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venerdì 31 marzo 2017

DOMENICA V DI QUARESIMA ( A )


 

Ez 37,12-14; Sal 129 (130); Rm 8,8-11; Gv 11,1-45

 
Anche se il Sal 129 (De profundis) è stato spesso ridotto al rango di un canto funebre, esso è invece uno splendido inno alla gioia del perdono e quindi alla vita. Con le parole toccanti di questo salmo intere generazioni hanno espresso la loro fiducia e la loro speranza nell’eterna misericordia di Dio. Nell’angosciosa solitudine a cui ci riduce il peccato, questa preghiera apre uno spiraglio di luce, aiuta ad intraprendere il faticoso cammino di conversione per tornare a Dio, infonde speranza e suscita attesa di salvezza.

 
Questa domenica contiene un messaggio unitario, un messaggio di vita, di quella vita nuova che, ricevuta nel battesimo, si rinnova continuamente nel processo di conversione e nel segno sacramentale della riconciliazione. La vita promessa da Dio agli esuli a Babilonia attraverso gli oracoli del profeta Ezechiele, di cui parla la prima lettura, e concretamente offerta a Lazzaro nell’ultimo dei miracoli di Gesù narrato da san Giovanni nel vangelo d’oggi, è simbolo e profezia di questa vita nuova. Si tratta della stessa vita di cui parla san Paolo nella seconda lettura, una vita che è frutto della giustificazione. E’ questa l’interpretazione che fa il testo del prefazio della messa: Cristo, Dio  Signore della vita, che richiamò Lazzaro dal sepolcro, “oggi estende a tutta l’umanità la sua misericordia, e con i suoi sacramenti ci fa passare dalla morte alla vita”.

 
Nel lungo brano del vangelo d’oggi, il centro di tutto il racconto non è tanto la descrizione del miracolo della risurrezione di Lazzaro, quanto l’autoproclamazione di Gesù che dice: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. La risurrezione di Lazzaro è quindi segno e garanzia di una realtà di vita più sublime: Gesù promette una vita che va aldilà della morte. Anche Lazzaro, dopo la risurrezione miracolosa operata da Gesù, rimarrà sottoposto alla legge della morte biologica. Non è questa però che ci deve spaventare. La vera morte è quella di colui che non accoglie il messaggio di Gesù e, chiudendosi nel suo peccato, rende vana l’azione di Dio che offre la salvezza attraverso suo Figlio. Oltre la morte del nostro corpo, c’è ancora la vita, c’è la risurrezione. Questa vita definitiva non è solo una realtà futura, è già inizialmente presente in noi e cresce nella misura in cui siamo fedeli agli impegni del battesimo col quale siamo stati introdotti nel regno della vita vera e definitiva.

 
La Scrittura compara il peccato alla morte. Così anche san Paolo ci ricorda oggi che il “corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia”. Possiamo spiegare questa affermazione con altre parole: nel corpo morto a causa del peccato viene ad abitare mediante la fede e il battesimo lo Spirito che è vita, cioè un nuovo dinamismo interiore che attinge alla forza di Dio e ci libera dalla tirannide del peccato e della morte. Dobbiamo quindi interrogarci su questa “vita” che è in noi, la vita dello Spirito, la quale è già vita definitiva e risorta che culminerà alla fine nella risurrezione dei nostri corpi. Se veramente crediamo in questo mistero che è in noi, la nostra esistenza si aprirà al dono di Dio e cercherà di sintonizzare sulla sua santa volontà. La parola di Dio in questa domenica di Quaresima ci invita ad aprire il sepolcro dei nostri egoismi, delle nostre cattiverie, del nostro peccato, affinché possa irrompere in noi la vita di Cristo.

 
L’eucaristia è nutrimento e garanzia di questa vita. Ha detto Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).

domenica 26 marzo 2017

DIGIUNARE PER MANGIARE


 

Essere dispensati dal digiuno era una grande felicità, nei tempi antichi. Una ferrea disciplina aveva creato logiche di alternanza tra digiuno e pasto. Anche le pratiche sacramentali avevano a lungo risentito delle ‘normative del digiuno’, che avevano segnato opere e giorni, tempi e consuetudini. Per esempio le norme sul digiuno eucaristico avevano praticamente escluso ogni celebrazione eucaristica pomeridiana e notturna. Il digiuno, però, se riconsiderato al di là della sua logica disciplinare nella sua verità complessa, più che negare il pasto, lo prepara e lo celebra.

Digiunare non è il lato spirituale di ciò che materialmente è pasto. Piuttosto il digiunare è preparazione, attesa, desiderio del pasto festivo. Siamo spirituali più mangiando che digiunando. Questo è vero fin dalla contrapposizione tra un Giovanni Battista che digiuna e un Gesù che mangia. Le cose migliori Gesù le compie e le dice a tavola. La Quaresima è pasquale anche in questo senso: predispone in anticipo lo spazio festivo di un mistero che si celebra prima per tre giorni – ancora in una logica di pasto/digiuno – e poi per sette settimane di banchetti eucaristici, fino a Pentecoste.

(Andrea Grillo, Iniziati alla Pasqua. Meditazioni per la Quaresima, Queriniana 2017, 67-68)

venerdì 24 marzo 2017

DOMENICA IV DI QUARESIMA ( A )


 
1Sam 16,1b.4a.6-7.10-13°; Sal 22 (23); Ef 5,8-14; Gv 9,1-41


Il Sal 22 è un bellissimo poema di alta ispirazione lirica che parla di comunione è di intimità tra Dio e l’uomo. L’affermazione centrale del salmo è “perché tu sei con me”. Più in particolare, questo Dio che ci è vicino è contemplato come colui che guida (come il pastore guida il suo gregge), e come colui che offre ospitalità. Nella persona di Gesù, il Dio che fu Pastore e Ospite di Israele, si è fatto incontro agli uomini con un volto umano e con amore e bontà al di sopra di ogni misura. Il Signore Gesù è per ognuno di noi Pastore e Ospite divino; egli ci conosce per nome, ci accompagna nelle asprezze e avversità del nostro pellegrinaggio e ci fa partecipi dei beni di Dio suo Padre. Nel Battesimo, nella Confermazione e nell’Eucaristia, Egli porta a compimento l’opera della salvezza per condurci al pascolo e al banchetto eterno.

Il racconto della guarigione del cieco nato operata da Gesù e riportata dal brano evangelico odierno è un miracolo in due tempi caratterizzati da due incontri dell’uomo cieco con Gesù: nel primo incontro Gesù, dopo aver spalmato del fango sugli occhi del cieco, lo invia a lavarsi alla piscina di Siloe. Quegli va, si lava e torna che ci vede. L’uomo ormai guarito della cecità ha un secondo incontro con Gesù. Questo nuovo incontro è collocato alla fine di un itinerario di prove e di incomprensioni che porta il nostro uomo a riscoprire un’altra luce, quella di Cristo che egli esprime con la professione di fede: “Credo, Signore”, e con il gesto dell’adorazione: “E si prostrò dinanzi a lui”. Nel racconto di san Giovanni, il dono della vista del corpo è simbolo del dono della fede. Notiamo che nei due casi è Gesù che ha l’iniziativa: è lui che, passando, vede il cieco; ed è ancora lui che, avendo saputo che era stato cacciato dai farisei, lo incontra per guidarlo alla fede.

San Paolo ci ricorda nella seconda lettura che non basta incontrare la luce della fede in Cristo. Essa deve permeare la nostra vita. Se siamo stati illuminati con la luce della fede, dobbiamo comportarci “come i figli della luce”, il cui frutto “consiste in ogni bontà, giustizia e verità”. Si tratta di tre dimensioni che abbracciano l’intera esistenza umana. Da parte sua, la prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, illustra le caratteristiche che deve avere lo sguardo del credente. C’è modo e modo di vedere; c’è un vedere che si ferma alla superficie delle cose e degli avvenimenti, e un vedere che va oltre le apparenze. Nella scelta di Davide, il più piccolo dei figli di Iesse, si manifesta il criterio della fede. Dice il Signore a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”.

Il racconto della guarigione miracolosa del cieco nato, ci fa capire che la fede è un itinerario. Il cieco, come il catecumeno, arriverà ad essa per tappe. Possiamo e dobbiamo quindi approfondire sempre di più il nostro incontro con Cristo. Si tratta di un itinerario impegnativo. Confessare la propria adesione a Cristo può comportare l’opposizione del mondo, come nel caso del cieco nato, che non viene difeso neppure dai suoi parenti ed è escluso dalla comunità. Questo itinerario laborioso e impegnativo lo si compie guidati dallo stesso Cristo che, per primo, si rivela a noi. Illuminati dalla luce che è Cristo, la nostra esistenza diventa luminosa e siamo capaci di interpretare le vicende della vita con gli occhi della fede. L’Eucaristia a cui partecipiamo è “mistero della fede”. Il cammino di fede iniziato nel Battesimo ci conduce all’Eucaristia, come al suo termine logico. E’ nell’Eucaristia che viviamo in pienezza il nostro incontro con Cristo luce del mondo.

 

martedì 21 marzo 2017

CONVERSI AD DOMINUM



 

“Oggi si insiste tanto sul fatto che la celebrazione dell’Eucaristia deve avere un orientamento, e questa urgenza va assolutamente accolta, ma con intelligenza: conversi ad Dominum può solo significare innanzitutto essere tesi verso l’alto (‘cercare le cose dell’alto, dove si trova Cristo alla destra di Dio’: Col 3,1), ma anche essere tesi in avanti, essere pronti ad andare incontro all’erchómenos, il Signore veniente (cfr. Mt 25,1.6). Non è una questione topografica ma esistenziale, dovuta a una consapevolezza teologica e spirituale…”

Enzo Bianchi, in Il Vangelo celebrato (Dimensioni dello Spirito), San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, pp. 255-256.

domenica 19 marzo 2017

IN GINOCCHIO


 

La preghiera in ginocchio è necessaria quando uno sta accusandosi dei propri peccati davanti a Dio, pregando per la guarigione e la remissione di essi. Richiama l’immagine di Paolo che, prostrato e sottomesso, dice: “Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra” (Ef 3,14-15).

(Origene, La preghiera 31,3)

venerdì 17 marzo 2017

DOMENICA III DI QUARESIMA ( A )


 
Es 17,3-7; Sal 94 (95); Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

Il Sal 94 evoca l’evento centrale della storia biblica dell’Antico Testamento: la nascita di Israele nel deserto dopo la liberazione offerta da Dio nell’esodo dall’Egitto. Ebbene, in quegli inizi il popolo di Israele si mostrò ripetutamente ribelle al Signore e per questa sua insubordinazione è stato punito da Dio. Nel nostro pellegrinaggio dall’Egitto di questo mondo alla terra promessa della gloria, si rinnova per noi in modo misterioso l’esperienza dei quarant’anni del deserto. Siamo perciò esortati anche noi ad ascoltare la voce di Dio e a non indurire i nostri cuori come fece Israele nel deserto. Questa voce di Dio è portatrice della sua parola che in questo periodo dell’anno liturgico ci viene rivolta come invito ad una autentica conversione. La parola di Dio che risuonava nel deserto per mezzo di Mosè, risuona ora e definitivamente nella storia per mezzo di Cristo; anzi è lui la Parola fatta carne.

La liturgia di questa domenica e delle due successive ci invita a rivivere le grandi tappe attraverso le quali i catecumeni erano (e sono) condotti alla riscoperta delle esigenze profonde della conversione a Cristo per mezzo dei simboli dell’acqua, della luce e della vita. In questa domenica ci viene proposta l’immagine di Gesù come acqua viva capace di dissetare ogni desiderio umano e di donare la vita piena ed eterna a coloro che chiedono di attingere alla sua fonte.

La sete di Israele nel deserto, di cui parla la prima lettura, e la sete di Gesù a Sicar, di cui parla il brano evangelico, ci illustrano il tormento dell’umanità che cerca la verità, che cerca Dio. Nel dialogo con la Samaritana Gesù promette un’acqua che disseta per sempre. Attraverso l’immagine dell’acqua viva, cioè di sorgente, Gesù intende sottolineare la sua capacità di comunicare all’uomo reali valori di vita, che siano in grado di salvarlo. Infatti, la sete, come la fame e forse di più, oltre ad essere uno specifico bisogno corporale dell’uomo, rappresenta un “simbolo” totalizzante dei diversi e numerosi desideri e aspirazioni dell’uomo. In ciascuno di noi ci sono molteplici desideri, bisogni, aspirazioni. Si potrebbe dire che la nostra vita è fatta più da desideri che da realtà possedute. Ci portiamo dentro un vuoto che non riusciamo a riempire. Naturalmente, non è sbagliato avere dei desideri; sbagliato è restringere i desideri del nostro cuore a oggetti troppo limitati, meschini. Dio ci offre un dono, l’unico in grado di appagare la nostra sete di felicità.

Gesù ci toglie la nostra sete rinnovando i rapporti interpersonali, insegnandoci la verità del nostro rapporto con Dio e donandoci lo Spirito che rende autentici l’uno e gli altri. La vita e la salvezza che dona Gesù cresce in noi nella misura in cui accogliamo la sua parola. D’altra parte, l’Apostolo Paolo ci ricorda, nella seconda lettura, il carattere assolutamente gratuito del dono della salvezza, da noi immeritata, ma ora a nostra piena disposizione se accolta nella fede. Nel dialogo con la Samaritana, Gesù cerca di condurre la sua interlocutrice a questa stessa consapevolezza quando le dice: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere!...” Conoscere il dono di Dio significa che al di là dei nostri bisogni immediati e dei nostri desideri c’è qualcosa di più grande che possiamo solo ricevere come un dono dalla mano di Dio.


La sete di salvezza si soddisfa nell’Eucaristia. San Giovanni Crisostomo afferma: “Mosè percosse la roccia e ne ricavò torrenti d’acqua, (Cristo) tocca la mensa eucaristica, batte la tavola spirituale e fa scaturire le fonti dello Spirito” (Catechesi II).

domenica 12 marzo 2017

INIZIATI ALLA PASQUA


 
Andrea Grillo, Iniziati alla Pasqua. Meditazioni per la Quaresima (Meditazioni 230), Queriniana, Brescia 2017. 95 pp.

Con riflessioni tutt’altro che scontate, l’autore progetta di restituire nuova dignità simbolica e rituale al tempo di Quaresima. Si capisce che la Quaresima non è fenomeno esclusivamente interiore e individualistico se si attraversano con sapienza le sue diverse “regioni sensibili”: il peso e la sfida della tradizione; la necessità di iniziare alla Pasqua; la centralità del ruolo di Cristo e della Chiesa; le ricchezze della parola di Dio, cantiere di nuove domande; i percorsi corporei delle pratiche rituali che risuonano come provocazioni.

E così le tre classiche forme della “devozione quaresimale” – cioè la penitenza, la preghiera e il digiuno – vengono illuminate e ripensate dall’ascolto della Parola e soprattutto dalla celebrazione liturgica. La sfida diventa quella di vivere la preghiera come “parola non-indifferente”, di recuperare la penitenza come “cambiamento di vita”, di incarnare il digiuno e l’elemosina come “relazione finalmente sciolta” con i beni e con la libertà, con la sessualità e con la fame.

E questo farà sì che la Quaresima sporga definitivamente sui giorni del Triduo pasquale, iniziandoci al nostro transitus.

 

(Quarta di copertina)

sabato 11 marzo 2017

DOMENICA II DI QUARESIMA ( A )

 

Gen 12,1-4°; Sal 32 (33); 2Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9

 Il Sal 32 canta la gloria di Dio, signore della creazione e della storia. L’uomo biblico non vede l’universo come semplice “natura” ma come realtà “creata”, e la storia non la considera come ineluttabile “destino” ma come “progetto” di Dio in cui l’uomo è chiamato a collaborare. Dio è fedele alle sue promesse. Chi confida in lui non deve temere il caos, perché “Egli è nostro aiuto e nostro scudo”. Perciò il ritornello ci invita a ripetere: “Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo”. Nel cammino di conversione iniziato con la Quaresima, questo salmo ci esorta ad aprire il cuore alla speranza fondata sulla certezza che Dio è con noi per confortare i nostri passi incerti e timorosi sulla strada del Vangelo di Gesù e liberarci da tutto ciò che conduce alla morte.

La prima lettura ci propone la figura del patriarca Abramo, chiamato da san Paolo “padre di tutti i non circoncisi che credono” (Rm 4,11). Il Signore si rivolge al santo patriarca e gli dice: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò...” Abramo obbedisce all’ordine divino. Egli ha il coraggio di rompere con le proprie sicurezze per rischiare un futuro umanamente incerto. La Lettera agli Ebrei dice che Abramo partì per fede “senza sapere dove andava” (Eb 11,8). La forza per intraprendere questo cammino di fede, nel quale non sono assenti le oscurità, gli viene  dalla fiducia che ha nella parola di Dio. Anche noi, come Abramo, siamo chiamati a manifestare la nostra fiducia nel Signore sradicandoci giorno per giorno dalla terra del nostro egoismo, dalle proprie idolatrie, per metterci sulla strada di un’altra terra, quella indicata da Dio. Possiamo dire che è anche questo il senso del digiuno a cui la Chiesa ci invita durante la Quaresima: siamo chiamati a compiere dei gesti che ci liberino dalle nostre debolezze e ci rendano più disponibili a compiere nuovi passi nel cammino della coerenza evangelica.

Il brano del vangelo può essere interpretato nella stessa prospettiva. Domenica scorsa abbiamo visto Gesù uscire vittorioso dalle insidie del tentatore perché si è fidato di suo Padre, perché non ha avuto paura di sottomettere la propria libertà, i propri progetti alla volontà e al progetto di Dio su di lui. Tutto ciò significa, implicitamente, per Gesù iniziare il cammino verso la passione. L’esperienza della trasfigurazione che ci narra il vangelo è da leggersi in questo contesto. La meta del cammino intrapreso da Gesù è la risurrezione, di cui la trasfigurazione è anticipo, ma la strada passa attraverso l’esperienza dolorosa della passione e della morte. Questa è la verità che Gesù intende far capire ai tre discepoli che l’hanno accompagnato. Perciò, dopo averli resi testimoni della gloria della trasfigurazione, Egli annuncia la sua morte e risurrezione. Nella seconda lettura, san Paolo ci rassicura: nella vita dobbiamo fare i conti con la sofferenza e anche con la morte, ma non sono queste le realtà che avranno il sopravvento. Grazie a Cristo, Dio ci chiama e ci dona l’immortalità: Cristo Gesù “ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità...”  E in un’altra parte, lo stesso Apostolo ritiene che “le sofferenze del momento presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18 – cf. Ufficio delle letture: seconda lettura tratta dai Discorsi di san Leone Magno).

La conversione  è un cammino verso una vita rinnovata ad immagine di Cristo risorto. In questo cammino ci guida la luce della stessa parola di Gesù, a cui il Padre ci ha detto di ascoltare: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!” (canto al vangelo - cf. Mc 9,7), e ci nutre l’Eucaristia, cibo del nostro pellegrinaggio (cf. orazione dopo la comunione).

martedì 7 marzo 2017

Colletta del Mercoledì della I Settimana di Quaresima


 

Devotionem populi tui, quaesumus, Domine, benignus intende, ut, qui per abstinentiam temperantur in corpore, per fructum boni operis reficiantur in mente” (Missale Romanum, tertia editio typica 2002/2008, p. 212). Fonte: Sacramentario Gelasiano di Angoulême, secolo VIII/IX.

“Guarda, o Padre, il popolo a te consacrato,  e fa’ che mortificando il corpo con l’astinenza si rinnovi nello spirito con il frutto delle buone opere” (testo ufficiale in italiano).

“Guarda benigno, ti preghiamo, Signore, alla pietà del tuo popolo, perché coloro che con l’astinenza si moderano nel corpo, dal frutto delle buone opere siano nutriti nell’anima” (Versione a cura di Maria Francesca Teresa Lovato della Comunità di Monteveglio, Messale Romano. Le orazioni proprie del tempo, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 1991, p. 153)

“Señor, mira complacido a tu pueblo que desea entregarse a ti con una vida santa; y a los que moderan su cuerpo con la penitencia transfórmales interiormente mediante el fruto de las buenas obras” (Versione del Messale in lingua spagnola).

In questo testo ci sono due parole che fanno un po’ di problema al traduttore:

devotio”. Sia la traduzione ufficiale italiana sia quella spagnola cercano di esprimere la ricchezza di questa parola; che racchiude il concetto di consacrazione o dono di sé. La Lovato invece traduce “pietà”; e in questo modo impoverisce il contenuto del termine latino.,

 “mens” è tradotta con le parole “spirito”, “anima”, “interiormente”.

domenica 5 marzo 2017

GESÙ E LE DONNE


 
Enzo Bianchi, Gesù e le donne, Einaudi, Torino 2016. 126 pp.

Enzo Bianchi, fondatore della Comunità monastica di Bose, in questo volumetto ci offre una bellissima riflessione sul rapporto tra Gesù e le donne presenti nella sua vita e nel suo ministero. Da profondo conoscitore delle Sacre Scritture, l’Autore, dopo un’analisi sommaria della cultura del tempo di Gesù, essenzialmente patriarcale, si propone di illustrare come Gesù si sia collocato in rapporto alle donne e alla loro condizione. Non prende in esame la figura di Maria, madre del Signore, il cui ruolo nella storia della salvezza resta unico. L’opera è divisa in due parti: Gesù e le donne nei Vangeli sinottici (pp. 17-68); Gesù e le donne nel quarto Vangelo (pp. 69-124).

L’entourage di Gesù, secondo Luca (8,1-3), era costituito dai Dodici e alcune donne. Anzi, secondo Matteo (27,55), tra i seguaci di Gesù vi erano “molte donne”. Anche se nei vangeli non è mai attestato il termine “discepola/discepole”, Gesù tratta alcune donne alla stregua di vere discepole. E’ un fatto che comporta una rottura che Gesù compie con la tradizione, perché in quel tempo era inaudito che delle donne seguissero un rabbì, un maestro. La partecipazione di queste donne alla vita comune del gruppo dei discepoli è sicura e il loro aiuto alla missione di Gesù è reale e chiaramente riconosciuto.

Di alcune delle donne che seguivano Gesù conosciamo il nome, ma Gesù ha avuto anche incontri casuali con diverse donne anonime. Nei vangeli sinottici è narrata una decina di questi incontri. Enzo Bianchi analizza gli incontri di Gesù con la donna malata di emorragia uterina; la donna straniera trovata nella regione di Tiro; la vedova di Nain; la peccatrice in casa di Simone il fariseo; le sorelle Marta e Maria; la donna curva; la vedova povera; la donna anonima che unge Gesù in Betania; le donne apostole del Risorto.

Nel vangelo di Giovanni la presenza delle donne è più rilevante che nei sinottici, non solo quantitativamente ma soprattutto qualitativamente. La scelta di Giovanni di porre sempre in dialogo con Gesù una sola persona, volta per volta, facilita il confronto relativo con lui e, nel contempo, rende esemplari i vari personaggi. Enzo Bianchi descrive con dettaglio i rapporti di Gesù con la donna samaritana; la donna sorpresa in adulterio; le sorelle Marta e Maria; Maria Magdalena, apostola degli apostoli. Di quest’ultima, Enzo Bianchi nota che riunisce in sé le condizioni richieste per l’apostolato: ha seguito Gesù dalla Galilea, è stata testimone della sua morte e sepoltura, ha visto il Risorto ed è stata da lui inviata per una missione di testimonianza, esattamente come i Dodici apostoli.

Negli Atti degli Apostoli e negli altri scritti neotestamentari nulla si dice sulle donne discepole. Enzo Bianchi si domanda se ci furono tensioni tra il loro gruppo e quello dei Dodici. Nei libri apocrifi vi sono allusioni al riguardo. “Va riconosciuto che prima il silenzio, poi il disprezzo è caduto sulle donne discepole, al punto che sono state dimenticate” (p. 114).

Al termine del libro, sono ricordate alcune parole di Gesù che riguardano la donna. Di fronte alla donna che grida: “Beato il grembo che ti ha portato e le mammelle che hai succhiato!” (Lc 11,27), Gesù esprime una riserva: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono” (Lc 11,28). Nella visione cristiana, per una donna l’onore supremo non consiste nel diventare madre, ma è il discepolato alla sequela di Gesù che può dare pienezza di realizzazione alla donna come all’uomo.

Enzo Bianchi crede, con Marinella Perroni, che tra il primo e il secondo secolo cristiano ci è stato un processo involutivo che ha portato alla marginalizzazione delle donna nella comunità cristiana. E conclude con queste parole: “Sarebbe necessario che la Chiesa, le chiese, senza paura tornassero semplicemente a ispirarsi alle parole e al comportamento di Gesù verso le donne, assumendone i pensieri, i sentimenti, gli atteggiamenti umanissimi e, nello stesso tempo, decisivi anche per la forma della comunità cristiana e dei rapporti in essa esistenti tra uomini e donne, che ormai sono tutti una sola cosa in Cristo Gesù” (p. 124).

M. A.

venerdì 3 marzo 2017

DOMENICA I DI QUARESIMA ( A )


 
 

Gn 2,7-9; 3,1-7; Sal 50 (51); Rm 5,12-19; Mt 4,1-11
 
Nella prima domenica di Quaresima, recitiamo il Sal 50, salmo penitenziale per eccellenza, che abbiamo trovato già nel Mercoledì delle ceneri e ritroveremo ancora in seguito. Si tratta di una delle più belle suppliche del salterio per la spontaneità e la profondità dei sentimenti che in esso sono espressi. All’inizio del cammino quaresimale, questo salmo diventa il segno della nostra sincera volontà di conversione. Se il senso della colpa che il testo esprime è vivissimo, più intensa è, però, l’esperienza del perdono, della novità dello spirito, della gioia di sentirsi salvato dal Dio misericordioso. Perciò si potrebbe ben dire che più che un canto penitenziale, il Sal 50 è la celebrazione della risurrezione alla vita nello spirito della parabola del figlio prodigo che ritorna alla casa del padre.
 
La prima lettura racconta il peccato di Adamo ed Eva, i quali disobbediscono al progetto che Dio ha su di loro. Il brano del vangelo, invece, ci propone l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto secondo la versione di san Matteo. Dalle tentazioni Gesù esce vittorioso accettando fino in fondo la volontà del Padre. Ecco quindi che alla disobbedienza di Adamo si contrappone l’obbedienza di Cristo, due personaggi che fanno scelte opposte; scelte nelle quali noi tutti siamo coinvolti. Ce lo fa capire san Paolo nella seconda lettura, quando stabilisce un confronto fra Adamo, responsabile della prima caduta umana che ha scatenato nel mondo la forza ostile del peccato, e Gesù Cristo, grazie al quale “si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita”  Gesù ha il potere di salvare l’uomo, perché ha, nella sua umanità, la capacità di ricollegare validamente l’uomo con Dio.
 
Come in Adamo e come in Gesù, la tentazione ci pone di fronte alla continua necessità di decidere e di scegliere. Le tre tentazioni subite da Gesù nel deserto possono essere considerate paradigmatiche di quelle a cui noi tutti siamo continuamente esposti. Gesù è tentato dal potere, dal successo e dal desiderio di usare per il proprio vantaggio le doti che ha ricevuto per il servizio degli altri e, in questo modo, sganciarsi dalla propria missione. Egli vince le tentazioni contrapponendo al tentatore la parola di Dio, e cioè il progetto che il Padre ha su di lui: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (canto al vangelo - Mt 4,4). Adamo ha voluto gestire in proprio, in assoluta autonomia il suo destino, e ha incontrato la morte. Cristo invece ha riconosciuto la propria dipendenza da Dio, e ha incontrato la vita: Egli non ha avuto paura di sottomettere la sua libertà al volere di Dio, perché ha capito che la sottomissione a Dio libera l’uomo della sottomissione agli idoli.
 
“La Scrittura e la Tradizione della Chiesa richiamano continuamente la presenza e l’universalità del peccato nella storia dell’uomo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 401). Infatti in ciascuno di noi c’è l’eredità del fallimento di Adamo ed Eva, ma c’è anche il dono della giustificazione operata da Cristo, di cui il battesimo è segno efficace. Convertirsi vuol dire prendere coscienza del progetto di Dio su di noi e fare le scelte secondo questo progetto, fidarsi più di Dio che delle lusinghe del tentatore. In altre parole, convertirsi significa entrare nella corrente salvifica che ci trasforma da Adamo – uomo peccatore in Adamo uomo – fedele. La Quaresima, “segno sacramentale della nostra conversione” (colletta) è il tempo favorevole per tale progetto (cf. orazione sulle offerte).
 

mercoledì 1 marzo 2017

LITURGIA E APPARTENENZA ALLA CHIESA




Fonte: Enzo Bianchi – Goffredo Boselli, Il Vangelo celebrato (Dimensioni dello Spirito), San Paolo, Cinisello Balsamo 2017. 286 pp.

Gli autori di questo volume sono noti nell'ambito della liturgia. I due monaci di Bose ci offrono un volume originale in un momento in cui c'è un assurdo paradosso: "una Chiesa in uscita e una liturgia in ritirata". "Non ci può essere Vangelo annunciato e creduto senza che ci sia al contempo il Vangelo celebrato. La liturgia è Vangelo celebrato nell'oggi della Chiesa".
Ecco i capitoli del libro: Dal Concilio ad oggi; Vivere e celebrare il tempo; Epifania del Mistero; Santità umana; Parola ed Eucaristia; Presente e futuro della liturgia. Del volume offro in seguito alcune riflessioni su "Liturgia e appartenenza alla Chiesa", scritte da Enzo Bianchi (pp. 29-31):


“… Sulla delicatissima relazione tra Chiesa e liturgia si gioca l’appartenenza alla Chiesa e si possono instaurare forze di divisione e conflitti che sfigurano la comunione ecclesiale. Soprattutto oggi, dopo l’atto misericordioso con cui nel 2007 Benedetto XVI ha permesso l’uso antiquior del Messale di Pio V a ‘gruppi stabili di fedeli che aderiscono e continuano ad aderire a quella forma’, occorre trovare vie in cui si manifesti che la lex credendi è sostanzialmente la stessa nella liturgia tridentina come nella liturgia riformata dal Vaticano II. Si tratta di trovare modi in cui l’articolare unità e pluralismo di usi liturgici, così da spegnere ogni tentazione di conflittualità.

Ecco allora sorgere alcune domande. Innanzitutto, è possibile confessare la comunione cattolica, appartenere all’unica Chiesa, se si giudica l’Eucaristia celebrata nella forma rinnovata come infedele alla tradizione, in rottura con la liturgia precedente? In questo caso il pluralismo permesse diventa separatore! L’appartenenza alla Chiesa non può nutrirsi solo di sensibilità, ma richiede la pratica della comunione e della fraternità che impedisce la non accoglienza della diversità, dell’essere insieme pietre vive dell’unica Chiesa (cfr. 1Pt 2,5). La pluralità di riti è nella tradizione e nella natura universale della Chiesa, ma è pluralità coerente con la diversità di comunità, tradizioni, lingue, culture, che non si condannano né si escludono a vicenda.

Confessando un rispetto pieno verso chi aderisce a un rito o a una forma rituale, si può fare un’altra domanda: è sufficiente una sensibilità per decidere la liturgia che si pratica, e quindi come appartenere alla Chiesa? Non è questo un cedimento alla dominante post-moderna secondo cui si sceglie e, di conseguenza, si ha diritto a vedere soddisfatta la propria sensibilità, qualsiasi essa sia? L’appartenenza al corpo della Chiesa la si sceglie oppure la si accoglie, se essa deve significare una partecipazione effettiva alla vita della comunità in cui si è stati battezzati e generati a Cristo? Ecco quindi un tema sul quale soprattutto il vescovo, ‘moderatore della liturgia nella sua diocesi’, deve operare un discernimento con molta carità, con molta misericordia ma anche con vigilanza e intelligenza liturgica, affinché non prevalga il pensiero che la liturgia è solo una forma di preghiera che si adatta a piacimento, ‘secondo la propria sensibilità’: questo sarebbe relativismo liturgico. La liturgia deve garantire l’unità del corpo ecclesiale, oggi minacciata non dal pluralismo degli usi rituali ma dal non riconoscimento pieno e leale di questa pluralità legittima e dal fare del proprio uso rituale una bandiera, un’insegna, un uso rituale da propagandare a scapito di altri e diffondere. Ho l’impressione che proprio chi dice di esigere più rispetto per la santissima messa, sovente volendola celebrare per motivi nostalgici, se non addirittura di ostentazione e di folklore, ne ferisca la santità…

L’Eucaristia può essere celebrata solo per ‘edificare la Chiesa’ e per confessare l’appartenenza reale a essa, corpo di Cristo nel mondo”.