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venerdì 29 novembre 2024

DOMENICA I DI AVVENTO (C) – 1 Dicembre 2024

 


 

 

Ger 33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36

 

L’anno liturgico inizia con l’invito a dare uno sguardo al compimento della nostra salvezza, che – in adempimento alle promesse divine, di cui ci parla Geremia nella prima lettura – ha avuto nella storia come momento culminante la prima venuta del Figlio di Dio “nell’umiltà della nostra natura umana” (prefazio dell’Avvento I) e avrà come meta e traguardo ultimo e definitivo il ritorno del Figlio dell’uomo, che alla fine dei tempi verrà “con grande potenza e gloria”, come dice la lettura evangelica. In questa cornice, la parola di Dio ci esorta ad attendere vigilanti, ma senza turbamento, il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore, e al tempo stesso ci sprona a prepararci a questa venuta con la testimonianza della propria vita di fede e soprattutto con una intensa vita di carità (cf. la seconda lettura).

 

Le immagini e le parole misteriose con cui Gesù descrive il suo ritorno glorioso alla fine della storia sono da interpretare in modo adeguato. Dietro questa descrizione del futuro, che può apparire a prima vista fosca e terrorizzante, bisogna leggere l’attesa di eventi storici che segneranno per sempre la sconfitta definitiva del male e il trionfo ultimo del bene. In questa luce, il ritorno glorioso del Cristo alla fine dei tempi, è da considerarsi un evento non tanto temuto quanto piuttosto atteso, anzi addirittura invocato con speranza dagli oppressi, vittime della malvagità degli uomini, e dall’intero popolo di Dio pellegrinante sulla terra. Caratteristico del racconto di san Luca è appunto la speranza nel compimento della salvezza: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Speranza di cui parla anche l’antifona d’ingresso della messa facendo proprie le parole del Sal 24, adoperato inoltre come salmo responsoriale: “A te, Signore, innalzo l’anima mia, Dio mio, in te confido…” La nostra speranza poggia sulla fedeltà di Dio, che ha fatto “promesse di bene” (prima lettura).

 

Per noi cristiani il tempo è un continuo “avvento”, un ininterrotto venire di Dio. Il Signore viene in continuazione, in ogni uomo e in ogni tempo. Perciò siamo invitati a vegliare e pregare. La vigilanza orante ci rende capaci di discernere i segni e i modi della presenza del Signore. La storia umana non è da concepirsi come un succedersi più o meno caotico di fatti senza significato, ma come il compiersi graduale del “progetto” di salvezza che Dio ha sull’umanità. In questo progetto Dio ha voluto impegnare anche la nostra libertà e quindi la nostra cooperazione. La nostra vita non sfocia nel nulla, nella delusione, ma può avere, se lo vogliamo, una conclusione positiva. Nel brano della seconda lettura, per preparare questo futuro positivo, san Paolo ci stimola a crescere e sovrabbondare nell’amore fra noi e verso tutti per rendere saldi e irreprensibili i nostri cuori e irreprensibili nella santità, “davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.”        

In questo impegno quotidiano ci è di aiuto l’eucaristia, “che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita”, ed è sostegno nel nostro cammino e guida ai beni eterni (orazione dopo la comunione), nonché “pane del nostro pellegrinaggio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1392). 

domenica 24 novembre 2024

IL POPOLO SACERDOTALE DI DIO

 


Il popolo sacerdotale di Dio non è chiamato a dominare il mondo, ma a servirlo, come segno e strumento di riconciliazione, di unità; ad aver cura della casa comune e riunire tutti i popoli in una grande famiglia universale. E in questo nobile compito ha il suo ruolo necessario e imprescindibile la ritualità. Infatti, non c’è sacerdozio senza riti.

Caratteristica della modernità è una forte e crescente disaffezione verso il rito, la tradizione e il linguaggio simbolico, che va di pari passo con la crescita dell’individualismo Senza riti, la comunità si sgretola e pian piano scompare e il narcisismo si impone e si impadronisce delle persone.

È famosa l’affermazione dell’intellettuale africano del Senegal Léopold Senghor: “Gli occidentali dicono (con Renato Cartesio): penso, quindi sono; noi africani diciamo: danzo, quindi esisto”. Dobbiamo ricuperare il valore del rito, azione simbolica, come strumento de partecipazione e via attraverso cui entriamo nella profondità del mistero.

Attraverso la ripetizione, il rito ha un ruolo iniziatico. Il ripetersi degli stessi gesti e delle stesse formule in circostanze identiche e secondo un ritmo periodico, coloro che accedono al rito assumono pian piano i valori di un determinato gruppo.

I riti non si inventano, ma procedono da una tradizione, come succede con la lingua parlata.

venerdì 22 novembre 2024

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 24 Novembre 2024 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 



 

Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37

 

Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo nell’ultima domenica dell’anno liturgico, quasi come sintesi di tutto ciò che abbiamo celebrato durante l’anno. Infatti, ogni domenica, “giorno del Signore”, proclama la sovrana signoria di Cristo. Alla fine di questo percorso annuale, l’ultima domenica intende celebrare in modo più organico ciò che costituisce il nocciolo di ogni celebrazione domenicale. Le letture bibliche odierne illustrano alcuni aspetti di questo mistero: Cristo centro della nostra vita e Signore della storia.

 

Tutti i poteri e regni di questo mondo sono destinati prima o poi a fallire, a scomparire. Il testo profetico della prima lettura invece, parlando del futuro regno messianico, lo descrive come un regno “eterno, che non finirà mai”. Il sovrano di questo regno messianico preannunciato dai profeti è Gesù. Nel brano evangelico, vediamo che per tre volte Gesù dice: “Il mio regno”, e per due volte si preoccupa di chiarire che questo regno è completamente al di fuori degli schemi mondani: “Il mio regno non è di questo mondo”, e cioè il regno di Cristo è diverso dei poteri mondani, si colloca su di un altro piano. Il regno di Gesù non si costruisce con la forza che si impone dall’esterno, ma con la forza interiore della verità che trasforma l’uomo dal di dentro. Infatti, il suo compito - lo dice egli stesso - è quello di “dare testimonianza alla verità”. Il fondamento della regalità di Cristo è quindi la testimonianza che egli rende alla verità. Sappiamo che Pilato non ha capito queste parole di Gesù. Cos’è la verità?

 

Nel vangelo di san Giovanni, che ci tramanda il passaggio in questione, la verità non è un concetto astratto o un principio filosofico, ma la rivelazione concreta di Dio e del suo amore; la verità è che Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito. Gesù ha reso testimonianza a questa verità, ha manifestato cioè questo amore di Dio con le sue parole e le sue opere, con la sua vita e, soprattutto, con la sua morte, che è la suprema sua testimonianza a favore della verità. Come dice san Giovanni nel brano dell’Apocalisse proposto come seconda lettura, egli ci ha amati e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue. La signoria di Cristo significa che Dio non permette che il mondo vada in rovina, anzi in lui lo ha portato definitivamente alla salvezza.

 

Dire regno di Cristo significa dire giustizia, pace, libertà, dignità umana, amore, liberazione dal peccato e da ogni forma di male (cfr. il prefazio). Nella misura in cui questi valori s’impadroniscono di noi e della storia, il regno di Dio si compie o, meglio, il regno di Dio accelera il suo compimento. Ecco, quindi, che il regno di Cristo cresce in noi nella misura in cui diamo spazio a questi valori, nella misura in cui ne siamo protagonisti nella storia.

 

 

domenica 17 novembre 2024

LA FORMA MANIFESTA IL MISTERO

 


 

La profondità spirituale dell’azione liturgica si manifesta nelle azioni che comportano nell’uomo delle interazioni tra sé, gli altri e l’Altro. Ogni azione immette in una relazione per la quale non sarà mai sufficiente il semplice conoscere, ma per la quale diviene essenziale il continuare a riconoscere Dio presente in quelle forme rituali. Le idee su Dio non hanno mai compiuto né soddisfatto il bisogno religioso degli uomini mentre la ritualità nel suo dato formale può essere la sorgente spirituale con la quale la Chiesa si sente raggiunta dalla misericordia del Padre. Non è sufficiente per i credenti sapere che Dio esiste, ma è necessario vivere l’esperienza della relazione con Dio per non ridurre la religione a una filosofia. In tal modo, grazie alla sua forma, la liturgia si svincola dal pensiero sulla religione e realizza, in moco monista e non riduzionista, la relazione tra l’umanità e il suo Signore. Dio, che nella Trinità trova la sua sostanza nella relazione, nel Figlio ha comunicato non parti di sé, ma se stesso attraverso pasti e sguardi, e inoltre ha toccato, mangiato, camminato e parlato (cfr. Gaudium et spes, n. 22). La forma è ciò che dà origine al contenuto e l’azione è ciò che dà fondamento alla relazione, solo l’azione unisce l’interiorità e l’esteriorità.

 

Fonte: Sebastiano Bertin, Actio. L’azione rituale crocevia tra Dio e l’uomo, Edizioni Liturgiche – Roma, Abbazia di Santa Giustina – Padova, 2024, p. 462

venerdì 15 novembre 2024

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 17 Novembre 2024

 



 

Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

 

Avviandoci ormai alla conclusione dell’anno liturgico, le letture bibliche di questa penultima domenica ci invitano a riflettere sulle ultime realtà, sulla fine della storia e del mondo, quando cioè si compirà in modo definitivo la salvezza che ora possediamo solo nella speranza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume la fede della Chiesa su questo punto con le seguenti parole: “Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia” (n. 1040). Le letture bibliche odierne ci invitano ad approfondire alcuni aspetti di queste ultime realtà.

 

Il brano del libro di Daniele, proposto come prima lettura, è uno dei testi più caratteristici dell’Antico Testamento sul tema della retribuzione finale: la salvezza verrà data in modo pieno e definitivo a quanti hanno operato il bene. Il brano evangelico descrive il ritorno del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi che verrà a “radunare i suoi eletti”. Siamo invitati a vegliare ed essere pronti (cf. canto al vangelo) perché “quanto a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Queste misteriose parole, con cui si conclude il brano evangelico odierno, danno una vigorosa lezione ai profeti di sventura intenti a determinare la fine del mondo. Chi ha fede e fiducia, non ha bisogno di fare questi calcoli.

 

Ascoltando le parole con cui Gesù descrive la fine dei tempi, siamo talvolta presi dallo spavento. Notiamo però che il linguaggio usato dal Vangelo, chiamato linguaggio apocalittico, proprio della tradizione ebraica, in fondo è un linguaggio che viene adoperato per rivelare (apocalisse significa “rivelazione”) il senso della storia e il destino dell’uomo. Dio ha su di noi “progetti di pace e non di sventura” (antifona d’ingresso - Ger 29,11.12.14). La seconda lettura apre il cuore alla fiducia in Cristo, nostro giudice, il quale sta alla destra di Dio, ma ha offerto se stesso per il perdono dei nostri peccati. Il perdono acquistato con il sangue di Cristo è sempre più grande di tutte le nostre infedeltà. Ciò che all’esterno appare come catastrofe e rovina in verità è il compimento della salvezza. Questo mondo va verso una fine, verso quel “giorno del Signore” già invocato dai credenti di Israele, giorno di salvezza e di giudizio. E ciò avviene per un preciso disegno di Dio che è Signore della storia e del tempo.

 

Chi prende sul serio l’incertezza e caducità di ogni cosa terrena, si apre al dono della salvezza. Ma il pensiero della morte, della fine della nostra esistenza terrena non ci deve indurre ad un atteggiamento di disimpegno nei confronti della vita presente. Il servizio fedele e responsabile prepara “il frutto di un’eternità beata” (orazione sulle offerte). Il futuro quindi appartiene anche alle nostre mani, e ogni carenza di impegno diventa anche carenza di salvezza.

domenica 10 novembre 2024

“CORAM DOMINO”

 



 

Anzitutto bisogna ricordare che nella liturgia è all’opera Dio stesso che, nella sua iniziativa di salvezza, ci santifica mediante Cristo nello Spirito, ci raduna nella santa Chiesa e ci abilita nel medesimo Spirito alla lode filiale, al culto integrale nell’offerta del sacrificio perfetto che egli gradisce. Ecco, quindi, che tutto scaturisce dal Padre come salvezza e tutto ritorna a lui come lode o culto. Perciò l’azione liturgica è adorazione indivisa del Dio Uno nella Trinità delle persone divine, come risposta e accoglienza dell’azione unitaria e trinitaria di Dio, che opera la nostra santificazione. È dalla contemplazione dell’agire della SS.ma Trinità che scaturisce il vero volto della liturgia della Chiesa. Tra celebrazione liturgica e adorazione c’è un rapporto intrinseco (cf. Benedetto XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 66). L’adorazione al tempo stesso che prende le distanze da Dio in quanto ne riconosce la trascendenza, avvicina a lui perché ci rende consapevoli della sua presenza salvifica. A questo proposito, è utile ricordare il concetto biblico di “timore di Dio”. In rapporto all’atteggiamento religioso di timore che l’uomo greco aveva dinanzi ai suoi dèi, il rapporto con Dio dell’uomo biblico non è solo di timore ma anche di amore, come esprime bene il Sal 103,17: “L’amore del Signore è da sempre, per sempre su quelli che lo temono”. Il timore/amore di Dio è consapevolezza della sua presenza salvifica in mezzo a noi ed è quindi condizione necessaria affinché la celebrazione liturgica appaia “in conspectu Domini”, “coram Domino”.

 

 


venerdì 8 novembre 2024

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 10 Novembre 2024

 



 

 

1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

 

 

È donando dalla nostra povertà che noi diventiamo veramente ricchi davanti a Dio. In sintesi, è questo il messaggio che sembra emergere dalle letture bibliche. La prima lettura e il brano evangelico parlano della generosità di due povere vedove. La povera vedova di Zarepta, che aiuta il profeta Elia e la vedova lodata da Gesù perché i pochi spiccioli gettati nella cassetta delle offerte del Tempio rappresentano tutto quanto essa ha per vivere. Malgrado la loro povertà le due donne che la parola di Dio ci presenta trovano ancora qualcosa da dare: la prima accetta di dividere il poco che ha con uno straniero, mentre lei e suo figlio sono sulla soglia della morte; l’altra, in un atto di omaggio a Dio e di adorazione, dà il denaro di cui aveva bisogno per vivere. Ambedue si rivelano adorne delle qualità che devono caratterizzare la figura del discepolo di Cristo: disponibilità ad accogliere la parola di Dio, abbandono incondizionato al suo volere, prontezza a donare e a perdere anche la vita. L’offerta povera di queste donne è offerta amorosa e totale della vita.

 

Soffermiamoci brevemente sulla scena evangelica. Nel cortile del Tempio, al quale avevano accesso anche le donne, erano allineate tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Ci sono molti ricchi che fanno laute offerte, di cui il sacerdote ripete ad alta voce l’entità, suscitando l’ammirazione dei presenti. E c’è una povera vedova che offre pochi spiccioli e non suscita nessun mormorio di ammirazione. Gesù però la scorge e richiama l’attenzione dei discepoli contrapponendo la condotta della vedova alla vanità, ambizioni e privilegi degli scribi, che erano i maestri della legge dell’Antico Testamento, e alla ostentazione vanitosa di tanti ricchi che gettavano molte monete nella cassetta delle offerte. Questi, dice Gesù, danno del loro superfluo, mentre invece la povera vedova dà tutto quanto possiede. A partire dalle azioni più semplici e quotidiane Gesù sa leggere l’intenzione profonda del cuore; egli giudica non secondo le apparenze ma in verità, poiché è capace di vedere in profondità ciò che tutti vedono, grazie ad uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo secondo il sentire di Dio. A parte la sete di potere e di arrivismo che ovunque regna, bisognerebbe vedere fino a che punto noi cristiani siamo capaci di gesti generosi di ospitalità e di partecipazione alle sofferenze dei nostri simili. Dio non ci chiede il nostro denaro, ma chiede la nostra persona, e cioè la nostra disponibilità a donarsi per il bene degli altri.

 

In questo contesto, possiamo collocare l’esempio supremo di Cristo di cui parla la seconda lettura. Egli ci rende partecipi della sua vita divina offrendo se stesso: “Cristo si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti”. È donando noi stessi che ciascuno di noi partecipa veramente al dono della salvezza che Gesù ci offre. Il senso dell’eucaristia è questo: l’innesto sempre nuovo della nostra vita dentro all'unico e perfetto sacrificio di Cristo.

domenica 3 novembre 2024

“ACTUOSA” PARTICIPATIO

 



 

In realtà lo spessore teologico e spirituale dell’azione liturgica è quanto il Concilio Vaticano II solennemente ha affermato. L’idea di actuosa participatio, infatti, non soltanto riconosce nell’assemblea radunata e unita a Cristo il soggetto della celebrazione (participatio), ma vede nell’azione (actuosa) la mediazione attraverso la quale la Chiesa incontra il suo Signore e riceve i doni di salvezza. Forse c’è stata una stagione nella quale una certa insistenza sulla partecipazione, giustamente intesa come diritto e dovere dei battezzati (SC 14), ha fatto perdere di vista a livello teorico e pratico proprio l’azione e ci si è illusi di poter partecipare senza agire facendo prevalere, tra le tante aggettivazioni desunte dal magistero conciliare, la partecipazione conscia su quella actuosa. Ora, quale apporto irrinunciabile del lungo cammino della riflessione sulla liturgia nell’ultimo secolo, si comprende sempre più e sempre meglio che la partita va giocata sul terreno dell’azione agita, sulla performance rituale: è questa, infatti, a risultare efficace coinvolgendo i soggetti e rendendo possibile la fede. Senza questo actus fidei, ovvero senza l’azione della fede, il rito può essere soltanto funzionale alla produzione di un significato già pensato a monte. E, dunque, risulta del tutto dispensabile.

[…]

L’azione liturgica può essere ancora considerata come risorsa spirituale per un mondo distratto e smaliziato eppure affamato di Dio, di una fame non facilmente saziabile con i concetti e i precetti. Crocevia tra l’uomo e Dio e tra immanenza e trascendenza, il rito è ancora una scommessa per chi vuole scoprire Dio non come oggetto da mettere a tema, ma come partner di una relazione vitale.

Poco più di un secolo fa Romano Guardini pubblicava Formazione liturgica (1923), un testo dove coniugava la sua passione pedagogica con il tema della liturgia e nel quale denunciava l’incapacità simbolica dell’uomo contemporaneo: proprio nella liturgia l’uomo poteva ritrovare quell’armonia tra anima e corpo per troppo tempo compromessa. Nel simbolo l’anima si dà nel corpo e non potrebbe essere diversamente in una totalità dell’uomo insopprimibile: “Ciò che assume l’atteggiamento liturgico, che prega, offre e agisce non è l’ ‘anima’, non l’ ‘interiorità’: è l’ ‘uomo intero’ il soggetto dell’attività liturgica”. Quarantun anni più tardi, esattamente sessant’anni fa, con la sua lettera sull’atto di culto (1964) prospettava una nuova fatica, non più dilazionabile: “portare l’uomo attuale a compiere anche realmente l’atto”, affrancandolo dall’individualismo religioso e dall’intimismo che lo caratterizzava. In tal modo si sarebbe raggiunto il vero obiettivo della riforma liturgica o, per usare le sue parole, si sarebbe realizzata “la chance liturgica così mirabilmente apertasi”.

 

Fonte: Testo tratto dalla Presentazione di Loris Della Pietra del volume di Sebastiano Bertin, Actio. L’azione rituale crocevia tra Dio e l’uomo, Edizioni Liturgiche – Roma, Abbazia di Santa Giustina – Padova, 2024, pp.8-10.

sabato 2 novembre 2024

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 3 Novembre 2024

 



 

Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34.

 

La tradizione giudaica aveva catalogato ben seicentotredici precetti della legge biblica, sulla cui gerarchia di valori e importanza si discuteva aspramente. Alla domanda che gli fa lo scriba su quale sia il primo comandamento, Gesù riprende la professione di fede che ogni giorno ripeteva l’ebreo nella sua preghiera, testo che inizia con le parole “Ascolta, o Israele”, ed è riportato nella prima lettura. Ma Egli arricchisce il testo in modo considerevole. Infatti, Gesù commenta insieme due comandamenti e li rende una sola cosa. Più in concreto, Gesù propone non solo l’amore di Dio, ma anche del prossimo nonché l’amore di se stesso: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Colui che non è capace di amare se stesso, non è capace di amare il prossimo e, di conseguenza, non sa amare Dio. Sono tre amori che hanno una sola e identica radice.

 

Ma cosa significa amare, in particolare, cosa significa amare Dio? Possiamo rispondere riprendendo le parole della preghiera ebraica citata da Gesù: “Ascolta, o Israele”. L’ascolto è già un movimento di amore in quanto ascoltando mi apro all’altro e accolgo in me la sua presenza. L’ascolto fonda un legame, una relazione in cui io esco dal mio egoismo, dal mio isolamento e mi apro alla relazione verso un altro. L’ascolto ci pone nella situazione di relazione e di libertà che è essenziale per amare. Un amore imposto è un amore falso.

 

Amare Dio, poi, non consiste in un ricordo passeggero di Dio all’inizio o alla fine della giornata; non consiste neppure in invocarlo nel momento del bisogno. Nelle parole di Gesù ritorna insistente una parola che esprime totalità e continuità: “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima”, “con tutta la tua mente”, “con tutta la tua forza”. Si tratta quindi di un amore che si impadronisce di tutta la nostra esistenza, che invade ogni nostro pensiero e ogni azione, che dà forma alla vita. Quando l’amore a Dio non ha queste caratteristiche, la nostra fede e la nostra pratica religiosa si impoveriscono, diventano formalismo, legalismo, forse addirittura superstizione. Gesù, poi, nella sua risposta offre la prospettiva di fondo con cui vivere l’intera legge di Dio.

 

Ricordiamo, finalmente, che l’amore è soprattutto un dono che Dio ci elargisce. Lo abbiamo affermato all’inizio della messa quando abbiamo pregato nell’orazione colletta del giorno: “Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti (e quindi di amarti) in modo lodevole e degno”. Chiediamo questo dono.

 

venerdì 1 novembre 2024

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI – 2 Novembre 2024 1° formulario di Messa

 



 

Gb 19,1.23-27; Sal 26; Rm 5,5-11; Gv 6,37-40

 

I tre brani della Scrittura che sono proclamati in questa messa aprono il nostro cuore alla speranza. L’orazione colletta riassume bene questa tematica quando ci invita a rivolgerci a Dio chiedendogli di confermare in noi la beata speranza che insieme ai nostri fratelli defunti risorgeremo in Cristo a nuova vita. Questa speranza è declinata con diversità di sfumature nelle tre letture bibliche e negli altri testi della messa. Ci guidano in questa riflessione: Giobbe, san Paolo e Gesù.

 

Il libro di Giobbe, da cui è presa la prima lettura, si ispira a un’esperienza dell’uomo di ogni tempo, quella del dolore. Più in particolare, questo libro si sofferma sulla sofferenza che colpisce l’innocente e il giusto, di fronte alla quale sembra stendersi l’ombra del silenzio di Dio. C’è un momento in cui Giobbe, sprofondato nel dolore per le accuse che tutti gli rivolgevano, nella solitudine totale, disprezzato e deriso – secondo la credenza che considerava la sofferenza una punizione per il peccato –, sente che ormai i suoi giorni vengono meno. Ma anche nel naufragio di tutte le speranze umane, egli ha ancora una speranza nel cuore, che lo proietta al di là del sepolcro che ormai l’attende e lo spinge in uno slancio dello spirito a proclamare la sua fede: “Io so che il mio redentore è vivo […] Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio”. San Girolamo e molti altri Padri della Chiesa hanno visto in queste parole una dichiarazione di fede nella risurrezione. La lettera di Giacomo cita l’esempio della pazienza di Giobbe e “la sorte finale che gli riserbò il Signore” (Gc 5,11).

 

Il “redentore” di cui parla Giobbe è Dio stesso, il “redentore” di Israele dalla schiavitù dell’Egitto. La seconda lettura e quella evangelica vedono il volto del nostro redentore in Gesù morto e risorto. San Paolo afferma che il fondamento della nostra speranza è solido: possiamo far fronte alle angosce della vita e alle tenebre della morte, perché Dio ci ama ormai per sempre: “siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo”. La speranza cristiana non è un vago sentimento, qualcosa di cui si teme il carattere illusorio o di cui ci si dovrebbe addirittura vergognare; è vero invece il contrario: noi ora abbiamo qualcosa di cui vantarci e gloriarci senza timore, “ci gloriamo in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione”.

 

Le parole di Gesù, raccolte e trasmesse dal brano evangelico, ci rassicurano che Egli accoglie ciascuno di noi come dono del Padre e con tre significative espressioni sintetizzano la sua missione: non lo caccerò fuori, farò sì che non si perda, lo risusciterò nell’ultimo giorno. E conclude il discorso con queste parole: “Questa, infatti, è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Vita è la metafora preferita da san Giovanni per esprimere la salvezza di Dio in tutta la sua complessità. Eterna indica la durata della vita e la sua qualità: una vita senza fine in contrapposizione alla caducità della vita umana, e una vita davanti a Dio e con Dio. Risurrezione dice che la vita donata da Dio vince la morte, una vittoria che abbraccia l’uomo nella sua interezza di corpo e spirito. L’operare di Gesù è conforme alla volontà del Padre: ciò che egli desidera e opera è quella vita che il Padre vuole donare all’umanità insidiata dalla morte, perché il Figlio è in piena comunione con il Padre e ne condivide totalmente i disegni.