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domenica 31 maggio 2020

L’INIZIAZIONE CRISTIANA UN CAMMINO GRADUALE E PROGRESSIVO




Pietro Angelo Muroni, Iniziazione cristiana (Le parole della fede), Cittadella Editrice, Assisi 2020. 186 pp. (€ 13,80).


Non è la prima volta che il Prof. Muroni si occupa dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. In questo volumetto, egli si sofferma sull’analisi dei riti del battesimo, della confermazione e dell’eucaristia, e lo fa con un metodo unitario. In questo modo ci aiuta a riscoprire il cammino graduale e progressivo dei riti dell’iniziazione cristiana attraverso cui si viene inseriti pienamente nel Mistero pasquale di Cristo e nella vita della comunità cristiana. Al seguito di altri studi recenti, l’Autore invita a riscoprire il corretto ordine dei sacramenti dell’iniziazione: battesimo, confermazione (termine più adeguato del vocabolo “cresima”) e eucaristia.

L’opera è divisa in sei capitoli: 1) Iniziazione cristiana e storia della salvezza. A partire dalla Sacra Scrittura; 2) L’iniziazione cristiana nella storia. Il primo millennio; 3) Dall’unità alla separazione dei sacramenti. Il secondo millennio; 4) L’iniziazione cristiana al Concilio Vaticano II. Alla riscoperta dell’unità dei sacramenti; 5) La riforma dei libri liturgici. Dal rito alla teologia; 6) Ricaduta della teologia sulla pastorale. Per un’ars celebrandi virtuosa.


venerdì 29 maggio 2020

DOMENICA DI PENTECOSTE (A) – 31 Maggio 2020 Messa del giorno




 At 2,1-11; Sal 103 (104); 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23

La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito di Dio che rinnova mondo e uomini. Ecco perché siamo invitati a rendere grazie al Signore e a cantare: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra”.

La solennità di Pentecoste, che “porta a compimento il mistero pasquale” (prefazio), commemora il dono dello Spirito divino effuso sugli apostoli e su tutti noi. Lo Spirito è il dono più prezioso di Cristo risorto, principio di una nuova creazione, di una nuova realtà, è l’amore di Dio effuso nei nostri cuori per rinnovare la faccia della terra. Abbiamo sentito nel vangelo come Gesù appare agli apostoli e li saluta con queste parole: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Dopo aver detto questo, alita su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo...”  La prima lettura ci racconta in dettaglio la scena della discesa dello Spirito sugli apostoli riuniti nel cenacolo cinquanta giorni dopo Pasqua. Ma la Pentecoste non è un evento isolato nel tempo; è un prodigio che si prolunga nella storia. Infatti, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che tutti noi abbiamo ricevuto lo stesso Spirito nel quale siamo stati battezzati. Lo Spirito è effuso su tutti ed è all’origine dei diversi doni che sono in noi non solo per l’utilità personale ma anche “per il bene comune”.

Possiamo soffermarci su quest’idea, che è centrale nell’insegnamento dell’apostolo Paolo. Egli illustra la sua dottrina con un’immagine eloquente, il corpo: tutti formiamo un solo corpo, ma in molte membra; membra diverse, ma unite a formare un unico organismo. Lo Spirito Santo è il garante dell’unità che tiene unita e ben compaginata la Chiesa come un corpo, in cui la diversità di funzione e ruolo delle varie membra è al servizio del bene dell’organismo intero. La prima lettura ci ricorda che san Pietro nel suo primo annuncio del Vangelo nel giorno di Pentecoste era capito nella propria lingua dai numerosi stranieri convenuti a Gerusalemme. Lo Spirito di Pentecoste è una forza unificatrice che si contrappone vittoriosamente alla logica di divisione della torre di Babele (cf. Gen 11). Lo Spirito è principio di unità nella varietà. Il progetto di Dio è un mondo ricco nella varietà e saldo nella comunione. La varietà dei doni che lo Spirito Santo elargisce generosamente per il bene comune, esige il mutuo riconoscimento della dignità dell’altro e la collaborazione reciproca. Ognuno di noi è parte integrante e insostituibile nel grandioso progetto di Dio sulla storia. Nessuno è superfluo in questa storia, ma ognuno, con la sua particolare vita, con i suoi eroismi e anche con le sue debolezze, è chiamato a mettersi generosamente al servizio degli altri perché il Regno di Dio si compia.

Nell’orazione sulle offerte chiediamo al Padre che mandi lo Spirito “perché riveli pienamente ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio”. Lo Spirito Santo ci fa percepire il senso profondo della redenzione e, in particolare, la grandezza e il valore del mistero eucaristico.





domenica 24 maggio 2020

L’AMORE VERTICE DELLA SAGGEZZA




L’amore è il vertice della saggezza, perché quando amiamo e quando esso ci guida noi vogliamo e facciamo il bene senza essere obbligati da leggi o da qualsiasi altra cosa. Tuttavia è anche possibile rispettare gli altri e praticare semplicemente il bene per scrupolo morale e per virtù.

Esistono vari tipi di amore: quello che è essenzialmente desiderio (in greco eros), quello d’amicizia (philia) e quello universale, completamente disinteressato (agape).

Il primo è molto ambiguo perché in casi estremi può portarci a dare la nostra vita per l’altro o, viceversa, a ucciderlo… per passione! Il secondo (che comprende la relazione tra amici, genitori e figli, uomo e donna) è molto più profondo e spirituale: noi siamo benevoli verso quelli che abbiamo scelto o desiderato: il coniuge, i familiari, gli amici. Vogliamo il loro bene perché li amiamo.

Infine, l’amore universale (preferisco tradurre in questo modo il termine greco agape, piuttosto che con “carità”, dalle connotazioni troppo forti) è quello più spirituale e disinteressato: non amiamo solo i nostri cari, quelli a cui siamo più vicini, ma ogni essere umano e addirittura ogni essere sensibile. È il sentimento prediletto da Budda e Gesù, che non richiede reciprocità. Esso è creatore, perché non è rivolto a persone desiderabili e amabili in se stesse, ma siamo noi che amandole, le rendiamo tali.

È la definizione stessa di amore divino descritto nella Bibbia: Dio non ama gli uomini perché ne sono degni, ma in modo gratuito. Siccome il Padre ama tutte le creature, ci dice Cristo, attribuisce loro un valore infinito e anche noi dovremmo fare così. Il Messia ci invita quindi a rispettare il prossimo e a fare il bene non per dovere, ma per amore, prendendo per modello quello divino. È questo che farà dire a Spinoza: “Cristo ci ha liberati dalla schiavitù della legge e, tuttavia, l’ha confermata e impressa per sempre nel fondo dei nostri cuori”.

[…]

Questo amore universale e disinteressato è il coronamento della saggezza e sono convinto che sia tanto più giusto quanto più si estende a tutti gli esseri dotati di coscienza e sensibilità, e non solo agli uomini.

Fonte: Frédéric Lenoir, La saggezza spiegata a chi cerca, Piemme 2019, pp. 61-62.

venerdì 22 maggio 2020

DOMENICA VII DI PASQUA - ASCENSIONE DEL SIGNORE (A) – 24 Maggio 2020




At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

Il Sal 46 celebra, con il trionfale ingresso dell’arca dell’alleanza nel tempio, la gloria di Dio, re universale e sovrano cosmico, che ascende sul trono, da lui stabilito in mezzo al popolo eletto, e dal quale estende il suo dominio su tutta la terra. Questo salmo acquista tutto il suo senso nella prospettiva messianica; perciò la Chiesa lo canta oggi, solennità dell’Ascensione del Signore: con la sua ascensione, Cristo è stabilito re dei secoli, Signore dell’universo, sacerdote e mediatore unico tra Dio e gli uomini, capo del suo corpo mistico. L’ascensione di Cristo al cielo è il momento culminante della pasqua del Signore: il suo trionfo e la sua glorificazione personale dopo l’apparente disfatta della morte in croce.

Il racconto dell’evento dell’ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo tra l’ascensione del Signore e il suo ritorno alla fine dei tempi. San Paolo nella seconda lettura parla della speranza che l’ascensione di Cristo inaugura. Cristo, entrando nel mondo di Dio, rende accessibili a tutti noi le realtà divine. Guidati da questa speranza, siamo in grado di valutare in modo giusto le realtà terrene. Gesù è passato in mezzo a tutte queste realtà del mondo tenendo fisso lo sguardo verso il Padre, senza deviare dalla strada della sua missione. La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile; ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo diventa alienazione e inganno se ci distoglie dalle sue premesse nella storia, dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è evasione religiosa, disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è il lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il traguardo di Dio. Perciò questo messaggio è destinato ad essere annunciato a tutti gli uomini.

Infatti, Gesù congedandosi dei discepoli, li invia in missione. Il breve brano del vangelo d’oggi è tutto incentrato su queste parole di Gesù: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque a fare discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Se il fatto della missione rende la Chiesa apostolica, cioè inviata nel mondo, i destinatari la rendono cattolica, cioè universale. Una caratteristica quest’ultima che si rende visibile quando la comunità cristiana non appare chiusa in se stessa, ma aperta a tutti, veramente incarnata in ogni situazione e travaglio umano, totalmente presente al mondo per il suo servizio. Solo allora il termine cattolica acquista il suo pieno senso. La missione della Chiesa ha il compito di incontrare l’uomo e di condurlo al di là di se stesso, a Cristo. Il ritorno di Cristo al Padre inaugura quindi il cammino della Chiesa e della sua missione nel mondo per condurre tutti gli uomini con Cristo al Padre.

Nell’eucaristia la Chiesa pellegrina sulla terra riaccende continuamente la speranza della patria eterna (cf. orazione dopo la comunione).

domenica 17 maggio 2020

IL SACERDOZIO COMUNE DEI FEDELI




Giuseppe La Torre, Regale sacerdotium fidelium. Una rilettura alla luce della lex credendi, della lex orandi e della lex vivendi (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” “Subsidia” 191), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2019. 507 PP. (€ 50,00).


Per rendere i cristiani più consapevoli della loro identità e del loro impegno nella vita e nella missione della Chiesa, l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II ha riscoperto che alla base della loro vita sta la dottrina del “regale sacerdotium” che, a buon diritto, può essere definita come il fondamento dogmatico-liturgico della “spiritualità” dei fedeli a ragione dello stretto legame che ha con la visione della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, e con i Sacramenti dell’iniziazione cristiana.

Lo scopo del presente studio è quello di provare ad indagare come una tematica teologico-liturgica particolarmente attuale, come quella del sacerdozio comune dei fedeli, sia una verità di fede da sempre creduta e affermata nella Chiesa (lex credendi) tanto da confluire nella creazione e nella stesura dei testi liturgici (lex orandi) affinché la partecipazione ai Divini Misteri stimolasse i fedeli ad assumere uno stile di vita più autenticamente cristiano (lex vivendi).

Da quest’analisi avremo così la possibilità di osservare come tale dottrina si propone di insegnare ai battezzati che non può esistere dicotomia tra culto e vita in quanto la vita in Cristo, iniziata col Battesimo e rinsaldata con la Confermazione rende sacro ogni aspetto dell’esistenza facendo di ogni azione un’oblazione e un sacrifico spirituale che trova nella partecipazione all’Eucaristia la sua più alta manifestazione.


(Quarta di copertina)

venerdì 15 maggio 2020

DOMENICA VI DI PASQUA (A) – 17 Maggio 2020




At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

La domenica odierna comincia a preparare la solennità della Pentecoste, annunciando il dono dello Spirito Santo. Gesù, tornando al Padre, non lascia soli coloro che credono in Lui. Rimane tra loro in una forma nuova, tramite “un altro Paraclito”, “lo Spirito della verità” (vangelo). Questo Spirito è comunicato mediante il ministero degli apostoli a coloro che credono in Cristo (prima lettura), perché li sostenga e li animi edificandoli in comunità viva, capace di rendere ragione della propria fede (seconda lettura).

Gesù risorto non rinnega la solidarietà con gli uomini. La sua morte e risurrezione segnano il passaggio da una presenza visibile ma esteriore a una presenza interiore, meno palpabile dai sensi ma non per questo meno reale ed efficace. Questa presenza è realizzata dallo Spirito Santo, dono del Padre, che rimane con i discepoli di Gesù per sempre. Il compito dello Spirito viene indicato dai due nomi che nel vangelo d’oggi riceve: “Paraclito”, che in greco significa “Consolatore”, e “Spirito della verità”.

Cominciamo dal secondo titolo: “Spirito della verità”. La verità che lo Spirito dona non è certamente un insieme di affermazioni categoriche o un elenco dottrinario, ma quella verità che emerge dall’amore. La verità di cui parla il vangelo di san Giovanni è la rivelazione dell’amore del Padre per noi, che si concretizza nello stesso Gesù. E’ Lui la verità! Lo Spirito appare quindi come colui che introduce nella piena conoscenza di Cristo, che ci insegna ad amarlo e a servirlo. Chi non crede che Gesù è la rivelazione dell’amore del Padre, rimane nel suo cuore ermeticamente chiuso ad ogni influsso dello Spirito Santo. Coloro invece che credono in Gesù, con il dono dello Spirito, sono chiamati ad una intimità ancora maggior con Gesù: Egli non è solo “vicino” a loro, ma è veramente “in loro”.  Questo Spirito, poi, è il “Paraclito”. Il termine proviene dal linguaggio giuridico greco e indica uno che viene “chiamato vicino” ad un accusato perché lo aiuti e lo difenda. Da questo significato proviene quello derivato di “Consolatore”. Solo san Giovanni usa questo termine per indicare sia lo Spirito Santo (14,16.26; 15,26; 16,7) sia Gesù stesso (1Gv 2,1). Quindi il Paraclito è, al pari di Gesù, un “altro Consolatore”. Lo Spirito Santo è quindi dato a nostra difesa, a sostegno cioè del nostro compito di testimonianza nel mondo, affinché siamo sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15).       

Caratteristica propria dello Spirito Santo è quella di essere “il dono” per eccellenza. L’azione dello Spirito è essenzialmente “dono di sé”. Rendersi perciò conto della sua presenza in noi significa prendere coscienza che la nostra esistenza è avvolta dalla presenza premurosa di Dio e questo fatto, se viene recepito a fondo, è capace di trasfigurare profondamente la vita intera. La dolcezza e la tenerezza che furono del Cristo, sono anche dello Spirito che spesso nella tradizione è stato evocato con immagini materne. L’azione dello Spirito è quella di creare in noi una sorgente di vita per gli altri, capace di generare e dare vita.


sabato 9 maggio 2020

LA MESSA SENZA IL POPOLO OCCASIONE PROPIZIA PER LA SPIRITUALITA’ DEL PRESBITERO?




Ho letto con attenzione una “meditazione” del card. Robert Sarah su “Covid-19 e il culto cristiano”: https://www.hommenouveau.fr/3199/religion/exclu---covid-19-et-culte-chretien--br-une-lettre-du-cardinal-sarah.htm


Apprezzo, come sempre ho fatto, l’interesse e l’amore che il card. Sarah dimostra per la liturgia e per la sua retta celebrazione. Pur non entrando nel merito del contenuto di questa lunga lettera/meditazione, ultima fatica del cardinale, vorrei esprimere, rispettosamente e con parresia, alcune mie perplessità su alcune affermazioni ivi contenute.


Il card. Sarah esalta il carattere “sacro” della chiesa come luogo di culto e lamenta la sfilata di turisti che si muovono frequentemente senza rispetto nel “Tempio santo del Dio vivente”. Vorrei ricordare, con san Paolo, che anzitutto “noi siamo il tempio del Dio vivente” (2Cor 6,16). Lo ricordava anche papa Francesco nell’Udienza Generale del 26 giugno 2013, commentando Ef 2,20-22: “Questa è una cosa bella! Noi siamo le pietre vive dell’edificio di Dio, unite profondamente a Cristo, che è la pietra di sostegno, e anche di sostegno tra noi. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che il tempio siamo noi, noi siamo la Chiesa vivente, il tempio vivente e quando siamo insieme tra di noi c’è anche lo Spirito Santo, che ci aiuta a crescere come Chiesa. Noi non siamo isolati, ma siamo popolo di Dio: questa è la Chiesa!” L’attenzione per il sacro, che permea l’intero testo del cardinale, dovrebbe centrarsi anzitutto nell’assemblea celebrante di cui, come diremo più avanti, il porporato crede si possa far a meno.


In seguito, si afferma giustamente, citando SC 33, che la liturgia è “principalmente culto della maestà divina” e, in questo contesto, è criticata la tendenza della mentalità occidentale contemporanea ad esaltare la dimensione pedagogica della liturgia. Noto che il testo di SC 33, citato dal cardinale, si esprime in questi termini: “La sacra liturgia, benché sia principalmente culto della maestà divina, è anche una ricca fonte di istruzione per il popolo fedele…” SC cita qui in nota il Concilio di Trento. Non va sottovalutato quindi il fatto che la liturgia propone e sviluppa un’autentica pedagogia della fede.


In questa visione della liturgia, si arriva a dire addirittura che in tempo di Covid-19 “molti sacerdoti hanno scoperto la celebrazione [dell’eucaristia] senza la presenza del popolo. In questo modo, essi hanno sperimentato che la liturgia è principalmente e anzitutto il culto della divina maestà […] Celebrando soli non hanno avuto più sotto gli occhi il popolo cristiano, e così hanno preso coscienza che la celebrazione della messa si indirizza sempre al Dio Trinità”. Mi meraviglia questa esaltazione della celebrazione eucaristica senza la presenza del popolo, in modo che ciò che è un caso eccezionale, e come tale regolato dall’Ordinamento generale del Messale Romano (cf. n. 254), diventa in qualche modo occasione propizia per sperimentare che la liturgia è anzitutto il culto della divina maestà. La sinassi eucaristica, che “è il centro della comunità dei fedeli presieduta dal presbitero” (PO n. 5), non può diventare una “devozione privata” del presbitero. “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è ‘sacramento di unità’, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi” (SC n. 26). Noto che il Catechismo della Chiesa Cattolica tra i nomi dati all’eucaristia cita quello di “Assemblea eucaristica [“synaxis”], in quanto l’eucaristia viene celebrata nell’assemblea dei fedeli, espressione visibile della Chiesa” (n. 1329). Il servizio dei ministri non va inteso separato o al di sopra di quello dell’intera assemblea, ma va compreso in una visione unitaria e globale: nella Chiesa riunita che celebra, ciascuno interviene secondo ruoli diversi (cf. 1Cor 12, 4-11.28-30; Rm 12,6-8). Il presbitero che ha bisogno di celebrare da solo per capire il senso della liturgia, non ha capito il senso del suo sacerdozio ministeriale.


venerdì 8 maggio 2020

DOMENICA V DI PASQUA (A) – 10 Maggio 2020





At 6,1-7; Sal 32 (33); 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

Il Sal 32 invita i giusti a lodare il Signore, poiché “retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera”. L’inno di lode, che per secoli ha celebrato la gloria di Dio nei ristretti confini del popolo di Israele, corre ora da un capo all’altro della terra, dovunque vive un uomo che “spera nel suo amore”. In modo simile, l’antifona d’ingresso, riprendendo i due primi versetti del Sal 97, ci invita a cantare “al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto prodigi; a tutti i popoli ha rivelato la salvezza”. La salvezza di Dio si è manifestata pienamente ed a tutti i popoli nel mistero del Cristo morto e risorto.

La lettura evangelica propone un brano del discorso di addio pronunciato da Gesù nel contesto dell’ultima Cena. Gesù parla della sua dipartita da questo mondo e del suo ritorno alla casa del Padre, dove va a preparare un posto anche per i suoi discepoli. San Tommaso desidera conoscere la via per arrivare al luogo dove Gesù afferma che sta per andare. Gesù risponde di essere lui stesso la via, ma non solo: egli aggiunge che è anche la verità e la vita. Queste parole non devono essere interpretate in modo astratto. Gesù propone la propria persona, il proprio messaggio come ciò che rende “vero” lo sguardo dell’uomo su di sé, che dà autenticità ai desideri più profondi delle persone, che dona cioè senso e vigore alla vita e la riempie di speranza e di un orizzonte aperto, duraturo, eterno e per questo degno di essere ricercato e perseguito.  Gesù morto e risorto è la via unica che conduce al Padre, la verità che illumina, la vita eterna che ci viene donata già ora nel nostro cammino verso la gloria definitiva. Insomma Gesù è la via per giungere alla vera vita, ossia alla verità della vita.

La seconda lettura riprende e sviluppa la stessa dottrina della centralità di Cristo nella vita dell’uomo; lo fa adoperando un’altra immagine, quella della “pietra”. San Pietro paragona la comunità dei credenti ad un “edificio spirituale, per un sacerdozio santo…”, fondato su Cristo “pietra d’angolo” dell’edificio. Con la sua risurrezione, Cristo si è mostrato davanti agli uomini come roccia su cui fondare l’edificio di una nuova comunità, quella dei credenti in Lui, che sono a loro volta chiamati “pietre vive”. Per coloro invece che rifiutano Cristo quale pietra angolare, essa diventa “sasso d’inciampo e pietra di scandalo”.

Della nuova comunità fondata su Cristo, che è la Chiesa, e dei suoi primi passi nella storia, parla la prima lettura. Si tratta di una comunità che, pur nelle sue contraddizioni e tensioni, vive in atteggiamento di “servizio” (servizio della Parola e servizio dei poveri) ad esempio di colui che ha detto: “Il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). In questo modo, la Chiesa, quale strumento di salvezza, è chiamata a rendere presente ed operante, nel tempo e nel mondo, la grazia del Risorto, di colui che è il solo Salvatore, la via unica che conduce al Padre.

La funzione mediatrice di Cristo e il carisma sacerdotale della Chiesa trovano il loro esercizio privilegiato nella celebrazione eucaristica. Qui avviene il misterioso scambio di doni che ci rende possibile la comunione con Dio, unico e sommo bene (orazione sulle offerte). Nella celebrazione eucaristica si verifica quel processo che ci fa passare “dalla decadenza del peccato alla pienezza della vita nuova” (orazione dopo la comunione).



domenica 3 maggio 2020

NÉ PERFEZIONISMO NÉ LEGGEREZZA


Ho criticato più volte in questo blog le libertà che alcuni chierici e assemblee si prendono nel celebrare la liturgia, in particolare la santa messa. Nel richiamare all’osservanza di quanto prescritto nel libro liturgico, ho anche detto che il rito va sempre interpretato, come sempre va interpretato anche uno spartito musicale. Giustamente papa Francesco ha criticato una “cura ostentata della liturgia” come segno di “oscura mondanità” (Evangelii Gaudium 95).


Non mancano i perfezionisti che si scandalizzano se un presbitero nel celebrare cambia una parola o omette un gesto. Vorrei ricordare qui quanto il noto psichiatra Vittorio Andreoli nel suo recente libro Homo incertus. Il bisogno di sicurezza nella città della paura (Rizzoli 2020) afferma riguardo alla perfezione. Non c’è dubbio che tutti avvertiamo il bisogno di migliorare le caratteristiche della nostra personalità. Vi sono tuttavia situazioni in cui la perfezione è sgradevole, perché rende un soggetto di pietra, incapace di mostrare sfumature. In genere l’individuo considerato perfetto o normale è associato alla monotonia e alla mancanza di fantasia.


Il rito da per sé è uguale a sé stesso e ripetitivo. Chi celebra il modo meccanico,  ieratico, con voce monotona nonostante il mutare delle situazioni e delle assemblee, rischia di generare noia nei partecipanti. Il rito è un’azione simbolica con molteplicità di linguaggi verbali e non verbali. La qualità di questi linguaggi incide nella qualità della celebrazione stessa e nella sua capacità significativa e pedagogica.   


sabato 2 maggio 2020

DOMENICA IV DI PASQUA (A) – 3 Maggio 2020





At 2,14a.36-41; Sal 22 (23); 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10

Sono due le unità simboliche che reggono la poesia del Sal 22: quella pastorale, tanto cara alla tradizione biblica e orientale in genere (cf. Ez 34 e Gv 10); e quella dell’ospitalità (la mensa, l’olio profumato, il calice colmo), segno di intimità. Il pastore non è solo la guida, è anche il compagno di viaggio. Nella persona di Cristo, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si fa incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà che superano ogni intendimento. Con questo salmo, che la tradizione pone sulle labbra dei neobattezzati, anche noi manifestiamo la nostra volontà di proseguire con impegno il nostro cammino battesimale sulle orme di Cristo buon Pastore.

Nel brano del vangelo, Gesù si autodefinisce “buon pastore”. L’attesa di un “pastore” che sapesse guidare con giustizia il popolo era sempre stata viva in Israele (cf. Sal 22; Ez 34). Appropriandosi di questa immagine, Gesù intende presentarsi come il Messia atteso, autentica guida, in grado di salvare l’uomo, a differenza di qualsiasi altro, “ladro” e “brigante”. Gesù usa poi un’altra immagine di cui pure si appropria: “io sono la porta delle pecore”. Il tema della “porta” che dà accesso alle realtà celesti era frequente nella tradizione giudaica (cf., ad esempio, Gen 28,17). Gesù è quindi l’unica porta attraverso cui abbiamo accesso alla gloria: egli ci guida “ai pascoli eterni del cielo” (orazione dopo la comunione).

Gesù non fa derivare la sua autorità sull’uomo dal ricatto o da imposizioni di qualsiasi genere, ma, come dice san Pietro nella seconda lettura, dall’esempio che egli dà e dalla positività dei valori che propone: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”. Il pastore cammina davanti alle sue pecore (cf. Gv 10,4), si pone alla loro testa e le guida dentro la realtà della storia.

Come si entra a far parte del gregge o della comunità di Gesù? Ce lo spiega la prima lettura, tratta dal discorso in cui san Pietro annuncia alla folla di Gerusalemme il Cristo morto e risorto. Alla domanda degli ascoltatori a Pietro e agli apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”, Pietro risponde indicando la triplice via che introduce nella Chiesa di Gesù: “Convertitevi”. Il pentimento o la conversione è la richiesta fondamentale. “Ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo”. L’essere battezzati nel nome di Gesù Cristo equivale ad essere inseriti nel mistero della sua persona e della sua opera. Dopo “riceverete il dono dello Spirito Santo”. Dal Signore risorto che dona lo Spirito nasce la comunità dei risorti. All’annuncio del vangelo, fa seguito la conversione, il battesimo e il dono dello Spirito. Solo così si forma parte della Chiesa. Di questa Chiesa, Cristo è porta di accesso ed è pastore che la guida. Quando, dopo la risurrezione, Gesù affida a Pietro la guida della sua comunità gli chiede, come unica condizione: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?” (Gv 21,15). Solo chi ama Gesù e agisce sotto il suo impulso può guidare correttamente la comunità cristiana verso i pascoli della vita. Non si tratta di un amore – sentimento, ma di un modo di pensare e di agire dove Gesù è il centro, la sorgente e lo scopo.

Cristo risorto esercita le sue funzioni di buon pastore soprattutto nell’eucaristia. Qui viene in mezzo a noi, ci nutre col pascolo della sua parola e soprattutto, con il suo corpo e il suo sangue. Qui ci dona l’abbondanza della vita.