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domenica 21 luglio 2024

BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI

 



Premesse

1058.
 Molti animali, per disposizione della stessa provvidenza del Creatore, partecipano in qualche modo alla vita degli uomini, perché prestano loro aiuto nel lavoro o somministrano il cibo o servono di sollievo. Nulla quindi impedisce che in determinate occasioni, per es. nella festa di un santo, si conservi la consuetudine di invocare su di essi la benedizione di Dio.

 

(Dal Benedizionale del Rituale Romano)

 

venerdì 19 luglio 2024

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 21 Luglio 2024

 



 

Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34

 

                   

Il brano evangelico di questa domenica lascia intravedere uno spaccato di umanità del Figlio di Dio. Gesù rivolgendosi agli apostoli, che ritornano dalla missione a cui erano stati mandati, li invita a riposarsi un po’: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’ ”. Gesù vuole rimanere solo con i suoi apostoli dopo la loro prima esperienza missionaria. Egli si prende cura dei suoi discepoli, della loro fatica, della loro stanchezza. Più avanti ancora, ci viene raccontato che la folla cui Gesù con i suoi discepoli si era sottratto, lo segue nella solitudine. Vedendo la gran folla che accorreva da lui, Gesù “ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù si commuove e mette a disposizione di questa gente il suo insegnamento, anzi mette se stesso a disposizione di quanti hanno bisogno di lui. L’atteggiamento di Gesù nei confronti della folla sta a significare che la misericordia di Dio è offerta a tutti.

 

Nella seconda lettura, san Paolo sottolinea che fonte di pace, di vita autentica dell’uomo con Dio e dell’uomo con gli altri uomini non è più la legge ma una persona che si è data senza riserve per gli altri, Cristo Gesù: “Egli infatti è la nostra pace”: perché “è colui che di due (popoli) ha fatto una cosa sola”, perché la sua logica porta ad eliminare ogni squilibrio, a distruggere ciò che è “muro di separazione”, fonte di “inimicizia”, in una parola ciò che oppone uomo a uomo, popolo a popolo. In Gesù si compie la parola profetica di Geremia (cf. prima lettura), il quale, dopo la denuncia contro i pastori malvagi del suo tempo che hanno condotto il popolo di Dio alla rovina, annuncia che Dio invierà un re giusto per far ripartire la storia dell’alleanza con il suo popolo. Il nome di questo re è “Signore-nostra-giustizia”, cioè nostra salvezza. Gesù Cristo, il buon pastore, mandato come re e salvatore, è la parola divina di pace rivolta a tutti gli uomini, mediatore della nostra pace con Dio, punto d’incontro di noi con Dio e dell’uomo con gli altri uomini.

 

Come gli apostoli al ritorno della loro faticosa missione e come la grande folla che seguiva Gesù, anche noi non possiamo fare a meno della “compassione” del Maestro nelle nostre ricerche e nelle nostre fatiche; non possiamo gestire autonomamente i nostri progetti; abbiamo bisogno di riposare in qualcuno che possa dare sicurezza e consistenza al nostro quotidiano impegno, abbiamo bisogno della parola illuminata e illuminante del Signore. Tutti abbiamo bisogno di riposo, di qualche forma di vacanza, di trovare ogni tanto uno spazio di silenzio, ma abbiamo anche grande bisogno di preghiera, di autentico incontro con Dio e con i fratelli per non smarrire il senso profondo della nostra vita, del nostro agire e del nostro sperare. La celebrazione eucaristica è un momento in cui ci è dato di realizzare questo vero incontro con Dio e con i fratelli. Non sprechiamolo!

domenica 14 luglio 2024

LA PARUSIA

 



 

Secondo Bultmann, il ritardo della parusia rappresentò il vero nodo problematico che la Chiesa delle origini dovette tentare di sciogliere. Gli scritti più tardivi del Nuovo Testamento lo registrano e ne sono una testimonianza. La Chiesa delle origini, comunque, non ci riuscì, e per questo tentò di farvi fronte attuando una crescente “de-escatologizzazione” delle asserzioni evangeliche riguardanti la fine. In pratica, il ritardo della parusia costrinse la Chiesa, comunità dei santi, a trasformarsi in istituzione di salvezza, dedita alla pratica sacramentale, e a mutare la riflessione sulle realtà escatologiche in una dottrina sulla fine del mondo, attenta solamente al futuro lontano e alle sorti dell’uomo dopo la morte.

 

La parusia è un evento di salvezza per ogni singolo uomo e per l’umanità intera, per l’umanità e per il mondo; è compimento della salvezza e quindi del mistero pasquale di Cristo; è un evento di salvezza – lontano dal dies irae che ha alimentato anche la fantasia e le paure di molte generazioni – e deve essere attesa nella speranza.

 

 

Fonte: Francesco Brancato, La Bibbia parla dell’aldilà. Tra promessa e compimento, Edizioni Messaggero, Padova 2022, pp. 52, 95.

 

 

venerdì 12 luglio 2024

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 14 Luglio 2024

 


 

 

Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

 

La prima lettura ci racconta lo scontro del profeta Amos col gran sacerdote del santuario di Betel Amasìa. Le denunce del profeta contro il culto idolatrico promosso dal re non sono gradite al gran sacerdote, che sta a servizio del santuario stipendiato dal re e, in conseguenza, Amos viene scacciato come disturbatore della pubblica quiete. Egli però ribadisce che profetizza per ordine del Signore che lo ha inviato a parlare al popolo d’Israele. Il profeta, quindi, parla a nome di Dio ed è responsabile davanti a lui. Il brano evangelico racconta come Gesù manda i Dodici in una prima missione a predicare la conversione. Da parte sua, san Paolo nella seconda lettura afferma che siamo stati “scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati”, perché si realizzi il disegno del Padre di “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose”. In questo progetto si inserisce anche la missione cristiana. Tutte e tre le letture bibliche quindi ci invitano a riflettere sulla natura della missione. Ecco che ritorna il tema della scorsa domenica, ma sotto angolazione diversa. Là il punto focale era da un lato l’invio di Gesù come profeta per eccellenza e dall’altro l’incomprensione e il rigetto che gli riservano i suoi compatrioti. Nella presente domenica l’argomento è quello della vocazione e missione che Dio affida alla Chiesa e a ciascuno di noi per l’attuazione del suo piano di salvezza.

 

Gesù non vuol fare dei suoi un gruppo chiusi di “puri”, di “illuminati”: li manda in missione in mezzo a tutti. Il piano di Dio, infatti, è di “ricondurre” tutte le cose al Cristo. La missione è un rischio; gli inviati possono essere anche non accolti e non ascoltati. I missionari non vanno a fare una crociata, ma una proposta. Come tale deve avvenire al di fuori di ogni ricatto. Le istruzioni che Gesù dà ai discepoli inviati in missione sono un invito a porre la loro fiducia non nell’abbondanza dei mezzi materiali, ma in colui che li manda e nel messaggio che essi sono chiamati ad annunciare. Il bagaglio “leggero” dei Dodici in missione fa spontaneamente pensare al bagaglio “pesante” che a volte sopporta la nostra testimonianza. Non dobbiamo dimenticare mai che la missione consiste nel testimoniare davanti al mondo Gesù Cristo mandato dal Padre, morto e risorto, che ha inviato il suo Spirito perché, per mezzo di lui, tutto ritorni al Padre. Il piano di Dio – lo abbiamo già detto –  è di “ricondurre” tutto al Cristo.

 

Dio ha scelto ciascuno di noi fin dall’eternità e attraverso il battesimo ci ha privilegiati non perché usassimo egoisticamente di questo dono, ma perché diventassimo nel mondo testimoni del suo amore. In casa e al lavoro, per le strade e sulle spiagge, nella gioia e nel dolore, con i vicini, gli amici, i familiari, e anche con chi non ci è amico, siamo chiami a condividere questa nostra speranza. Ciò può comportare, come al profeta Amos e agli apostoli, incomprensioni e sofferenza.

domenica 7 luglio 2024

LO JUBÉ

 





Nella cattedrale gotica di Reims l’altare maggiore si collocava in origine all’incrocio del transetto e il coro avanzava nella navata maggiore per tre campate, occupando uno spazio dilatato all’interno della chiesa. Il settore sacro riservato all’arcivescovo e ai canonici era interamente circondato da una recinzione, che a oriente girava seguendo la curva del deambulatorio, e segnava un limite invalicabile per i fedeli laici. Qui si svolgeva il rito solenne dell’unzione e dell’incoronazione del re di Francia. Questo allestimento liturgico offre l’occasione di parlare di un elemento architettonico di grande importanza nelle cattedrali del medioevo: lo jubé. Si trattava di un pontile traversale, che segnava nella navata maggiore il fronte monumentale del settore riservato al clero, costruito come una struttura imponente, decorata da gruppi di sculture. Queste strutture divisorie, caratteristiche della liturgia medievale, vennero quasi tutte demolite e riconfigurate in età moderna, dopo il concilio di Trento, nel clima della Controriforma, che imponeva una maggiore comunicazione tra il clero e i fedeli. Oggi sopravvivono pochissimi jubé di epoca medievale, e in Italia si conserva un esempio di grande fascino nella canonica di Vezzolano, in Piemonte.

 

Il nome francese (in italiano è in genere definito “pontile”) deriva dalla formula latina di benedizione: “Juve, Domine, benedicere”. Nella parte superiore, infatti, lo jubé presentava una tribuna praticabile, che si affacciava verso le navate, dove i chierici impartivano la benedizione ai fedeli che assistevano alla liturgia senza vedere quello che accadeva all’interno del presbiterio, ascoltando soltanto i canti e le preghiere in latino. A Reims lo jubé assumeva un valore del tutto particolare, legato al rito dell’intronazione. Il nuovo sovrano, dopo aver ricevuto l’unzione all’interno del presbiterio, saliva sullo jubé, si sedeva su un trono collocato sopra al pontile e si mostrava così, per la prima volta, al popolo di Francia. Con un gesto solenne l’arcivescovo di Reims lo abbracciava e i pari del regno gli rendevano omaggio, pronunciando la triplice acclamazione: “Vivat rex in aeternum!”. A quel punto, al suono delle trombe e delle campane, decine di passeri venivano liberati sotto le volte della chiesa, insieme a manciate di monete gettate sulla folla festante.

 

Fonte: Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali gotiche, il Mulino, Bologna 2024, pp. 94-96.

 

 

venerdì 5 luglio 2024

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 7 Luglio 2024

 



 

 

Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

 

La prima lettura ci parla del profeta Ezechiele; essendo membro di una famiglia influente, fu deportato assieme ad altri numerosi compagni di sventura a Babilonia. Qui, nella solitudine dell’esilio sulle rive del fiume Chebàr, Dio gli si manifesta e lo manda a parlare al suo popolo che, nonostante l’elezione divina, è “una genìa di ribelli”. Ezechiele è chiamato a denunciare il peccato di Israele come violazione dell’alleanza con Dio, che si radica nel “cuore indurito”. Da qui derivano la resistenza e il rifiuto della sua missione da parte dei destinatari. La difficile missione del profeta Ezechiele tra i suoi connazionali viene proposta come lo sfondo adatto per capire la disastrosa esperienza di Gesù nel proprio paese, di cui ci parla il brano evangelico. A Nazaret, dove ha passato gran parte della sua vita, Gesù al sabato predica nella sinagoga suscitando un certo stupore e incontrando allo stesso tempo un ostile rifiuto. Di fronte a questa reazione, Gesù non trova altra spiegazione se non quella che la sapienza popolare ha condensato nel proverbio: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Gesù si predispone a percorrere la sorte dei profeti, che nella tradizione biblica sono contestati e rifiutati da coloro ai quali sono inviati. L’esperienza di san Paolo non è stata molto diversa. Ce ne parla egli stesso nel brano della seconda lettura, in cui ci ricorda le difficoltà di ogni genere incontrate nella sua attività di evangelizzatore: oltraggi, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo.

 

Volendo trarre da questi passaggi un insegnamento valido per tutti noi, possiamo rivolgere la nostra attenzione in modo particolare al racconto evangelico. Uno dei motivi della freddezza dei nazzareni nei confronti di Gesù è il fatto che egli non era stato e non sembrava essere che uno di loro. I concittadini di Gesù si erano costruita un’idea del Messia che non combaciava con quella offerta dal “falegname, il figlio di Maria”. Essi non volevano mettere in discussione i loro schemi mentali. Ecco perché passano rapidamente dallo stupore, allo scandalo e poi alla incredulità. Uno dei motivi per cui la parola di Dio può essere inefficace in noi è la durezza del nostro cuore, l’attaccamento incondizionato ai propri schemi di pensiero, alla propria visione delle cose, al proprio modo di affrontare la vita. Il nostro orgoglio ci impedisce talvolta di metterci in discussione e quindi di accogliere il messaggio salvifico che ci invita a cambiare di condotta. L’antifona al Magnificat dei Secondi vespri di questa domenica riprende un versetto del vangelo di san Giovanni (1,11) che parla del prezioso dono che viene offerto a coloro che accolgono il Signore: “Gesù venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. 

         

Dio vuole che la verità si imponga per sé stessa, non per i condizionamenti esterni. Egli, inoltre, si propone come un Dio imprevedibile, che si rivela mediante strumenti e nei momenti più impensati. La sua offerta di salvezza non è legata a formule fisse, e se schemi preferiti ci sono, sono quelli umanamente più fragili, perché si manifesti pienamente la sua potenza (cf. seconda lettura).

 

domenica 30 giugno 2024

LA CORPOREITÀ E LA LITURGIA

 



 

La rivalutazione della liturgia come azione rituale, in cui convergono l’azione salvifica di Dio in Cristo e la risposta accogliente dell’uomo, pone il problema dell’individuazione di un punto di incontro che sia espressivo al tempo stesso dell’agire di Dio e dell’agire dell’uomo. Questo punto di incontro è la corporeità. La liturgia non è una questione di “idee”, ma di “corpo”, o meglio, di “corporeità”, intendendo per corporeità il soggetto umano nella sua integralità. Ciò può essere pienamente comprensibile soltanto se viene superata la tendenza a considerare il corpo come oggetto-strumento di appoggio o di ostacolo allo spirito-mente, dotato da una propria vitalità indipendente dal corpo. Non si tratta del corpo oggetto, ma del corpo vivo che ha ed è storia. Ricordiamo che l’antropologia cristiana considera la persona umana nella sua unità totale e alla luce della sua origine dall’azione creatrice di Dio e della sua vocazione ultima.

 

La trascendenza tipica dell’esperienza religiosa che tiene luogo nell’ambito della celebrazione liturgica non implica la negazione del corpo: come ogni simbolo ha bisogno del significante, così la liturgia, che è simbolica, ha bisogno del corpo, perché nell’esteriorizzazione corporea l’uomo esperimenta la auto trascendenza, in cui si fa sempre più evidente che la salvezza è al di là di ciò che è da lui possedibile o producibile quando si chiude in se stesso. Possiamo ben dire che luogo originario dell’esperienza religiosa e soggetto dell’azione celebrativa è il corpo vissuto.

 

L’ambiguità corporea, lungi dall’essere fuorviante per l’azione liturgica, è in grado di caratterizzarla strutturalmente come incontro vivo tra il corpo di Cristo e il corpo dell’assemblea celebrante. Essa, infatti, ha la medesima struttura dell’azione rituale, che tende a coniugare simbolicamente, in un’unica esperienza, il visibile e l’invisibile, l’identità e la differenza, il già e non ancora.

 

La liturgia considera la persona umana nella sua realtà profonda e negli svariati collegamenti che gli sono propri. La celebrazione deve quindi raggiungere il credente non solo nella sua profondità esistenziale più intima, ma anche nella sua dimensione corporea. Anzi, si può ben dire che il corpo è il primo e più profondo strumento dell'espressione: nel gioco degli atteggiamenti del corpo, l’espressione è altrettanto forte che nella parola; questa, anzi, viene espressa come atteggiamento. La liturgia trova l'unità delle proprie azioni e dei propri simboli nel corpo che agisce e percepisce.

 

La cosiddetta svolta antropologica del nostro tempo ha avuto effetti rilevanti anche in campo liturgico per cui dalla attenzione alla liturgia in se stessa - al mistero in essa celebrato - si è passati all'uomo della liturgia. Non si tratta di contrapporre i "diritti" della liturgia a quelli dell'uomo. La sintesi è appunto l'uomo liturgico, il credente che celebra la liturgia. In questo settore, non esente da possibili deviazioni, ogni ambiguità è facilmente superata se si parte da una giusta visione della liturgia come "luogo" del dialogo salvifico, che impegna i due protagonisti e accentua, nella dimensione di "santificazione" l'azione di Dio e nel "culto" quella dell'uomo: si tratta delle due dimensioni essenziali di ogni azione liturgica (cf. SC, n.7).

 

Contemplata da una prospettiva antropologica, la liturgia cristiana è una realtà viva, comunicativa e, pertanto, in intimo rapporto con la dinamica e le esigenze della crescita spirituale del credente che ad essa partecipa. È necessario però che i fedeli siano introdotti alla comprensione e all'uso del linguaggio simbolico della liturgia affinché possano sintonizzare con il mistero in essa celebrato. L'esperienza spirituale vissuta nella celebrazione liturgica si compie attraverso i segni sensibili (cf. SC, n.7).

 

Bisogna passare dalla logica dell'utilitarismo alla logica simbolica. Nel quadro della logica simbolica, la celebrazione liturgica non è soltanto l'esteriorizzazione di una realtà interiore, ma opera efficacemente questa realtà nel momento stesso in cui la porta ad esprimersi. Il simbolismo liturgico rivelando comunica e coinvolge il credente che è chiamato a co-rispondere. La liturgia si configura come un luogo in cui la partecipazione del credente ingloba l’intera sua persona, intelligenza e corporeità, amore e sensibilità.

 

La liturgia è un poderoso fenomeno di comunicazione. Nella cultura moderna della comunicazione audiovisuale, la celebrazione liturgica potrebbe essere facilmente percepita come uno spazio aperto alla espressione esterna della interiorità dei credenti, e anche un mezzo per educare e formare alla comunicazione con Dio attraverso gesti, parole, simboli e immagini che sono chiamati a riflettere la verità di un culto in spirito e verità. La liturgia è da considerarsi infatti spazio di vera esperienza spirituale e scuola capace di formare alla gestione di questa esperienza.