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domenica 4 giugno 2023

IL “TRONO DI GRAZIA” TRINITARIO

 



 

La matrice del Trono di Grazia è da cercare in ambito liturgico secondo una radice abbastanza originale. Centrale nella Messa è il cosiddetto “Canone eucaristico” al cui interno si celebra la consacrazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo. Ora, l’avvio di questa preghiera fondamentale suona in latino così: Te igitur (“Te dunque…”). La prima lettera è dunque una T che è stata elencata tra i simboli trinitari come Tau (detta anche “Croce di sant’Antonio”). Ebbene, nelle miniature dei messali (ad esempio, quello splendido di Cambrai del 1120) questa lettera è sorretta dalla figura del Padre, affisso ad essa è il Cristo crocifisso, mentre tra i due vola la colomba dello Spirito Santo.

Con questa immagine si comunica la qualità trinitaria della celebrazione eucaristica, dato che Dio Padre “ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16), mentre lo Spirito li unisce in un abbraccio d’amore. E’ anche di notare che in alcune miniature la colomba dello Spirito è tratteggiata in modo tale da toccare con le sue ali la bocca del Padre e quella del Figlio, testimoniando il mistero di comunione che vincola tra loro le tre persone divine. Certo, non sarà facile per i nostri lettori ammirare la pagina miniata del “Canone eucaristico” di un messale medievale. Ma a tutti è, invece, possibile contemplare il pi famoso e affascinante Trono di Grazia.

E’ sufficiente che, usciti dalla stazione ferroviaria di Firenze, varchino la soglia dell’antistante chiesa di Santa Maria Novella, uno scrigno di opere d’arte, tra le quali indimenticabile è uno dei rari affreschi di Masaccio (1427 ca.). In esso la rappresentazione della crocifissione di Cristo si trasforma in una sintesi trinitaria col Padre che abbraccia idealmente il Figlio crocifisso, all’insegna della colomba dello Spirito che sovrasta la scena. E’ interessante notare  che la rappresentazione è inserita in un contesto architettonico rinascimentale, così da risultare “contemporanea” alla coppia dei committenti posti ai lati e agli stessi fedeli che sostavano in preghiera in questo tempio fiorentino dei Domenicani.

Il Trono di Grazia, diffuso lungo i secoli, soprattutto a partire dalla “peste nera” del 1347-1348 – quella del Decamerone di Boccaccio –, fu di volta in volta arricchito di particolari, fino a raggiungere l’astrazione attraverso la sostituzione delle tre persone trinitarie con tre ostie eucaristiche, a causa dell’ambito liturgico a cui abbiamo accennato. Alcune realizzazioni rivelarono, comunque, una loro originalità, come nel caso della tempera su tavola di Nicoletto Semitecolo (1370 ca.) custodita al Museo Diocesano di Padova: è il Padre stesso a reggere con le sue braccia aperte il Figlio crocifisso, facendo quindi da croce vivente, mentre sempre si introduce tra loro la colomba dello Spirito.

Su questa scia è spontaneo l’invito a proseguire idealmente fino al Museo del Prado di Madrid e a cercarvi un’imponente tela eseguita da El Greco tra il 1577 e il 1579. Noi siamo abituati a riconoscere la Pietà con la figura di Maria che sostiene sulle sue ginocchia il corpo morto del Figlio (quella di Michelangelo nella basilica vaticana è negli occhi di tutti). Ebbene, il celebre pittore originario di Creta e allievo di Tiziano crea invece una Pietà del Padre che regge tra le sue braccia il cadavere del Figlio deposto dalla croce, mentre tra i due aleggia sempre la colomba dello Spirito Santo.

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, Tre. Divina aritmetica (Storie di numeri), il Mulino, Bologna 2023, 144-148.




 

venerdì 2 giugno 2023

SANTISSIMA TRINITA’ (A) – 4 Giugno 2023

 



 

 

Es 34,4b-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18

 

 

Celebrare la solennità della Santissima Trinità, più che professare un dogma, significa celebrare la storia della nostra salvezza, di cui Dio è il principale protagonista, quel Dio che si è reso visibile nel suo Figlio fatto carne e che continua la sua opera in mezzo a noi attraverso l’azione dello Spirito Santo. Il mistero della santa Trinità ci appare così il mistero di un’infinita presenza che avvolge la nostra esistenza e le spalanca davanti le profondità della vita divina.

 

Le tre letture, che ci vengono proposte nella messa, tracciano come un itinerario di rivelazione progressiva del mistero di Dio uno e trino agli uomini: un Dio che si rivela come “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (prima lettura); un Dio che salva: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (vangelo); un Dio che rimane sempre con noi: “vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi” (seconda lettura). Dio ci si è rivelato nel Padre come creatore e Signore dell’universo, principio e fine di ogni cosa; nel Figlio incarnato come salvatore e redentore; e nello Spirito Santo, effuso nei nostri cuori, come forza e presenza santificante.

 

Dio non si presenta con potenza o con pretese di dominio o sudditanza, ma come colui che ama e genera comunione, quel legame, cioè, di intimità e unità che solo l’amore conosce e può diffondere. Il mistero trinitario offre l’immagine di un Dio ricco di rapporti in sé e come tale rivelatosi operante nella storia. Il fatto quindi che Dio sia ricco di relazioni, uno nella distinzione delle persone in pienezza di vita, ha delle conseguenze inimmaginabili per la comprensione dell’uomo, del mondo e della società. Tutto ciò si esprime nella dimensione della comunione e del dialogo. 

 

È famosa l’affermazione di Kant: “la dottrina sulla Santa Trinità non porta nessuna utilità nella vita quotidiana”, parole che esprimono forse l’opinione di molti cristiani. Invece per Gesù il mistero trinitario è la radice, il punto di riferimento della sua missione quando si rivolge al Padre con questa toccante preghiera: “perché tutti siano una cosa sola, come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi […] siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e li hai amato come hai amato me” (Gv 17,21-23).

 

 

 

venerdì 26 maggio 2023

DOMENICA DI PENTECOSTE (A) – 28 Maggio 2023 Messa del giorno

 


 

 

 At 2,1-11; Sal 103 (104); 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23

 

La Chiesa proclama che abitiamo in un mondo amico, nel quale possiamo contemplare la presenza amorosa del Signore. La Pentecoste celebra la presenza dello Spirito di Dio che rinnova mondo e uomini. Ecco perché siamo invitati a rendere grazie al Signore e a cantare: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra”.

 

La solennità di Pentecoste, che “porta a compimento il mistero pasquale” (prefazio), commemora il dono dello Spirito divino effuso sugli apostoli e su tutti noi. Lo Spirito è il dono più prezioso di Cristo risorto, principio di una nuova creazione, di una nuova realtà, è l’amore di Dio effuso nei nostri cuori per rinnovare la faccia della terra. Abbiamo sentito nel vangelo come Gesù appare agli apostoli e li saluta con queste parole: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Dopo aver detto questo, alita su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo...”  La prima lettura ci racconta in dettaglio la scena della discesa dello Spirito sugli apostoli riuniti nel cenacolo cinquanta giorni dopo Pasqua. Ma la Pentecoste non è un evento isolato nel tempo; è un prodigio che si prolunga nella storia. Infatti, san Paolo nella seconda lettura ci ricorda che tutti noi abbiamo ricevuto lo stesso Spirito nel quale siamo stati battezzati. Lo Spirito è effuso su tutti ed è all’origine dei diversi doni che sono in noi non solo per l’utilità personale ma anche “per il bene comune”.

 

Possiamo soffermarci su quest’idea, che è centrale nell’insegnamento dell’apostolo Paolo. Egli illustra la sua dottrina con un’immagine eloquente, il corpo: tutti formiamo un solo corpo, ma in molte membra; membra diverse, ma unite a formare un unico organismo. Lo Spirito Santo è il garante dell’unità che tiene unita e ben compaginata la Chiesa come un corpo, in cui la diversità di funzione e ruolo delle varie membra è al servizio del bene dell’organismo intero. La prima lettura ci ricorda che san Pietro nel suo primo annuncio del Vangelo nel giorno di Pentecoste era capito nella propria lingua dai numerosi stranieri convenuti a Gerusalemme. Lo Spirito di Pentecoste è una forza unificatrice che si contrappone vittoriosamente alla logica di divisione della torre di Babele (cf. Gen 11). Lo Spirito è principio di unità nella varietà. Il progetto di Dio è un mondo ricco nella varietà e saldo nella comunione. La varietà dei doni che lo Spirito Santo elargisce generosamente per il bene comune, esige il mutuo riconoscimento della dignità dell’altro e la collaborazione reciproca. Ognuno di noi è parte integrante e insostituibile nel grandioso progetto di Dio sulla storia. Nessuno è superfluo in questa storia, ma ognuno, con la sua particolare vita, con i suoi eroismi e anche con le sue debolezze, è chiamato a mettersi generosamente al servizio degli altri perché il Regno di Dio si compia.

 

Nell’orazione sulle offerte chiediamo al Padre che mandi lo Spirito “perché riveli pienamente ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio”. Lo Spirito Santo ci fa percepire il senso profondo della redenzione e, in particolare, la grandezza e il valore del mistero eucaristico.

 

domenica 21 maggio 2023

COMUNITÀ LITURGICA E CELEBRATIVA

 


La vita comunitaria è molto più che una istituzione. È la realizzazione di un modo di rapportarsi, insito nel disegno di Dio creatore, che è stato minacciato fin dall’inizio della storia, a causa del ripiegarsi dell’uomo su se stesso, dell’egoismo e della lotta per il potere. Da qui sono sorte le invidie, le divisioni e le guerre fratricide. Ecco perché Gesù conclude la sua esistenza con la morte in croce “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). D’allora la comunità dei discepoli di Gesù sarà perseverante “nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere […] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune […] Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo” (At 2,42.44.46-47). Da notare in questa descrizione della vita della primitiva comunità di Gerusalemme, l’armonia tra celebrazione del culto e vita comune.

La celebrazione liturgica è un fatto comunitario e insieme personale, che impegna il coinvolgimento libero e responsabile dei singoli partecipanti nell’azione cultuale che è essenzialmente e costitutivamente ecclesiale. Parlare di partecipazione interna e di partecipazione esterna come di due momenti diversi e separabili, è ambiguo e deviante. Il Concilio Vaticano II ha avuto il merito di condensare in una espressione lapidaria e ormai nota le modalità della partecipazione: “per ritus et preces id [= mysterium fidei] bene intellegentes (SC 48): “comprendendo bene [il mistero della fede] nei suoi riti e nelle sue preghiere”. I riti e le preghiere non sono una realtà esterna, ma sono la mediazione con cui si accede al mistero che si celebra. La stessa comprensione di cui parla il testo non si ferma ai riti, né raggiunge il mistero della fede senza di essi; al contrario, si comprende il mistero della fede proprio attraverso i riti e le preghiere con cui si celebra.

Il rito comprende parola e gesto, e deve essere interpretato come azione. È famosa l’affermazione dell’intellettuale africano del Senegal Léopold Senghor: “Gli occidentali dicono (con Renato Cartesio): penso, quindi sono; noi africani diciamo: danzo, quindi esisto”. Dobbiamo ricuperare il valore del rito, azione simbolica, come strumento di partecipazione e via attraverso cui entriamo nella profondità del mistero.

Il teologo irlandese Thomas O’Loughlin, con un suo stile molto particolare, afferma che benché si potrebbe partecipare grazie ad un ascolto orante e ad un’attenzione assorta e silenziosa, noi siamo il popolo dell’incarnazione, dei corpi tanto quanto delle menti e dello spirito (Cf. Th. O’LoughlinRiti corretti. Perché celebrare bene conviene, Queriniana, Brescia 2020, 77). E, come nota Aristotele, ci impegniamo maggiormente in ciò che ci coinvolge attraverso i sensi: più veniamo coinvolti mediante i cinque sensi, più siamo interessati a quel che accade intorno a noi. Una celebrazione è intessuta di segni e di simboli, di parole e di azioni (cfr. CCC 1145 e 1153). La partecipazione si svolge attraverso questi diversi linguaggi.

Papa Francesco ha detto: “La liturgia non è “il campo del fai-da-te”, ma l’epifania della comunione ecclesiale. Perciò, nelle preghiere e nei gesti risuona il “noi” e non l’“io”; la comunità reale, non il soggetto ideale” (Discorso alla Plenaria della CCDDS, 14.02.2019). La celebrazione liturgica ci sradica dal nostro individualismo e ci educa a stare insieme, a condividere, a pregare insieme. L’individualismo soffoca il senso della comunità.

L’eucaristia è presenza di Cristo, memoria efficace del suo sacrificio y comunione ad esso. In tempi passati queste tre dimensioni dell’eucaristia (presenza, sacrificio e comunione) sono state vissute talvolta come devozioni private e separate: così dal secolo XII/XIII in poi la presenza di Cristo era adorata nelle esposizioni del Santissimo, ma la comunione era una prassi privata fatta poche volte e fuori della messa. La liturgia ci insegna a vivere queste tre dimensioni dell’eucaristia in modo unitario e comunitario. Se le separiamo sarebbe come illudersi di poter gustare una parmigiana di melanzane, mangiando prima il pomodoro, poi le melanzane e poi la mozzarella, gradevoli anche separatamente ma niente a che vedere con il gusto di una buona parmigiana.

Caratteristica della modernità è una forte e crescente disaffezione verso il rito, la tradizione e il linguaggio simbolico, che va di pari passo con la crescita dell’individualismo. E ciò viene da lontano. Secondo alcuni studiosi, nella storia culturale e religiosa europea degli ultimi secoli c’è stata una tendenza a la comprensione fredda e intellettuale della religione e conseguentemente della liturgia. Anzitutto troviamo una progressiva “razionalizzazione” della religione e un primato attribuito alla ragione a partire dall’illuminista Immanuel Kant, secondo il quale l’essenza della religione è la “fede razionale”, o meglio una ragione che sappia controllare la fede. Friedrich Schleiermacher, uno dei massimi rappresentanti del romanticismo tedesco, volendo combattere il razionalismo di Kant, esalterà l’esperienza religiosa, concepita però come “pura esperienza interiore” e questa interpretata come semplice “sentimento”. In questo modo, se tutto viene interiorizzato, la liturgia come rito perde la sua capacità simbolica. Ciò spiegherebbe la crescente “testualizzazione” della liturgia a scapito della sua dimensione propriamente rituale (Cf. Aldo Natale TerrinLiturgia come gioco, Morcelliana 2014, 11-16).

Alcuni anni fa, la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Lettera Placuit Deo (22.02.2018) su alcuni aspetti della salvezza cristiana, quando si descrive l’impatto delle trasformazioni culturali attuali sul significato della salvezza cristiana, si afferma: “si diffonde la visione di una salvezza meramente interiore, la quale suscita magari una forte convinzione personale, oppure un intenso sentimento, di essere uniti a Dio, ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre relazioni con gli altri e con il mondo creato. Con questa prospettiva diviene difficile cogliere il senso dell’Incarnazione del Verbo, per cui Egli si è fatto membro della famiglia umana, assumendo la nostra carne e la nostra storia, per noi uomini e per la nostra salvezza”.  Quindi, per quanto a noi riguarda qui, si tratta di un tipo di spiritualità che non guarisce e non rinnova le nostre relazioni con gli altri, non crea uno spirito comunitario.

La liturgia invece è un antidoto contro l’individualismo. Alla celebrazione cultuale siamo convocati come comunità e in essa siamo coinvolti in una azione comunitaria che, a sua volta, può rinvigorire i nostri legami come comunità.

 



 

venerdì 19 maggio 2023

ASCENSIONE DEL SIGNORE (A) – 21 Maggio 2023 Messa del giorno

 



 

 

At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

 

 

L’ascensione di Cristo al cielo è il momento culminante della Pasqua del Signore: il suo trionfo e la sua glorificazione personale dopo l’apparente disfatta della morte in croce. Con la sua ascensione, Cristo è stabilito re dei secoli, Signore dell’universo, sacerdote e mediatore unico tra Dio e gli uomini, capo del suo corpo mistico (cf. seconda lettura).

 

Il racconto dell’evento dell’ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia, la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo tra l’ascensione del Signore e il suo ritorno alla fine dei tempi. San Paolo nella seconda lettura parla della speranza che l’ascensione di Cristo inaugura. Cristo, entrando nel mondo di Dio, rende accessibili a tutti noi le realtà divine. Guidati da questa speranza, siamo in grado di valutare in modo giusto le realtà terrene. Gesù è passato in mezzo a tutte queste realtà del mondo tenendo fisso lo sguardo verso il Padre, senza deviare dalla strada della sua missione. La solennità dell’Ascensione è certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile, ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo diventa alienazione e inganno se ci distoglie dalle sue premesse nella storia, dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è evasione religiosa, disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è il lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il traguardo di Dio. Perciò questo messaggio è destinato ad essere annunciato a tutti gli uomini.

 

Infatti, Gesù congedandosi dei discepoli, li invia in missione. Il breve brano del vangelo d’oggi è tutto incentrato su queste parole di Gesù: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque a fare discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Se il fatto della missione rende la Chiesa apostolica, cioè inviata nel mondo, i destinatari la rendono cattolica, cioè universale. Una caratteristica quest’ultima che si rende visibile quando la comunità cristiana non appare chiusa in sé stessa, autoreferenziale, ma aperta a tutti, veramente incarnata in ogni situazione e travaglio umano, totalmente presente al mondo per il suo servizio. Solo allora il termine cattolica acquista il suo pieno senso. La missione della Chiesa ha il compito di incontrare l’uomo e di condurlo al di là di sé stesso, a Cristo. Il ritorno di Cristo al Padre inaugura quindi il cammino della Chiesa e della sua missione nel mondo per condurre tutti gli uomini con Cristo al Padre.

 

Nell’eucaristia la Chiesa pellegrina sulla terra riaccende continuamente la speranza della patria eterna (cf. orazione dopo la comunione).

 

domenica 14 maggio 2023

DIO MISERICORDIOSO

 





Nelle antiche religioni pagane la divinità è concepita a immagine e somiglianza degli esseri umani. Così, ad esempio, gli dei dell’Olimpo, venerati dagli antichi greci e anche dagli etruschi che assorbirono la mitologia greca, venivano immaginati con le sembianze umane e con abitudini di vita simili a quelle degli uomini. Avevano qualità e poteri sovrumani, ma allo stesso tempo possedevano i difetti tipici degli umani. Invece nella Bibbia ebraico-cristiana è l’essere umano ad essere concepito a immagine e somiglianza di Dio. Leggiamo nel libro della Genesi: “Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza’” (Gen 1,26). Ecco, quindi, che l’antropomorfismo con cui si esprime la Bibbia, non significa che Dio sia come uno di noi, ma è semplicemente il modo con cui Dio diventa in qualche modo comprensibile a noi. Infatti, Dio è trascendente e irraggiungibile. Dice san Paolo che Dio “abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo” (1Tm 6,16). Quando parliamo quindi di Dio, nel nostro caso della misericordia di Dio, bisogna aver sempre presente questo divario che c’è tra Lui e noi. Il nostro linguaggio è inadeguato ad esprimere ciò che Dio è. A questo proposito, Papa Francesco in una delle sue omelie a Santa Marta, a proposito della misericordia di Dio, ha detto: “Dio ci perdona come Padre, non come un impiegato del tribunale”

 

“Paziente e misericordioso” è il binomio che riassume meglio la descrizione che di Dio fa l’Antico Testamento. Il suo essere misericordioso trova riscontro concreto in tante azioni della storia della salvezza dove la bontà prevale sulla punizione. “Il suo amore è per sempre” è il ritornello che viene riportato ad ogni versetto del Sal 136 mentre si narra l’agire di Dio nella creazione e nella storia d’Israele.

 

Il Figlio di Dio incarnato, Gesù Cristo, è il volto della misericordia del Padre. La missione che Gesù ha ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino nella sua pienezza. “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16), afferma per la prima e unica volta in tutta la Sacra Scrittura l’evangelista Giovanni. Questo amore è ormai reso visibile e tangibile in tutta la vita di Gesù. I segni che egli compie, soprattutto nei confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti, sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di compassione.

 

Quando si leggono i vangeli, si resta sorpresi nel constatare con quanta frequenza Gesù lascia trasparire la sua compassione di fronte alle più diverse situazioni umane di sofferenza, fisica o morale che sia. Nel linguaggio del Vangelo, compassione è una parola che ha a che vedere con le “viscere”: “essere commosso fino alle viscere”. È un sentimento, o meglio uno sconvolgimento che prende nell’intimo viscerale appunto. E Gesù passa dal sentimento all’intervento, all’azione concreta.

 

L’evangelista Luca parla frequentemente della misericordia/compassione; il suo Vangelo è stato chiamato il Vangelo della misericordia. Qui vorrei invitarvi a ricordare tre passaggi in cui il tema della misericordia è in primo piano: il racconto della risurrezione del figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17), e due parabole: quella del buon Samaritano (Lc 10,25-37) e quella del padre misericordioso nei confronti del figlio prodigo (Lc 15,11-32). Questi tre brani hanno un significato, un messaggio, che va aldilà delle situazioni concrete raccontate. Vi troviamo le situazioni umane più tipiche:

 

La morte, nella sua manifestazione più drammatica e con quel clima di angoscia che sconvolge i protagonisti: un giovane dinanzi alla morte e una madre che perde il suo unico figlio; la malvagità umana, o meglio, le sue infinite vittime abbandonate sul ciglio di tutte le strade del mondo; le situazioni di perdizione, nelle quali gli individui, più o meno coscientemente, hanno svenduto la propria dignità e si ritrovano così umiliati nell’intimo da non riuscir più nemmeno a sperare.  

 

Dio è misericordioso, ma è anche giusto. Come si possono conciliare questi due attributi divini? Noi siamo inclini a parlare della giustizia di Dio interpretandola semplicemente come una giustizia giudiziaria, secondo le nostre categorie giuridiche. Secondo la Bibbia però la giustizia divina non può ridursi all’esercizio di un giudizio. San Paolo ci ricorda che Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). La giustizia di Dio è anzitutto misericordiosa fedeltà alla sua volontà di salvezza. Possiamo dire che Dio è giusto perché è fedele alla sua alleanza con l’umanità, anche quando noi siamo infedeli ad essa. Per capire meglio questo concetto di giustizia divina, occorre anche dire che la misericordia di Dio è possibile soltanto se è unita al suo perdono. La misericordia senza perdono non avrebbe senso; al massimo manifesterebbe un sentimento che assomiglia alla tolleranza o, peggio, all’indifferenza. Potrebbe perfino essere fraintesa, e colui che ne è beneficiario potrebbe pensare che gli è andata bene, non imparando nulla dai suoi errori. Provvidenzialmente, finché si vive, l’atteggiamento offensivo dell’uomo è ricambiato dall’amore misericordioso di Dio, che lo richiama continuamente invitandolo a ravvedersi.

 

E l’inferno? E’ nota la battuta di Hans Urs von Balthasar: “L’inferno c’è, ma è vuoto”. Ma come si concilia l’esistenza dell’inferno con l’infinita misericordia di Dio? Il Catechismo della Chiesa Cattolica risponde con le parole seguenti: “Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’” (n. 1033).  Dio ci ha creati liberi e responsabili, e quindi rispetta le nostre decisioni. L’inferno è la possibilità negativa che si possa perdere consapevolmente la salvezza eterna.

 

San Paolo nella sua prima Lettera ai cristiani di Corinto, dopo aver denunciato gli scandali provocati da alcuni in quella comunità, si fa una domanda retorica: “Devo venire da voi con il bastone o con dolcezza d’animo?”. Certamente san Paolo va a Corinto con un cuore misericordioso È innegabile che oggi si preferisce parlare più della misericordia di Dio piuttosto che della sua giustizia. E ciò è vero anche a livello del supremo magistero della Chiesa. Ricordiamo l’enciclica Dives in misericordia di Giovanni Paolo II (anno 1980); l’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI (anno 2005) e il magistero di papa Francesco culminante nella iniziativa di indire un Giubileo straordinario della Misericordia. Forse gli uomini e le donne di questa nostra epoca abbiamo più bisogno non tanto di temere un Dio giusto, quanto di confidare in un Dio misericordioso. D’altra parte, confidare nella misericordia di Dio non nega certo la sua giustizia; semmai, la esalta.

 

La misericordia di Dio ci insegna che è importante non chiuderci nelle nostre sofferenze, nei nostri piccoli o grandi problemi, al fine di poter accogliere le sofferenze ed i problemi degli altri. Papa Francesco adopera frequentemente l’espressione “uscire da se stessi”. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi mentali che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la misericordia che salva e dona speranza. Gesù, dopo il discorso sulle beatitudini, dice a tutti noi: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36).

 

Con Platone, ma poi soprattutto con lo stoicismo, che considerava la compassione e la misericordia come una malattia dell’animo – aegritudo animi – la filosofia aveva considerato la misericordia alla pari di una debolezza umana (cf. Apologia 34c ss.) che si opponeva ad un comportamento guidato dalla ragione. Per il cristianesimo invece la misericordia è la virtù dei forti, di coloro che, dimentichi di sé, sono capaci di avvicinarsi con uno sguardo compassionevole alle miserie degli altri.

 

M. Augé