Translate

giovedì 30 dicembre 2021

MARIA SS. MADRE DI DIO – 1 Gennaio 2022

 

 


 

Nm 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2, 16-21

  

Iniziamo un nuovo anno. Il tempo passa e con esso la nostra vita corre verso il suo compimento. Guardiamo indietro e ricordiamo tanti momenti belli e gioiosi ma forse anche momenti tristi e talvolta drammatici. Guardiamo avanti e ci auguriamo che il tempo che il Signore voglia ancora concederci trascorra serenamente.

 

In questo primo giorno dell’anno si sovrappongono una serie di temi: l’inizio dell’anno, l’ottava del Natale, la solennità di Maria SS. Madre di Dio e la giornata della pace istituita da Paolo VI nel 1967. Possiamo aggiungere ancora, con il brano evangelico, la circoncisione, in cui “gli fu messo nome Gesù”, che significa “Iahvè salva”; in Luca, è a Maria che viene detto il nome scelto da Dio (1,31), mentre in Matteo viene detto a Giuseppe (Mt 1,21.25). Tutte queste tematiche possono trovare un logico collegamento tra loro nel tema della benedizione. Maria, la benedetta fra tutte le donne, ci ha donato Gesù, frutto benedetto del suo seno, primogenito fra molti fratelli. Infatti, anche noi siamo diventati, per opera dello Spirito, figli ed eredi, e, in questo modo, tutta la nostra vita è nel segno della benedizione divina di cui la pace è frutto prezioso. Le letture bibliche d’oggi riprendono queste tematiche e conferiscono loro motivazioni e contenuti dottrinali.

 

La prima lettura descrive come i sacerdoti d’Israele davano al popolo la benedizione al termine delle grandi feste liturgiche. Quest’antica benedizione sacerdotale, ancora oggi usata nella liturgia sinagogale, fa perno sul nome del Signore, richiamato per tre volte (alcuni Padri della Chiesa l’hanno interpretato in senso trinitario), e pone questo nome sui figli d’Israele. “Porre il nome” vuol dire stabilire una relazione con la persona. La benedizione è riconoscimento che ogni bene viene da Dio e dipende da una vita di comunione con lui. Segno manifesto delle benedizioni divine è la pace: Dio benedice il suo popolo e lo conduce alla pace. Il pieno compimento della benedizione si ha in Gesù Cristo, proclamato dall’antifona d’ingresso “Principe della pace”. San Paolo lo illustra a modo suo nella seconda lettura quando afferma che in Cristo abbiamo ricevuto “l’adozione a figli”; non siamo più schiavi, ma figli. Possiamo diventare consapevoli della nostra condizione filiale perché ci è stato donato lo Spirito, che plasma interiormente in ognuno di noi i lineamenti del Cristo, il Figlio primogenito. Questo mistero è stato possibile ed è reso visibile perché, “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna”. In questo modo, la maternità di Maria accresce la propria realtà dandosi a vedere quale “madre del Cristo e di tutta la Chiesa” (orazione dopo la comunione). Maria è inoltre esemplare di accoglienza delle benedizioni divine donateci in Cristo: nel brano del vangelo essa appare come colei che serba e medita nell’interiorità del cuore tutti gli eventi che riguardano il Figlio, frutto benedetto del suo seno. Da madre si fa anche prima discepola fin da ora, custodendo nel cuore il mistero.

 

Col nuovo anno inizia un ulteriore tratto del cammino della nostra vita che siamo invitati a percorrere sotto il segno della benedizione di Dio. L’eucaristia che segue alla proclamazione della Parola al tempo stesso che ci pone in atteggiamento di riconoscenza per i doni ricevuti da Dio, di cui Cristo è il dono più prezioso, ci rassicura che ogni giorno di questo nuovo anno, ogni giorno della nostra vita sarà sempre un dono prezioso della grazia divina. A noi aspetta accoglierlo con gratitudine e renderlo fruttuoso nella vita quotidiana.

 



 

domenica 26 dicembre 2021

“PER EVANGELICA DICTA DELEANTUR NOSTRA DELICTA”

 





 

Terminata la lettura del Vangelo, il sacerdote acclama “Verbum Domini” (Parola del Signore), e bacia il libro dicendo sottovoce: “Per evangelica dicta deleantur nostra delicta” (La parola del Vangelo cancelli i nostri peccati). Formule simili accompagnano fin dall’anno mille circa il bacio del Vangelo. Alla acclamazione iniziale il popolo risponde: “Laus tibi, Christe” (Lode a te, o Cristo). Sarebbe da augurarsi che anche le parole sottovoce che accompagnano il bacio del libro alla fine della lettura evangelica fossero pronunciate da tutti i partecipanti, si tratta infatti di una formula al plurale che esprime in forma di preghiera ciò che afferma l’Introduzione al Lezionario della Messa, al n. 4: “Nella Parola di Dio è presente il Cristo, che attuando il suo mistero di salvezza, santifica gli uomini e rende al Padre un culto perfetto”.

Nel secolo scorso, in particolare dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II, dagli anni ’70 in poi, sono stati diversi gli autori che hanno approfondito e messo in rilievo la dimensione sacramentale della Parola di Dio. Recentemente, ho presentato in questo blog l’importante studio di A. Bozzolo e M. Pavan (Sacramentalità della Parola, Queriniana 2020), che fa la sintesi di questo lungo cammino di approfondimento della dimensione sacramentale della Parola. Ciononostante, possiamo affermare che permane ancora in alcune riflessioni teologiche e nella pastorale, particolarmente in alcune omelie, una certa dicotomia tra sacramento e Parola, cioè la concezione che il sacramento dona la grazia mentre la Parola biblica propone la dottrina, che il sacramento è efficace mentre la Parola può solo preparare il sacramento oltre che insegnare. Ma se la parola di Dio non è vissuta nell'economia sacramentale fino a essere accolta come realtà sacramentale, come trasmissione di potenza spirituale e di grazia – e non solo come comunicazione di verità, di precetto e di dottrina –, rischia di restare sempre parola su Dio, configurandosi soltanto come un preludio alla celebrazione del sacramento.

La Parola va proclamata, celebrata, ascoltata e vissuta. Ognuno di questi momenti è importante affinché essa “abbia un intrinseco riferimento alla persona di Cristo e alla modalità sacramentale della sua permanenza” (cf. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 45). La nota affermazione di Agostino: “Accedit verbum ad elementum et fit sacramentum” invita a sfruttare ogni elemento rituale che accompagna la proclamazione della Parola. La forma dell’atto celebrativo non è meramente un rivestimento esteriore del sacramento, ma la modalità storica della sua attuazione.

 

sabato 25 dicembre 2021

DOMENICA DOPO NATALE: SANTA FAMIGLIA DI GESU’ MARIA E GIUSEPPE (C) 26 Dicembre 2021

 


 

 

1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

 

Tutte e tre le letture bibliche odierne parlano della nascita dell’uomo all’interno della famiglia, ma tutte e tre affermano che il bambino è più grande della famiglia in cui nasce. Ciò la prima lettura lo dice di Samuele, il vangelo lo afferma di Gesù, e la seconda lettura lo applica ad ogni uomo, ad ogni battezzato, vero figlio di Dio. Il destino dell’uomo che viene a questo mondo è un destino che sovrasta i limiti della famiglia in cui nasce perché la dimensione ultima della sua vita trascende le realtà di questo mondo. Questo vale anzitutto per Gesù.

 

Il vangelo ci racconta che Maria e Giuseppe si recano a Gerusalemme per la ricorrenza della Pasqua ebraica. Gesù, ormai dodicenne, accompagna i suoi genitori in questo pio pellegrinaggio. Ed ecco che al ritorno il bambino rimane a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano. Dopo tre giorni di angosciose ricerche, nel ritrovarlo seduto in mezzo ai dottori nel tempio, Maria non può far a meno di rimproverare affettuosamente suo figlio, come farebbe ogni mamma: “perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Gesù risponde: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. E’ la prima autorivelazione del suo destino. Il brano evangelico aggiunge che Maria e Giuseppe non compresero queste parole. Dice però che Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. La breve parentesi dell’autorivelazione di Gesù nel tempio di Gerusalemme prelude a quella della sua pasqua di morte e risurrezione. I tre giorni di angosciosa ricerca da parte di Maria e Giuseppe anticipano i tre giorni del suo dramma finale.

 

L’odierna festa della Sacra Famiglia ci invita a riflettere sul mistero del figlio, d’ogni figlio, d’ogni uomo. “Eredità del Signore sono i figli” (Sal 127,3a). Perciò su ogni uomo che viene a questo mondo, Dio ha un suo progetto. La persona è chiamata ad uscire dall’ambito della famiglia e trovare nella obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita al di là di ogni tentazione di possesso personale dei propri genitori. Gesù affermerà più volte di avere Dio per Padre (cf. Lc 10,22; 22,29; Gv 20,17) rivendicando per sé un rapporto che oltrepassa quello paterno e anche quello materno. Le ultime parole del vangelo d’oggi ci fanno capire però che il progetto di Dio su di noi si realizza attraverso il passaggio di crescita e di maturazione in seno alla famiglia: “Scese, dunque, con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso…” Gesù vive e cresce in una famiglia dove Maria e Giuseppe offrono l’insegnamento della loro saggezza rimanendo sempre aperti al progetto di Dio sul loro figlio. La famiglia in cui la persona umana nasce e cresce è essenziale; ma la persona dovrà uscire dall’ambito familiare e trovare nell’obbedienza a Dio la dimensione ultima della sua vita. La famiglia svolge il proprio compito quando non ostacola, ma si pone al servizio del pieno sviluppo umano e spirituale della persona.

 

Oggi si è passati dalla famiglia con un “ruolo normativo” in cui si trasmettevano principi morali e norme sociali, alla famiglia “affettiva” orientata a soddisfare i bisogni individuali dei figli, a evitargli sofferenze e frustrazioni. Stiamo assistendo ad un’educazione in cui lo stile affettivo tende a predominare su quello normativo al punto di metterlo in secondo piano.


Sarebbe esagerato ed anacronistico rimpiangere la figura autoritaria dei genitori che impartivano divieti ed obblighi, così come risulterebbe eccessivo da parte della famiglia considerare come primario l’aspetto affettivo e delegare alla scuola il compito di insegnare le regole. Una fede matura e vissuta coerentemente può essere il modo più adatto di trasmettere ai figli quei valori che presto o tardi li aiuteranno a crearsi una visione adeguata e cristiana della vita.

giovedì 23 dicembre 2021

NATALE 2021 (Messa del giorno)

 



 

Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

 

Poeti, filosofi, pensatori, credenti o meno in Dio, si domandano sul senso della vita. Tra questi, ricordiamo alcuni versi di un grande poeta italo-francese Paul Valéry, scomparso a metà del secolo scorso. Egli scrive: “Solo. Sempre solo… Nessuno ascolta la mia voce interiore. Nessuno che mi parli direttamente, che comprenda le mie lacrime e riceva la confidenza del mio cuore… Solo. Se ci fosse un Dio, visiterebbe, credo, la mia solitudine…”

 

“Se ci fosse un Dio” che visitasse la nostra solitudine! L’aspirazione di Valéry e le domande simili che si pongono altri come, ad esempio, Leopardi, hanno avuto una risposta. A Natale ricordiamo la venuta di Dio sulla terra e la conseguente rivelazione del nostro destino. Dio c’è. E’ venuto ed è vissuto tra noi, e tra noi desidera rimanere per condividere la condizione umana, rispondere alle nostre domande, rompere la nostra solitudine, comunicarci la sua divinità. La liturgia natalizia riecheggia il lieto annuncio del vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1.14); la liturgia natalizia riecheggia anche l’esultanza del profeta Isaia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace”. Questo messaggero che annuncia la pace è Cristo.

 

L’Incarnazione del Verbo di Dio è il cuore della fede cristiana. Essa ci dice che Dio non è l’essere sperduto nei cieli, lontano da noi e sordo alle nostre invocazioni. E’ l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che ha piantato la sua tenda accanto alle nostre, pronto a spostarla e portarla dove noi ci stabiliamo. In tale prospettiva la solitudine è superata, poiché il Verbo, assumendo la natura umana, si è fatto nostro compagno di strada. Non occorre più cercare Dio nell’infinità del cielo, dove la nostra mente e il nostro cuore si smarriscono. Dio, nel Verbo incarnato ci sta accanto, sperimenta la nostra fatica di pellegrini, la fame, la sete, la stanchezza, l’ostilità, e anche l’angoscia della morte. Ci comprende e ci aiuta a raggiungere la mèta.

 

Leopardi si domanda: “Ed io chi sono?” La sua risposta è desolante: viandante smarrito e lacerato, preda della noia. Un altro dei pensatori moderni ha affermato che l’uomo è un condannato a portare il proprio cadavere. E per il filosofo Sartre, l’uomo è una “passione inutile”. L’evento del Natale ribalta queste desolate definizioni e fa vedere l’uomo su uno sfondo di dignità, di valore, di immortalità. Che questo Natale sia per tutti noi un momento di serenità, di speranza nel futuro, di certezza della presenza in mezzo a noi di colui che è disceso dal cielo per abbracciare l’umanità intera e ridare ad essa la sua primigenia dignità. Ci ricordiamo di coloro che vivono queste feste nella sofferenza, nella povertà, talvolta in situazioni disperate. Ci ricordiamo dei paesi in guerra, degli uomini e delle donne che hanno perso la fiducia in sé stessi, di tutti coloro che hanno bisogno di ritrovare il senso della propria esistenza. Che il messaggio del Natale possa arrivare a tutti per ricominciare a sperare e ad amare.





sabato 18 dicembre 2021

Le risposte ai “dubia” e la fine del “dispositivo di blocco”

 



di Andrea Grillo

 

Pubblicato il 18 dicembre 2021 nel blog: Come se non

 

Il documento Responsa ad dubia della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti su alcune disposizioni della Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» Traditionis Custodes del Sommo Pontefice Francesco aiuta a comprendere meglio la questione di fondo che il MP “Traditiones custodes” ha risolto 5 mesi fa e che fatica ad essere compresa in quella regione ecclesiale che, a partire dal 2007, era stata illusa sulla possibilità di valorizzare una “indifferenza istituzionale” verso la Riforma Liturgica. Il “vulnus” di quella intemperanza istituzionale oggi crea ancora vittime. Un breve sguardo al recente documento è in grado di farci capire dove si collochi il problema fondamentale.

Domande e risposte

Il documento non è altro che un insieme di “dubia” (ben 11) , ai quali viene dato un “responsum” quasi sempre con una “nota esplicativa” che precisa i motivi per i quali è prevalso il sì o il no nella risposta. Da notare è che, prima dei responsa, vi è un testo piuttosto articolato, a firma del Prefetto Roche, che chiarisce come la “mens” del MP Traditionis custodes sia quella di ristabilire il percorso normale di riforma liturgica, così come viene riascoltato sia dalle parole di papa Paolo VI a chiusura della II sessione del Concilio, sia nei termini della “irreversibilità” ripresa recentemente da papa Francesco. I temi fondamentali su cui vertono le questioni sono il modo di interpretare le competenze episcopali – che TC ha restituito ai Vescovi – o quali siano i libri, i soggetti e i luoghi coinvolti nella celebrazione del Rito pre-conciliare. Mi pare che le risposte siano fondate sulla logica della riforma liturgica e sul buon senso.

Da dove vengono i “dubia”?

Credo che sia utile, oltre che considerare la importanza delle risposte, sofferemarsi sulle domande sollevate. Ed è molto importante chiedersi: da dove scaturiscono questi interrogativi? Chi li ha sentiti sorgere nel proprio cuore e nella propria mente? La risposta è molto semplice: vengono da tutti coloro che, in modo inavvertito e superficiale, talora in modo ideologico e superficiale, avevano potuto credere che “Summorum Pontificum” istituisse ufficialmente la “non irreversibilità del Concilio Vaticano II”. E che quindi tutto quello che dal 1963 era diventato sempre più autorevole, aveva scritto pagine di storia, istituito forme rituali, ripensato le vite e convertito i cuori, potesse essere guardato con una alzata di spalle, come una “possibilità”, ma non come una necessità. Così, in 14 anni di “pratiche parallele”, una serie di uomini e donne, di preti e di vescovi, di abati e di monaci, di religiose e di religiose, si sono lasciati affascinare da questo “mito”. Il mito della “reversibilità” del Concilio Vaticano II, il mito del parallelismo rituale, il mito della “devianza conciliare”, il mito non solo della “messa di sempre”, ma della liturgia immobile e della tradizione monumentale.

Quando salta il “dispositivo di blocco”

Ma c’è di più. La questione non riguarda né solo né soprattutto la liturgia. E’ il Concilio Vaticano II in quanto tale ad essere in gioco. Come è stata proprio la liturgia il primo livello su cui il Concilio ha avuto la forza di una “riforma”, un sogno coltivato a partire dagli anni 80, e durato quasi 35 anni, ha preso forma nel fermare la riforma liturgica, per svuotare il Concilio di ogni autorità. Le forme della comunione, l’esercizio del ministero, il ruolo dei laici e delle donne, la relazione tra centro e periferia, le scelte nella traduzione delle parole e dei gesti: tutto ha potuto essere pensato come “assolutamente immodificabile”. Questo è accaduto, in modo simbolico, proprio nella liturgia, nelle sue forme da tradurre e da inculturare, e che sono apparse per 30 anni, custodite solo dal passato e non dal futuro. Un vero e proprio “dispositivo di blocco” si era andato perfezionando sul piano liturgico: e alla vigilia di questo grande passo – che non è altro che un ritornare sulla grande strada del Concilio – non avevamo visto una grande Congregazione pubblicare una versione puntigliosamente “riformata” del rito che si pretendeva “irreformabile”?

Il gioco degli specchi e la tradizione che viene dal futuro

Il giochino, che fanno spesso anche i bambini, è questo: chi porta la guerra fa la vittima e chi cerca la pace è dipinto come guerrafondaio. Non bastano le dichiarazioni e le intenzioni, per dire che Summorum Pontificum era un documento di pace. Io mi sono convinto, fin dal 2007, che eravamo di fronte ad un pesante attacco non alla liturgia, ma al Concilio. Oggi, nel mito dei “dubbiosi”, quel testo sembra il “paradiso perduto” della pace nella Chiesa. Nulla di più falso. Così come è falso pensare che queste equilibrate risposte ai dubbi siano “intolleranti” o “pesanti” o che “infieriscano” sui deboli. Riportano semplicemente le cose alla ragione. Purtroppo questo oggi è più difficile perché moltissimi di coloro che dal 2007 avrebbero potuto scrivere, parlare, testimoniare, obiettare si sono adagiati in un barile, sotto sale, come piccoli pesci. Per la dignità del ministero pastorale e teologico non è il massimo, anche se garantisce la conservazione (di sé). La voce alta dei dubbiosi oggi ottiene risposte pacate e serie, che rischiano di essere fraintese proprio a causa della ambiguità con cui molti prima hanno o taciuto o parlato solo per enigmi. La tradizione migliore ci attende nel futuro: nell’unico rito comune, che ora, doverosamente, TC ha ricollocato al centro, per tutti, possiamo fare entrare il meglio sia dei dubbi più accorati, sia delle risposte meglio fondate.

 

venerdì 17 dicembre 2021

DOMENICA IV DI AVVENTO (C) – 19 Dicembre 2021

 



Mi 5,1-4°; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45

 

Il Sal 79, che fu una supplica d’Israele per implorare l’intervento di Dio liberatore, è diventato preghiera e supplica della Chiesa soprattutto nel Tempo di Avvento, vicini ormai al Natale. Nell’attesa dell’imminente manifestazione del Cristo, la nostra preghiera diventa pressante: “Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (ritornello del salmo responsoriale).

 

La quarta e ultima domenica di Avvento svolge il ruolo di una sorta di vigilia del Natale e quindi l’attenzione dei testi liturgici è volta a coloro che, in ogni nascita, sono i protagonisti: la madre e suo figlio. Il Messia annunciato, “colui che deve essere il dominatore in Israele” (prima lettura), giunge tramite la piena disponibilità di Maria al piano di Dio (cf. vangelo). Egli viene per adempiere la volontà salvifica del Padre, per salvare cioè l’uomo mediante l’offerta non di olocausti né sacrifici ma del proprio corpo (cf. seconda lettura). 

 

La venuta del Figlio di Dio richiede una preparazione, una disposizione all’accoglienza. Questa preparazione si compie lungo tutto l’Antico Testamento, e trova espressione particolare nelle parole dei profeti e nelle speranze e preghiere del popolo d’Israele. Ma questa preparazione ha un suo particolare compimento nella fede obbediente di Maria. Elisabetta proclama Maria beata perché “ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Troviamo nel vangelo di san Luca un altro passaggio dove viene lodata da Gesù stesso la fede obbediente di Maria. L’evangelista ci tramanda le parole di una donna che si trova tra la folla che segue e ascolta Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”. A queste parole Gesù risponde: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Qui sta la vera grandezza di Maria, nella sua totale disponibilità all’ascolto e nell’accoglienza fattiva della parola di Dio. Maria, che ha incarnato l’attesa e la fede di Israele nelle promesse di Dio, diventa prototipo della Chiesa nel suo cammino incontro al Cristo.

 

Possiamo quindi affermare che il testo evangelico è anzitutto celebrazione dell’accoglienza. Elisabetta riconosce in Maria colei che ha accolto la parola di Dio credendo al suo compimento. Maria canta Dio come Colui che l’ha accolta nella sua piccolezza rivolgendole uno sguardo di amore e di elezione. Nella visitazione, poi, Maria ed Elisabetta si accolgono reciprocamente riconoscendo ciascuna l’azione che Dio ha compiuto nell’altra: Elisabetta, la sterile, è rimasta incinta, e Maria, la vergine, ha concepito per opera dello Spirito Santo. Il mistero del Natale è un mistero di accoglienza: accoglienza di Dio che viene a noi, e accoglienza vicendevole riconoscendo in noi e negli altri la presenza di Dio con i suoi doni.

domenica 12 dicembre 2021

LE ANTIFONE DELLA “O”

 


 

         

Le sette antifone al Magnificat dei Vespri dei giorni 17 al 23 dicembre, chiamate antifone maggiori e attribuite a san Gregorio Magno (540-604), illustrano la personalità dell’Atteso in cui si compie la speranza di Israele e di tutta l’umanità. Riappropriandosi delle antiche immagini bibliche, queste antifone enumerano i titoli divini del Verbo incarnato, ed il loro insistente “Vieni” esprime tutta la speranza della Chiesa: Egli è la “Sapienza che esce dalla bocca dell’Altissimo” (cf. Sir 24,3; Sap 7,28-30; 8,1), il “Signore” (in ebraico Adonai e in greco Kyrios), il “Germoglio di Iesse” (cf. Is 11,1-2.10; Ap 22,16; Rm 15,12), la “Chiave di Davide” (cf. Is 22,20-22; Ap 3,7), “Astro che sorge (Oriente), splendore della luce eterna, sole di giustizia” (cf. Is 9,1; 42,6; Ml 3,19-20; Lc 1,78-79), “Re delle genti, atteso da tutte le nazioni, pietra angolare che unisce i popoli in uno” (cf. Is 28,16; Sal 118,22; Zc 14,9; Ap 15,3-4), l’ “Emmanuele” (cf. Is 7,14; Mt 1,23), la “speranza e salvezza dei popoli”. Queste antifone vengono poi riprese nella celebrazione della messa degli stessi giorni come versetto dell’Alleluia.

Le lettere iniziali di ogni antifona, partendo dall’ultima, formano la frase latina “ero cras” (“domani ci sarò”), espressione che sottolinea il carattere di attesa che caratterizza il tempo di Avvento.

venerdì 10 dicembre 2021

DOMENICA III DI AVVENTO (C) – 12 Dicembre 2021

 



 

Sof 3,14-18°; Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18

 

Il tema della gioia attraversa le letture bibliche di questa domenica, terza di Avvento. Siamo invitati alla gioia “perché il Signore è vicino” (seconda lettura), anzi è in mezzo a noi come “salvatore potente” (prima lettura). Infatti, è lui che battezza “in Spirito Santo e fuoco” (vangelo); il “fuoco” nella prospettiva di Luca è il simbolo dello Spirito Santo che Gesù comunica ai discepoli a Pentecoste. Se il messaggio della seconda domenica di Avvento era un pressante invito alla conversione per far fruttificare in noi il dono della salvezza, oggi siamo invitati alla gioia, frutto del dono della salvezza. Domenica scorsa, il personaggio centrale era Giovanni Battista che invitava a preparare le vie del Signore. Oggi il personaggio centrale è Gesù, datore dello Spirito.

 

L’Avvento, proiettandoci verso il mistero della presenza salvatrice del Cristo, non può non essere caratterizzato dalla gioia. Quando però fin dal Medioevo l’Avvento aveva assunto un aspetto fortemente penitenziale, questa domenica interrompeva la penitenza e diventava una festa gioiosa, quasi anticipo del Natale ormai vicino. Il senso festivo e gioioso veniva sottolineato da alcuni segni esteriori, quali, ad esempio, il fatto di indossare per la celebrazione eucaristica i paramenti colore rosa. Ciò è ancora possibile, ma certamente molto meno significativo in quanto l’Avvento ha perso quel forte aspetto penitenziale che lo assimilava alla Quaresima. In ogni modo, la liturgia odierna è contrassegnata da un forte richiamo alla gioia, che viene vista come espressione immediata della fede che riconosce la vicinanza del Signore.

 

 La gioia cristiana, di cui parliamo, non è vuota, senza senso, ma è fondata sulla presenza di Dio che salva. In questo contesto, possiamo affermare che l’eucaristia è la gioia del nostro pellegrinaggio. Si tratta di una gioia anzitutto interiore, profonda, che si colloca nella sfera della salvezza, nella ricerca sincera di Dio, nella persuasione ferma di averlo come propria eredità, nella certezza incrollabile di poter contare su di lui in ogni evenienza. Questa gioia è misteriosa, perché può coesistere anche col dolore fisico e morale, con l’umiliazione, la tentazione, la solitudine. Paradosso cristiano, espresso in modo sublime da san Francesco d’Assisi quando dice: “E’ tanto il bene che m’aspetto che ogni pena m’è diletto”. L’uomo può essere ricco, pieno di salute e, nonostante tutto, sentire il cuore profondamente insoddisfatto. Se non si è ricchi dentro, ricchi di fede e di speranza, difficilmente si può avere l’esperienza della gioia cristiana. La spiritualità cristiana della gioia però non deve attenuare in noi la partecipazione cordiale ai beni di questo mondo e alla sua condivisione gioiosa con gli uomini, nostri fratelli. Anzi nella condivisione fraterna e gioiosa dei beni di questo mondo si esprimono i frutti della salvezza portata da Cristo, e trovano compimento le parole profetiche: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (canto al vangelo – Is 61,1).

 

lunedì 6 dicembre 2021

IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA B.V. MARIA – 8 Dicembre 2021

 



  

Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

 

Il ritornello del salmo responsoriale sintetizza molto bene i sentimenti della Chiesa in questa solennità dell’Immacolata Concezione di Maria. La Chiesa contempla in Maria il capolavoro di Dio. Il salmo 97 canta la vittoria finale di Dio sulle potenze del male e la salvezza che ne conseguirà per Israele e per tutti i popoli. Maria riprende il v. 3 di questo salmo nel suo Magnificat per celebrare l’opera di salvezza che Dio ha realizzato in lei. In Maria preservata immune da ogni macchia di colpa originale, in previsione della morte di Cristo (cf. la colletta), noi contempliamo compiuto in modo meraviglioso il disegno amoroso che Dio ha su tutti noi. In Maria Immacolata, infatti, celebriamo l’alba della redenzione, l’inizio della nuova umanità o, come dice il prefazio della messa, “l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo senza macchia e senza ruga, splendente di bellezza”.

 

La prima lettura racconta il peccato di disubbidienza di Adamo ed Eva e le sue conseguenze. Dio si rivolge al serpente per punirlo della sua opera di seduzione al male: la sua momentanea vittoria si cambierà in definitiva sconfitta ad opera di un misterioso personaggio, figlio (“stirpe”) di una “donna” altrettanto misteriosa, che sosterrà una accanita “inimicizia” contro il serpente. La scelta di questo brano intende mettere in evidenza il peccato dal quale Maria è stata preservata e suggerire l’idea di Maria come nuova Eva. Come Adamo ed Eva sono personaggi emblematici per esprimere l’umanità caduta nel peccato, così Gesù, nuovo Adamo, e sua madre, nuova Eva, diventano personaggi altrettanto emblematici che enunciano l’umanità rinnovata, che sarà tale proprio nella misura in cui porterà avanti la inimicizia contro Satana.

         

La lettura evangelica propone il racconto dell’Annunciazione. I Padri della Chiesa hanno visto in questo evento la contropartita di ciò che è successo nella caduta del paradiso terrestre: Eva non ascolta il precetto di Dio, Maria invece ascolta il messaggio dell’angelo inviato da Dio; Eva disubbidisce alla parola di Dio, Maria invece pronuncia il suo “si” ubbidiente al piano di Dio su di lei: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”; Eva significa “madre di tutti i viventi”, Maria lo è in senso più profondo in quanto è madre dei redenti mediante la morte del Figlio suo, vincitore del male e della morte. Maria, generando il Cristo, ha posto nella terra il “seme” indistruttibile del bene, della giustizia e della speranza. Esso si radicherà e trasformerà l’umanità intera. E’ la stessa realtà che descrive il brano introduttivo alla lettera agli Efesini (seconda lettura) in cui l’Apostolo afferma che Dio, in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”.

 

Maria è chiamata dall’angelo dell’Annunciazione “piena di grazia”, che è quasi come un nuovo nome per lei: descrive il suo stato e la sua missione. Dio ha “colmato di grazia” Maria. In Maria Immacolata contempliamo il primo, stupendo effetto della redenzione: l’umanità viene ricondotta all’integrità del progetto di Dio. L’Immacolata è quindi un segno di speranza per tutti noi.

 

L’eucaristia “guarisce in noi le ferite di quella colpa da cui, in modo singolare” Maria è stata preservata nella sua Immacolata Concezione (orazione dopo la comunione).

venerdì 3 dicembre 2021

DOMENICA II DI AVVENTO (C) – 5 Dicembre 2021

 



 

Bar 5,1-9; Sal 125; Fil 1,4-6.8-11; Lc 3,1-6

 

La prima domenica di Avvento ci invitava all’attesa vigilante. Oggi invece siamo invitati a “preparare la via del Signore”. Nel brano evangelico emerge la figura di Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti mandato da Dio. Giovanni, con la propria vita richiama la forza purificatrice del “deserto”; con la sua predicazione, al seguito di quella dei profeti e, in particolare, del profeta Baruc, di cui oggi leggiamo un brano nella prima lettura, annuncia il prossimo compiersi della salvezza nel Messia. Si tratta di un annuncio gioioso perché la salvezza è anzitutto opera meravigliosa compiuta da Dio: “Gerusalemme, sorgi e sta’ in alto: e contempla la gioia che a te viene dal tuo Dio” (antifona alla comunione – Bar 5,5; 4,36). La salvezza viene descritta come una grande trasformazione che si compie nell’uomo. Questa trasformazione è anzitutto opera della grazia di Dio. Ce lo ricorda il salmo responsoriale (Sal 125) con il ritornello “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”, parole riprese quasi alla lettera da Maria nel suo Magnificat (Lc 1,49). Ma la grazia rimane inattiva se non interviene e coopera con essa la nostra libertà: “Dio che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Perciò il messaggio di questa seconda domenica di Avvento può essere riassunto come un invito alla conversione. San Giovanni promette: “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, ma prima ammonisce i suoi ascoltatori con queste parole: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. La salvezza è dono, grazia di Dio, ma anche azione, cooperazione dell’uomo. Non basta attendere passivamente l’irrompere dell’azione di Dio. La salvezza presuppone un cambiamento nell’uomo, cioè l’abbandono del male e del peccato e l’opzione decisa per il bene. E’ talvolta un cammino duro e difficile, che esige il coraggio di spianare le montagne e  di colmare i burroni.

 

Attraverso una fitta collezione di simboli e di imperativi gioiosi il cap. 5 del libro di Baruc  vuole lanciare un messaggio di fiducia e di speranza. Nel brano della prima lettura, preso appunto dal cap. 5 di Baruc, il profeta legge il fatto storico del ritorno degli Ebrei esiliati, nell’anno 538 a. C., e della conseguente restaurazione di Gerusalemme come pellegrinaggio di ritorno gioioso dell’intera umanità alla condizione primordiale e come restaurazione messianica. La conversione è cambiare strada, ritornare a casa, ritrovare il senso del proprio camminare. L’immagine della strada può essere assunta come simbolo del tempo di Avvento. Una strada che deve essere appianata per condurre anche noi, come un giorno gli esuli da Babilonia, a ricostruire la città di Dio, a ritrovare la propria libertà e dignità. La conversione quindi non è solo rinuncia. San Paolo nella seconda lettura ci ricorda che la vera conversione non è soltanto allontanamento dal peccato; implica anche la crescita nell’amore fino al suo pieno compimento. In altre parole, convertirsi significa ritrovare la freschezza e l’originalità della propria fede, del proprio rapporto con Dio e con gli altri. Si tratta di verificare quale posto ha veramente Dio nella nostra esperienza quotidiana, quale influenza ha il vangelo nelle nostre concrete scelte di vita.

 

Se la conversione è un ritrovare Dio nella nostra vita, la partecipazione all’eucaristia è dono di conversione perché in essa Dio si rende presente in mezzo a noi. Conseguentemente, l’eucaristia ci insegna a leggere la storia con gli occhi di Dio, a “valutare con sapienza i beni della terra e a tenere fisso lo sguardo su quelli del cielo” (orazione dopo la comunione).

 

 

 

 

domenica 28 novembre 2021

IL LEZIONARIO DELLA MESSA

 



 

Il Lezionario della Messa (Ordo Lectionum Missae [OLM]) va venerato come la Parola di Dio: la liturgia stessa ce lo insegna, quando circonda il libro dei Vangeli con tanti segni di venerazione (incenso, bacio, intronizzazione sull’altare e sull’ambone).

 

Il Lezionario contiene la Parola che Dio rivolge a tutta l’assemblea. “I libri, dal quale si desumono le letture della Parola di Dio […] devono suscitare negli ascoltatori il senso della presenza di Dio che parla al suo popolo. Si deve quindi procurare che anche i libri, essendo nell’azione liturgica segni e simboli di realtà superiori, siano davvero degni, decorosi e belli” (OLM 35).

 

Il Lezionario è un mezzo in più, tra i gesti simbolici, per mostrare la nostra comprensione e stima della Parola di Dio. “Poiché la proclamazione del Vangelo costituisce sempre l’apice della Liturgia della Parola, la tradizione liturgica, sia occidentale che orientale, ha sempre fatto una certa distinzione fra i libri delle letture. Il libro dei Vangeli veniva infatti preparato e ornato con massina cura, ed era oggetto di venerazione più di ogni altro libro destinato alle letture” (OLM 36).

 

All’inizio della celebrazione della Messa il diacono porta solennemente il libro dei Vangeli. Questo gesto indica che la Parola di Dio convoca l’assemblea e illumina la sua fede. L’Evangeliario viene, poi, deposto, chiuso, sull’altare. Il vescovo che presiede bacia l’altare e l’Evangeliario al termine della processione di ingresso. Altare e libro: il nostro duplice incontro con Cristo, parola e alimento della comunità cristiana. Duplice mensa alla quale siamo invitati.

 

Al momento della proclamazione del Vangelo, il diacono prende l’Evangeliario dall’altare: come il pane e il vino eucaristici sono presi dall’altare perché i fedeli si nutrano del corpo di Cristo, così anche il Vangelo è preso dall’altare affinché i fedeli si nutrano dalla parola di Cristo. Poi, accompagnato da accoliti con incenso e candelieri, si pone in marcia la processione verso l’ambone. Lì il diacono apre il libro. Prima di proclamare la lettura, il libro del Vangelo viene incensato. La proclamazione inizia con il triplice segno della croce. Il diacono tocca prima il libro, tracciandovi un piccolo segno di croce. E poi lo fa su sé stesso: sulla fronte, sulle labbra e sul petto, a significare l’accesso della parola evangelica nelle facoltà fondamentali della persona (intelletto, linguaggio e volontà). E’ l’espressione di un desiderio: che questa Parola che risuona in mezzo a noi penetri nella nostra persona, e illumini veramente i nostri pensieri, le nostre parole, i nostri sentimenti e le nostre azioni. Finita la proclamazione, colui che ha proclamato il Vangelo prende il libro nelle sue mani e lo bacia: un bacio a Cristo che ci ha parlato. Nel frattempo, dice sottovoce: “la parola del Vangelo cancelli i nostri peccati”, chiede cioè che questo Vangelo sia strumento di salvezza per noi, distruggendo il male che sempre ci insidia. Nelle celebrazioni più solenni, il vescovo può impartire la benedizione al popolo con l’Evangeliario (cfr. Ordinamento generale del Messale Romano, n. 175).

 

Il Lezionario o l’Evangeliario rimane aperto sull’ambone. Chiuderlo non avrebbe significato. Il libro aperto, alla vista del popolo, continua ad illuminare il resto della celebrazione eucaristica e tutta la vita della comunità.

 

Il Messale italiano affianca all’antifona alla comunione dell’edizione tipica latina un’antifona proveniente dal vangelo del giorno. In questo modo si ricorda l’unicità della tavola del Cristo pane di vita che si offre come nutrimento ai credenti nel suo corpo scritturistico e nel suo corpo eucaristico.

 

Accanto all’altare, abbiamo l’ambone (che significa “luogo elevato”, da anabaínein, “salire”), luogo della proclamazione della Parola. Dopo secoli di oblio, il ritorno dell’ambone all’interno dello spazio liturgico è segno della riscoperta del valore della Parola di Dio nella vita della Chiesa. L’ambone è, nella prima parte della celebrazione – come l’altare nella seconda – il centro dell’attenzione di tutta l’assemblea.

venerdì 26 novembre 2021

DOMENICA I DI AVVENTO (C) – 28 Novembre 2021

 



 

Ger 33,14-16; Sal 24; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36

 

L’anno liturgico inizia con l’invito a dare uno sguardo alla storia della nostra salvezza. Il testo di Geremia ci esorta alla fede, cioè alla fiducia nel compimento delle promesse di Dio che ha avuto nella storia come momento culminante la prima venuta del Figlio di Dio “nell’umiltà della nostra natura umana” (prefazio dell’Avvento I). La seconda lettura ci invita alla carità, in cui tutti i credenti siamo invitati a crescere e sovrabbondare nel tempo che ci viene dato vivere in questo mondo. Il brano evangelico parla della meta e traguardo ultimo e definitivo della storia: il ritorno del Figlio dell’uomo, che alla fine dei tempi verrà “con grande potenza e gloria”, e ci esorta ad attenderlo con speranza vigilante, senza turbamento.

 

Le immagini e le parole misteriose con cui Gesù descrive il suo ritorno glorioso alla fine della storia sono da interpretare in modo adeguato. Dietro questa descrizione del futuro, che può apparire a prima vista fosca e terrorizzante, bisogna leggere l’attesa di eventi storici che segneranno per sempre la sconfitta definitiva del male e il trionfo ultimo del bene. In questa luce, il ritorno glorioso del Cristo alla fine dei tempi, è da considerarsi un evento non tanto temuto quanto piuttosto atteso, anzi addirittura invocato con speranza dagli oppressi, vittime della malvagità degli uomini, e dall’intero popolo di Dio pellegrinante sulla terra. Caratteristico del racconto di san Luca è appunto la speranza nel compimento della salvezza: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Speranza di cui parla anche l’antifona d’ingresso della messa facendo proprie le parole del Sal 24, adoperato inoltre come salmo responsoriale: “A te, Signore, elevo l’anima mia, Dio mio, in te confido…” La nostra speranza poggia sulla fedeltà di Dio, che ha fatto “promesse di bene” (prima lettura).

 

Per noi cristiani il tempo è un continuo “avvento”, un ininterrotto venire di Dio. Il Signore viene in continuazione, in ogni uomo e in ogni tempo. Perciò siamo invitati a vegliare e pregare. La vigilanza orante ci rende capaci di discernere i segni e i modi della presenza del Signore. La storia umana non è da concepirsi come un succedersi più o meno caotico di fatti senza significato, ma come il compiersi graduale del “progetto” di salvezza che Dio ha sull’uomo. In questo progetto Dio ha voluto impegnare anche la nostra libertà e quindi la nostra cooperazione. La nostra vita non sfocia nel nulla, nella delusione, ma può avere, se lo vogliamo, una conclusione positiva. Nel brano della seconda lettura, per preparare questo futuro positivo, san Paolo ci stimola a crescere e sovrabbondare nell’amore fra noi e verso tutti per rendere saldi e irreprensibili i nostri cuori e irreprensibili nella santità, “davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.”  

       

In questo impegno quotidiano ci è di aiuto l’eucaristia, “che a noi pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita”, ed è sostegno nel nostro cammino e guida ai beni eterni (orazione dopo la comunione), nonché “pane del nostro pellegrinaggio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1392). “L’eucaristia è tensione verso la meta, pregustazione della gioia piena promessa da Cristo; in certo senso, essa è anticipazione del paradiso, pegno della gloria futura. Tutto, nell’eucaristia, esprime l’attesa fiduciosa, che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo” (Ecclesia de Eucharistia, n. 18).

 

 

domenica 21 novembre 2021

IN CHE SENSO LA MESSA E’ ANCHE NOSTRA

 



Il vescovo di Novara, Mons. Franco Giulio Brambila, ha ricordato ad un parroco, inviato ad esercitare il suo ministero in una nuova parrocchia, che la preghiera liturgica, nel caso specifico la Messa, “non è nostra ma della Chiesa madre” e, quindi, la “actuosa participatio” non è un invito alla creatività che vada oltre agli spazi di creatività previsti dal Messale stesso.

Il Prof. Andrea Grillo prende posizione nel suo blog Come se non (https://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/) e si domanda che cosa significa affermare “la Messa non è nostra”? Come atto di “riconoscimento”, l’atto rituale non è mai un atto assolutamente creativo. E tuttavia, per essere atto rituale, la messa deve anche restare un atto relativamente creativo. L’azione rituale della Eucaristia è un atto di Cristo e della Chiesa. Quindi allo stesso tempo “non è” nostra ed “è” nostra. In ogni linguaggio della messa non agisce né solo Dio né solo il popolo, né solo Cristo né solo la Chiesa. Ma sempre, allo stesso tempo, gli uni e gli altri, insieme, concordemente, in una relazione qualificante.

E il Prof. Grillo conclude affermando, tra l’altro: Una Chiesa che, proprio nel suo atto più decisivo, fosse solo capace di “riprodurre testi classici” e incapace di improvvisare con fedeltà e con gusto, sarebbe una Chiesa in profonda crisi. Nessun intervento sul testo della Messa è di per sé giustificato, salvo che non vi sia un cammino comunitario che elabora forme rispettose di approfondimento, di riflessione, di articolazione e di arricchimento della fede ecclesiale. Poiché questo non è ordinario, ma non può essere escluso, il principio affermato (“la Messa non è nostra”) è un principio relativo, ma non un principio assoluto.

Non c’è dubbio che la riflessione del Prof. Grillo, che ho sintetizzato con le sue stesse parole, ha un suo fascino e la possibilità di essere accolta nel caso “non ordinario” da lui indicato, anche se la disciplina attuale non lo contempla. Non è facile trovare una comunità che intraprenda un cammino del genere.

Vorrei aggiungere qualche mia breve considerazione. Purtroppo, la creatività che si riscontra in molte celebrazioni eucaristiche è d’altro genere e non si può considerare un arricchimento. Anzi, si rischia di strumentalizzare la liturgia per adeguarla ai propri gusti. Direi che si tratta di un nuovo devozionismo. Se per secoli le devozioni hanno occupato lo spazio del rito e impedito la partecipazione ad esso, oggi i fautori della creatività occupano lo spazio del rito della Chiesa con le loro fantasie e impediscono che la “mente concordi con la parola (della Chiesa)” (cf. SC 90).   

venerdì 19 novembre 2021

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO – 21 Novembre 2021 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 


 

Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37

 

Celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo nell’ultima domenica dell’anno liturgico, quasi come sintesi di tutto ciò che abbiamo celebrato durante l’anno. Infatti, ogni domenica, “giorno del Signore”, proclama la sovrana signoria di Cristo. Alla fine di questo percorso annuale, l’ultima domenica intende celebrare in modo più organico ciò che costituisce il nocciolo di ogni celebrazione domenicale. Le letture bibliche odierne illustrano alcuni aspetti di questo mistero: Cristo centro della nostra vita e Signore della storia.

 

Tutti i poteri e regni di questo mondo sono destinati prima o poi a fallire, a scomparire. Il testo profetico della prima lettura invece, parlando del futuro regno messianico, lo descrive come un regno “eterno, che non finirà mai”. Il sovrano di questo regno messianico preannunciato dai profeti è Gesù. Nel brano evangelico, vediamo che per tre volte Gesù dice: “Il mio regno”, e per due volte si preoccupa di chiarire che questo regno è completamente al di fuori degli schemi mondani: “Il mio regno non è di questo mondo”, e cioè il regno di Cristo è diverso dei poteri mondani, si colloca su di un altro piano. Il regno di Gesù non si costruisce con la forza che si impone dall’esterno, ma con la forza interiore della verità che trasforma l’uomo dal di dentro. Infatti, il suo compito - lo dice egli stesso - è quello di “dare testimonianza alla verità”. Il fondamento della regalità di Cristo è quindi la testimonianza che egli rende alla verità. Sappiamo che Pilato non ha capito queste parole di Gesù. Cos’è la verità?

 

Nel vangelo di san Giovanni, che ci tramanda il passaggio in questione, la verità non è un concetto astratto o un principio filosofico, ma la rivelazione concreta di Dio e del suo amore; la verità è che Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito. Gesù ha reso testimonianza a questa verità, ha manifestato cioè questo amore di Dio con le sue parole e le sue opere, con la sua vita e, soprattutto, con la sua morte, che è la suprema sua testimonianza a favore della verità. Come dice san Giovanni nel brano dell’Apocalisse proposto come seconda lettura, egli ci ha amati e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue. La signoria di Cristo significa che Dio non permette che il mondo vada in rovina, anzi in lui lo ha portato definitivamente alla salvezza.

 

Dire regno di Cristo significa dire giustizia, pace, libertà, dignità umana, amore, liberazione dal peccato e da ogni forma di male (cf. il prefazio). Nella misura in cui questi valori s’impadroniscono di noi e della storia, il regno di Dio si compie o, meglio, il regno di Dio accelera il suo compimento. Ecco, quindi, che il regno di Cristo cresce in noi nella misura in cui diamo spazio a questi valori, nella misura in cui ne siamo protagonisti nella storia.

 

domenica 14 novembre 2021

LE ORAZIONI SALMICHE

 



 

I Principi e norme per La liturgia delle Ore parlano più volte delle “orazioni sui salmi o salmiche” (PNLO, nn. 110, 112, 202). Queste orazioni, proposte per i singoli salmi, aiutano a interpretare i salmi in senso soprattutto cristiano e si possono usare ad libitum. Secondo un’antica tradizione, sono recitate terminato il salmo e fatta una breve pausa di silenzio. I PNLO affermano che tali orazioni si troverebbero in un Supplemento della Liturgia delle Ore che, però, non è stato mai pubblicato.

 

In ogni modo, sono state molteplici le iniziative private al riguardo. Ne cito alcune in lingua italiana: C.A.L. (a cura di), Ascolta la mia voce. Lodi mattutine e Vespri secondo la Liturgia delle Ore, Marietti, Casale Monferrato 1983; David M. Turoldo - Gianfranco Ravasi, "Lungo i fiumi...." I Salmi. Traduzione poetica e commento, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987; Giambattista Montorsi, Salmi. Preghiera di ogni giorno, Edizioni Messaggero, Padova 1991 (quarta ristampa); Paolino Beltrame Quattrocchi, I salmi preghiera cristiana. Salterio corale, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 199412; Angel Aparicio – José Cristo Rey García, I Salmi preghiera della comunità. Per celebrare la Liturgia delle Ore, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995; Angelo De Simone, Guida alla Liturgia delle Ore. Commenti e orazioni per la celebrazione corale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; Luigi Della Torre, Il canto di lode. Monizioni e orazioni per salmi e cantici. Lodi e Vespri, Paoline, Milano 1997; Ludwig Monti, I Salmi: preghiera e vita. Commento al Salterio, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2018; I Salmi. Pregarli, cantarli, comprenderli, Paoline – San Paolo, Edizioni San Paolo 2020.

 

Sono opere con impostazione e valore diversi. Alcune, oltre ad offrire le orazioni salmiche, contengono anche una introduzione ai singoli salmi. Fra tutte queste pubblicazioni, è da apprezzare il volumetto di Giambattista Montorsi, in cui troviamo, oltre alle preghiere salmiche, una breve introduzione al singolo salmo e cantico biblico, divisa in quattro parti che fanno riferimento al salmo come preghiera del popolo ebraico, di Cristo, della Chiesa e della comunità che lo prega. Montorsi inoltre segue la struttura del Salterio liturgico diviso in quattro settimane e offre questo materiale per tutte le Ore dell’Ufficio divino nonché per la Salmodia complementare e per i diversi Comuni e l’Ufficio dei defunti. Contiene anche una preziosa Appendice con altri elementi pratici.

 

Ci auguriamo che la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti pubblichi il promesso Supplemento della Liturgia delle Ore. Si sa che da anni esiste un materiale al riguardo.

 

venerdì 12 novembre 2021

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 14 Novembre 2021

 



Dn 12,1-3; Sal 15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

 

Soltanto nel Signore possiamo trovare la fonte della gioia, della pace e la promessa sicura di una vita eterna, al di là della morte. Dio non ci abbandona, ma ci fa partecipi della sua eterna felicità. Come san Paolo, in catene a Roma a motivo del Vangelo, possiamo dire anche noi con grande fiducia: “So in chi ho posto la mia fede” (2Tm 1,12).

 

Avviandoci ormai alla conclusione dell’anno liturgico, le letture bibliche di questa penultima domenica ci invitano a riflettere sulle ultime realtà, sulla fine della storia e del mondo, quando cioè si compirà in modo definitivo la salvezza che ora possediamo solo nella speranza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume la fede della Chiesa su questo punto con le seguenti parole: “Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia” (n.1040). Le letture bibliche odierne ci invitano ad approfondire alcuni aspetti di queste ultime realtà.

 

Il brano del libro di Daniele, proposto come prima lettura, è uno dei testi più caratteristici dell’Antico Testamento sul tema della retribuzione finale: la salvezza verrà data in modo pieno e definitivo a quanti hanno operato il bene. Il brano evangelico descrive il ritorno del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi che verrà a “radunare i suoi eletti”. Siamo invitati a vegliare ed essere pronti (cf. canto al vangelo) perché “quanto a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Queste misteriose parole, con cui si conclude il brano evangelico odierno, danno una vigorosa lezione ai profeti di sventura intenti a determinare la fine del mondo. Chi ha fede e fiducia, non ha bisogno di fare questi calcoli.

 

Ascoltando le parole con cui Gesù descrive la fine dei tempi, siamo talvolta presi dallo spavento. Notiamo però che il linguaggio usato dal Vangelo, chiamato linguaggio apocalittico, proprio della tradizione ebraica, in fondo è un linguaggio che viene adoperato per rivelare (apocalisse significa “rivelazione”) il senso della storia e il destino dell’uomo. Dio ha su di noi “progetti di pace e non di sventura” (antifona d’ingresso - Ger 29,11.12.14). La seconda lettura apre il cuore alla fiducia in Cristo, nostro giudice, il quale sta alla destra di Dio, ma ha offerto se stesso per il perdono dei nostri peccati. Il perdono acquistato con il sangue di Cristo è sempre più grande di tutte le nostre infedeltà. Ciò che all’esterno appare come catastrofe e rovina in verità è il compimento della salvezza. Questo mondo va verso una fine, verso quel “giorno del Signore” già invocato dai credenti di Israele, giorno di salvezza e di giudizio. E ciò avviene per un preciso disegno di Dio che è Signore della storia e del tempo.

 

Chi prende sul serio l’incertezza e caducità di ogni cosa terrena, si apre al dono della salvezza. Ma il pensiero della morte, della fine della nostra esistenza terrena non ci deve indurre ad un atteggiamento di disimpegno nei confronti della vita presente. Il servizio fedele e responsabile prepara “il frutto di un’eternità beata” (orazione sulle offerte). Il futuro, quindi, appartiene anche alle nostre mani, e ogni carenza di impegno diventa anche carenza di salvezza. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione.