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venerdì 8 novembre 2024

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 10 Novembre 2024

 



 

 

1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

 

 

È donando dalla nostra povertà che noi diventiamo veramente ricchi davanti a Dio. In sintesi, è questo il messaggio che sembra emergere dalle letture bibliche. La prima lettura e il brano evangelico parlano della generosità di due povere vedove. La povera vedova di Zarepta, che aiuta il profeta Elia e la vedova lodata da Gesù perché i pochi spiccioli gettati nella cassetta delle offerte del Tempio rappresentano tutto quanto essa ha per vivere. Malgrado la loro povertà le due donne che la parola di Dio ci presenta trovano ancora qualcosa da dare: la prima accetta di dividere il poco che ha con uno straniero, mentre lei e suo figlio sono sulla soglia della morte; l’altra, in un atto di omaggio a Dio e di adorazione, dà il denaro di cui aveva bisogno per vivere. Ambedue si rivelano adorne delle qualità che devono caratterizzare la figura del discepolo di Cristo: disponibilità ad accogliere la parola di Dio, abbandono incondizionato al suo volere, prontezza a donare e a perdere anche la vita. L’offerta povera di queste donne è offerta amorosa e totale della vita.

 

Soffermiamoci brevemente sulla scena evangelica. Nel cortile del Tempio, al quale avevano accesso anche le donne, erano allineate tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Ci sono molti ricchi che fanno laute offerte, di cui il sacerdote ripete ad alta voce l’entità, suscitando l’ammirazione dei presenti. E c’è una povera vedova che offre pochi spiccioli e non suscita nessun mormorio di ammirazione. Gesù però la scorge e richiama l’attenzione dei discepoli contrapponendo la condotta della vedova alla vanità, ambizioni e privilegi degli scribi, che erano i maestri della legge dell’Antico Testamento, e alla ostentazione vanitosa di tanti ricchi che gettavano molte monete nella cassetta delle offerte. Questi, dice Gesù, danno del loro superfluo, mentre invece la povera vedova dà tutto quanto possiede. A partire dalle azioni più semplici e quotidiane Gesù sa leggere l’intenzione profonda del cuore; egli giudica non secondo le apparenze ma in verità, poiché è capace di vedere in profondità ciò che tutti vedono, grazie ad uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo secondo il sentire di Dio. A parte la sete di potere e di arrivismo che ovunque regna, bisognerebbe vedere fino a che punto noi cristiani siamo capaci di gesti generosi di ospitalità e di partecipazione alle sofferenze dei nostri simili. Dio non ci chiede il nostro denaro, ma chiede la nostra persona, e cioè la nostra disponibilità a donarsi per il bene degli altri.

 

In questo contesto, possiamo collocare l’esempio supremo di Cristo di cui parla la seconda lettura. Egli ci rende partecipi della sua vita divina offrendo se stesso: “Cristo si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti”. È donando noi stessi che ciascuno di noi partecipa veramente al dono della salvezza che Gesù ci offre. Il senso dell’eucaristia è questo: l’innesto sempre nuovo della nostra vita dentro all'unico e perfetto sacrificio di Cristo.

domenica 3 novembre 2024

“ACTUOSA” PARTICIPATIO

 



 

In realtà lo spessore teologico e spirituale dell’azione liturgica è quanto il Concilio Vaticano II solennemente ha affermato. L’idea di actuosa participatio, infatti, non soltanto riconosce nell’assemblea radunata e unita a Cristo il soggetto della celebrazione (participatio), ma vede nell’azione (actuosa) la mediazione attraverso la quale la Chiesa incontra il suo Signore e riceve i doni di salvezza. Forse c’è stata una stagione nella quale una certa insistenza sulla partecipazione, giustamente intesa come diritto e dovere dei battezzati (SC 14), ha fatto perdere di vista a livello teorico e pratico proprio l’azione e ci si è illusi di poter partecipare senza agire facendo prevalere, tra le tante aggettivazioni desunte dal magistero conciliare, la partecipazione conscia su quella actuosa. Ora, quale apporto irrinunciabile del lungo cammino della riflessione sulla liturgia nell’ultimo secolo, si comprende sempre più e sempre meglio che la partita va giocata sul terreno dell’azione agita, sulla performance rituale: è questa, infatti, a risultare efficace coinvolgendo i soggetti e rendendo possibile la fede. Senza questo actus fidei, ovvero senza l’azione della fede, il rito può essere soltanto funzionale alla produzione di un significato già pensato a monte. E, dunque, risulta del tutto dispensabile.

[…]

L’azione liturgica può essere ancora considerata come risorsa spirituale per un mondo distratto e smaliziato eppure affamato di Dio, di una fame non facilmente saziabile con i concetti e i precetti. Crocevia tra l’uomo e Dio e tra immanenza e trascendenza, il rito è ancora una scommessa per chi vuole scoprire Dio non come oggetto da mettere a tema, ma come partner di una relazione vitale.

Poco più di un secolo fa Romano Guardini pubblicava Formazione liturgica (1923), un testo dove coniugava la sua passione pedagogica con il tema della liturgia e nel quale denunciava l’incapacità simbolica dell’uomo contemporaneo: proprio nella liturgia l’uomo poteva ritrovare quell’armonia tra anima e corpo per troppo tempo compromessa. Nel simbolo l’anima si dà nel corpo e non potrebbe essere diversamente in una totalità dell’uomo insopprimibile: “Ciò che assume l’atteggiamento liturgico, che prega, offre e agisce non è l’ ‘anima’, non l’ ‘interiorità’: è l’ ‘uomo intero’ il soggetto dell’attività liturgica”. Quarantun anni più tardi, esattamente sessant’anni fa, con la sua lettera sull’atto di culto (1964) prospettava una nuova fatica, non più dilazionabile: “portare l’uomo attuale a compiere anche realmente l’atto”, affrancandolo dall’individualismo religioso e dall’intimismo che lo caratterizzava. In tal modo si sarebbe raggiunto il vero obiettivo della riforma liturgica o, per usare le sue parole, si sarebbe realizzata “la chance liturgica così mirabilmente apertasi”.

 

Fonte: Testo tratto dalla Presentazione di Loris Della Pietra del volume di Sebastiano Bertin, Actio. L’azione rituale crocevia tra Dio e l’uomo, Edizioni Liturgiche – Roma, Abbazia di Santa Giustina – Padova, 2024, pp.8-10.

sabato 2 novembre 2024

DOMENICA XXXI DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 3 Novembre 2024

 



 

Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34.

 

La tradizione giudaica aveva catalogato ben seicentotredici precetti della legge biblica, sulla cui gerarchia di valori e importanza si discuteva aspramente. Alla domanda che gli fa lo scriba su quale sia il primo comandamento, Gesù riprende la professione di fede che ogni giorno ripeteva l’ebreo nella sua preghiera, testo che inizia con le parole “Ascolta, o Israele”, ed è riportato nella prima lettura. Ma Egli arricchisce il testo in modo considerevole. Infatti, Gesù commenta insieme due comandamenti e li rende una sola cosa. Più in concreto, Gesù propone non solo l’amore di Dio, ma anche del prossimo nonché l’amore di se stesso: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Colui che non è capace di amare se stesso, non è capace di amare il prossimo e, di conseguenza, non sa amare Dio. Sono tre amori che hanno una sola e identica radice.

 

Ma cosa significa amare, in particolare, cosa significa amare Dio? Possiamo rispondere riprendendo le parole della preghiera ebraica citata da Gesù: “Ascolta, o Israele”. L’ascolto è già un movimento di amore in quanto ascoltando mi apro all’altro e accolgo in me la sua presenza. L’ascolto fonda un legame, una relazione in cui io esco dal mio egoismo, dal mio isolamento e mi apro alla relazione verso un altro. L’ascolto ci pone nella situazione di relazione e di libertà che è essenziale per amare. Un amore imposto è un amore falso.

 

Amare Dio, poi, non consiste in un ricordo passeggero di Dio all’inizio o alla fine della giornata; non consiste neppure in invocarlo nel momento del bisogno. Nelle parole di Gesù ritorna insistente una parola che esprime totalità e continuità: “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima”, “con tutta la tua mente”, “con tutta la tua forza”. Si tratta quindi di un amore che si impadronisce di tutta la nostra esistenza, che invade ogni nostro pensiero e ogni azione, che dà forma alla vita. Quando l’amore a Dio non ha queste caratteristiche, la nostra fede e la nostra pratica religiosa si impoveriscono, diventano formalismo, legalismo, forse addirittura superstizione. Gesù, poi, nella sua risposta offre la prospettiva di fondo con cui vivere l’intera legge di Dio.

 

Ricordiamo, finalmente, che l’amore è soprattutto un dono che Dio ci elargisce. Lo abbiamo affermato all’inizio della messa quando abbiamo pregato nell’orazione colletta del giorno: “Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti (e quindi di amarti) in modo lodevole e degno”. Chiediamo questo dono.

 

venerdì 1 novembre 2024

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI – 2 Novembre 2024 1° formulario di Messa

 



 

Gb 19,1.23-27; Sal 26; Rm 5,5-11; Gv 6,37-40

 

I tre brani della Scrittura che sono proclamati in questa messa aprono il nostro cuore alla speranza. L’orazione colletta riassume bene questa tematica quando ci invita a rivolgerci a Dio chiedendogli di confermare in noi la beata speranza che insieme ai nostri fratelli defunti risorgeremo in Cristo a nuova vita. Questa speranza è declinata con diversità di sfumature nelle tre letture bibliche e negli altri testi della messa. Ci guidano in questa riflessione: Giobbe, san Paolo e Gesù.

 

Il libro di Giobbe, da cui è presa la prima lettura, si ispira a un’esperienza dell’uomo di ogni tempo, quella del dolore. Più in particolare, questo libro si sofferma sulla sofferenza che colpisce l’innocente e il giusto, di fronte alla quale sembra stendersi l’ombra del silenzio di Dio. C’è un momento in cui Giobbe, sprofondato nel dolore per le accuse che tutti gli rivolgevano, nella solitudine totale, disprezzato e deriso – secondo la credenza che considerava la sofferenza una punizione per il peccato –, sente che ormai i suoi giorni vengono meno. Ma anche nel naufragio di tutte le speranze umane, egli ha ancora una speranza nel cuore, che lo proietta al di là del sepolcro che ormai l’attende e lo spinge in uno slancio dello spirito a proclamare la sua fede: “Io so che il mio redentore è vivo […] Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio”. San Girolamo e molti altri Padri della Chiesa hanno visto in queste parole una dichiarazione di fede nella risurrezione. La lettera di Giacomo cita l’esempio della pazienza di Giobbe e “la sorte finale che gli riserbò il Signore” (Gc 5,11).

 

Il “redentore” di cui parla Giobbe è Dio stesso, il “redentore” di Israele dalla schiavitù dell’Egitto. La seconda lettura e quella evangelica vedono il volto del nostro redentore in Gesù morto e risorto. San Paolo afferma che il fondamento della nostra speranza è solido: possiamo far fronte alle angosce della vita e alle tenebre della morte, perché Dio ci ama ormai per sempre: “siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo”. La speranza cristiana non è un vago sentimento, qualcosa di cui si teme il carattere illusorio o di cui ci si dovrebbe addirittura vergognare; è vero invece il contrario: noi ora abbiamo qualcosa di cui vantarci e gloriarci senza timore, “ci gloriamo in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione”.

 

Le parole di Gesù, raccolte e trasmesse dal brano evangelico, ci rassicurano che Egli accoglie ciascuno di noi come dono del Padre e con tre significative espressioni sintetizzano la sua missione: non lo caccerò fuori, farò sì che non si perda, lo risusciterò nell’ultimo giorno. E conclude il discorso con queste parole: “Questa, infatti, è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Vita è la metafora preferita da san Giovanni per esprimere la salvezza di Dio in tutta la sua complessità. Eterna indica la durata della vita e la sua qualità: una vita senza fine in contrapposizione alla caducità della vita umana, e una vita davanti a Dio e con Dio. Risurrezione dice che la vita donata da Dio vince la morte, una vittoria che abbraccia l’uomo nella sua interezza di corpo e spirito. L’operare di Gesù è conforme alla volontà del Padre: ciò che egli desidera e opera è quella vita che il Padre vuole donare all’umanità insidiata dalla morte, perché il Figlio è in piena comunione con il Padre e ne condivide totalmente i disegni.

mercoledì 30 ottobre 2024

TUTTI I SANTI – 1 Novembre 2024

 



 

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

 

Se a Pasqua abbiamo celebrato il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie sprigionate dalla risurrezione di Cristo, contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi.       La prima lettura ci dice che questi santi sono “una moltitudine immensa”. La seconda lettura descrive la radice della santità cristiana: essa consiste nell’essere figli di Dio e nel vivere come tali. Nella lettura evangelica Gesù ci offre la “magna carta” della santità, dove troviamo la fisionomia del perfetto discepolo di Cristo tratteggiata nel messaggio delle Beatitudini.

 

I santi non sono superuomini, ma persone che si sono realizzate umanamente seguendo la via indicata da Cristo e sintetizzata nelle Beatitudini. San Matteo colloca le Beatitudini all’inizio del Discorso della montagna (Mt 5,1-7,29). La tradizione ecclesiale considera questi capitoli di Matteo le basi fondanti dell’etica cristiana, il modo di vivere di chi si dice cristiano. Le Beatitudini sono una proclamazione messianica, l’annuncio che il Regno di Dio è arrivato per tutti. I profeti avevano descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per Gesù le Beatitudini si riducono a una sola: la gioia del Regno arrivato. Ed è alla luce del Regno arrivato (Regno che ha capovolto i valori umani) che si giustifica la paradossalità delle sue affermazioni.

 

Dopo una lettura rapida delle Beatitudini, dentro di noi risuona come un’eco la parola “beati” che Gesù pronuncia otto volte, all’inizio di ogni beatitudine. E’ una parola nota alla tradizione biblica, una parola augurale, un’invocazione di tutti quei beni che vengono da Dio. Beato è l’uomo che riceve la salvezza. Essa richiede come presupposto la fede (Mt 16,17; Lc 11,28), la perseveranza nella fede (Gc 1,12) e la vigilanza per attendere il Signore (Lc 12,37). Gesù chiama beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia. Ogni augurio è accompagnato da una promessa. E notiamo subito che l’ultima corrisponde alla prima: “di essi è il regno dei cieli”. Mentre l’Antico Testamento giungeva ad identificare la beatitudine con Dio stesso, Gesù si presenta a sua volta come colui che porta a compimento l’aspirazione alla beatitudine: il regno dei cieli è presente in lui. Più ancora, Gesù “incarna” le Beatitudini vivendole perfettamente. Ecco perché la proclamazione delle Beatitudini è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (Mt 4,23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici, paralitici. Ha cercato i poveri e li ha amati con amore di predilezione. Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato: eppure amato da Dio e salvatore. La vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del Regno e perché sono essi, i poveri, i crocifissi, che costruiscono la salvezza. Gesù ha vissuto l’ideale delle Beatitudini e in lui tutte le promesse di Dio si sono realizzate. Non siamo quindi di fronte ad una pura utopia, ma a un programma di vita che è possibile per ogni discepolo. Ce lo dimostra la schiera immensa dei santi che oggi la Chiesa venera come modelli e intercessori (cf. il prefazio).

 

La festa odierna costituisce inoltre un forte richiamo a riscoprire il santo che è accanto a noi, a sentirci parte di un unico corpo che è la Chiesa santa, cattolica e apostolica.

venerdì 25 ottobre 2024

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 27 Ottobre 2024

 



 

 

Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52

 

 

La prima lettura parla del popolo d’Israele in esilio che viene consolato dalle parole di speranza del profeta Geremia che annuncia a tutti coloro che “erano partiti nel pianto” l’intervento salvifico di Dio che li riporterà in patria “tra le consolazioni”. L’evento, nella rilettura che ne fa la liturgia, diviene la profezia della grande restaurazione messianica, espressa simbolicamente nel brano evangelico odierno dalla narrazione della guarigione del povero cieco Bartimeo, compiuta da Gesù lungo la strada che porta a Gerusalemme. Due situazioni che illustrano assai bene la condizione dell’uomo alla ricerca della salvezza. Alla luce del disegno salvifico di Dio, tutti i personaggi e gli eventi della Bibbia possono essere considerati paradigmatici, esemplari. In essi possiamo ritrovare noi stessi con i nostri problemi e le nostre attese.

 

Prendiamo il personaggio Bartimeo. E’ seduto sulla strada a mendicare. Non è neppure in grado di vedere Gesù. Il cieco però, attraverso la fitta coltre delle tenebre che lo avvolge, riesce a sentire che Gesù Nazareno è lì di passaggio, e grida fiducioso invocando da lui pietà. Gesù lo fa chiamare, gli domanda cosa vuole e, alla richiesta del cieco che chiede di riavere la vista, Gesù lo guarisce con queste parole: “Va, la tua fede ti ha salvato”. La risposta di Gesù va oltre la richiesta del povero cieco. Egli grazie alla sua fede, non è solo liberato dalla sua infermità, ma “salvato”. Il racconto di san Marco si chiude con questa annotazione: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”. Ormai Bartimeo vede in Gesù non solo il “benefattore” (Figlio di Davide) capace di guarirlo, ma anche il Maestro da seguire per la strada. La guarigione di questo cieco ha quindi una dimensione fisica, ma nello stesso tempo una dimensione spirituale: è stato liberato dalla cecità per poter diventare discepolo di Gesù. Il rilievo dato alla fede come causa della guarigione e la sequela da parte di questo “emarginato” hanno un significato paradigmatico: la salvezza è donata all’uomo nella fede e nella sequela lungo la strada verso la croce (questo miracolo è l’ultimo compiuto da Gesù in cammino verso Gerusalemme). Chi incontra il Cristo, chi si fida di lui, come il cieco Bartimeo, incontra la salvezza, viene cioè liberato dal suo male. Ma non basta incontrare il Cristo, occorre mettersi anche al suo seguito e condividere la sorte del Maestro che porta alla croce ma anche alla risurrezione.

 

Alla luce della seconda lettura, che parla di Gesù “sommo sacerdote”, che “è in grado di sentire giusta compassione” per la sofferenza e debolezza dell’uomo, la guarigione del cieco di Gerico assume le caratteristiche di un’opera di misericordia con la quale Gesù rivela l’amore misericordioso del Padre per noi. Da soli non riusciamo a vedere il cammino che conduce alla salvezza. Incontrare Cristo significa incontrare la luce che illumina il cammino che conduce alla salvezza attraverso i sentieri tortuosi della vita.

domenica 20 ottobre 2024

L’ASSEMBLEA CELEBRANTE





A differenza del Credo, che prevede un “io” come soggetto di quella che è una dichiarazione, la preghiera eucaristica si esprime nel “noi”, che ha per soggetto l’intera assemblea, anche se uno solo proclama a titolo comune. Il termine “sacerdote” per indicare il singolo che prega a nome di tutti, va considerato nel suo mero uso colloquiale, bisognoso di molti distinguo. Nella storia cristiana, infatti, non sono mancati i momenti in cui si sono reintrodotti quegli elementi di interdetto e di mediazione tipici di una sacralità che la liturgia cristiana ha sempre voluto superare. Per secoli il “sacerdote” è tornato ad essere nei fatti un mediatore del sacro, vecchia maniera. Essere speciale e separato, egli era il solo a poter maneggiare le cose sante, è l’unico, sostanzialmente, a rendere vera e valida la celebrazione.

La logica del sacro, le cui radici antropologiche affondano dentro profondità che a stento controlliamo, sta sempre in aguato. Il canone della preghiera però vigila più di noi, e nella parola prescritta tiene fermo quello che è dirimente. Quindi essa ci ricorda che magari uno presiede, ma a celebrare sono tutti. Anche quello che sta in fondo alla chiesa, nascosto dietro al confessionale, e non lo sa. Il popolo sacerdotale è anche santo, non perché tutti sono santi, nel senso convenzionale del termine, ma in virtù dell’essere parte di un organismo che è la santità di Gesù a qualificare nella sua interezza.

 

Fonte: Giuliano Zanchi, Preghiera e liturgia; San Paolo, Cinisello Balsamo 2024, pp. 66-67.