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giovedì 31 ottobre 2019

TUTTI I SANTI - 1 Novembre 2019




Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
         
La prima lettura, tratta dall’Apocalisse, propone due visioni di san Giovanni: nella prima, contempliamo la schiera dei santi che si trovano ancora nel tempo del loro pellegrinaggio terrestre; nella seconda, vediamo la moltitudine di quelli che già godono della gloria eterna. Il numero degli eletti è simbolico, ad indicare la pienezza: centoquarantaquattromila, il quadrato di dodici moltiplicato per mille. Esso ha inoltre il carattere dell’universalità; infatti gli eletti o “segnati con il sigillo” provengono da “ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. Nel brano del vangelo viene proclamata una pagina centrale del messaggio di Gesù, il programma di vita che egli propone a coloro che intendono seguirlo: le Beatitudini. È un programma impegnativo; un progetto costruito non secondo i valori del mondo e le possibilità di successo ad essi collegate ma secondo i valori di Dio e i doni che da lui ci vengono offerti gratuitamente. La santità è, come in Cristo, donazione totale dell’essere nella “povertà”, cioè nell’apertura dell’essere intero a Dio, al suo regno e al prossimo.

La santità non è impresa per pochi eroi: tutti “siamo chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Lumen Gentium, n. 40). Il traguardo della santità è per tutti perché, come dice san Giovanni nella seconda lettura, tutti siamo stati oggetto dell’amore di Dio. Infatti la santità è anzitutto il dono di Dio che ci ama e ci si dona nel suo proprio Figlio. Il progetto del Padre è che noi siamo simili all’immagine del Figlio suo Gesù Cristo. In ciascuno di noi è quindi presente il germe della santità; compito nostro è svilupparlo in pienezza per la vita eterna. Al traguardo della santità ci si arriva attraverso un impegno costante, come ricorda san Giovanni: “Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli - cioè Gesù - è puro”. In modo simile, san Paolo afferma: “purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la nostra santificazione, nel timore di Dio” (Secondi vespri, lettura breve: 2Cor 7,1).

Nel Credo professiamo la fede nella “comunione dei santi”. La solennità odierna celebra i santi appunto come nostri “amici e modelli di vita” (prefazio). Cristo è l’archetipo di ogni santità, il santo per eccellenza, anzi il “solo santo”. Coloro che noi chiamiamo santi sono quindi tali nella misura in cui si identificano con Cristo. Nei santi noi possiamo contemplare realizzata in modo multiforme ed esemplare l’immagine di Cristo ed in essi abbiamo degli amici che ci proteggono nel nostro pellegrinaggio e intercedono perché anche noi possiamo raggiungere l’ambito traguardo. 
         
L’eucaristia è la sorgente di ogni santità e il nutrimento spirituale “che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno” verso il traguardo (orazione dopo la comunione).




domenica 27 ottobre 2019

VIVERE L’UMANITA’ DELLA LITURGIA






AA.VV., La liturgia risorsa di umanità. “Per noi uomini e per la nostra salvezza” (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – Sectio pastoralis 39), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2019. 214 pp. (€ 28,00).



La liturgia, azione divina, opus Dei, si dà in un’azione umana (per ritus et preces) e chiede di incarnarsi nel vissuto dei partecipanti, permettendo “il costituirsi della fraternità e sororità ecclesiale nelle sue linee portanti”. Attraverso gesti umani e parole umane, quale azione umanissima, “apre” l’accesso al “mistero” e spinge “in uscita” la Chiesa, abilitando i credenti a porre nel cuore del mondo rapporti autenticamente umani.


Per far ritrovare alla liturgia questa sua specifica identità, col Vaticano II la Chiesa ha promosso una riforma che ha consegnato nelle nostre mani libri liturgici rinnovati, accompagnandoli con l’avvertita esigenza di formazione liturgica. “Oggi – osserva papa Francesco nell’Udienza al CAL dello scorso agosto – c’è ancora da lavorare in questa direzione, in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano”, col conoscere meglio le ragioni sottese, con l’interiorizzare i principi ispiratori e osservandone la disciplina della regola.


Il CAL accoglie con gioia la consegna di papa Francesco e, insieme alla diocesi di Matera che quest’anno ospita la Settimana Liturgica, invita coloro ai quali sta a cuore la vita liturgica a unirsi a noi nell’approfondire la liturgia come “risorsa umana”, come continuazione e attuazione nell’Oggi del Mistero dell’Incarnazione, per alimentare nella Chiesa e nei singoli fedeli la santità vera, “fare come ha fatto Cristo” e lasciarlo agire “nelle nostre opere: che i suoi pensieri siano i nostri pensieri, i suoi sentimenti i nostri, le sue scelte le nostre scelte” (Francesco, Udienza del 04.04.2018). Il credente, nel passaggio dalla celebrazione alla vita, invera l’insegnamento conciliare che “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (GS 41), e si lascia “allargare l’anima con la forza dello Spirito”, per contribuire ad aprire sempre più vasti orizzonti di umanizzazione.


(Quarta di copertina)



Interventi di: Goffredo Boselli, P. Giulio Michelini, Don Pierangelo Muroni, P. Corrado Maggioni, Valeria Trapani, Don Luca Palazzi, P. Raniero Cantalamessa.

sabato 26 ottobre 2019

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 27 Ottobre 2019




Sir 35,12-14.16-18; Sal 33 (34);  2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

C’è una certa continuità tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che Dio è giusto; non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può essere né comprato, né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli esaudisce chi con umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea: il pubblicano, che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato; il fariseo, che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene invece giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al termine della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al Signore, giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui viviamo esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno raggiunto denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a diventare i modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è il povero, l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di valutazione appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli guarda il cuore dell’uomo.          

Il vangelo di questa domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non presumere, a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri meriti. Siamo tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione, cioè la salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre risorse di creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che viene dalla misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è figlio di Dio per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato rigenerato dall’alto mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è dono, tutto è grazia. San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che è (1Cor 15,10). D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere il dono di Dio, dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama in causa l’uomo che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di Dio. Infatti, la giustificazione non è un atto magico che avviene ineluttabilmente ma una azione che inserisce la nostra libertà in una situazione nuova originata dal dono di Dio.

L’eucaristia è la mensa alla quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al convito del regno di Dio (cf Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla comunione proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato” (cf Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del Risorto e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.



domenica 20 ottobre 2019

LA CRISI DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA


 

Andrea Grillo – Daniela Conti, Fare penitenza. Ragione sistematica e pratica pastorale del quarto sacramento (Comunità cristiana: Linee emergenti, Nuova serie), Cittadella Editrice, Assisi 2019. 248 pp. (€ 17,50).

 

I due Autori ci offrono due contributi complementari: una teologia del sacramento esaminata nella sua complessità e restituita alla sua essenzialità, in vista di una pratica coerente (Grillo); un quadro realistico della prassi pastorale del quarto sacramento e in particolare della “prima confessione” (Conti).

 

La Chiesa ha molti modi di “fare penitenza”, ma il “sacramento della penitenza” ha assorbito gradualmente tutta l’esperienza penitenziale, identificando di fatto, almeno negli ultimi tre secoli, la “penitenza della Chiesa” con la “assoluzione sacramentale”. Non vi è dubbio che il sacramento della penitenza conosce oggi una certa crisi non solo di quantità, ma anche di qualità. Tuttavia la diminuzione di coloro che lo frequentano non significa automaticamente una crisi di senso.

 

Il sacramento della penitenza deve essere considerato come una via non ordinaria di esercizio della penitenza. Il battesimo e l’eucaristia abilitano a vivere la riconciliazione con l’esercizio ordinario della penitenza. Questa penitenza non ha bisogno di “altri” sacramenti al difuori del battesimo e della eucaristia. Se però il cristiano cade nel peccato grave, allora il battesimo e l’eucaristia conoscono una grave crisi. A tale crisi rimedia il sacramento della penitenza, riabilitando il cristiano all’esercizio del proprio battesimo nella comunione eucaristica. La penitenza in questo caso si fa “sacramento” diverso dall’eucaristia, perché deve rimediare ad una grave crisi di appartenenza ecclesiale. Questo non significa che il IV sacramento risulti strutturalmente ridimensionato: esso viene invece pienamente valorizzato perché ricondotto alla sua funzione più propria.

 

La prassi della confessione previa alla prima comunione induce a ritenere che il sacramento della penitenza sia un sacramento dell’Iniziazione, finalizzato a far sì che il fanciullo possa vivere in pienezza la comunione con Cristo e con la Chiesa nell’eucaristia, e non un sacramento della guarigione, il cui fine è ri-portare alla comunione piena perduta a causa del peccato. Ponendo necessariamente il IV sacramento nel normale passaggio tra battesimo ed eucaristia risulta difficile cogliere l’unitarietà dei sacramenti dell’Iniziazione e si alimenta l’idea che il IV sacramento sia sempre necessario per fare la comunione, inducendo una minor frequenza all’eucaristia o una eccessiva frequenza alla confessione ridotta ad un atto puramente necessario.

 

Ho riassunto ciò che mi pare la sostanza di quanto i due Autori sviluppano con chiarezza e competenza. È un volume che deve far riflettere sia ai teologi che agli impegnati nella vita pastorale.

 

M. Augé


venerdì 18 ottobre 2019

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Ottobre 2019



Es 17,8-13°; Sal 120 (121); 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8

La parabola della vedova e il giudice parla di un preghiera perseverante, continua, assidua. La preghiera assidua non consiste nel moltiplicare le parole (“Quando pregate, non sprecate parole come i pagani…”). La perseveranza nella preghiera non è ripetizione meccanica di parole. Perseverare nella preghiera significa fidarsi di Dio sia quando ci ascolta sia quando sembra ignorarci.

Nella parabola, la figura principale non è la vedova, ma il giudice. In primo piano non è l’insistenza della vedova, ma la prontezza di Dio nel fare giustizia.

L’espressione “fare giustizia” ricorre quattro volte nella parabola e può essere presa come parola chiave per la sua interpretazione. Nella Bibbia la vedova è il prototipo della persona indifesa, debole, povera, e può essere quindi simbolo di tutti i poveri che domandano giustizia. Se Dio è buono perché l’ingiustizia trionfa nel mondo? Se Dio è della nostra parte, perché non ascolta le nostre preghiere? Gesù ci assicura comunque che l’intervento di Dio è certo. Il vero problema – conclude sorprendentemente Gesù – non è l’intervento di Dio, ma la nostra fede: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” 

Non si tratta quindi di una efficacia meccanica della preghiera, quasi che il pregare fosse un’attività magica. La preghiera è anzitutto un’esperienza profonda di fede e di fiducia in Dio. Poi quando Gesù ci esorta a “pregare sempre, senza stancarsi”, a “gridare” e “importunare” non intende indurci a pregare per ottenere favori casuali. Egli ci spinge a pregare perché il regno di Dio si compia, come ci ricorda il Padrenostro: “Venga il tuo regno” (Mt 6,33). Tutte le suppliche, anche quelle dirette alla propria salvezza personale, mirano in ultimo termine alla venuta del regno di Dio, nel quale la nostra individualità è inserita senza nel contempo scomparire, e il cui arrivo porta con sé il nostro essere salvati.



domenica 13 ottobre 2019

IL LINGUAGGIO LITURGICO




Il linguaggio liturgico è codificato e disciplinato dai libri liturgici, sottratto cioè al sentire del momento e della moda mutevole. Tuttavia non è asettico né anonimo. E’ come uno spartito di musica, preciso in ogni nota scritta, che deve essere “interpretato” ogni volta che viene eseguito dal vivo, sapendo che l’esegesi del mistero celebrato è la vita di chi vi partecipa. E’ pertanto un linguaggio creativo pur essendo “rituale”, ossia ripetitivo, identico a se stesso nelle preghiere, nei gesti, nelle azioni.


Il motivo della codificazione dei contenuti si comprende presto: è un linguaggio che non sorge dalla fantasia umana, quanto dalla divina rivelazione. Preghiere e riti sono infatti ispirati e fondati nella sacra Scrittura, che a sua volta è la codificazione scritta dell’incessante dialogo che Dio intrattiene con l’umanità, di generazione in generazione. L’esigenza sottesa al codificato linguaggio liturgico è sintetizzata nell’assioma lex orandi – lex credendi e viceversa: non esprime infatti l’opinione di qualcuno, ma la fede della Chiesa e la sua autentica comprensione teologica.


Che sia poi un linguaggio disciplinato è conseguenza oggettiva di ciò che rappresenta il linguaggio liturgico. L’agire comunitario comporta naturalmente un ordo su cosa fare, come farlo, chi fa che cosa e quando. Non è un fare tutti la stessa cosa né a proprio modo, ma è un unico corpo armonico a reagire nella complementarietà di funzioni diverse: ciascuno svolge il suo ruolo e tutti partecipano attivamente. Animata dall’inesauribile creatività dello Spirito, la liturgia è, al contempo, disciplinata da norme che la sottraggono al disordine dell’anarchia.




Fonte: Corrado Maggioni, “Linguaggi umani e linguaggio liturgico”, in AA.VV., La liturgia risorsa di umanità. “Per noi uomini e per la nostra salvezza” (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae” – Sectio pastoralis 39), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2019, pp. 96-97.

venerdì 11 ottobre 2019

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Ottobre 2019



2Re 5,14-17; Sal 97 (98); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

La prima lettura ci riferisce della guarigione di Naamàn, un ufficiale siro non appartenente al popolo di Israele, che riconosce l’opera della salvezza compiuta dal Signore in lui. Il brano della lettera a Timoteo riporta la testimonianza di san Paolo in catene per il vangelo, che esclama: “sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza”. In fine, il vangelo racconta che dei dieci lebbrosi guariti da Gesù solo un samaritano, uno straniero, dopo la guarigione, torna indietro a ringraziare il Signore che gli dice: “La tua fede ti ha salvato”. Il messaggio è chiaro: anche gli “esclusi” ed i “non privilegiati”, come i lebbrosi e gli stranieri sono chiamati a godere dei benefici della salvezza

Il vangelo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). Tutti sono chiamati alla fede e quindi alla salvezza. Diciamo di vivere nel tempo della globalizzazione. I nostri problemi sono i problemi degli altri, vicini e lontani. I moti migratori fanno sì che le nostre città siano diventate sempre più eterogenee, multiraziali. Parliamo di “extracomunitari”, ma in fondo sappiamo che tutti siamo membri di una grande e unica comunità umana. Il momento storico che stiamo attraversando può divenire il grande segno che Dio chiama tutti a creare un mondo riconciliato, unito nella diversità, armonioso e pacifico, in cui uomini e donne di diverse razze e popoli si ritrovino tutti fratelli e sorelle, figli e figlie di Dio e riconoscano in Gesù Cristo il loro Salvatore. Se la salvezza è per tutti i popoli, dobbiamo guardare i fenomeni odierni con serenità e aprirci alla speranza. Al di là dei problemi che possa creare l’attuale situazione, il cristiano deve saper scorgervi il disegno salvifico di Dio. Chiudersi in se stessi egoisticamente non è da credenti. Con questi nostri fratelli “non ci stanchiamo mai di operare il bene” (colletta), quel bene che diventa segno del bene supremo della salvezza che Dio offre a tutti.

L’eucaristia è “espressione perfetta della nostra fede” (orazione sulle offerte). Essa ha quindi una dimensione ecumenica e missionaria. Nell’eucaristia entriamo in comunione con Cristo che ha dato se stesso per noi e per tutti gli uomini fino al sacrificio di sé. Inoltre, partecipando al sacrificio eucaristico rinsaldiamo la nostra unità come Chiesa: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16-17). Analogamente, forti dell’amore del Signore che ci viene offerto e comunicato, siamo chiamati a fare dono di noi stessi ai nostri simili, a tutti gli uomini, per ricreare un tessuto di solidarietà e di comunione nella nostra società.

domenica 6 ottobre 2019

IL MISTERO



 

Viviamo in un mondo troppo pieno, troppo veloce. Dove ogni momento è saturo e ogni luogo connesso. Senza silenzio, senza vuoto. Senza vie d’uscita. Eppure, al di là delle pretese del tempo che viviamo di riempire tutto ciò che sta attorno a noi (e in noi), con la presunzione di colmare ogni attesa, l’uomo contemporaneo si sente ancora interrogato da una mancanza. Da un vuoto che non è angosciante ma creativo e promettente. Da un’essenziale inquietudine che è anche un’apertura. Lo dice bene il poeta fiorentino Mario Luzi: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che ad un tratto ne sei pieno?”

 

Non dunque “l’uomo misura di tutte le cose”. Ma la dismisura come misura dell’uomo.

 

Etimologicamente, contemplare (cum – templum) significa immergersi in uno spazio libero e vasto. È il modo che l’uomo ha imparato per lasciarsi interrogare da quella mancanza di cui siamo fatti. Che non è semplice carenza da riempire, ma desiderio di ulteriorità e capacità di eccedenza. Un desiderio che non possiamo colmare da soli.

 

Lucan associa il desiderio allo sconcerto. A una sorpresa che insieme sconvolge e riattiva la vita. Così, attraversare la mancanza, non solo come inquietudine, ma anche come mistero e grazia, significa essere custodi della trascendenza, come condizione per tenere insieme la mancanza con la pienezza, il limite con l’eccedenza, il visibile con l’invisibile, la realtà particolare con la sua proiezione universale.

 

Fonte: Chiara Giaccardi – Mauro Magatti, La scommessa cattolica. C’è ancora un nesso tra il destino delle nostre società e le vicende del cristianesimo?, Il Mulino, Bologna 2019, pp.139-140.


venerdì 4 ottobre 2019

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Ottobre 2019



 Ab 1,2-3; 2,2-4; Sal 94 (95); 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10.

La fede è centrale nel processo di ricezione della salvezza, che giunge a noi come annuncio, come parola, come buona notizia che per essere ricevuta dev’essere creduta. “A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente” (Dei Verbum, n. 5). La fede si attua come un gratuito e libero incontro tra Dio che si comunica e l’uomo che accoglie la sua autocomunicazione aprendosi all’azione di Dio. La fede non è credere in qualcosa, ma credere in qualcuno, in Dio salvatore. Nell’evento della nostra salvezza, l’iniziativa è sempre di Dio. La fede è quindi anzitutto un dono. Non a caso il vangelo d’oggi inizia con la supplica degli apostoli a Gesù: “Accresci in noi la fede!”. La risposta di Gesù è immediata e, come al solito, sconcertante: “Se aveste fede quanto un granello di senapa, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe”.

Ecco quindi che Gesù proclama la potenza salvatrice della fede. Gli fa eco san Giovanni quando afferma che la vittoria che ha sconfitto il mondo è la nostra fede (1Gv 5,4). Ma questa fede che, anche se minuscola, è capace di sradicare e trapiantare nel mare un gelso, albero gigante dalle radici difficilmente sradicabili, non è da confondersi con una tecnica con cui ottenere effetti prodigiosi come lo spostamento di una montagna o il radicamento di un albero nelle acque del mare. La potenza della fede di cui parla Gesù è la potenza di Dio che si manifesta e si sprigiona nella vita di noi credenti. La fede lascia passare sempre e solo l’azione di Dio attraverso di noi; non costringe Dio a fare quello che vogliamo noi ma permette a noi di fare quello che vuole Dio. Infatti, Gesù parla in seguito del servo che “ha eseguito gli ordini ricevuti”.

La lettura apostolica ci invita a dare una coraggiosa testimonianza della nostra fede. E la prima lettura, tratta dal libro di Abacuc, conclude affermando che colui che non ha l’animo retto soccombe, mentre “il giusto vivrà per la sua fede”. La parola “fede”, nella lingua semitica in cui si esprimeva Gesù, significa fermezza e certezza, sicurezza e fiducia. La fede non ha niente a che fare con l’angustia degli orizzonti. La fede non intimidisce, non riduce la voglia di vivere e di crescere che c’è in ognuno di noi ma apre a questa nuovi ed insospettabili orizzonti.

L’eucaristia è “Mistero della fede”. Lo proclamiamo in ogni Messa. La fede e i sacramenti sono due aspetti complementari della vita ecclesiale. Suscitata dall’annuncio della Parola di Dio, la fede è nutrita e cresce nell’incontro di grazia col Signore risorto che si realizza nei sacramenti, in modo particolare nell’eucaristia.