(Dal Benedizionale del Rituale Romano) |
La liturgia è “l’esercizio della funzione (munus) sacerdotale di Cristo” (SC 7); è anche opera della Chiesa, in cui “ciascuno, svolge il proprio ufficio (munus)” (SC 28). I pastori “esercitano in essa la funzione (munus) di dispensatori dei misteri di Dio” (SC 19). Partecipando alla liturgia il Signore “fa di noi stessi un’offerta (munus) eterna a lui” (SC 12). “Munus” può esprimere bene il mistero liturgico nella sua globalità.
(Dal Benedizionale del Rituale Romano) |
Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
Il
brano evangelico di questa domenica lascia intravedere uno spaccato di umanità
del Figlio di Dio. Gesù rivolgendosi agli apostoli, che ritornano dalla
missione a cui erano stati mandati, li invita a riposarsi un po’: “Venite in
disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’ ”. Gesù vuole
rimanere solo con i suoi apostoli dopo la loro prima esperienza missionaria.
Egli si prende cura dei suoi discepoli, della loro fatica, della loro
stanchezza. Più avanti ancora, ci viene raccontato che la folla cui Gesù con i
suoi discepoli si era sottratto, lo segue nella solitudine. Vedendo la gran
folla che accorreva da lui, Gesù “ebbe compassione di loro, perché erano come
pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù si
commuove e mette a disposizione di questa gente il suo insegnamento, anzi mette
se stesso a disposizione di quanti hanno bisogno di lui. L’atteggiamento di
Gesù nei confronti della folla sta a significare che la misericordia di Dio è
offerta a tutti.
Nella
seconda lettura, san Paolo sottolinea che fonte di pace, di vita autentica
dell’uomo con Dio e dell’uomo con gli altri uomini non è più la legge ma una
persona che si è data senza riserve per gli altri, Cristo Gesù: “Egli infatti è
la nostra pace”: perché “è colui che di due (popoli) ha fatto una cosa sola”,
perché la sua logica porta ad eliminare ogni squilibrio, a distruggere ciò che
è “muro di separazione”, fonte di “inimicizia”, in una parola ciò che oppone
uomo a uomo, popolo a popolo. In Gesù si compie la parola profetica di Geremia
(cf. prima lettura), il quale, dopo la denuncia contro i pastori malvagi del
suo tempo che hanno condotto il popolo di Dio alla rovina, annuncia che Dio
invierà un re giusto per far ripartire la storia dell’alleanza con il suo
popolo. Il nome di questo re è “Signore-nostra-giustizia”, cioè nostra
salvezza. Gesù Cristo, il buon pastore, mandato come re e salvatore, è la
parola divina di pace rivolta a tutti gli uomini, mediatore della nostra pace
con Dio, punto d’incontro di noi con Dio e dell’uomo con gli altri uomini.
Come
gli apostoli al ritorno della loro faticosa missione e come la grande folla che
seguiva Gesù, anche noi non possiamo fare a meno della “compassione” del
Maestro nelle nostre ricerche e nelle nostre fatiche; non possiamo gestire
autonomamente i nostri progetti; abbiamo bisogno di riposare in qualcuno che
possa dare sicurezza e consistenza al nostro quotidiano impegno, abbiamo
bisogno della parola illuminata e illuminante del Signore. Tutti abbiamo
bisogno di riposo, di qualche forma di vacanza, di trovare ogni tanto uno
spazio di silenzio, ma abbiamo anche grande bisogno di preghiera, di autentico
incontro con Dio e con i fratelli per non smarrire il senso profondo della
nostra vita, del nostro agire e del nostro sperare. La celebrazione eucaristica
è un momento in cui ci è dato di realizzare questo vero incontro con Dio e con
i fratelli. Non sprechiamolo!
Secondo Bultmann, il ritardo della parusia rappresentò
il vero nodo problematico che la Chiesa delle origini dovette tentare di
sciogliere. Gli scritti più tardivi del Nuovo Testamento lo registrano e ne
sono una testimonianza. La Chiesa delle origini, comunque, non ci riuscì, e per
questo tentò di farvi fronte attuando una crescente “de-escatologizzazione”
delle asserzioni evangeliche riguardanti la fine. In pratica, il ritardo della
parusia costrinse la Chiesa, comunità dei santi, a trasformarsi in istituzione
di salvezza, dedita alla pratica sacramentale, e a mutare la riflessione sulle
realtà escatologiche in una dottrina sulla fine del mondo, attenta solamente al
futuro lontano e alle sorti dell’uomo dopo la morte.
La parusia è un evento di salvezza per ogni singolo uomo
e per l’umanità intera, per l’umanità e per il mondo; è compimento della
salvezza e quindi del mistero pasquale di Cristo; è un evento di salvezza –
lontano dal dies irae che ha alimentato anche la fantasia e le paure di
molte generazioni – e deve essere attesa nella speranza.
Fonte: Francesco Brancato, La Bibbia parla
dell’aldilà. Tra promessa e compimento, Edizioni Messaggero, Padova 2022, pp.
52, 95.
Am 7,12-15; Sal 84; Ef
1,3-14; Mc 6,7-13
La prima lettura ci racconta lo scontro del
profeta Amos col gran sacerdote del santuario di Betel Amasìa. Le denunce del
profeta contro il culto idolatrico promosso dal re non sono gradite al gran
sacerdote, che sta a servizio del santuario stipendiato dal re e, in
conseguenza, Amos viene scacciato come disturbatore della pubblica quiete. Egli
però ribadisce che profetizza per ordine del Signore che lo ha inviato a
parlare al popolo d’Israele. Il profeta, quindi, parla a nome di Dio ed è
responsabile davanti a lui. Il brano evangelico racconta come Gesù manda i
Dodici in una prima missione a predicare la conversione. Da parte sua, san
Paolo nella seconda lettura afferma che siamo stati “scelti prima della creazione
del mondo, per essere santi e immacolati”, perché si realizzi il disegno del
Padre di “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose”. In questo progetto
si inserisce anche la missione cristiana. Tutte e tre le letture bibliche
quindi ci invitano a riflettere sulla natura della missione. Ecco che ritorna
il tema della scorsa domenica, ma sotto angolazione diversa. Là il punto focale
era da un lato l’invio di Gesù come profeta per eccellenza e dall’altro
l’incomprensione e il rigetto che gli riservano i suoi compatrioti. Nella
presente domenica l’argomento è quello della vocazione e missione che Dio
affida alla Chiesa e a ciascuno di noi per l’attuazione del suo piano di
salvezza.
Gesù non vuol fare dei suoi un gruppo chiusi di
“puri”, di “illuminati”: li manda in missione in mezzo a tutti. Il piano di Dio,
infatti, è di “ricondurre” tutte le cose al Cristo. La missione è un rischio;
gli inviati possono essere anche non accolti e non ascoltati. I missionari non
vanno a fare una crociata, ma una proposta. Come tale deve avvenire al di fuori
di ogni ricatto. Le istruzioni che Gesù dà ai discepoli inviati in missione
sono un invito a porre la loro fiducia non nell’abbondanza dei mezzi materiali,
ma in colui che li manda e nel messaggio che essi sono chiamati ad annunciare.
Il bagaglio “leggero” dei Dodici in missione fa spontaneamente pensare al
bagaglio “pesante” che a volte sopporta la nostra testimonianza. Non dobbiamo
dimenticare mai che la missione consiste nel testimoniare davanti al mondo Gesù
Cristo mandato dal Padre, morto e risorto, che ha inviato il suo Spirito
perché, per mezzo di lui, tutto ritorni al Padre. Il piano di Dio – lo abbiamo
già detto – è di “ricondurre” tutto al
Cristo.
Dio ha scelto ciascuno di noi fin dall’eternità
e attraverso il battesimo ci ha privilegiati non perché usassimo egoisticamente
di questo dono, ma perché diventassimo nel mondo testimoni del suo amore. In
casa e al lavoro, per le strade e sulle spiagge, nella gioia e nel dolore, con
i vicini, gli amici, i familiari, e anche con chi non ci è amico, siamo chiami
a condividere questa nostra speranza. Ciò può comportare, come al profeta Amos
e agli apostoli, incomprensioni e sofferenza.
Nella cattedrale gotica di Reims l’altare maggiore si
collocava in origine all’incrocio del transetto e il coro avanzava nella navata
maggiore per tre campate, occupando uno spazio dilatato all’interno della
chiesa. Il settore sacro riservato all’arcivescovo e ai canonici era
interamente circondato da una recinzione, che a oriente girava seguendo la
curva del deambulatorio, e segnava un limite invalicabile per i fedeli laici.
Qui si svolgeva il rito solenne dell’unzione e dell’incoronazione del re di
Francia. Questo allestimento liturgico offre l’occasione di parlare di un
elemento architettonico di grande importanza nelle cattedrali del medioevo: lo jubé.
Si trattava di un pontile traversale, che segnava nella navata maggiore il
fronte monumentale del settore riservato al clero, costruito come una struttura
imponente, decorata da gruppi di sculture. Queste strutture divisorie,
caratteristiche della liturgia medievale, vennero quasi tutte demolite e
riconfigurate in età moderna, dopo il concilio di Trento, nel clima della
Controriforma, che imponeva una maggiore comunicazione tra il clero e i fedeli.
Oggi sopravvivono pochissimi jubé di epoca medievale, e in Italia si conserva
un esempio di grande fascino nella canonica di Vezzolano, in Piemonte.
Il nome francese (in italiano è in genere definito
“pontile”) deriva dalla formula latina di benedizione: “Juve, Domine,
benedicere”. Nella parte superiore, infatti, lo jubé presentava una tribuna
praticabile, che si affacciava verso le navate, dove i chierici impartivano la
benedizione ai fedeli che assistevano alla liturgia senza vedere quello che
accadeva all’interno del presbiterio, ascoltando soltanto i canti e le
preghiere in latino. A Reims lo jubé assumeva un valore del tutto particolare,
legato al rito dell’intronazione. Il nuovo sovrano, dopo aver ricevuto
l’unzione all’interno del presbiterio, saliva sullo jubé, si sedeva su un trono
collocato sopra al pontile e si mostrava così, per la prima volta, al popolo di
Francia. Con un gesto solenne l’arcivescovo di Reims lo abbracciava e i pari
del regno gli rendevano omaggio, pronunciando la triplice acclamazione: “Vivat
rex in aeternum!”. A quel punto, al suono delle trombe e delle campane, decine
di passeri venivano liberati sotto le volte della chiesa, insieme a manciate di
monete gettate sulla folla festante.
Fonte: Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali
gotiche, il Mulino, Bologna 2024, pp. 94-96.
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
La
prima lettura ci parla del profeta Ezechiele; essendo membro di una famiglia
influente, fu deportato assieme ad altri numerosi compagni di sventura a
Babilonia. Qui, nella solitudine dell’esilio sulle rive del fiume Chebàr, Dio
gli si manifesta e lo manda a parlare al suo popolo che, nonostante l’elezione
divina, è “una genìa di ribelli”. Ezechiele è chiamato a denunciare il peccato
di Israele come violazione dell’alleanza con Dio, che si radica nel “cuore
indurito”. Da qui derivano la resistenza e il rifiuto della sua missione da
parte dei destinatari. La difficile missione del profeta Ezechiele tra i suoi
connazionali viene proposta come lo sfondo adatto per capire la disastrosa
esperienza di Gesù nel proprio paese, di cui ci parla il brano evangelico. A
Nazaret, dove ha passato gran parte della sua vita, Gesù al sabato predica
nella sinagoga suscitando un certo stupore e incontrando allo stesso tempo un
ostile rifiuto. Di fronte a questa reazione, Gesù non trova altra spiegazione
se non quella che la sapienza popolare ha condensato nel proverbio: “Un profeta
non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
Gesù si predispone a percorrere la sorte dei profeti, che nella tradizione
biblica sono contestati e rifiutati da coloro ai quali sono inviati.
L’esperienza di san Paolo non è stata molto diversa. Ce ne parla egli stesso
nel brano della seconda lettura, in cui ci ricorda le difficoltà di ogni genere
incontrate nella sua attività di evangelizzatore: oltraggi, persecuzioni, angosce
sofferte per Cristo.
Volendo
trarre da questi passaggi un insegnamento valido per tutti noi, possiamo
rivolgere la nostra attenzione in modo particolare al racconto evangelico. Uno
dei motivi della freddezza dei nazzareni nei confronti di Gesù è il fatto che
egli non era stato e non sembrava essere che uno di loro. I concittadini di
Gesù si erano costruita un’idea del Messia che non combaciava con quella
offerta dal “falegname, il figlio di Maria”. Essi non volevano mettere in
discussione i loro schemi mentali. Ecco perché passano rapidamente dallo
stupore, allo scandalo e poi alla incredulità. Uno dei motivi per cui la parola
di Dio può essere inefficace in noi è la durezza del nostro cuore,
l’attaccamento incondizionato ai propri schemi di pensiero, alla propria
visione delle cose, al proprio modo di affrontare la vita. Il nostro orgoglio
ci impedisce talvolta di metterci in discussione e quindi di accogliere il
messaggio salvifico che ci invita a cambiare di condotta. L’antifona al
Magnificat dei Secondi vespri di questa domenica riprende un versetto del
vangelo di san Giovanni (1,11) che parla del prezioso dono che viene offerto a
coloro che accolgono il Signore: “Gesù venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno
accolto. A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di
Dio”.
Dio
vuole che la verità si imponga per sé stessa, non per i condizionamenti
esterni. Egli, inoltre, si propone come un Dio imprevedibile, che si rivela
mediante strumenti e nei momenti più impensati. La sua offerta di salvezza non
è legata a formule fisse, e se schemi preferiti ci sono, sono quelli umanamente
più fragili, perché si manifesti pienamente la sua potenza (cf. seconda
lettura).
La rivalutazione della liturgia come azione rituale, in
cui convergono l’azione salvifica di Dio in Cristo e la risposta accogliente
dell’uomo, pone il problema dell’individuazione di un punto di incontro che sia
espressivo al tempo stesso dell’agire di Dio e dell’agire dell’uomo. Questo
punto di incontro è la corporeità. La liturgia non è una questione di “idee”,
ma di “corpo”, o meglio, di “corporeità”, intendendo per corporeità il soggetto
umano nella sua integralità. Ciò può essere pienamente comprensibile soltanto
se viene superata la tendenza a considerare il corpo come oggetto-strumento di
appoggio o di ostacolo allo spirito-mente, dotato da una propria vitalità
indipendente dal corpo. Non si tratta del corpo oggetto, ma del corpo vivo che
ha ed è storia. Ricordiamo che l’antropologia cristiana considera la persona
umana nella sua unità totale e alla luce della sua origine dall’azione
creatrice di Dio e della sua vocazione ultima.
La trascendenza tipica dell’esperienza religiosa che
tiene luogo nell’ambito della celebrazione liturgica non implica la negazione
del corpo: come ogni simbolo ha bisogno del significante, così la liturgia, che
è simbolica, ha bisogno del corpo, perché nell’esteriorizzazione corporea
l’uomo esperimenta la auto trascendenza, in cui si fa sempre più evidente che
la salvezza è al di là di ciò che è da lui possedibile o producibile quando si
chiude in se stesso. Possiamo ben dire che luogo originario dell’esperienza
religiosa e soggetto dell’azione celebrativa è il corpo vissuto.
L’ambiguità corporea, lungi dall’essere fuorviante per
l’azione liturgica, è in grado di caratterizzarla strutturalmente come incontro
vivo tra il corpo di Cristo e il corpo dell’assemblea celebrante. Essa,
infatti, ha la medesima struttura dell’azione rituale, che tende a coniugare
simbolicamente, in un’unica esperienza, il visibile e l’invisibile, l’identità
e la differenza, il già e non ancora.
La liturgia considera la persona umana nella sua realtà
profonda e negli svariati collegamenti che gli sono propri. La celebrazione
deve quindi raggiungere il credente non solo nella sua profondità esistenziale
più intima, ma anche nella sua dimensione corporea. Anzi, si può ben dire che
il corpo è il primo e più profondo strumento dell'espressione: nel gioco degli
atteggiamenti del corpo, l’espressione è altrettanto forte che nella parola;
questa, anzi, viene espressa come atteggiamento. La liturgia trova l'unità
delle proprie azioni e dei propri simboli nel corpo che agisce e percepisce.
La cosiddetta svolta antropologica del nostro tempo ha
avuto effetti rilevanti anche in campo liturgico per cui dalla attenzione alla
liturgia in se stessa - al mistero in essa celebrato - si è passati all'uomo
della liturgia. Non si tratta di contrapporre i "diritti" della
liturgia a quelli dell'uomo. La sintesi è appunto l'uomo liturgico, il credente
che celebra la liturgia. In questo settore, non esente da possibili deviazioni,
ogni ambiguità è facilmente superata se si parte da una giusta visione della liturgia
come "luogo" del dialogo salvifico, che impegna i due protagonisti e
accentua, nella dimensione di "santificazione" l'azione di Dio e nel
"culto" quella dell'uomo: si tratta delle due dimensioni essenziali
di ogni azione liturgica (cf. SC, n.7).
Contemplata da una prospettiva antropologica, la
liturgia cristiana è una realtà viva, comunicativa e, pertanto, in intimo
rapporto con la dinamica e le esigenze della crescita spirituale del credente
che ad essa partecipa. È necessario però che i fedeli siano introdotti alla
comprensione e all'uso del linguaggio simbolico della liturgia affinché possano
sintonizzare con il mistero in essa celebrato. L'esperienza spirituale vissuta
nella celebrazione liturgica si compie attraverso i segni sensibili (cf. SC,
n.7).
Bisogna passare dalla logica dell'utilitarismo alla
logica simbolica. Nel quadro della logica simbolica, la celebrazione liturgica
non è soltanto l'esteriorizzazione di una realtà interiore, ma opera
efficacemente questa realtà nel momento stesso in cui la porta ad esprimersi.
Il simbolismo liturgico rivelando comunica e coinvolge il credente che è
chiamato a co-rispondere. La liturgia si configura come un luogo in cui la
partecipazione del credente ingloba l’intera sua persona, intelligenza e
corporeità, amore e sensibilità.
La liturgia è un poderoso fenomeno di comunicazione.
Nella cultura moderna della comunicazione audiovisuale, la celebrazione
liturgica potrebbe essere facilmente percepita come uno spazio aperto alla
espressione esterna della interiorità dei credenti, e anche un mezzo per
educare e formare alla comunicazione con Dio attraverso gesti, parole, simboli
e immagini che sono chiamati a riflettere la verità di un culto in spirito e
verità. La liturgia è da considerarsi infatti spazio di vera esperienza spirituale
e scuola capace di formare alla gestione di questa esperienza.