” (espressione unica nel Salterio), parole che esprimono una sorta di risurrezione paragonabile alla celebre visione delle ossa aride di Ezechiele 37. Un’altra immagine ancora: “Distogli lo sguardo dai miei peccati”. Con un forte antropomorfismo, il poeta chiede al Signore di allontanare il suo sguardo severo e penetrante da tutti i suoi peccati (cf. Sal 14; 33,13-15). Il volto e lo sguardo di Dio sono considerati nella Bibbia sia fonte di collera e di terrore (cf. Sal 38,2; 90,8), sia fonte di pace e di gioia (cf. Sal 13,2).

Col v. 12 entriamo nella seconda parte del salmo e tocchiamo il centro e il vertice della preghiera. Si chiede a Dio di ri-creare il cuore, cioè il centro della persona, l’intero suo essere, e di ri-crearlo puro. Con la potenza del Signore si può ricominciare, ricevendo da lui in dono uno “spirito saldo”, cioè solido, fermo, affidabile, che sprona a compiere con generosità e non per forza le azioni giuste che il cuore e la mente suggeriscono. E così l’orante riavrà “la gioia della salvezza” (v. 14). Concessa la grazia del perdono, l’orante si impegnerà per far ritornare altri peccatori sulla retta via (v. 15), proclamerà la giustizia e la lode del Signore e offrirà a lui il sacrificio del suo cuore affranto e umiliato, più gradito a Dio dell’olocausto di animali (vv. 16-19). La supplica “liberami dal sangue” (v. 16) potrebbe far riferimento ad un peccato di spargimento di sangue (la morte di Uria?).

Come dicevamo all’inizio, il salmo termina con una preghiera per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e per la restaurazione del culto nel tempio (vv. 20-21). Pare che questa supplica finale sia stata aggiunta per l’uso liturgico dopo l’esilio, quando Israele implorava con questo salmo il perdono dei suoi peccati a Dio.

Il Sal 51, anche se non citato esplicitamente, ha avuto molte risonanze nel Nuovo Testamento, sia sulla bocca di Gesù che degli autori sacri, e la tradizione della Chiesa lo ha commentato e meditato frequentemente. Questo salmo viene recitato tutti i venerdì dell’anno come primo salmo delle Lodi e accompagna la Chiesa nell’esercizio della penitenza, in particolare durante la Quaresima, spronando i cuori a rinnovarsi, e diventando un canto di vera risurrezione spirituale, Perciò più che un testo penitenziale, possiamo dire che il Sal 51 celebra la risurrezione alla nuova vita nello spirito della parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32).


Preghiera: O Dio Trinità, Nome ineffabile di misericordia inesauribile, tu che purifichi dai suoi vizi l’abisso del cuore umano e lo rendi più bianco della neve, rinnova, ti preghiamo, nei nostri cuori il tuo Spirito santo grazie al quale possiamo annunciare la tua lode. Così, fortificati mediante uno spirito retto e sovrano, potremo essere riuniti nelle dimore eterne della Gerusalemme celeste.


Bibliografia: Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002; Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper Longman III, I salmi. Introduzione e commento, Edizioni GBU, Chieti 2018.


venerdì 27 marzo 2020

DOMENICA V DI QUARESIMA ( A ) – 29 Marzo 2020




Ez 37,12-14; Sal 129; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45

Questa domenica contiene un messaggio unitario, un messaggio di vita, di quella vita nuova che, ricevuta nel battesimo, si rinnova continuamente nel processo di conversione e nel segno sacramentale della riconciliazione. La vita promessa da Dio agli esuli a Babilonia attraverso gli oracoli del profeta Ezechiele, di cui parla la prima lettura, e concretamente offerta a Lazzaro nell’ultimo dei miracoli di Gesù narrato da san Giovanni nel vangelo d’oggi, è simbolo e profezia di questa vita nuova. Si tratta della stessa vita di cui parla san Paolo nella seconda lettura, una vita che è frutto della giustificazione. E’ questa l’interpretazione che fa il testo del prefazio della messa: Cristo,  Signore della vita, che richiamò Lazzaro dal sepolcro, “oggi estende a tutta l’umanità la sua misericordia, e con i suoi sacramenti ci fa passare dalla morte alla vita”.

Nel lungo brano del vangelo d’oggi, il centro di tutto il racconto non è tanto la descrizione del miracolo della risurrezione di Lazzaro, quanto l’autoproclamazione di Gesù che dice: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. La risurrezione di Lazzaro è quindi segno e garanzia di una realtà di vita più sublime: Gesù promette una vita che va aldilà della morte. Anche Lazzaro, dopo la risurrezione miracolosa operata da Gesù, rimarrà sottoposto alla legge della morte biologica. Non è questa però che ci deve spaventare. La vera morte è quella di colui che non accoglie il messaggio di Gesù e, chiudendosi nel suo peccato, rende vana l’azione di Dio che offre la salvezza attraverso suo Figlio. Oltre la morte del nostro corpo, c’è ancora la vita, c’è la risurrezione. Questa vita definitiva non è solo una realtà futura, è già inizialmente presente in noi e cresce nella misura in cui siamo fedeli agli impegni del battesimo col quale siamo stati introdotti nel regno della vita vera e definitiva.

La Scrittura compara il peccato alla morte. Così anche san Paolo ci ricorda oggi che il “corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia”. Possiamo spiegare questa affermazione con altre parole: nel corpo morto a causa del peccato viene ad abitare mediante la fede e il battesimo lo Spirito che è vita, cioè un nuovo dinamismo interiore che attinge alla forza di Dio e ci libera dalla tirannide del peccato e della morte. Dobbiamo quindi interrogarci su questa “vita” che è in noi, la vita dello Spirito, la quale è già vita definitiva e risorta che culminerà alla fine nella risurrezione dei nostri corpi. Se veramente crediamo in questo mistero che è in noi, la nostra esistenza si aprirà al dono di Dio e cercherà di sintonizzare sulla sua santa volontà. La parola di Dio in questa domenica di Quaresima ci invita ad aprire il sepolcro dei nostri egoismi, delle nostre cattiverie, del nostro peccato, affinché possa irrompere in noi la vita di Cristo.

L’eucaristia è nutrimento e garanzia di questa vita. Ha detto Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).




mercoledì 25 marzo 2020

NON SI TRATTA DELLA RIFORMA DELLA RIFORMA


Nella Lettera ai vescovi che accompagnava la pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum (07.07.2017), Benedetto XVI stabiliva: “nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi”. L’Osservatore Romano di quest’oggi (26.03.2020) pubblica due Decreti della Congregazione per la dottrina della fede (Quo magis e Cum sanctissima) con cui viene attuato quanto scritto nella suddetta Lettera: vengono approvati sette nuovi prefazi eucaristici e la possibilità di celebrare, nel quadro normativo d’insieme della forma straordinaria del Rito romano e quando il giorno liturgico lo permette, qualsiasi santo canonizzato dagli anni sessanta in poi.


L’uso o meno di queste novità rimane una facoltà ad libitum. Non si capisce quindi se tali novità saranno inserite o meno in una eventuale nuova edizione tipica del Messale Romano del 1962.


Detto questo, però, dopo una attenta lettura dei due Decreti, emerge qualche perplessità. La Lettera di Benedetto XVI parla di inserire “alcuni dei nuovi prefazi”; evidentemente nel contesto si fa riferimento ai nuovi prefazi del Messale di Paolo VI. Invece i sette prefazi proposti sono ripescati in altre fonti. Seconda perplessità: con quale criterio sono state scelte settanta feste di III classe “... le cui celebrazioni non possono mai essere impedite dalle sue disposizioni”? I criteri allegati non sembra che possano giustificare una tale operazione nel Messale del 1962.

IN TEMPO DI COVID-19




Decreto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti

In tempo di covid-19

Considerato il rapido evolversi della pandemia da covid-19 e tenendo conto delle osservazioni pervenute dalle Conferenze Episcopali, questa Congregazione offre un aggiornamento alle indicazioni generali e ai suggerimenti già dati ai Vescovi nel precedente decreto del 19 marzo 2020.

Dal momento che la data della Pasqua non può essere trasferita, nei paesi colpiti dalla malattia, dove sono previste restrizioni circa gli assembramenti e i movimenti delle persone, i Vescovi e i Presbiteri celebrino i riti della Settimana Santa senza concorso di popolo e in luogo adatto, evitando la concelebrazione e omettendo lo scambio della pace.

I fedeli siano avvisati dell’ora d’inizio delle celebrazioni in modo che possano unirsi in preghiera nelle proprie abitazioni. Potranno essere di aiuto i mezzi di comunicazione telematica in diretta, non registrata. In ogni caso rimane importante dedicare un congruo tempo alla preghiera, valorizzando soprattutto la Liturgia Horarum.

Le Conferenze Episcopali e le singole diocesi non manchino di offrire sussidi per aiutare la preghiera familiare e personale.

1 - Domenica delle Palme. La Commemorazione dell’Ingresso del Signore a Gerusalemme si celebri all’interno dell’edificio sacro; nelle chiese Cattedrali si adotti la seconda forma prevista dal Messale Romano, nelle chiese Parrocchiali e negli altri luoghi la terza.

2 - Messa crismale. Valutando il caso concreto nei diversi Paesi, le Conferenze Episcopali potranno dare indicazioni circa un eventuale trasferimento ad altra data.

3 - Giovedì Santo. La lavanda dei piedi, già facoltativa, si ometta. Al termine della Messa nella Cena del Signore si ometta anche la processione e il Santissimo Sacramento si custodisca nel tabernacolo. In questo giorno si concede eccezionalmente ai Presbiteri la facoltà di celebrare la Messa senza concorso di popolo, in luogo adatto.

4 - Venerdì Santo. Nella preghiera universale i Vescovi avranno cura di predisporre una speciale intenzione per chi si trova in situazione di smarrimento, i malati, i defunti (cf. Missale Romanum). L’atto di adorazione alla Croce mediante il bacio sia limitato al solo celebrante.

5 - Veglia Pasquale. Si celebri esclusivamente nelle chiese Cattedrali e Parrocchiali. Per la liturgia battesimale, si mantenga solo il rinnovo delle promesse battesimali (cf. Missale Romanum).

Per i seminari, i collegi sacerdotali, i monasteri e le comunità religiose ci si attenga alle indicazioni del presente Decreto.

Le espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale, a giudizio del Vescovo diocesano, potranno essere trasferite in altri giorni convenienti, ad esempio il 14 e 15 settembre.

De mandato Summi Pontificis pro hoc tantum anno 2020.

Dalla Sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 marzo 2020, solennità dell’Annunciazione del Signore.

Robert Card. Sarah
Prefetto
Arthur Roche
Arcivescovo Segretario

FONTE: L’Osservatore Romano 26.03.2020




domenica 22 marzo 2020

PREGHIERA IN TEMPO DI CORONA VIRUS


BATTISTERO DELLA BASILICA DI SAN GIOVANNI IN LATERANO - ROMA

LA VENERAZIONE DELLE ICONE




Dietro la venerazione delle icone c’è la fede ortodossa, quella della Chiesa di Costantinopoli, la “Grande Chiesa di Cristo”. È la fede del Settimo Concilio ecumenico, che si svolse a Nicea nel 787, nel quadro di una Chiesa indivisa, non ancora lacerata dallo scisma tra Occidente e Oriente. Il Settimo Concilio segna la vittoria sugli iconoclasti. Si condannava l’iconoclasmo come eresia, anzi come somma delle eresie. Il culto dell’icona si colloca nella logica dell’incarnazione. L’incarnazione stessa postula l’icona. L’iconoclasmo rimanda invece ad un Dio disincarnato. Alla “sola Parola” dell’Antico Testamento succede una nuova “economia”, quella di Cristo e dei Vangeli. È l’economia dell’incarnazione, in cui è compresa la visione. L’icona per eccellenza è Cristo stesso, a cui rimandano tutte le icone dipinte.

Questo insegnano Giovanni Damasceno, Teodoro lo Studita e il patriarca Niceforo, tra la seconda metà del VII e il IX secolo. Una festa liturgica, quella della Domenica dell’Ortodossia, ricorda al popolo credente come il ristabilimento delle immagini sia stato un fatto importante nella storia della Chiesa. Si tratta della prima Domenica di Quaresima, in cui ai Vespri si canta:
“Quanti dall’impietà siamo passati alla pietà e siamo stati illuminati dalla luce della conoscenza battiamo le mani […] offrendo a Dio una lode grata; e veneriamo con onore le sacre icone del Cristo, della Tutta Pura e di tutti i santi, poste alle pareti, su tavole e su sacri arredi, respingendo la religione empia dei non ortodossi. L’onore dato alle icone, infatti, è rivolto al prototipo, come dice Basilio…”

Fonte: Andrea Riccardi, La Preghiera, la Parola, il Volto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2019, pp. 152-153.


venerdì 20 marzo 2020

DOMENICA IV DI QUARESIMA ( A ) – 22 Marzo 2020




1Sam 16,1b.4a.6-7.10-13°; Sal 22 (23); Ef 5,8-14; Gv 9,1-41

Il racconto della guarigione del cieco nato operata da Gesù e riportata dal lungo brano evangelico odierno è un miracolo in due tempi caratterizzati da due incontri dell’uomo cieco con Gesù: nel primo incontro Gesù, dopo aver spalmato del fango sugli occhi del cieco, lo invia a lavarsi alla piscina di Siloe. Quegli va, si lava e torna che ci vede. L’uomo ormai guarito della cecità ha un secondo incontro con Gesù. Questo nuovo incontro è collocato alla fine di un itinerario di prove e di incomprensioni che porta il nostro uomo a riscoprire un’altra luce, quella di Cristo che egli esprime con la professione di fede: “Credo, Signore”, e con il gesto dell’adorazione: “E si prostrò dinanzi a lui”. Nel racconto di san Giovanni, il dono della vista del corpo è simbolo del dono della fede. Notiamo che nei due casi è Gesù che ha l’iniziativa: è lui che, passando, vede il cieco; ed è ancora lui che, avendo saputo che era stato cacciato dai farisei, lo incontra per guidarlo alla fede.

San Paolo ci ricorda nella seconda lettura che non basta incontrare la luce della fede in Cristo. Essa deve permeare la nostra vita. Se siamo stati illuminati con la luce della fede, dobbiamo comportarci “come i figli della luce”, il cui frutto “consiste in ogni bontà, giustizia e verità”. Si tratta di tre dimensioni che abbracciano l’intera esistenza umana. Da parte sua, la prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, illustra le caratteristiche che deve avere lo sguardo del credente. C’è modo e modo di vedere; c’è un vedere che si ferma alla superficie delle cose e degli avvenimenti, e un vedere che va oltre le apparenze. Nella scelta di Davide, il più piccolo dei figli di Iesse, si manifesta il criterio della fede. Dice il Signore a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”.

Il racconto della guarigione miracolosa del cieco nato, ci fa capire che la fede è un itinerario. Il cieco, come il catecumeno, arriverà ad essa per tappe. Possiamo e dobbiamo quindi approfondire sempre di più il nostro incontro con Cristo. Si tratta di un itinerario impegnativo. Confessare la propria adesione a Cristo può comportare l’opposizione del mondo, come nel caso del cieco nato, che non viene difeso neppure dai suoi parenti ed è escluso dalla comunità. Questo itinerario laborioso e impegnativo lo si compie guidati dallo stesso Cristo che, per primo, si rivela a noi. Illuminati dalla luce che è Cristo, la nostra esistenza diventa luminosa e siamo capaci di interpretare le vicende della vita con gli occhi della fede. L’eucaristia a cui partecipiamo è “mistero della fede”. Il cammino di fede iniziato nel battesimo ci conduce all’eucaristia, come al suo termine logico. E’ nell’eucaristia che viviamo in pienezza il nostro incontro con Cristo luce del mondo.




domenica 15 marzo 2020

I LINGUAGGI NON VERBALI




Comunemente si pensa che il linguaggio verbale sia il più usato nella comunicazione; in realtà, il ricorso al non verbale è molto più ampio, come rilevano gli studiosi. Anche nella celebrazione liturgica ritroviamo analoghe proporzioni. La prima conseguenza che se ne dovrebbe trarre è quella di fare molta più attenzione al linguaggio non verbale; invece avviene che si analizzino minuziosamente le forme verbali, mentre non ci si preoccupa del fatto che gran parte di quello che la liturgia trasmette è veicolato da codici non verbali, che difficilmente possono essere codificati nelle rubriche e, anche se in misura molto ridotta, da elementi paralinguistici.

Per la sua narrazione la liturgia fa ricorso a molti codici e linguaggi non verbali; per averne una idea basta passare in rassegna quanto segue. Codice personale: le persone e i loro ministeri e servizi. Codice oggettuale: gli oggetti che usano. Codice cinesico: i movimenti e la postura del corpo, i gesti, la mimica, lo sguardo. Codice tattile: il contatto fisico, gli abbracci, le unzioni. Codice ottico: il vedere e il guardare, la luce e il buio, i colori. Codice olfattivo: gli odori e i profumi, l’incenso, i fiori. Codice iconico: le immagini, i quadri, le statue. Codice del vestito e delle insegne: per i vari ministri. Codice musicale: la musica e il canto. Codice del silenzio: il silenzio stesso. Codici spaziali: locale o topografico (gli spazi rituali e la loro organizzazione: i movimenti, le processioni) e prossemico (la vicinanza e la lontananza tra i soggetti). Codice temporale: lo sviluppo del rito nel tempo, il ritmo, le pause, il giorno con le sue ore, l’anno con i suoi tempi.

Questa varietà ci fa capire quanto il linguaggio non verbale sia ampio e complesso e non si limiti solo all’espressione gestuale. Solitamente non si utilizza mai un solo codice alla volta, ma vi sono interazioni reciproche, anche se uno può essere prevalente rispetto agli altri.


Fonte: Carmine Autorino, “Il linguaggio verbale e non verbale del Messale Romano, via per comunicare il mistero celebrato”, in Salvatore Esposito – Francesco Asti – Carmine Matarazzo – Carmine Autorino, In attesa del “nuovo” Messale. Come accogliere la terza edizione italiana del Messale Romano, a cura di Salvatore Esposito (Presentazione del Card. Crescenzio Sepe), ELLEDICI, Torino 2020, pp. 142-143.



sabato 14 marzo 2020

DOMENICA III DI QUARESIMA ( A ) – 15 Marzo 2020




Es 17,3-7; Sal 94 (95); Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

Il Sal 94 evoca l’evento centrale della storia biblica dell’Antico Testamento: la nascita di Israele nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto offerta da Dio. In quelle circostanze il popolo di Israele si mostrò ripetutamente ribelle al Signore e per questa sua insubordinazione è stato punito. Nel nostro pellegrinaggio dall’Egitto di questo mondo alla terra promessa della gloria, si rinnova per noi in modo misterioso l’esperienza dei quarant’anni del deserto. Siamo perciò esortati anche noi ad ascoltare la voce di Dio e a non indurire i nostri cuori come fece Israele nel deserto. Questa voce di Dio è portatrice della sua parola che in questo periodo dell’anno liturgico ci viene rivolta come invito ad un’autentica conversione. La parola di Dio che risuonava nel deserto per mezzo di Mosè, risuona ora e definitivamente nella storia per mezzo di Cristo; anzi è lui la Parola fatta carne.

La liturgia di questa domenica e delle due successive ci invita a rivivere le grandi tappe attraverso le quali i catecumeni erano (e sono) condotti alla riscoperta delle esigenze profonde della conversione a Cristo per mezzo dei simboli dell’acqua, della luce e della vita. In questa domenica ci viene proposta l’immagine di Gesù come acqua viva capace di dissetare ogni desiderio umano e di donare la vita piena ed eterna a coloro che chiedono di attingere alla sua fonte.

La sete di Israele nel deserto, di cui parla la prima lettura, e la sete di Gesù a Sicar, di cui parla il brano evangelico, ci illustrano il tormento dell’umanità che cerca la verità, che cerca Dio. Nel dialogo con la Samaritana Gesù promette un’acqua che disseta per sempre. Attraverso l’immagine dell’acqua viva, cioè di sorgente, Gesù intende sottolineare la sua capacità di comunicare all’uomo, a tutti noi, reali valori di vita, che siano in grado di salvarci. Infatti, la sete, come la fame e forse di più, oltre ad essere uno specifico bisogno corporale dell’uomo rappresenta un “simbolo” totalizzante dei diversi e numerosi desideri e aspirazioni dell’uomo. In ciascuno di noi ci sono molteplici desideri, bisogni, aspirazioni. Si potrebbe dire che la nostra vita è fatta più da desideri che da realtà possedute. Ci portiamo dentro un vuoto che non riusciamo a riempire. Naturalmente, non è sbagliato avere dei desideri; sbagliato è restringere i desideri del nostro cuore a oggetti troppo limitati, meschini. Dio ci offre un dono, l’unico in grado di appagare la nostra sete di felicità.

Gesù ci toglie la nostra sete rinnovando i rapporti interpersonali, insegnandoci la verità del nostro rapporto con Dio e donandoci lo Spirito che rende autentici l’uno e gli altri. La vita e la salvezza che Gesù dona crescono in noi nella misura in cui accogliamo la sua parola. D’altra parte, l’Apostolo Paolo ci ricorda, nella seconda lettura, il carattere assolutamente gratuito del dono della salvezza, da noi immeritata, ma ora a nostra piena disposizione se accolta con fede. Nel dialogo con la Samaritana, Gesù cerca di condurre la sua interlocutrice a questa stessa consapevolezza quando le dice: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere!” Conoscere il dono di Dio significa che al di là dei nostri bisogni immediati e dei nostri desideri c’è qualcosa di più grande che possiamo solo ricevere come un dono dalla mano di Dio.

La sete di salvezza si soddisfa nell’eucaristia. San Giovanni Crisostomo afferma: “Mosè percosse la roccia e ne ricavò torrenti d’acqua, (Cristo) tocca la mensa eucaristica, batte la tavola spirituale e fa scaturire le fonti dello Spirito” (Catechesi II).


domenica 8 marzo 2020

USI E ABUSI: UNA MESSA CON VIA CRUCIS




Sono stato informato da un partecipante all’evento in cui un presbitero in Inghilterra, in un giorno quaresimale, ha organizzato una celebrazione della Via crucis nel modo seguente. Indossati i consueti paramenti per la celebrazione della Messa, ha iniziato la Via crucis. Dopo la stazione della morte di Gesù in croce, il presbitero si è indirizzato all’altare e, omessi i riti di introduzione e la liturgia della Parola, ha dato inizio alla Messa con la presentazione dei doni e le preghiere che l’accompagnano. Finita la Messa con l’orazione dopo la comunione e la benedizione finale, è stata ripresa la Via crucis con le ultime due stazioni.

Mi è stato chiesto di valutare questa bizzarra iniziativa. Basterebbe ricordare, come afferma il Direttorio su pietà popolare e liturgia (n. 13), che “gli atti di pietà e di devozione trovano il loro spazio al di fuori della celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti”. Bisogna quindi evitare la sovrapposizione perché i linguaggi e gli accenti teologici della pietà popolare (gesti, testi, canti, immagini, luoghi, tempi) si differenziano dai corrispondenti delle azioni liturgiche. La liturgia e la pietà popolare non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare senza sovrapporle. La pietà popolare è al servizio e accompagna la vita sacramentale della Chiesa (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1674).

Nella suddetta iniziativa è particolarmente grave l’omissione della Liturgia della Parola. Il Lezionario della Messa organizza le letture della celebrazione eucaristica in modo che il Lezionario stesso “si può considerare a buon diritto uno strumento pedagogico per incrementare la catechesi” (OLM, n. 61). Specialmente nei tempi di Pasqua, Quaresima e Avvento, la scelta dei brani biblici e il loro ordinamento hanno lo scopo di portare i fedeli a rendersi conto gradualmente della fede che professano e ad approfondire la conoscenza della storia della salvezza.

L’iniziativa di questo presbitero snatura sia la Celebrazione eucaristica sia la Via crucis, e non è quindi formativa della vita spirituale dei fedeli. Conosco invece iniziative pastorali che valutano sia la Messa sia la Via crucis: in alcune chiese, nei venerdì della Quaresima, di mattina si celebra Messa e di pomeriggio si fa la Via crucis.

venerdì 6 marzo 2020

DOMENICA II DI QUARESIMA ( A ) – 8 Marzo 2020




Gen 12,1-4°; Sal 32 (33); 2Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9

La prima lettura ci propone la figura del patriarca Abramo, chiamato da san Paolo “padre di tutti i credenti” (Rm 4,11). Il Signore si rivolge al santo patriarca e gli dice: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò...” Abramo obbedisce all’ordine divino. Egli ha il coraggio di rompere con le proprie sicurezze per rischiare un futuro umanamente incerto. La Lettera agli Ebrei dice che Abramo partì per fede “senza sapere dove andava” (Eb 11,8). La forza per intraprendere questo cammino di fede, nel quale non sono assenti le oscurità, gli viene dalla fiducia che ha nella parola di Dio. Anche noi, come Abramo, siamo chiamati a manifestare la nostra fiducia nel Signore sradicandoci giorno per giorno dalla terra del nostro egoismo, dalle proprie idolatrie, per metterci sulla strada di un’altra terra, quella indicata da Dio. Possiamo dire che è anche questo il senso del digiuno a cui la Chiesa ci invita durante la Quaresima: siamo chiamati a compiere dei gesti che ci liberino dalle nostre debolezze e ci rendano più disponibili a compiere nuovi passi nel cammino della coerenza evangelica.

Il brano del vangelo può essere interpretato nella stessa prospettiva. Domenica scorsa abbiamo visto Gesù uscire vittorioso dalle insidie del tentatore perché si è fidato di suo Padre, perché non ha avuto paura di sottomettere la propria libertà, i propri progetti alla volontà e al progetto che Dio ha su di lui. Tutto questo significa, implicitamente, per Gesù iniziare il cammino verso la passione. L’esperienza della trasfigurazione che ci narra il vangelo è da leggersi in questo contesto. La meta del cammino intrapreso da Gesù è la risurrezione, di cui la trasfigurazione è anticipo, ma la strada passa attraverso l’esperienza dolorosa della passione e della morte. Questa è la verità che Gesù intende far capire ai tre discepoli che l’hanno accompagnato. Perciò, dopo averli resi testimoni della gloria della trasfigurazione, Egli annuncia la sua morte e risurrezione. Nella seconda lettura, san Paolo ci rassicura: nella vita dobbiamo fare i conti con la sofferenza e anche con la morte, ma non sono queste le realtà che avranno il sopravvento. Grazie a Cristo, Dio ci chiama e ci dona l’immortalità: Cristo Gesù “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità...”  E in un’altra parte, lo stesso Apostolo ritiene che “le sofferenze del momento presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18 – cf. Ufficio delle letture, seconda lettura tratta dai Discorsi di san Leone Magno).

La conversione è un cammino verso una vita rinnovata ad immagine di Cristo risorto. In questo cammino ci guida la luce della stessa parola di Gesù, a cui il Padre ci ha detto di ascoltare: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!” (canto al vangelo - cf. Mc 9,7), e ci nutre l’eucaristia cibo del nostro pellegrinaggio (cf. orazione dopo la comunione).


domenica 1 marzo 2020

“NON ABBANDONARCI ALLA TENTAZIONE”?




Aldo Maria Valli (a cura di), Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del Padre nostro, Chorabooks, Hong Kong 2020. 68 pp.


Gli Autori di questo piccolo volume mettono in discussione il nuovo testo del Padre nostro in italiano, in particolare la supplica “non abbandonarci alla tentazione”. Gli argomenti addotti al riguardo meritano la nostra attenzione. Peccato però che, come al solito fanno gli ambienti tradizionalisti, la novità sia interpretata come una voglia di cambiamento che rientrerebbe nel “clima di buonismo e misericordismo che da tempo si è impossessato della Chiesa Cattolica”. A questo clima si sarebbe allineata anche la formula del Padre nostro in vari paesi di lingua spagnola. Affermazione falsa, dato che la formula “no nos dejes caer en la tentaciόn” non ha nulla a vedere con il supposto clima di buonismo attuale denunciato dagli Autori; si tratta infatti di una formula con cui ho pregato da bambino, e hanno pregato i miei genitori, i miei nonni e bisnonni.

Detto questo, credo che meritano la nostra attenzione alcune riflessioni degli Autori del volumetto (Giulio Meiattini, Nicola Bux, Alberto Strumia, Silvio Barbaglia e Silvio Bracchetta). La nuova traduzione non soddisfa tutti. Un padre che ci abbandona alla tentazione non sembra molto migliore di uno che ci induce alla tentazione.

Πειρασμός / tentatio significa "prova" e nel linguaggio neotestamentario significa anche "tentazione" ed evoca un sentimento di seduzione. Pertanto, mentre in greco e in latino entrambe le esperienze possono essere dette con lo stesso vocabolo, nella lingua italiana, dire prova o dire tentazione significa esprimere esperienze alquanto diverse e distinte: nel discorso biblico neotestamentario Dio può mettere alla prova il suo fedele ma non lo tenta al male e al peccato. La Bibbia ci presenta le prove come parte della pedagogia divina. Dio può legittimamente “metterci alla prova” come fa ogni genitore serio con i propri figli per educarli ad affrontare la vita.

Ecco quindi che a partire dal testo greco di Mt 6,13, si potrebbe dire: “E non ci indurre nella prova, ma liberaci dal Maligno”. Il Maligno, il Diavolo, interviene nel momento più difficile della prova ed è lì che l’invocazione a Dio Padre è di liberazione.