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venerdì 11 luglio 2025

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Luglio 2025

 



 

 

Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

 

Il tema del comandamento dell’amore vicendevole, di cui parla il brano evangelico, ci viene proposto più volte lungo l’anno liturgico. Si tratta della legge fondamentale del credente, quella legge di cui Mosè tesse le lodi nella la prima lettura. Alla domanda del dottore della legge su che cosa debba egli fare per ereditare la vita eterna, Gesù non risponde ma rimanda l’interlocutore a ciò che sta scritto nella Legge di Mosè e che lo stesso dottore della legge riassume bene così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Partendo dall’amore di sé e da quello di Dio, diventa autentico l’amore per l’altro. Diversamente, c’è il pericolo di amare il prossimo, presentandogli il conto. La novità però dell’insegnamento di Gesù sta nella risposta alla seconda domanda formulata dallo scriba: “chi è il mio prossimo?”, questione dibattuta dal rabbinismo. A questa domanda Gesù risponde con la splendida parabola del Samaritano. Con questa parabola Gesù invita a superare ogni diatriba teorica ed evasiva sul contenuto reale da dare al termine “prossimo”: ogni uomo che si trova nel bisogno sia esso amico o nemico, è “prossimo” a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto con lui.  

 

Cosa fa il Samaritano? Prima di tutto si ferma perché si muove a compassione, che qui è vero amore. Per chi ha sempre troppo da fare, preso dai propri interessi, fermarsi per interessi altrui significa accorgersi che esiste un altro, che soffre e che è nel bisogno. In secondo luogo, si fa vicino all’uomo sofferente, non solo fisicamente ma anche con una vicinanza affettiva: se i cuori sono distanti, la vicinanza fisica non serve. In terzo luogo, si prodiga nei primi aiuti, cioè si rimbocca le maniche e offre un aiuto concreto. Finalmente, il buon Samaritano si assicura che il suo assistito possa ricuperarsi pienamente dalla disavventura. Non si accontenta di fare una buona azione, ma si preoccupa dell’individuo incontrato per caso affinché questi possa ritornare alla vita normale.

 

Nella seconda lettura si parla di Cristo “immagine del Dio invisibile”, espressione perfetta del volto del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Nel malcapitato della parabola i Padri della Chiesa vedono l’umanità peccatrice e nel buon Samaritano vedono il Cristo, che su tale umanità si china per prendersene cura. In Cristo Dio si è fatto “vicino” (cf Rm 10,5-10) e in lui e con lui è possibile amare il prossimo. Nell’eucaristia “l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico - sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).

 

domenica 6 luglio 2025

UN RITO NON RITUALE?

 



“Benedizione pastorale” è il nome dato alla nuova modalità di benedizione introdotta dal Dicastero per la dottrina della fede con la dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni (18/12/2023), che venne commentata dopo pochi giorni, il 4 gennaio 2024, in un Comunicato stampa emanato per “aiutare a chiarire la ricezione”. Francesco Pieri fa delle considerazioni interessanti al riguardo in un breve articolo pubblicato in Rivista di pastorale liturgica (Liscia, solenne o… pastorale? Il crinale sottile del benedire senza approvare: RPL n. 368, 1/2025, pp. 37-41). Di questo testo riproduco in seguito le conclusioni (senza le note a pie pagina).

Alla precisa domanda su “come potrebbero essere queste benedizioni” il card. Fernández ha proposto l’esempio di una coppia di divorziati passati a nuova unione: Il sacerdote può recitare una semplice orazione come questa: “Signore, guarda a questi tuoi figli, concedi loro salute, lavoro, pace e reciproco aiuto. Liberali da tutto ciò che contraddice il tuo vangelo e concedi loro di vivere secondo la tua volontà. Amen”. E conclude con il segno della croce su ciascuno dei due. Si tratta di dieci o quindici minuti.

Notiamo come la mancanza di un testo prestabilito non coincide con l’assenza di un “rito” (sia pure ridotto ai minimi termini) che si esprime nella preghiera e nel gesto benedicente. La stessa dinamica della benedizione rimane ben riconoscibile: in risposta ad un’invocazione di aiuto (dimensione ascendente), si formula una preghiera – rigorosamente spontanea – che personalizza l’annuncio kerygmatico dell’amore di Dio (dimensione discendente). Viene nella sostanza proposto un “rito non rituale”, ossimorico nella sua stessa pretesa malgrado i notevoli sforzi concettuali compiuti. Non c’è da stupirsi del pesante, ma assolutamente prevedibile “contraccolpo” ecumenico (forse non ponderato a sufficienza nella fase di preparazione della dichiarazione), subito manifestatosi nella reazione risolutamente negativa della chiesa ortodossa greca e dello stesso Bartolomeo I, nonché nella interruzione di ogni dialogo con la chiesa cattolica da parte della chiesa ortodossa copta.

Dirò in conclusione come – a mio avviso – anche un gesto estemporaneo e che prescinde intenzionalmente da ogni presupposto di ordine morale non pare comunque esimere il ministro da un certo impegno previo volto a conoscere la vicenda e le condizioni di vita di coloro che richiedono la benedizione, il loro grado di formazione e di consapevolezza riguardo al gesto che intendono compiere. Nel loro carattere prevalentemente negativo, le indicazioni in merito alla estemporaneità della formula e quelle sul contesto informale dello svolgimento di una “benedizione pastorale” intendono lasciare aperto all’interpretazione e alla prassi un campo molto ampio, che può andare dalla conoscenza dei soggetti tramite una regolare consuetudine di dialogo alla quai mancanza di elementi precisi di valutazione. È in questo spazio che la prassi e la discretio pastorale hanno una parte decisiva da svolgere.

venerdì 4 luglio 2025

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Luglio 2025

 



 

 

Is 66,10-14c; Sal 65 (66); Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20

 

Le tre letture parlano della salvezza, della realtà nuova che Dio ha operato in noi. Nel vangelo vediamo che Gesù invia i suoi settantadue discepoli (tanti quanti sono le nazioni pagane secondo Gen 10) in missione di “pace”, a “curare i malati” e ad annunciare: “È vicino a voi il regno di Dio”. Che cos’è il regno di Dio? Per rispondere a questa domanda, iniziamo dalla prima lettura, la quale riporta un brano profetico pronunciato in un momento difficile per la storia d’Israele: dopo l’esilio di Babilonia, la situazione di coloro che sono ritornati a Gerusalemme è disperata; praticamente c’è penuria di tutto. È il momento impegnativo della ricostruzione. In questo contesto, il profeta annuncia un futuro di gioia e di benessere. Quale rapporto ha tutto ciò col regno di Dio? Quando la Bibbia parla del regno di Dio usa un concetto molto generale. Esso comprende anche l’appagamento di quei desideri umani che sorgono nei cuori degli uomini e nutrono le speranze dei popoli specie nei momenti di prova. Così si oppongono al regno di Dio la malattia, la morte, la povertà opprimente, la fatica, l’oppressione politica e sociale, la guerra. Possiamo quindi affermare che quando il profeta consola i rimpatriati da Babilonia e annuncia un futuro migliore, la prospettiva di fondo è quella del regno di Dio, quella situazione ideale di salvezza che tutti speriamo di poter raggiungere. Ciò che è tipicamente cristiano del regno di Dio è che il raggiungimento di un tale traguardo non è sperato solo in quanto frutto dell’opera umana, ma come dono che Dio ha promesso definitivamente per mezzo di Cristo.

 

Nel brano della seconda lettura, san Paolo annunzia al centro del suo vangelo la croce di Cristo, sorgente dell’essere “nuova creatura”. Il regno di Dio, di cui stiamo parlando, si realizza anche attraverso la via della croce. La croce assume in sé tutta la violenza dell’uomo, anzi essa è il risultato tenebroso dell’azione stessa di satana, ma nello stesso tempo la croce afferma la vittoria definitiva dell’amore di Dio sulle tenebre del peccato e della morte. È solo la conformità esistenziale alla croce, che ci unisce intimamente al Cristo glorioso.

 

Il messaggio di questa domenica lo si può riassumere in tre immagini: la gioia che scende su Gerusalemme, di cui parla il profeta, e anche la gioia che, secondo il vangelo, riempie il cuore dei settantadue discepoli al ritorno della missione; la cura dei malati come segno del regno di Dio che è vicino; la croce che ci rende partecipi della passione di Cristo e non veniamo meno perché sappiamo di essere partecipi anche della sua forza e della sua risurrezione. Tre immagini della salvezza, della realtà nuova, della nuova creatura, del regno di Dio.

domenica 29 giugno 2025

LA PREGHIERA IN RICERCA DI DIO

 



Signore, non ti conosco ma ti penso, non so se esisti ma ti cerco, e giungo a desiderare che tu ci sia. E questo pensiero mi dà sollievo e speranza.

Non posso cercarti io, sono un uomo fragile, ma proprio questa percezione mi spinge persino a pregare.

Non so come fare, e mi riesce difficile se solo considero che tu non ci sei, ma mi pare impossibile che possa esistere io e non Dio.

Nell’Inno alla gioia di Friedrich Schiller si invita a cercare, perché da qualche parte nel cielo ci devi essere tu, Dio.

Ma io voglio trovarti qui sulla terra. Adesso ho bisogno di un Dio. Per questa vita. Non so nulla dell’aldilà. Sono attaccato a questa terra.

 

Fonte: Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS Edizioni, Milano 2025, pp. 7-8.

venerdì 27 giugno 2025

SANTI PIETRO E PAOLO APOSTOLI – 29 Giugno 2025 Messa del giorno

 



 

At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

 

La Chiesa celebra e onora assieme nello stesso giorno i due santi apostoli Pietro e Paolo, che “Dio ha voluto unire in gioiosa fraternità” (prefazio della messa). Due personaggi molto diversi, ma ambedue spinti dallo stesso amore per Cristo e la sua Chiesa. Secondo sant’Agostino, il loro martirio è segno di unità della Chiesa: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli” (Discorso letto nell’Ufficio delle letture). In questo giorno celebriamo il mistero della Chiesa, fondata sul sangue e sull’insegnamento degli apostoli (cf. l’orazione colletta).

 

La prima lettura racconta che re Erode fece mettere in prigione Pietro per poi ucciderlo appena passata la Pasqua. Ma Dio lo liberò prodigiosamente in virtù della preghiera incessante della comunità di Gerusalemme. Nella seconda lettura, Paolo, ormai al tramonto, fa il bilancio della sua vita e anche lui, nonostante le difficoltà trovate e le prove subite nell’adempimento della sua missione apostolica, dichiara che il Signore gli è stato vicino e, guardando al futuro, conclude: “il Signore mi libererà da ogni male…” Perciò nel salmo responsoriale proclamiamo: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”. Il vangelo riporta la confessione di fede che Pietro fa a nome di tutti gli apostoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e la risposta di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…” Il prefazio fa riferimento a questo passaggio quando dice che “Pietro per primo confessò la fede nel Cristo”, ma subito dopo aggiunge: “Paolo illuminò le profondità del mistero”. La fede di Pietro è illuminata dal mirabile magistero di Paolo. Pietro e Paolo sono le colonne della Tradizione cristiana. Pietro, la roccia sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa; Paolo, “il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti” (prefazio).

 

Oltre al prefazio anche le orazioni della messa delineano il significato ecclesiologico dei due apostoli. Il prefazio afferma che i santi Pietro e Paolo “in modi diversi hanno radunato l’unica famiglia di Cristo”. E l’orazione dopo la comunione contempla questa unica Chiesa alla luce delle note che hanno caratterizzato l’ideale della primitiva Chiesa gerosolimitana: perseveranza nella frazione del pane, nella dottrina degli apostoli, per formare nel vincolo della carità un cuor solo e un’anima sola. Il testo fa riferimento a At 2,42 (e paralleli), che descrive la vita della comunità primitiva come comunione fraterna o koinonia, termine greco che definisce la comunione di fede con Dio o con Cristo e l’unione profonda tra i credenti che si esprime e si attua nella fede comune, nell’esperienza eucaristica e nella condivisione spontanea dei beni. Questa comunione dei beni esprime tuttavia una realtà più profonda: la comunione dei cuori e delle anime. L’immagine della comunità delle origini sarà in seguito per la Chiesa di tutti i tempi l’ideale a cui tendere.     

         

La festa degli apostoli Pietro e Paolo ci ricorda che la Chiesa è un mistero di comunione. Possiamo quindi affermare che la missione primaria della Chiesa è quella di essere segno di comunione nel mondo. Il cristiano deve avere un cuore grande, sgombro di pregiudizi, un cuore pulito e trasparente, pronto all’incontro e al servizio.

 

 

domenica 22 giugno 2025

LE PAROLE

 



Le parole sono importanti perché danno espressione a ciò che noi, come comunità nel mondo e, andando indietro, nel tempo, crediamo circa la missione che ci è stata affidata in quanto discepoli. Le parole inoltre esprimono, rendono pubblico, quel che c’è nei nostri cuori. Le parole, le nostre parole e il nostro desiderio di usarle, sono ciò che ci rendono umani e rivelano chi siamo come individui e come comunità. Proviamo paura al pensiero di venir messi a tacere - e inorridiamo al pensiero di non essere in grado di parlare e di esprimere il nostro amore per chi ci circonda. Le parole sembrano tanto semplici - ma dove saremo senza di loro?

Usiamo le stesse parole più e più volte così che, ripetendole, esse penetrano nella nostra coscienza - ma in questo modo sorge anche il pericolo che possano ridursi a una formula, una tiritera, ripetuta a pappagallo, “solo parole”, insomma. Ma le parole hanno un valore. Esse ci uniscono come esseri umani, ci consentono di capire, di crescere come discepoli e di lodare il nostro Creatore. Una umanità senza parole sarebbe, in tutti i sensi “impedita”. Tuttavia, se le parole che descrivono delle azioni e delle cose non si collegano a quelle azioni e a quelle cose, perdono il loro significato. E quando ciò accade, le abbandoniamo perché non sono altro che rumore, o ne diffidiamo come fossero fumo negli occhi.

Non possiamo celebrare senza parole, ma se le parole hanno smarrito il loro legame di senso con il resto della vita, allora non avremo una celebrazione liturgica…

Fonte: Thomas O’Loughlin, Quale Mensa per noi tu prepari! L’Eucaristia come evento che plasma un popolo, Queriniana, Brescia 2025, pp. 47-48.

 

venerdì 20 giugno 2025

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE: SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (C) 22 Giugno 2025

 

 



 

 

Gen 14,18-20; Sal 109 (110); 1Cor 11,23-26; Lc 9,11b-17

 

La prima lettura parla di Melchisedek, “re di Salem” e “sacerdote del Dio altissimo”, che, come segno di ospitalità e amicizia, “offrì pane e vino” e “benedisse” Abram che tornava da una vittoriosa campagna militare. La seconda lettura invece riporta la descrizione dell’ultima cena, in cui Gesù istituisce l’eucaristia col pane e col vino, sacrificio della nuova ed eterna alleanza. Il brano evangelico racconta la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù compie gli stessi gesti con cui istituisce poi l’eucaristia: “prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli” (v. 16). Le tre letture fanno riferimento al mistero eucaristico che la Chiesa propone oggi di nuovo alla nostra attenzione dopo averlo contemplato la sera del Giovedì Santo con gli occhi rivolti alla Croce del Venerdì Santo. Che cos’è l’eucaristia? Non è possibile dare una risposta esauriente. Ci limitiamo ad una lettura del mistero eucaristico a partire dalla persona di Cristo sacerdote, come suggeriscono le letture bibliche odierne.

 

Possiamo prendere come punto di partenza un aspetto tipico del racconto di Paolo, soffermandoci cioè sul mandato di Gesù, ricorrente ben due volte in questa breve lettura: “fate questo in memoria di me”. Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e neppure ricordare qualcosa o qualcuno. Sullo sfondo del contesto del rituale della Pasqua biblica, “fare memoria” vuol dire rendere presente l’evento salvifico per prendervi parte. Nell’orazione della messa si dice che nell’eucaristia il Signore Gesù “ci ha lasciato il memoriale della sua Pasqua”. Gesù, che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre e di servizio agli uomini, cioè il vero culto e il vero sacrificio, alla fine della sua esistenza la riprende riassumendola ed esprimendola con il gesto simbolico, cultuale, del pane spezzato e condiviso e del calice del vino distribuito. Riassunta in un gesto rituale, ripetibile, celebrativo, Gesù consegna la sua vita ai discepoli perché noi tutti ne facciamo memoria nel rito (“fate questo in memoria di me”) e nella propria esistenza (“prendete e mangiate”) inseparabilmente. Come Cristo ha raccolto la sua esistenza (il vero culto) nei segni, così l’esistenza umana (il culto spirituale) si raccoglie in momenti – segno che in certo qual modo separano dal quotidiano per celebrare però il grande evento che dà senso al quotidiano. Ciò che dà consistenza all’eucaristia non è un rito, ma un’esistenza, quella di Cristo. Ciò che quindi è essenziale in questa celebrazione è la “memoria” di questa esistenza e di questa persona, la comunione con essa, l’appropriazione dei suoi stessi atteggiamenti esistenziali.  

 

Il sacerdozio di Cristo non è né rituale né semplicemente esteriore, bensì personale e vitale. Cristo si rende presente nell’eucaristia perché, partecipando ad essa, facciamo nostra la sua vita di oblazione e di condivisione. Celebrare l’eucaristia vuol dire riprodurre in noi i sentimenti di Cristo, di colui che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre donandosi per la nostra salvezza. Egli diventa per noi pane, perché noi impariamo a diventarlo per gli altri.

 

 

domenica 15 giugno 2025

LO SPIRITO SANTO DONO DI CRISTO RISORTO

 



Durante la festa delle Capanne, che durava non meno di una settimana, si compivano due riti fondamentali. Durante il primo, quello della luce, si accendevano piccole candele, ardenti nella notte. È in tale contesto che Gesù proclama d’essere Lui la luce del mondo. Durante il secondo rito, quello dell’acqua, i sacerdoti in processione si recavano verso la parte sud del colle di Gerusalemme, per raggiungere la piscina di Siloe, prendervi l’acqua con le anfore, tornare nel tempio e farvi libazioni, per impetrare la pioggia autunnale. La festa veniva celebrata all’inizio dell’autunno. Gesù dona di sé una interpretazione nuova, quella della luce vera ed eterna, così adesso, riferendosi al rito dell’acqua, trae di sé una nuova immagine: “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: ‘Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva’. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato” (Gv 7,37-39).

Chi ha sete di credere e chi, credendo, ha ancora più sete, non beve da quell’acqua attinta con le anfore dalla piscina di Siloe e sparsa nel tempio, ma da Lui, da Gesù, perché dal suo seno sgorgheranno fiumi e sarà l’acqua sovrabbondante dello Spirito Santo, la quale inonderà i credenti quando Lui, il Cristo, sarà glorificato.

 

Fonte: Giuseppe D’Amore, Lo Spirito Santo e i suoi sette doni, Edizioni Rinnovamento nello Spirito Santo, Rimini 2024, pp. 42-43.

venerdì 13 giugno 2025

DOMENICA DOPO PENTECOSTE: SANTISSIMA TRINITÀ ( C ) – 15 Giugno 2025

 


 

 

Pro 8,22-31; Sal 8; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15

 

Nel giorno di Pentecoste gli apostoli hanno ricevuto lo Spirito Santo e, fedeli al comando del Maestro, sono partiti per annunciare la buona novella e battezzare tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. È dunque giusto che la solennità della Ss.ma Trinità segua immediatamente quella della Pentecoste.

 

Le letture bibliche della solennità sono un invito a non fermarsi sulla soglia di un dogma, ma a contemplare la Trinità come un mistero di comunione, di vita e di amore. La lettura del libro dei Proverbi parla della Sapienza come la prima delle opere di Dio e suo strumento nella creazione del mondo, che la tradizione cristiana ha interpretato riferito al Verbo incarnato (cf. Gv 1). San Paolo (seconda lettura) afferma che l’uomo, giustificato per la fede, è “in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. Finalmente, il vangelo ripropone le parole di Gesù che promette lo Spirito Santo per portare a compimento la stessa opera sua in noi. Il disegno di Dio, che si è compiuto pienamente in Cristo, trova attuazione in noi per mezzo dello Spirito Santo. Attraverso Gesù Cristo e guidati dallo Spirito abbiamo accesso al Padre. Possiamo riassumere il messaggio delle tre letture dicendo che Dio crea, salva e santifica. Il mistero della Trinità non è un mistero lontano, ma il mistero della nostra vita che si svolge nel tempo verso l’eternità di Dio. Ecco, quindi, che la Trinità non si presenta come una realtà misteriosa chiusa in se stessa, irraggiungibile, ma come comunione di vita che tende ad espandersi e a raggiungere ogni altra realtà, attraendola con il suo amore: Dio non è il solitario perfetto, ma ha voluto essere più persone che si amano in una comunione di essere, di vita e di donazione assoluti.

 

La solennità della Trinità, celebrata dopo che abbiamo percorso tutte le tappe della storia della salvezza, è un invito a scoprire la fonte e il senso di tutto, il protagonista assoluto della storia della salvezza: il Dio uno e trino. La riflessione sulla Trinità non è quindi semplice speculazione astratta, ma è un tentativo di comprensione del mistero di Dio per meglio comprendere il mistero dell’uomo in Cristo. È alla Ss.ma Trinità che riconduciamo insieme il mistero della creazione e il mistero della redenzione. Il Dio in cui crediamo è colui che ci ha creati e ci ha salvati ricomponendo quel che era al principio con quel che ora sperimentiamo in Cristo. Perciò anche la liturgia, il cui cuore è l’eucaristia, è opera della Santa Trinità (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1077). Adorare “l’unico Dio in tre persone” (orazione colletta) non vuol dire alienarci da questo mondo e metterci in una dimensione spirituale o astratta. Cristo, inviato dal Padre, ha ricreato con la forza dello Spirito quel che era stato creato. È dunque proprio dal mistero trinitario che prendono nuova luce, mentre aspettiamo la luce eterna, il mondo in cui viviamo, il mistero dell’uomo, e la varietà delle cose.

 

domenica 8 giugno 2025

INTRA OMNES

 



 

Andrea Grillo – Luigi Mariano Guzzo (edd.), Intra Omnes. Dal popolo di Dio al conclave, Queriniana, Brescia 2025. 184 pp. (€ 18,00).

Con 26 lemmi-guida – da Abusi a Vocazione, da Donna a Pace, da Creato a Politica, da Cultura a Sessualità – Intra omnes offre un vero e proprio glossario di sfide e speranze per la Chiesa che verrà. Con pochi tratti, ciascuna voce riassume lo “stato dell’arte” dei processi di riforma avviati da Francesco (sinodalità, cura del creato, lotta agli abusi, dialogo ecumenico…), rileva le domande aperte e i nodi che restano ancora da sciogliere, indovina le traiettorie future su cui continuare a camminare.

Da un lato, questo libro corale è la felice sintesi retrospettiva su un pontificato che ha scavato un solco indelebile – un “prima” e un “dopo” Francesco – restituendo voce al popolo di Dio e ridisegnando la geografia ecclesiale. Dall’altro ciascuna voce lancia un ponte verso il futuro, tracciando le tappe indispensabili di un cammino ancora da compiere.

Un Extra omnes rovesciato: la voce di tutti per la Chiesa di domani.

Un’agenda “dal basso” che diventa risorsa “dall’alto”.

 

(Quarta di copertina)

     

venerdì 6 giugno 2025

DOMENICA DI PENTECOSTE (C) – 8 Giugno 2025 Messa del giorno

 



 

At 2,1-11; Sal 103 (104); Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23b-26

         

La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito che rinnova mondo e uomini. È la Pasqua comunicata, senza misura, alla Chiesa.

 

Le tre letture bibliche offrono una ricca riflessione sull’azione dello Spirito Santo nella vita cristiana. La prima lettura descrive l’evento della Pentecoste, in cui la Chiesa nascente riceve il dono dello Spirito. L’intreccio dei simboli assume il ruolo di presentare allusivamente lo Spirito e la sua opera. Il vento è improvviso e inarrestabile, il fuoco illumina e riscalda, la parola dà senso e comunica in tutte le lingue. Il dono delle lingue, detto “glossolalia”, significa il dono dei carismi diversi che lo Spirito elargisce; doni diversi, ma donati dallo stesso Spirito, che è sorgente di unità nella diversità. Ecco, quindi, che Dio irrompe nella nostra vita per ricrearla e unificarla. Ce lo ricorda san Paolo nella seconda lettura: la carne divide; lo Spirito unifica. È lo Spirito di Dio che, pur nella diversità di razze e di culture, rende accoglienti gli uni verso gli altri nella carità di Cristo.

Il brano evangelico continua il discorso sugli effetti della presenza dello Spirito nel cuore dei credenti. Lo Spirito è con noi per sempre. È la promessa di Gesù: “il Padre vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”. Cristo è stato il primo Paraclito o Consolatore - Protettore dei discepoli; lo Spirito Santo è il secondo Consolatore che accompagna la comunità dei discepoli di Gesù nel loro cammino fino all’incontro definitivo con il Signore. Non abbiamo bisogno di vivere con gli occhi rivolti costantemente verso il cielo dal quale dovrà ritornare un giorno il Figlio dell’uomo, e neppure con gli occhi rivolti ad un passato, al Gesù terreno, che ormai non è più. Noi cristiani abbiamo a che fare con una forma nuova di presenza di Gesù Cristo: il Consolatore, il Protettore, il Sostegno è d’ora in poi lo Spirito Santo, la cui funzione è appunto quella di rendere comprensibile e attuale per noi il Gesù terreno.

Possiamo sintetizzare con le parole di Atenagora cosa sarebbe il cristianesimo senza o con lo Spirito: “…senza di lui, Dio è lontano, il Cristo è nel passato, il vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità dominio, la missione propaganda, il culto evocazione e l’agire cristiano una morale da schiavi. Ma in lui il cosmo è innalzato e geme nella gestazione del Regno, l’uomo è in lotta contro la carne, il Cristo risorto è presente, il vangelo è potenza di vita, la Chiesa significa comunione trinitaria, l’autorità è al servizio liberatore, la missione una Pentecoste, la liturgia memoriale e anticipazione, l’agire umano è deificato”. Con l’effusione dello Spirito viene “portato a compimento il mistero pasquale” (prefazio). La Pasqua non sarebbe completa senza il dono dello Spirito. Il disegno del Padre portato a termine dal Figlio incarnato nel mistero della sua morte e risurrezione trova compimento nel dono dello Spirito, dono di Cristo che proviene dal Padre, fonte ultima dalla quale anch’egli viene.

L’eucaristia è il cibo spirituale che ci nutre per la vita eterna. In questo cibo è “sempre vivo il dono dello Spirito” (orazione dopo la comunione). Anzi, la comunione eucaristica fa sì che lo Spirito “abiti in noi” (cf. 1Cor 3,16) e che “il nostro corpo sia tempio dello Spirito Santo” (cf. 1Cor 6,19).          

domenica 1 giugno 2025

LO SPIRITO SANTO E I SUOI DONI

 



 

Tradizionalmente si parla dei sette doni dello Spirito Santo: “la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio” (CCC n. 1831).

Il dono della pietà. Nel linguaggio più vicino a quello originario del latino pietas, è la disposizione dell’animo a sentire affetto e devozione verso i genitori, verso Dio, e a operare di conseguenza. Modello supremo è la pietà filiale di Cristo, che si esprime in un abbandono completo alla volontà del Padre, che ha come momento sommo il sacrifico della croce: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46).

Il dono del timore di Dio. Il dono di pietà è congiunto strettamente a quello del timore di Dio e si integrano a vicenda. Il timore di Dio è un sentimento di reverenza e amore verso Dio. Non è un timore servile, ma un timore riverenziale che allontana dal peccato che dispiacerebbe a Colui che si ama. Il Sal 27 inizia con queste parole: “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”.

Il dono di fortezza. L’amore si manifesta nelle opere e, per queste, è necessaria la virtù della fortezza, che porta a compimento ciò che l’intelletto conosce e la volontà desidera, assapora e propone. Lo Spirito Santo è sorgente di forza, non quella fisica, ma la forza secondo Dio: “Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti” (1Cor 1,27). Si tratta quindi di una fortezza che coabita con la nostra fragilità.

Il dono del consiglio. Nell’intimità con Dio e nell’ascolto della sua Parola, pian piano mettiamo da parte la nostra logica personale, dettata il più delle volte dalle nostre chiusure, dai nostri pregiudizi e dalle nostre ambizioni, e impariamo invece a chiedere al Signore: qual è il tuo desiderio?, qual è la tua volontà?, che cosa piace a te? In questo modo matura in noi una sintonia profonda, quasi connaturale nello Spirito e si sperimenta quanto siano vere le parole di Gesù riportate nel Vangelo di Matteo: “Non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20).

Il dono della scienza. Il dono della scienza ci permette di conoscere le cose create nella loro relazione con Dio. Secondo san Tommaso d’Aquino, “è il dono che ha per attività propria comunicare il retto giudizio sulle creature. Chi non ha il retto giudizio sulle creature, pensa che in esse ci sia la felicità perfetta, le scambia per il vero fine, così pecca e perde il vero bene” (Somma teologica II-II, 48,3,1). E san Bernardo, nel suo Itinerarium, considera la creazione come mezzo attraverso cui l’anima compie il suo primo grado di passaggio verso il Signore.

Il dono dell’intelletto. Non si tratta qui dell’intelligenza umana, della capacità intellettuale di cui possiamo essere più o meno dotati. È invece una grazia che solo lo Spirito Santo può infondere e che suscita in noi la capacità di andare al di là dell’aspetto esterno della realtà e scrutare le profondità del pensiero di Dio e del suo disegno di salvezza. San Paolo descrive bene gli effetti di questo dono: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2,9-10). 

Il dono di sapienza. Questo dono distoglie l’anima dalle cose terrene e passeggere, per una cognizione soprannaturale dei beni eterni. Questo discernimento e giusto giudizio delle cose divine non è frutto di ragionamento e di riflessione, ma deriva da una luce superiore, la quale infonde una conoscenza sperimentale. Chi è il sapiente? Non è colui che sa le cose di Dio, ma colui che vive le cose di Dio. Non è colui che parla di Dio, ma è colui che contempla Dio. “Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di Lui” (Ef 1,17).  

 

 

 

 

 

venerdì 30 maggio 2025

ASCENSIONE DEL SIGNORE (C) – 1 Giugno 2025 Messa del giorno

 



 

 

At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

  

Il racconto dell’evento dell’Ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. L’Ascensione è presentata da san Luca come un distacco, una separazione di Gesù dai suoi. Ma si tratta di un distacco che prelude a una forma di presenza diversa, nuova di Gesù presso i suoi. D’altra parte, la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo dopo l’evento dell’Ascensione del Signore e in attesa di ricongiungerci con lui alla destra del Padre: “viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro Capo, nella gloria” (orazione colletta).

 

Il brano della lettera agli Ebrei della seconda lettura parla della speranza che l’Ascensione di Cristo ha inaugurato per tutti noi. Cristo è entrato nel cielo, “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore”. La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile, ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo diventerebbe alienazione e inganno se ci distogliesse dalle sue premesse nella storia, dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è da intendersi come evasione religiosa, disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è un lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il traguardo di Dio. Un impegno nel quotidiano quindi, che va vissuto nella speranza del traguardo definitivo: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza”. Gesù congedandosi dei discepoli, li promette il dono dello Spirito e li invia ad annunciare la buona novella a tutte le genti. Non è indifferente che il breve brano del vangelo d’oggi sottolinei che dopo l’Ascensione del Signore, i discepoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. È il ritorno al quotidiano sorretti dalla speranza, che trova il suo fondamento nella natura umana di Cristo che è stata glorificata.

 

In sintesi, possiamo dire che il mistero dell’Ascensione consiste nell’indicare il recupero da parte di Gesù della sua dimensione divina che gli è propria. Ma consiste altresì nel rivelare l’azione che, adesso, Gesù al cospetto di Dio suo Padre svolge in nostro favore mediante lo Spirito Santo che ci ha donato. Il Signore Gesù continua quindi ad essere misteriosamente presente in mezzo a noi mediante il suo Spirito che ci è di guida nel cammino che conduce al traguardo. L’Ascensione più che un invito a evadere dalla terra è un invito ad assumerla come luogo di salvezza, dove già risplende, sia pure parzialmente, la luce dei “cieli nuovi” e della “terra nuova”. Ancorata al presente e al suo impegno nel mondo, la Chiesa non deve svanire verso illusioni, verso spiritualismi senza corpo. I segni di questa visione di speranza e di realismo devono manifestarsi attraverso una testimonianza cristiana coerente.

 

domenica 25 maggio 2025

SUL CASO AMERICANO

 



                                                                                     

Afferma Stephen Kevin Bannon, dirigente d’azienda statunitense, ex banchiere d'investimenti ed ex direttore responsabile del giornale on-line di estrema destra Breitbart News: “In America il cattolicesimo tradizionalista è in ascesa, particolarmente tra i giovani maschi, ma la leadership della Chiesa cattolica si sta spostando a sinistra mentre quella USA va a destra. Stiamo andando verso lo Scisma. C’è gente che vuole riportare la Messa in Latino e ribaltare il Concilio Vaticano II e che non mollerà”.

… Ogni tanto a Roma c’è stato qualche intervento deciso, come nel 2023: Francesco solleva il vescovo di Tyler, Joseph Edward Strickland, dal governo pastorale della diocesi. I motivi li dichiara lo stesso vescovo al sito conservatore LifeSiteNews: la mancata applicazione del motu proprio Traditionis custodes, che ha apportato restrizioni alla celebrazione secondo il messale del 1962 di papa Giovanni XXIII. Tuttavia, il vescovo texano ribadisce di non essersi pentito della propria scelta, poiché ritiene suo dovere quello di non disperdere i fedeli devoti alla messa tridentina. Ma la cosa che ha fatto saltare sulla sedia parecchie persone è che nel marzo 2025, quando Francesco era ricoverato al Gemelli, lo Strickland ha celebrato una messa nientemeno che nella residenza trumpiana di Mara-Lago in Florida (il presidente non c’era) accolto da un centinaio di fedeli. Un segnale? Certamente non un caso. Ma allora – è stato chiesto da un giornalista a Leone il giorno dell’incontro con la stampa – quando andrà negli Stati Uniti? “Non presto…”

 

Fonte: cfr. Carlo Marroni, Papa Leone XIV. Vita storia e segreti, Newton Compton Editori 2025, pp. 151 e 158-159.

 

venerdì 23 maggio 2025

DOMENICA VI DI PASQUA (C) – 25 Maggio 2025

 



 

 

At 15,1-2.22-29; Sal 66 (67); Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

 

 

La prima lettura descrive un momento importante della vita della prima comunità cristiana. I dissensi sorti tra gli apostoli sul modo di procedere con i convertiti dal paganesimo si acuiscono a tal punto che devono essere risolti in un’assemblea che di fatto è stato il primo concilio ecumenico della Chiesa. Radunati a Gerusalemme, gli apostoli trovano un accordo su che cosa si debba imporre ai neoconvertiti dal paganesimo. A noi interessa non tanto la problematica specifica che era in discussione in quel dato momento quanto ciò che il fatto significa. Si tratta della Chiesa terrena che, nata da poco, si confronta con le diverse opinioni sorte nel suo interno, discute i suoi problemi, si dà delle norme e in questo modo si consolida nelle sue strutture. Accanto a questo quadro, la seconda lettura presenta uno squarcio profetico-simbolico della città futura, la Gerusalemme celeste, immagine della Chiesa celeste in cui non ci sono più divisioni e non c’è più bisogno di strutture e di mediazioni, neppure di quelle sacre come il tempio e la fede, “perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”.

 

Le due città sono assai diverse. Nella città terrena ci sono i contrasti, le divisioni, il bisogno di confrontarsi e di costruire il consenso talvolta con fatica. La città celeste è invece tutta compatta, unita. Ecco perché la città terrena con le sue strutture, i suoi monumenti e i suoi templi è destinata a perire. Tuttavia, come abbiamo visto la domenica scorsa, la città celeste pur essendo eterna affonda le sue radici nella fragilità della città terrena. Tra le due città c’è corrispondenza e coerenza. Ce lo ricorda il brano evangelico. Mentre sta per lasciare i discepoli, Gesù promette di inviare ad essi lo Spirito Santo: “… egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Compito dello Spirito è dunque “insegnare e ricordare” tutto ciò che il Cristo ha detto: non un ricordo ripetitivo, ma un ricordo di approfondimento, creatore di nuovi sviluppi e di rinnovate applicazioni nella fedeltà all’unica esperienza salvifica realizzatasi in Cristo. È quindi lo Spirito che ci guida verso la città celeste, è lui a garantire il cammino nella storia della comunità terrena dei discepoli di Gesù. Vediamo infatti che gli apostoli radunati a Gerusalemme in assemblea hanno la consapevolezza di prendere le loro decisioni guidati dallo Spirito: “È parso benne allo Spirito Santo e a noi…” Grazie allo Spirito, le diverse componenti del cristianesimo primitivo riunite a Gerusalemme risolvono uno spinoso problema che stava producendo tensioni e divisioni.  

 

Vicini alla Pentecoste, siamo invitati a riflettere sulla presenza dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. È lo Spirito che dà slancio alla Chiesa terrena e la indirizza verso i valori definitivi della città celeste. Dimentichi dell’azione dello Spirito, siamo talvolta tentati di banalizzare la vita cristiana riducendola a formule e leggi. La liturgia d’oggi ci ricorda invece che Dio si comunica al mondo solo nell’amore e nell’adempimento della parola di Gesù (cf. canto al vangelo e antif. alla comunione), interpretata però con la luce dello Spirito Santo. Ecco, quindi, che la città di Dio si realizza nel presente mediante la realtà dell’amore cristiano e per opera dello Spirito Santo. Senza l’azione interiore e nascosta dello Spirito, la Chiesa rischia di essere un raduno di militanti, più che comunione di discepoli.

 

 

domenica 18 maggio 2025

PREGHIERA DEL NON CREDENTE

 



Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS Edizioni, Milano 2025. 127 pp. (€ 12,90).

È bellissimo cercare Dio, anche se non lo si trova e persino se non esistesse. Cercando una realtà necessaria, la si pensa, la si immagina e così la si vive. La ricerca diventa attesa, una condizione straordinaria della mente che dà corpo a ciò che ancora non c’è. Si aspetta e questo atteggiamento crea persino il proprio creatore. Si cerca il necessario ed è come se le tracce fossero dentro di noi.

È bellissimo pensare di poter avere una esperienza diretta di Dio. Io lo cerco da tempo ma non è ancora tempo; io so che a lui piace incontrare, relazionarsi direttamente con le sue creature. La maniera migliore per occupare l’attesa è la preghiera. La preghiera del non credente. Esprime il bisogno del divino che c’è dentro l’umano.

(Introibo, p.5)


Un libro che va letto (e meditato)

 

venerdì 16 maggio 2025

DOMENICA V DI PASQUA (C) – 18 Maggio 2025

 



 

At 14,21b-27; Sal 144 (145); Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35

 

 

Il Tempo di Pasqua è un tempo di rinascita della vita. Perciò si addice a questo periodo dell’anno la riflessione sulla novità cristiana. Questo potrebbe essere l’argomento unificatore delle tre letture bibliche proclamate oggi. La prima lettura parla delle nuove comunità di cristiani, le prime che sotto l’azione dello Spirito e per mezzo della predicazione di san Paolo e san Barnaba sorgono al di fuori del mondo strettamente ebraico. Il brano evangelico ricorda che queste e le altre comunità cristiane sono chiamate ad esprimere il comandamento nuovo dell’amore vicendevole. La seconda lettura ci rivela una umanità trasfigurata, la comunità futura, in cui la novità cristiana sarà pienamente realizzata, una comunità in cui “non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno”. Bandito tutto ciò che di negativo avvilisce la vita umana, si apre il rinnovamento messianico in una comunione faccia a faccia con Dio, in una pienezza di vita individuale e comunitaria. La comunità presente e quella futura sono, però, raccordate da un dato comune, l’amore, di cui ci parla Gesù nel brano evangelico. Si diventa cittadini della città futura in forza dell’amore. È per questo che la Gerusalemme celeste ci viene presentata anche sotto il simbolo della “sposa”.  

 

Il vangelo ci propone la prima parte dei “discorsi di addio” di Gesù, in cui egli, come un padre che sta per lasciare i suoi figli, trasmette ai discepoli la sua eredità: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi…”. La vera novità di questo comandamento non è nell’ “amatevi”, ma nel “come io ho amato voi”. L’amore di Gesù per noi è motivo e misura del nostro amore per i fratelli e sorelle. La realizzazione concreta del precetto dell’amore è la comunione, la comunità. Solo allora le parole di Gesù “amatevi gli uni gli altri” cessano di essere una espressione astratta. Possiamo affermare che la qualità del nostro amore è da ricercare nella capacità che noi abbiamo di condividere la nostra vita con quella dei nostri fratelli e sorelle, nella capacità cioè di creare comunione. L’amore di carità però non ha confini e va vissuto con i vicini e i lontani.

 

In ogni caso, però, bisognerà aver presente che la comunità cristiana continua a vivere nella storia e della storia continua a soffrire tutti i limiti e le ambiguità. Il nostro amore su questa terra resterà sempre peccatore, le nostre comunità imperfette. L’amore in questo mondo ha una sua fragilità e un suo limite intrinseci. È necessaria quindi la costanza nel percorrere gli ideali sublimi che ci vengono proposti dalle parole di Gesù. Ma è necessaria anche la speranza affinché non si spenga nel nostro cuore il desiderio di un amore vero, pieno e generoso. Solo così avremo un forte incentivo per crescere giorno dopo giorno nel dono di noi stessi agli altri. La dimensione più evidente dell’eucaristia è quella del convito, aspetto che esprime bene il rapporto di comunione che Dio vuole stabilire con noi e che noi stessi dobbiamo sviluppare vicendevolmente.

domenica 11 maggio 2025

IL MAGNIFICAT

 



Secondo il grande studioso del Magnificat Alberto Valentini, Lc 1,46-55 è una composizione poetica di ringraziamento prelucana, o almeno non lucana, inserita dall'evangelista nel suo racconto. Considerando la particolare struttura del testo, il linguaggio e i temi sviluppati, si pensa che possa trattarsi di una composizione sorta in ambito liturgico, in una comunità ebraico-palestinese delle origini[1].

Già nell'Antica Alleanza, la festa, il ringraziamento e la gioia sono la risposta di tutto il popolo, o di alcuni dei suoi membri, quando Dio interviene in suo aiuto. Tra i canti comunitari ricordiamo quello di Mosè e dei figli d'Israele al passaggio del Mar Rosso (cfr Es 15,1-18) e quello di Maria, sorella di Mosè, con tutte le donne che uscirono dietro di lei con i tamburelli per ballare nella stessa occasione (cfr Es 15,21-22). Tra i singoli cantici, possiamo ricordare anzitutto il cantico di Anna, madre di Samuele (cfr 1 Sam 2,1-10), di cui è evidente la somiglianza con il Magnificat, o anche il cantico di Debora e Barak (Gdc 5,1-31). D'altra parte, la preghiera dei Salmi, che serviva in gran parte al culto liturgico, educava il popolo eletto e ciascuno dei suoi membri a magnificare e rendere grazie a Dio per le meraviglie compiute in loro favore, a cominciare dalla creazione stessa. Lo testimonia il gruppo dei salmi classificati come inni o canti di ringraziamento, individuali (cfr Sal 4,18; 30,32; 34; 40,2-11; 66,92; 116; 118) o collettivi (cfr Sal 124; 129; 135; 136). Il Magnificat è un mosaico di testi tratti dall'Antico Testamento. Nessun verso è originale, ma il risultato lo è. Le pietre sono vecchie, ma la costruzione è nuova. Si tratta di una vera e propria rilettura dell'Antico Testamento.

Nella struttura del testo, il cantico del Magnificat è la risposta di Maria alla lode di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto, perché si adempirà ciò che il Signore ha detto” (v. 45). Maria non nega la lode di Elisabetta, ma la mette nella giusta prospettiva: ciò che sta accadendo è un puro dono della bontà di Dio. Il Magnificat non si rivolge direttamente a Dio con il "tu", ma celebra in modo lirico l'irruzione di Dio nella storia. È impressionante osservare che undici dei quindici verbi che risuonano nel cantico hanno Dio come soggetto. Il cantico si apre con due versetti (vv. 46b-47) in stretto parallelismo che costituiscono l'introduzione all'intero testo. L'anima del Magnificat è la celebrazione della grazia divina, che ha fatto irruzione nel cuore e nell'esistenza di Maria, rendendola la Madre del Signore. Ma questa testimonianza personale non è solitaria. La Vergine Madre è consapevole di avere una missione da svolgere a favore dell'umanità e che la sua storia personale si inserisce nella storia della salvezza dell'umanità. Così può dire: “La sua misericordia va incontro ai suoi fedeli di generazione in generazione” (v. 50).[2]

Il Dio che si rivela nel Magnificat è il Dio degli umili, dei poveri, degli affamati. Nell'esperienza dell'umiltà e dell'esaltazione di Maria c'è la speranza di tutti gli oppressi: l'Onnipotente esalta gli umili, riempie di beni gli affamati (cfr vv. 52 e 53). In queste e in altre azioni divine citate nel Magnificat, è evidente lo "stile" con cui il Signore della storia ispira il suo comportamento: si schiera dalla parte degli ultimi. Maria diventa non solo solidale con tutti loro, ma anche motivo di speranza nella misura in cui l'immensa bontà di Dio si è già manifestata in lei.

Al termine del Magnificat (vv. 54-55), la Vergine, consapevole delle grandi opere che l'Onnipotente aveva compiuto in lei, passa naturalmente da se stessa al suo popolo. Alla relazione tra Dio e il servo segue quella tra Dio e Israele servo. In questo modo, il canto di Maria coinvolge nell'esperienza salvifica tutta la discendenza di Abramo, sulla base delle promesse fatte ai Padri. Il canto della Vergine Maria è una vera e propria rilettura dei grandi interventi di Dio nella storia di Israele; è la celebrazione stessa della salvezza definitiva operata da Cristo; è una profezia radicale di un futuro in cui la vittoria di Dio trasformerà tutte le cose. Si tratta di una negazione radicale della logica del potere che domina la cultura e la società di tutti i tempi. Il Magnificat canta l'utopia del Regno che ha fatto irruzione nella pienezza dei tempi, ma attende ancora al compimento definitivo[3]. Come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, "il Magnificat rappresenta ad un tempo il cantico della Madre di Dio e quello della Chiesa, cantico della Figlia di Sion e del nuovo Popolo di Dio, cantico di ringraziamento per la pienezza di grazie elargite nell'Economia della salvezza, il cantico dei 'poveri' la cui speranza si realizza mediante il compimento delle promesse fatte ai nostri padri, “ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre" (CCC n. 2619).

Alla fine dei tempi sorgerà il grande giorno della speranza, la Pasqua di Cristo e nostra, quella salvezza piena cantata alla fine del libro per eccellenza della speranza, l'Apocalisse. E allora si compirà ciò che san Paolo desidera per i cristiani di Roma: "Il Dio della speranza vi riempia di gioia e di pace, vivendo la vostra fede, perché possiate essere inondati di speranza per la forza dello Spirito Santo" (Rm 15,13).[4] 

 

 



[1] Cfr. Alberto Valentini, Il Magnificat. Genere letterario. Struttura. Esegesi, Dehoniane, Bologna 1987 (copia anastatica 2016), p. 95.

[2] Cfr. Benedetto XVI, discorso all'udienza generale del 15 febbraio 2006.

[3] Cfr. Alberto Valentini, La lode delle generazioni a Maria secondo il Magnificat, en AA. VV, “Tutti mi chiameranno Beata”. L’Onore a Maria nel popolo di Dio (Biblioteca di Theotokos 22), pp. 26-27.

[4] Cfr. Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, p. 222.