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domenica 26 luglio 2020

TEMI DI LITURGIA




Bruno Forte, La Liturgia. Dove l’esodo incontra l’Avvento (Teologia Nuova serie 17), Morcelliana, Brescia 2020. 191 pp. (€ 16,50).

“Nel mio ministero episcopale sono più volte tornato sulla liturgia, nella convinzione che aiutare i battezzati e la comunità cristiana nel suo insieme a vivere una vita liturgica pienamente e consapevolmente partecipata vuol dire favorire l’impegno cristiano su tutti i fronti, dalla vita spirituale all’esercizio della carità, dalla missione evangelizzatrice al coinvolgimento sociale e politico”: così Bruno Forte descrive l’esperienza liturgica, rinnovata e riformata dal Concilio Vaticano II. La liturgia introduce la comunità in una relazione unificante con il Padre: è il luogo in cui il singolo e la Chiesa sperimentano l’avvento sempre nuovo dell’amore, l’avvento di Cristo, dove sono raggiunti e trasformati dalla presenza divina e si lasciano amare dal Padre. Il percorso si snoda attraverso i momenti della liturgia, dall’iniziazione cristiana all’eucaristia, dal sacramento del matrimonio fino alla domenica, giorno della Chiesa.
(Quarta di copertina)

sabato 25 luglio 2020

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) –26 Luglio 2020


 

1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,42-52

Non tutte le cose hanno la stessa importanza. Nella nostra vita quindi ci sono delle priorità da difendere. Lo ha capito Salomone, di cui parla la prima lettura. Egli, diventato re in giovane età, si sente inadeguato al grande compito di governare il popolo di Dio. Nella sua preghiera al Signore, Salomone non chiede né lunga vita, né ricchezze, né il trionfo personale, ma ciò che egli crede sia più importante: “un cuore docile perché sappia rendere giustizia” al popolo e “sappia distinguere il bene dal male”. Salomone chiede insomma la “saggezza nel governare”. Il giovane re ha fatto una scelta giusta, ha saputo discernere e scegliere ciò che è veramente prioritario.  

Tutta la nostra vita è una continua ricerca di qualcosa di appagante e di stabile che non riusciamo però mai a trovare pienamente e definitivamente. Tutto è precario e tutto invecchia assai rapidamente. Cosa cerca veramente il nostro cuore? Nella prima parte del brano evangelico d’oggi, Gesù parla di un bracciante che sta lavorando un campo e vi trova un tesoro; e di un mercante, appassionato di perle, che trova la pietra preziosa che aveva sognato per tutta la vita. Due esperienze diverse; la prima casuale, la seconda preparata con una lunga ricerca. Ma l’effetto è lo stesso: “va… vende tutti i suoi averi e compra quel campo…, compra la perla”. Sono immagini eloquenti che intendono dare una risposta alla ricerca di senso che pervade la nostra vita. Come l’uomo che ha trovato un tesoro nascosto o il mercante che ha trovato una perla preziosa, il cristiano è collocato dalla sua fede di fronte all’unico Salvatore di tutti, l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’unico Nome nel quale è dato agli uomini di essere salvi.
  
La parola di Dio in questa domenica ci invita a scegliere la strada che conduce al tesoro nascosto, a quella perla il cui grande valore non verrà mai meno per l’eternità. Come il re Salomone, anche noi siamo incoraggiati a chiedere al Signore che ci dia un “cuore saggio e intelligente” per saper discernere e scegliere i veri valori della vita, quelli che non invecchiano mai. Si tratta di dire sì al Signore che, come afferma la lettera ai Romani, vuol salvare gli uomini predestinandoli, chiamandoli, giustificandoli e glorificandoli. Nella ricerca di Dio e del suo regno tanti sono gli smarrimenti e tante le nostre debolezze. Ma san Paolo ci ricorda che per chi ama Dio e lo cerca con cuore sincero, tutto finisce per concorrere al bene di quella vita piena alla quale siamo chiamati in Cristo. Non si tratta di una affermazione ottimistica di chi vuol vedere tutte le cose sotto un’angolazione serena; è l’affermazione di fede di chi sa che la storia non sfugge al controllo di Dio e, d’altra parte, sa che Dio ci ha amato fino a donare per noi il suo Figlio.

L’eucaristia è dono di sapienza, certo superiore a quello chiesto da Salomone. E’ “memoriale perpetuo” della passione di Cristo, “dono del suo ineffabile amore… per la nostra salvezza” (preghiera dopo la comunione).


domenica 19 luglio 2020

LA GLORIA DI DIO E LA DIGNITA' DELL'UOMO






Salmo 8. La gloria di Dio e la dignità dell’uomo


1 Al maestro di coro. Su «I Torchi...».
2 O Signore, nostro Dio,
quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra:
Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza,
3 con la bocca di bambini e di lattanti
hai posto una difesa contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
4 Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
5 che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?
6 Davvero l'hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato.
7 Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi:
8 tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
9 gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie del mare.
10 O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!


Il Sal 8 è il primo inno di lode del Salterio che celebra la gloria del Signore che si manifesta nel creato e ci si interroga, stupefatti, sull’uomo, elevato da Dio su di esso quale dominatore, un tema ben noto dalla letteratura sapienziale, che richiama gli antichi racconti della creazione riportati dalla Bibbia, in modo particolare nel libro della Genesi. Si tratta quindi di un salmo sapienziale, che intende dare conforto e fiducia alle piccole comunità ebraiche che dopo l’esilio si trovavano sparse tra popolazioni pagane più o meno a loro ostili. In questo inno, che veniva cantato nelle celebrazioni liturgiche del Tempio, Israele trovava un motivo di santa compiacenza nel Signore, che si era preso cura di lui e gli aveva offerto in dono una terra d’abbondanza. La nostra Liturgia delle ore propone il Sal 8, che ha come titolo “Grandezza del Signore e dignità dell’uomo”, nelle Lodi del sabato della seconda e della quarta settimana nonché in altre occasioni, soprattutto nel Tempo pasquale.

Struttura. Il nostro salmo inizia e si conclude con la stessa proclamazione della maestà divina, ed è diviso in tre sezioni spaziali secondo le voci ricorrenti di cielo, terra e mare. Al centro del salmo vi è la domanda decisiva, che si può considerare la scintilla da cui scaturisce l’intero poema: “che cosa è mai l’uomo…?” (v. 5). Domanda che non cessa di risuonare anche oggi, e che sempre accompagnerà il cammino dell’umanità.

Commento, Su “I Torchi” (v. 1), è una espressione che designa probabilmente uno strumento musicale (l’arpa?) o anche determinate melodie adoperate per il canto del salmo. Col v. 2 l’inno inizia cantando la grandezza di Dio che si manifesta nell’opera della creazione. L’espressione “quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra” si riferisce a Dio. Il nome, infatti, come anche le categorie sapienza, parola, spirito, è considerato nella mentalità ebraica come ipostasi di Dio, e cioè come la stessa sostanza divina. Nel v. 3 il salmista loda il Signore con la gioia e lo stupore dei piccoli in opposizione al tumulto dei nemici di Dio. Col v. 4 si ritorna al tema della creazione dei cieli da parte di Dio, qui identificati come “opera delle tue dita”, nel senso che il coinvolgimento di Dio nella creazione è personale e intimo. Nel silenzio notturno, il salmista contempla le meraviglie del cielo stellato: accanto alla coppia “la luna e le stelle” non si menziona il sole. Probabilmente il poeta è rimasto in contemplazione del cielo in una notte stellata e al chiaro di luna.  

Nel v. 5, a metà del poema, se da un lato l’orante è stato colto dallo stupore nel contemplare l’immensità dei cieli, ora esprime la sua meraviglia con la domanda: “Che cosa è mai l’uomo?”.  Dio lo ricorda e lo cura perché creato ad immagine e somiglianza sua, reso poco inferiore a lui e collocato al di sopra di tutta la creazione nonché capace di amministrare, come luogotenente di Dio stesso, tutte le opere delle sue mani (vv. 6-9). Giobbe quando si sente abbandonato da Dio, si sfoga con una domanda simile ma con il cuore pieno di amarezza: “Che cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metta alla prova?” (Gb7,17-18). Ci troviamo dinanzi ad una domanda che sempre accompagnerà la storia dell’umanità.

Una esclamazione piena di ammirazione e di entusiasmo, ricorre all’inizio (v. 2) e al termine del salmo (v.10): “O Signore, nostro Dio, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” In questa esclamazione pare si riuniscano le voci dell’universo e quelle degli uomini per celebrare la gloria del loro Creatore e Signore,

Lettura cristiana. La domanda “che cosa è mai l’uomo?” trova una risposta sublime nella realtà di Cristo, vero Dio e vero uomo. Gesù applica a se stesso il v. 3 del salmo: dopo il trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme, i capi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo i fanciulli che acclamavano “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono e gli dissero: non senti quello che dicono costoro? Gesù rispose: “Non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto per te una lode?” (Mt 21,16). Nell’epistolario paolino il Sal 8 è citato due volte e una nella lettera agli Ebrei. I Padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici commentano il salmo evidenziando la dignità dell’uomo e quella di Cristo.

Nel contesto odierno. Il Salmo 8 è la celebrazione della grandezza e della bellezza dell’uomo che può essere colta unicamente in relazione all’immensa grandezza e misericordia di Dio. Il salmo, un inno che esalta l’onnipotenza creatrice del Signore e la dignità dell’uomo, ci invita a riflettere sulla dignità di ogni uomo e di ogni donna, oggi in tanti modi e da tante parti calpestata, e ci fa ergere contro ogni tipo di schiavitù e intolleranza. Il salmo ci fa riflettere anche sul significato del dominio dell’uomo sul creato (cf. Gen 1,28), un dominio che non è assoluto e molto meno distruttivo dell’opera creatrice di Dio. La cura delle persone e la cura della natura sono inseparabili poiché tutto è connesso.

Il Sal 8 ci spinge alla contemplazione del creato, opera di Dio. Davanti a queste immensità incommensurabili, sentiamo la propria personale pochezza e fragilità. Come afferma il famoso filosofo Blaise Pascal: “l’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta natura”; in seguito però Pascal aggiunge “ma è una canna pensante” (Pensieri n. 347). Ecco quindi che paradossalmente possiamo affermare che la creatura umana è più grande del sole, delle stelle, delle galassie che popolano gli infiniti spazi celesti; come dice il nostro salmo, è “poco meno di un dio”, coronato “di gloria e di onore” (v. 6).


Preghiera. O Dio, che manifesti la tua magnificenza nel cielo stellato, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine e in modo più mirabile ci hai redenti e rinnovati, accogli la nostra lode per le tue meraviglie, e aiutaci ad essere degni della grandezza alla quale ci hai elevati.

Bibliografia: Spirito Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1973; Vincenzo Scippa, Salmi, volume 1. Introduzione e commento, Messaggero, Padova 2002; Ludwig Monti, I salmi: preghiera e vita, Qiqajon, Comunità di Bose 2018; Temper Longman III, I salmi. Introduzione e commento, Edizioni GBU, Chieti 2018.


sabato 18 luglio 2020

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 19 Luglio 2020




Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43

La prima lettura biblica, tratta dal libro della Sapienza, parla di un Dio che pur essendo “padrone della forza”, governa “con molta indulgenza” e concede dopo i peccati la possibilità di pentirsi. Sulla stessa linea, la parabola del grano e della zizzania (gramigna), riportata dalla lettura evangelica, ci mostra il volto di un Dio paziente, capace di aspettare, pronto a darci la possibilità di scegliere, di crescere, di maturare, e disposto sempre a perdonare. Dio rispetta la nostra libertà e i nostri ritmi. Egli non vuole dei burattini, docili strumenti senza cuore. Dio vuole l’amore della sua creatura e perciò rispetta la sua libertà. Le altre due brevi parabole del granello di senape e del lievito, riportate dalla pagina evangelica, adombrano la potenza di espansione del regno di Dio.

Nel nostro mondo il bene e il male convivono anche dentro di noi. Siamo invitati a prendere coscienza con realismo della presenza del male nel mondo e in ognuno di noi: “Tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori. In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Vangelo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 827). Dinanzi a questa realtà bisogna evitare due estremi: l’esserne succubi o il volerlo stroncare ad ogni costo e in tutte le sue manifestazioni. Pretendere di cancellare radicalmente tutto il male che c’è nel mondo è lo stesso che sopprimere la libertà dell’uomo con il rischio di uccidere l’uomo stesso. Certamente la libertà non equivale al diritto di fare il male, ma apre all’uomo la possibilità di orizzonti di bene. In ogni modo, Dio non vuole limitare la nostra libertà anche se alla fine del nostro pellegrinaggio chiederà conto dell’uso che ne avremo fatto. Gesù con le sue parabole ci fa capire che il regno di Dio ha un inizio (il momento in cui il seme viene seminato nel campo del cuore dell’uomo), una fine (il tempo della mietitura), separati da un tempo di crescita. Non dobbiamo quindi essere precipitosi, fare delle discriminazioni premature.

La tolleranza del padrone della messe stimola anche noi a un comportamento di comprensione. La vera forza dell’uomo non si manifesta nella vendetta, ma nel perdono. I sistemi del puritanesimo, dell’integralismo, del rigorismo e del massimalismo sono estranei allo spirito del Vangelo di Gesù. Se Dio è buono e perdona (cf. salmo responsoriale), anche noi dobbiamo avere il coraggio del perdono. Come ci ricorda san Paolo nella seconda lettura, nei nostri rapporti con Dio e con gli altri dobbiamo affidarci allo Spirito che “viene in aiuto alla nostra debolezza”. Lo Spirito Santo opera in modo continuo nel nostro cuore e orienta il nostro spirito perché sappiamo crescere nella vitalità che viene dall’alto. Fonte di ogni bontà, Dio non è direttamente né indirettamente causa del male. Rispettando la libertà della sua creatura, Dio lo permette e, misteriosamente, egli sa trarre il bene anche dal male.

 



venerdì 10 luglio 2020

Mano, bocca, cuore, ginocchio e piede: le forme della comunione eucaristica




Pubblicato il 11 luglio 2020 nel blog: Come se non

Anche di recente, in prese di posizione di diversa qualità e autorità, si è tornati a discutere sulla “forma” della comunione eucaristica. A suscitare il dibattito è stato probabilmente il “presidio sanitario”, che ha indicato la “comunione sulla mano” come “forma imposta”. Il dibattito che ne è sorto spesso è diventato molto acceso e addirittura esasperato. Fino a parlare di “sacrilegio” o di “eresia” per questa forma di recezione della comunione. Di recente Matias Augé ha fotografato molto bene i limiti del dibattito in una breve ma acuta riflessione . Qualche tempo prima il prof. Claudio U. Cortoni aveva recensito con cura su questo blog un libro molto fragile che manifestava in modo assai chiaro i limiti spirituali e scientifici di queste letture esasperate della tradizione. Per fare ulteriore chiarezza in questo ambito vorrei proporre due riflessioni. La prima viene da circa 50 anni fa, è tratta da un libro di J. Ratzinger, in cui ripropone alcune riflessioni di carattere spirituale sulla Eucaristia e nel quale appare una interessante considerazione delle “diverse forme” della comunione eucaristica. Dopo di ciò vorrei articolare a mia volta una breve meditazione ulteriore, sulla relazione tra queste diverse forme e sul loro impatto complesso nella tradizione ecclesiale.
a) Balthasar, Ratzinger e la dinamica tra mano, bocca e cuore
In un testo degli anni 80, H.-U. Von Balthasar ( Piccola guida per i cristiani, Milano, Jaca Book, 1986 (ed. orig. 1980), 111-114) cita J. Ratzinger per difendere la possibilità che il “fare la comunione” esca dalla esclusiva della “comunione sulla lingua”.  Egli scrive così:
“Prende o dà scandalo, come ebbe a sentenziare Guardini, chi pretende di aver ragione adducendo argomenti «penultimi», cioè non perentori. [...] Quel che, inoltre, i tradizionalisti non considerano, è che quasi tutto il «nuovo» inserito nel messale di Paolo VI deriva dalle più antiche tradizioni liturgiche, che il suo pezzo forte, il Canone Romano, è rimasto immutato, che il ricevere l’ostia nelle mani e in piedi è stato abituale fino al IX secolo e dei padri della Chiesa ci testimoniano che i fedeli si toccavano devotamente occhi e orecchie coll’ostia prima di consumarla. Non dovremmo dimenticare, dice Ratzinger, «che impure sono non le sole nostre mani, ma anche le nostre lingue» — Giacomo dice che la lingua è il nostro membro più peccaminoso (Gc 3, 2-12) — «e anche il nostro cuore… Il massimo rischio e nel contempo la massima espressione della misericorde bontà di Dio è che sia lecito toccare Dio non solo con le mani e la lingua, ma anche con il cuore» (J. Ratzinger, Eucharistie — Mitte del Kirche. Vier Predigten, Muenchen, Erich Wewel, 1978, 45) “.
E’ molto chiara, nel testo di Ratzinger, una serena dinamica di correlazione tra mani, bocca e cuore, che merita di essere sottoposta ad una analisi ulteriore.
b) La tradizione del “fare la comunione” e le forme della “fede eucaristica”: dalle mani fino alle ginocchia e ai piedi
“Prendete e mangiatene tutti”. La Chiesa si è sempre sentita vincolata da questo doppio imperativo. L’azione del prendere implica un investimento della mano, l’azione del mangiare una competenza della bocca. Ma insieme, e da sempre, sia la mano sia la bocca rimandano oltre se stesse, al cuore, alla mente, all’anima, alla vita. Dunque tre livelli sono sempre implicati nel “rito di comunione”: quello della esteriorità della mano, quello del confine tra interno ed esterno che è la bocca e quello puramente interiore del cuore. Può essere molto utile considerare le relazioni molteplici e complesse che legano profondamente questi livelli diversi,  tra loro mai contraddittori, bensì polari e in tensione. Provo a farlo considerando quattro prospettive sotto cui esaminarli.
I. Il livello antropologico
Il fatto che il rapporto di intimità con Cristo, con la sua vita e con la sua morte, con il suo corpo e con il suo sangue, con la sua parola e con la sua azioni, passi attraverso la competenza delle mani, della bocca e del cuore ci fa ricordare che l’uomo ha il suo specifico “nella ratio e nelle manus” (Tommaso d’Aquino). E che ciò che tiene insieme la ragione (ratio) e il tatto (manus) è il linguaggio, che ha nella bocca il suo organo. La bocca parla e la bocca mangia. Mangia “per natura” e parla “per cultura”. Ma la “cultura della bocca” è resa possibile dal fatto che le mani sostituiscono la bocca in tutto ciò che è “servile”. Solo nel genere umano accade questo miracolo: grazie al “tatto fine” è possibile all’uomo liberare la bocca da alcune funzioni servili – strappare le erbe alla terra, azzannare le prede da sbranare – per renderla disponibile alla parola e così accedere alla ragione. Già sul piano antropologico, dovremmo dire, noi pensiamo perché parliamo, ma parliamo perché le mani rendono libera la bocca di accedere alla parola.
II. La esperienza della “purezza rituale”
La prima considerazione sul piano antropologico  ci permette di rileggere la questione della “purezza” in modo nuovo. Spesso si sente dire: la mano è sporca, perché servile, mentre la bocca è pulita. In realtà le cose sono molto più complesse. Perché la mano tanto facilmente si sporca e tanto facilmente si lava. Pulire le mani è relativamente facile, anche quando la metafora delle “mani pulite” diventa un grande problema. La bocca, invece, può sporcarsi molto più profondamente e per pulirla dalle parole immonde occorre molto più tempo e procedure molto più complesse. Ancor più questo vale per il cuore: un cuore sporco, una mente insana, un intelletto distorto richiedono purificazioni, terapie e sanificazioni che possono durare una vita. La esteriorità della mano non è sinonimo di “impurità” mentre la interiorità del cuore non equivale a purezza.
III. Il processo di trasformazione del soggetto
Il fare comunione è “storia dei soggetti” in rapporto a Cristo. La tradizione della Chiesa ha sempre saputo che “prendete e mangiate” si incarna in “forme della manducazione” che possono essere “sacramentali” o “spirituali”. Mangiare con la bocca o mangiare col cuore sono “usi del sacramento” – per citare la terminologia scolastica – che hanno il medesimo contenuto. Ma la forma non è irrilevante. La forma più semplice è quella “spirituale”. Ma la sua “purezza”, che implica un investimento corporeo limitatissimo, è anche il suo limite. Una comunione “solo del cuore” è perciò, allo stesso tempo, il massimo e il minimo della vita ecclesiale. Per questo un rapporto “sensibile” con il “pane eucaristico” – ossia un rapporto non solo “di cuore”, ma di mano e di bocca – ha sempre avuto una sua autorevolezza inaggirabile e fondamentale. Per il chierico in modo strutturale e feriale, per il semplice battezzato in modo straordinario e festivo. La “comunione pasquale” ne è stato il segno secolare, raro ma resistente.
IV. La disciplina della Chiesa
Su tutto ciò ha ulteriormente interferito la disciplina ecclesiale, con le sue prassi e le sue norme. Così per lungo tempo, a partire dal X e XI secolo, si affermata una prassi in cui solo i sacerdoti prendevano, mangiavano e nutrivano il cuore. Al popolo di Dio era escluso non solo il “prendere”, ma spesso anche il “mangiare”. Nutrivano il cuore senza prendere e senza mangiare, se non una volta l’anno. Nell’ultimo secolo, a partire da Pio X, la “comunione frequente” – dal 1905 – ha iniziato a cambiare le cose. Non solo il “nutrimento del cuore”, ma anche il “mangiare con la bocca” è diventato molto più comune. Ancora più recentemente il “prendere” nella mano ha recuperato il terzo momento della prassi istitutiva e istituzionale dell’eucaristia. Il sospetto verso questo arricchimento della mano, rispetto alla bocca e al cuore, deve essere superato. Nella disciplina ecclesiale è facile identificare il semplice con puro. Anche nel caso dell’eucaristia una “comunione spirituale” intesa come pienezza ultima può essere facilmente tradotta in una semplificazione clericale. L’accesso di tutto il popolo alla pienezza delle azioni eucaristiche – prendere con la mano, mangiare con la bocca e credere con il cuore – è una grande “scuola di preghiera” (Paolo VI).
Se volessimo portare alle estreme conseguenze questo ragionamento dovremmo dire che oltre alla mano, alla bocca e al cuore la chiesa trova  altri due organi della comunione: le ginocchia e i piedi. In una Chiesa in cui la mano dei fedeli non è investita di autorità, alla bocca che riceve corrispondono le ginocchia. Questa è stata per lunghi secoli la forma della “comunione fuori dalla messa”. Ma quando la comunione torna ad essere parte del rito della messa, alla ritrovata autorità della mano corrisponde la rinnovata funzione dei “piedi” nella processione rituale. Non solo le ginocchia, ma anche i piedi sono capaci di culto e di adorazione. Possono esserlo nella processione di comunione, con cui la Chiesa riceve sulla mano, mangia con la bocca e crede con il cuore che la comunione tra Figlio e Padre, nello Spirito, è dono per tutti e tutti trasforma in “corpo di Cristo”.

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 12 Luglio 2020



Is 55,10-11; Sal 64 (65); Rm 8,18-23; Mt 13,1-23

Il discorso centrale delle letture bibliche odierne verte sulla parola di Dio. Il breve brano della prima lettura, tratta dal profeta Isaia, esalta la potenza della parola del Signore. Essa opera ciò che il Signore desidera e compie ciò per cui egli l’ha mandata. Le parole umane sono spesso vane e inconsistenti, non impegnano sempre chi le pronuncia, non resistono alla prova del tempo. La parola di Dio, invece, non risuona mai inutilmente sulla terra, non cade a vuoto, ma realizza qualcosa in chi si dispone a riceverla. Venendo da Dio, porta la vitalità infinita di Dio ed è capace di fecondare il mondo. Il profeta compara l’azione della Parola con quella della pioggia e della neve che irrigano, fecondano e fanno germogliare la terra. Non si tratta però di una parola magica. La parola di Dio non funziona in modo automatico. Lo insegna Gesù nella parabola del seminatore che uscì a seminare, parabola con la quale iniziamo la lettura del discorso sulle parabole del Regno che ci accompagnerà anche per le due domeniche seguenti. Gesù afferma che le sorti della Parola sono anche legate alla responsabilità e collaborazione dell’uomo: occorrono certe condizioni di disponibilità, di attenzione; occorre un terreno adatto, un cuore capace di ascolto perché la parola di Dio dia frutto. Se il nostro cuore è come un terreno arido, la nostra vita sarà sterile e incapace di essere rinnovata col messaggio della parola di Dio.

La seconda lettura ci ricorda che la parola di Dio seminata abbondantemente nel decorso della storia, ne subisce tutti i condizionamenti. Il brano paolino può aiutarci a comprendere l’attuale travaglio della crescita del regno di Dio, e quindi anche della Parola che di questo regno è annuncio. San Paolo ci invita alla speranza: la potenza della parola di Dio apparirà in tutto il suo fulgore quando in ogni discepolo si rivelerà la “gloria futura”, quando anche il corpo mortale dell’uomo sarà trasfigurato e reso conforme al corpo glorioso del Signore. L’eventuale incredulità degli ascoltatoti non farà fallire il progetto di Dio. La salvezza in Cristo è una realtà presente (cf. 1Cor 15,1-2), ma la sua realizzazione piena attraverso la risurrezione dei corpi deve ancora venire (cf. 1Cor 15,13-34). Con il suo corpo l’uomo è in rapporto con tutto il creato. Entrambi, l’uomo e il cosmo, gemono nell’attesa di una manifestazione piena della salvezza. Avendo partecipato al travagliato destino dell’uomo, anche la creazione parteciperà alla liberazione dalla sua condizione mortale.

La parola di Dio, se accolta e custodita nel cuore, è luce che ci guida a capire e interpretare il significato della nostra vita nella scena di questo mondo. Questa parola, che ascoltiamo così sovente nel decorso delle nostre celebrazioni liturgiche, in particolare ogni domenica nella prima parte della celebrazione della messa, è come una semente che Dio stesso sparge nel cuore d’ognuno di noi e che porta frutto a seconda dell’ascolto e dell’accoglienza che ad essa noi offriamo. Como dice il canto al vangelo, nella celebrazione eucaristica è Cristo stesso che semina il buon seme della sua Parola.

lunedì 6 luglio 2020

LA COESISTENZA DI DUE FORME DELLO STESSO RITO ROMANO E’ UN PROBLEMA ECCLESIOLOGICO




Nel 2001, il card. J. Ratzinger si esprimeva in questi termini:

“Si l’ecclésialité devient une question de choix libre, s’il y a dans l’Eglise des églises rituelles choisies selon un critère de subjectivité, cela crée un problème. L’Eglise, est construite sur les évêques selon la succession des apôtres, dans la forme des Eglises locales, donc avec un critère objectif. Je suis dans cette Eglise locale et je ne cherche pas mes amis, je trouve mes frères et mes sœurs; et les frères et les sœurs, on ne les cherche pas, on les trouve”. 

“Se l’ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio di soggettività, ciò crea un problema. La Chiesa, è costruita sui vescovi secondo la successione degli apostoli, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io sono in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, trovo i miei fratelli e le mie sorelle; e i fratelli e le sorelle, non si cercano, ma si trovano”.
(Cfr. Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001).

Il 7 luglio del 2007, Benedetto XVI, nella lettera che accompagna il Motu proprio “Summorum Pontificum”, dice tra l’altro:

“Molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia…”
“… anche giovani persone scoprono questa forma liturgica [Messale del 1962], si sentono attirate da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia”.


Sembra chiaro che i criteri con cui la Lettera del 7 luglio 2007 giustifica il ripristino della liturgia del 1962 sono di carattere soggettivo (desiderio, forma a loro cara, sentirsi attirati, forma appropriata per loro…), e ciò, come diceva il card. Ratzinger nel 2001, crea un problema (“cela crée un problème”). E il problema, come dice lo stesso Ratzinger e ho detto io più volte in questo blog e altrove, è di carattere ecclesiologico.


sabato 4 luglio 2020

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 5 Luglio 2020




Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30


Il breve brano dell’Antico Testamento, proposto come prima lettura, annuncia la venuta del Re di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re”. In queste parole emerge la promessa del nuovo Davide. Le parole profetiche evocano anche qui l’immagine mite e umile di Gesù che cavalcando un asino fa il suo trionfale ingresso in Gerusalemme. Come in altri scritti della tradizione profetica, il Messia viene annunciato non come un potente guerriero, ma come un messaggero umile e giusto che spezzerà i simboli di guerra e l’orgoglio dell’umana superbia con la forza dirompente dell’amore che si manifesta nella debolezza della croce.


Nel brano evangelico, Gesù si presenta come colui che realizza in pienezza le promesse profetiche. Egli si propone alle folle come alternativa di liberazione rispetto al potere opprimente dei loro capi. Al posto dell’insopportabile peso della legge e dell’oppressivo potere dei suoi interpreti, egli propone il proprio “giogo”, facile da portare. Gesù promette di dare ristoro a tutti coloro che sono affaticati e oppressi, e li invita a imparare da lui che è “mite e umile di cuore”. Gesù si presenta quindi come colui che cammina davanti a noi invitandoci a mettere i nostri piedi sulle sue orme. Dio si manifesta nel suo Figlio incarnato come un Dio umile che si rivela agli umili abbassandosi sino alle dimensioni infime dell’umanità per dare all’uomo stima di se stesso, nonché impulso e speranza di liberazione di quanto ci umilia, ci disonora e ci opprime.


La seconda lettura spiega in cosa consista seguire Gesù e portare il suo giogo. Paolo lo fa richiamando le due possibilità di vita che si prospettano alla libertà dell’uomo: “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Carne e Spirito sono due principi contrapposti di vita. La carne è l’uomo nella sua debolezza, caducità e fragilità. Non possiamo pretendere di costruire la propria vita sulla nostra fragilità; abbiamo bisogno dello Spirito di Dio. L’uomo che vive secondo la carne cerca se stesso e rifiuta il giogo di Cristo. Invece, l’uomo che vive secondo lo Spirito si lascia condurre dallo Spirito divino che lo libera dall’orgoglio accecante e dall’egoismo paralizzante. Assoggettarsi al giogo di Cristo significa vivere secondo lo Spirito. Infatti, la vita nello Spirito si configura come una crescente esperienza della nostra progressiva trasfigurazione nel Signore, della nostra appartenenza a Cristo, del dono della vita divina che, nel Risorto, ci è stata comunicata. Questa esperienza raggiungerà il suo compimento solo quando la potenza dello Spirito Santo trasfigurerà il nostro corpo mortale per renderlo conforme al corpo glorioso del Signore.