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domenica 28 febbraio 2021

COSA CI INSEGNA LA MORTE IN TEMPO DI CORONAVIRUS?

 



 

La modernità laica aveva rimosso profondamente lo spettro della morte, che solo la fede dei cristiani nella risurrezione esorcizzava. In Francia come in Europa occidentale, settantacinque anni di pace e di crescente durata della vita avevano occultato una morte che riappariva soltanto per un certo periodo nelle famiglie in lutto.

All’improvviso, il Coronavirus ha fatto irrompere la morte personale, finora rimandata al futuro, nell’immediato della vita quotidiana. La scienza biologica e l’arte medica, nonostante il loro arsenale di rimedi e vaccini, si sono trovate disarmate di fronte al misterioso virus portatore di morte.

Tutti i gironi abbiamo contato i morti, e questo ha aumentato la paura della sua incidenza, anche se il tasso di mortalità del Coronavirus e inferiore al 3% dei casi di infezione.

Il confinamento ha tragicamente lasciato soli gli agonizzanti intubati o attaccati alle macchine respiratorie, senza che una mano amorevole prendesse la loro. Ha lasciato i congiunti, i genitori, i figli lontani dagli ultimi giorni dei loro cari. Ha impedito la cerimonia funebre e ha obbligato a sepolture fatte in fretta e furia.

Questo vuoto ci ricorda crudelmente che la morte di un essere amato richiede il suo accompagnamento fino alla sepoltura o alla cremazione. I sopravvissuti hanno bisogno di condividere il proprio dolore in comunione. Hanno bisogno di riti di addio e di una cerimonia collettiva, compreso il pranzo funebre. La mancanza di una cerimonia consolatrice ha fatto sentire di nuovo, anche a un laico come me, il bisogno di rituali che fanno rivivere intensamente nelle nostre menti la persona morta e attenuano il dolore in una sorta di eucaristia.

 

Fonte: Edgar Morin con la collaborazione di Sabah Abouessalam, Cambiamo strada. Le quindici lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 31-32.

 

   

sabato 27 febbraio 2021

DOMENICA II DI QUARESIMA ( B ) – 28 Febbraio 2021

 



Gen 22,1-2.9a.10-13.15-18; Sal 115 (116); Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10

 

 

Dio promette ad Abram una terra e una discendenza numerosa, però egli dovrà iniziare un cammino di obbedienza: Vattene dal tuo paese verso il paese che io ti indicherò. Dopo qualche tempo, Dio stesso gli cambierà il nome per indicare che Dio conferisce ad Abram una nuova personalità: non si chiamerà più Abram, ma Abramo, che significa “padre di una moltitudine di popoli”. Abramo si è fidato di Dio ed è partito per una terra sconosciuta. Ma dove l’obbedienza di Abramo appare in tutta la sua grandezza è quando si dispone, in obbedienza al comando di Dio, a rinunciare al suo unico figlio Isacco. Il sacrificio del proprio figlio è profezia del sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo. Abramo non si ribella a Dio, non si mette a discutere, non dubita, si fida di Lui. Quando poi sta per immolare il proprio figlio Isacco, la sua mano è fermata dall’angelo e sente la voce di Dio che gli dice: Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo unico figlio. Abramo chiamò quel luogo “Il Signore provvede”. Anche Cristo, obbediente al disegno del Padre, si offre sulla croce fiducioso che Dio provvede.

 

La storia di Abramo illumina il racconto del brano evangelico d’oggi, in cui ci viene raccontato l’episodio della trasfigurazione. San Marco colloca questo racconto tra due predizioni della passione. E’ per far capire ai discepoli che la sua morte e la sua risurrezione costituiscono un mistero unitario, il mistero della nostra salvezza. Il momento culminante del brano evangelico, il vertice del racconto della trasfigurazione sono le parole del Padre ascoltate dai tre discepoli presenti: “Questo è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo”.

 

Noi, come Abramo e come Gesù siamo invitati a percorrere un cammino di obbedienza nella certezza che Dio provvede. Anche se ci viene chiesto talvolta un cammino di sofferenza e di rinuncia, siamo invitati ad ascoltare la voce del Signore e ad aver fiducia in colui che ha “parole di vita eterna”.

 

Come sintesi di questo messaggio che la Parola di Dio oggi ci trasmette, possiamo ripetere nel nostro cuore più volte durante la giornata il versetto del salmo responsoriale di questa Messa: “Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice”. L’autore del salmo canta la sua totale fiducia nell’amore divino anche quando l’infelicità occupa l’orizzonte della sua vita. Ancora all’inizio della Quaresima, riaffermiamo la volontà di percorrere il nostro cammino battesimale fatto soprattutto di fede e di umile accettazione del progetto di Dio su di noi anche quando non riusciamo a comprendere sempre la logica dei percorsi che ci vengono proposti.

 

 

domenica 21 febbraio 2021

Memoria di san Policarpo, Vescovo e Martire (23 febbraio)

 



 

La memoria di San Policarpo (+ 23 febbraio 167) nel Messale del 1962 si celebra il 26 gennaio, invece nei Messali del 1970-2002 è stata assegnata al giorno 23 febbraio, giorno del suo martirio. Il culto del santo in Occidente si era diffuso, celebrato il 26 gennaio per un errore di omonimia con un tale Policarpo di Nicea, di cui sono molto incerte le notizie. La Chiesa orientale ha invece celebrato sempre san Policarpo di Smirne il 23 febbraio. San Policarpo è stato discepolo dell’apostolo san Giovanni e vescovo di Smirne per lunghi anni, nell’attuale Turchia. Il resoconto del suo martirio è il più antico documento che testimonia il culto dei martiri. Si tratta di una lettera della Chiesa di Dio che dimora a Smirne alla Chiesa di Dio che è a Filomelio e a tutte le comunità della santa Chiesa cattolica di ogni luogo sul martirio del vescovo Policarpo.

 

Colletta del Messale del 1962:

Deus, qui nos beati Polycarpi Martyris tui atque Pontificis annua solemnitate laetificas: concede propitius; ut, cuius natalicia colimus, de eiusdem etiam protectione gaudeamus.

Colletta del Messale del 2002:

Deus, universae creaturae, qui beatum Polycarpum episcopum in numerum martyrum dignatus es aggregare, eius nobis intercessione concede, ut cum illo partem calicis Christi capientes, per Spiritum Sanctum in vitam resurgamus aeternam.

 “O Dio, Signore e Padre di tutti gli uomini, che hai unito alla schiera dei martiri il vescovo san Policarpo, concedi anche a noi per sua intercessione di bere al calice della passione del Cristo e di comunicare alla gloria della risurrezione” (Messale italiano del 1983).

“Dio di tutto il creato, che hai unito alla schiera di martiri il vescovo san Policarpo, per sua intercessione concedi anche a noi di partecipare con lui al calice della passione di Cristo per risorgere, nella potenza dello Spirito Santo, alla vita eterna” (Messale italiano del 2020).

 

L’espressione “per Spiritum Sanctum” non si trova nell’edizione tipica del Messale del 1970. Perciò la versione italiana del 1983 non l’ha ripresa, cosa che invece ha fatto la versione italiana del 2020. Quest’ultima inoltre traduce l’invocazione a Dio “universae creaturae” più fedelmente.

La colletta del Messale del 1962 è generica; si può applicare a qualsiasi vescovo martire: parla di un vescovo martire di cui si chiede la protezione. La colletta invece dei Messali del 1970-2002 fa riferimento puntuale al santo. Il testo è ispirato alla preghiera detta da Policarpo quando andava al martirio, preghiera che si legge nell’Ufficio delle letture della Liturgia delle ore: “… Dio […] io ti benedico perché mi hai stimato degno in questo giorno e in quest’ora di partecipare con tutti i martiri, al calice del tuo Cristo, per la risurrezione dell’anima e del corpo nella vita eterna, nell’incorruttibilità per mezzo dello Spirito Santo …” Si noti la menzione dello Spirito Santo, che è stata opportunamente introdotta nel testo dell’edizione tipica del Messale Romano del 2002.

 

venerdì 19 febbraio 2021

DOMENICA I DI QUARESIMA ( B ) – 21 Febbraio 2021

 


 

 

Gen 9,8-15; Sal 24; 1Pt 3,18-22; Mc 1,12-15

  

Al brevissimo racconto che fa san Marco dell’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto, il brano evangelico di questa prima domenica di Quaresima aggiunge il primo annuncio pubblico del vangelo: “...Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo»”. Le tentazioni di Gesù nel deserto e il suo primo annuncio programmatico in Galilea formano un tutto coerente: la vittoria di Gesù sul tentatore è segno che il tempo messianico della salvezza è cominciato e il regno di Dio è già un fatto presente. Con Gesù la regalità di Dio, promessa dai profeti e anticipata negli eventi biblici dell’Antico Testamento, irrompe nella storia umana. Gli uomini non siamo più costretto a subire il dominio di satana, la schiavitù del peccato, la paura della morte; possiamo ormai sottometterci alla forza liberante e consolante di Dio che si manifesta in modo efficace in Gesù Cristo. “Credere al vangelo” significa rompere con le paure e le schiavitù del passato e aprirsi con fiducia al nuovo futuro offerto da Dio in Cristo. San Pietro nella seconda lettura ribadisce la stessa verità ricordandoci l’ultima vittoria di Gesù su satana nel momento decisivo della croce: “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio...” Annuncio efficace e credibile del vangelo, dunque, fondato sull’obbedienza di Gesù che è diventata vittoria su satana.

 

Solo la grazia meritata da Cristo, e comunicata a noi attraverso il sacramento del battesimo, può operare quella trasformazione interiore che ci rende “uomini e donne nuovi” in Cristo. Ma come ricorda san Paolo, questa grazia deve essere accolta e corrisposta: “Fratelli, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio...” (Primi Vespri, lettura breve: 2Cor 6,1-4ª). La tradizione cristiana ha comparato l’acqua del battesimo alle acque del diluvio, di cui parla la prima lettura: Dio ha purificato l’umanità con il diluvio per ristabilire l’alleanza con il giusto Noè e la sua famiglia, principio di una nuova umanità. Così anche il battesimo ci purifica dal peccato e, rinati a una vita nuova, ci offre la possibilità di ristabilire saldi rapporti di amicizia con Dio. Il battesimo è quindi il segno visibile dell’alleanza nuova e definitiva che Dio sancisce con l’umanità nel sangue di suo Figlio.

 

Il Tempo quaresimale che stiamo iniziando è un periodo propizio per prendere coscienza della realtà profonda del nostro battesimo e rinsaldare così la nostra alleanza con il Signore. Dio rinnova nei secoli la sua alleanza con tutte le generazioni. L’alleanza è la spina dorsale di tutta la storia della salvezza, tanto nella fase di preparazione che in quella di compimento. Si può dire anzi che tutti i rapporti fra Dio e l’umanità, fra Dio e la Chiesa e fra Dio e ciascuno di noi si fondino sull’alleanza.

 

IL CARD. ROBERT SARAH HA RINUNCIATO ALLA PREFETTURA DELLA CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO. CHE RIPOSI IN PACE. CHI LO SOSTITUIRÀ? 

 

lunedì 15 febbraio 2021

MERCOLEDI DELLE CENERI – 17 Febbraio 2021

 


 

Gl 2,12-18; Sal 50; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18

 

La Quaresima che oggi iniziamo non propone nulla di straordinario rispetto alle esigenze fondamentali della vita cristiana. Esse vengono solo richiamate con insistenza perché ci si sforzi, sul piano personale e comunitario, di integrarle o reintegrarle meglio nella vita quotidiana. Possiamo dire con san Paolo che la Quaresima è semplicemente un “momento favorevole” per fare una verifica attenta della nostra vita e renderla così sempre più conforme alle esigenze del nostro battesimo (cf. seconda lettura).

 

La grazia del battesimo non libera la nostra natura dalla sua debolezza, né dall’inclinazione al peccato che la tradizione chiama “concupiscenza”, la quale rimane in noi anche dopo il battesimo perché sosteniamo le prove quotidiane nel combattimento della vita cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo: “La drammatica condizione del mondo che ‘giace’ tutto ‘sotto il potere del maligno’ (1Gv 5,19), fa della vita dell’uomo una lotta” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.409). Nelle invocazioni delle Lodi mattutine di questo mercoledì delle Ceneri l’itinerario quaresimale viene presentato come un tempo per “ricuperare pienamente il senso penitenziale e battesimale della vita cristiana”. Questo itinerario è fatto d’un “morire” e d’un “risorgere”. Si tratta di un “cammino di conversione”. “Convertirsi” è una scelta che comporta un cambiamento radicale del modo di pensare e di vivere, si tratta cioè di acquisire un modo di pensare e di vivere secondo il vangelo, come ci ricordano le parole con cui viene imposta su ciascuno di noi la cenere all’inizio della Quaresima: “Convertitevi, e credete al vangelo” (Mc 1,15).

 

La comunità cristiana nel suo cammino quaresimale è quindi chiamata a prendere una più lucida coscienza della realtà e delle esigenze del proprio battesimo. Seguendo la dottrina dei Padri, pratiche quaresimali tradizionali atte a raggiungere questo scopo sono il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Nell brano evangelico odierno, Gesù parla della nuova giustizia superiore all’antica e ne illustra le caratteristiche applicandole alle tre pratiche fondamentali della pietà giudaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno.

 

Le preghiere del Messale ritornano frequentemente sulle tre pratiche tradizionali del Tempo quaresimale. Il prefazio quaresimale IVo illustra i frutti del digiuno; il IIIo esalta la vittoria sull’egoismo che si esprime nella pratica dell’elemosina; il I parla dell’assiduità “nella preghiera e nella carità operosa”. La colletta della domenica IIIo, esordisce con queste parole: “O Dio misericordioso, fonte di ogni bontà, tu ci hai proposto a rimedio del peccato il digiuno, la preghiera e le opere di carità…” La pratica quaresimale è vista sempre come strumento del rinnovamento interiore. Ciò viene sottolineato in modo particolare dai testi che vanno dal mercoledì delle Ceneri al sabato seguente: l’orazione dopo la comunione d’oggi parla del digiuno “efficace per la guarigione del nostro spirito”; e la colletta del prossimo venerdì auspica che “all’osservanza esteriore corrisponda un profondo rinnovamento dello spirito”.

 

Le tradizionali pratiche quaresimali vanno accompagnate dall’ascolto assiduo della parola di Dio Il cammino quaresimale è quindi anche un cammino di fede, che non può essere fatto senza un costante riferimento alla parola di Dio che la Chiesa distribuisce con abbondanza in questo tempo santo.

 

 

venerdì 12 febbraio 2021

DOMENICA VI DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 14 Febbraio 2021

 


 

Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45

 

Dopo l’intensa giornata di Cafarnao, narrata dal brano evangelico nelle domeniche anteriori, ecco ora Gesù davanti a un lebbroso, che lo supplica in ginocchio: “Se vuoi puoi purificarmi!”. Nessuna indicazione di luogo, in questo caso. La folla sembra improvvisamente scomparsa. Evidentemente Marco ha voluto fissare solo il faccia a faccia fra Gesù e questo malato anonimo, in rappresentanza di tutti gli altri. Secondo le usanze dell’antico Vicino Oriente, riprese dalla legge dell’Antico Testamento, colui che era colpito dalla lebbra era segregato, separato dal contatto con gli altri. Si può ben dire che il malato di lebbra era considerato fuori dell’area della salvezza, uno scomunicato, un cadavere ambulante. La lebbra costituiva un simbolo attorno al quale si addensavano paure, tabù, dogmi scientifici e religiosi. Ne è testimone il frammento della legislazione del Levitico circa la lebbra che abbiamo ascoltato come prima lettura.  L’incubo legale e religioso di questa malattia è decisivo per comprendere il dramma umano e religioso del lebbroso, di cui parla il vangelo di questa domenica, e al tempo stesso l’originalità e la forza provocatoria del gesto compiuto da Gesù. Il lebbroso del vangelo sfida la segregazione in cui era costretto a vivere, va con fede davanti a Gesù il quale mosso a compassione lo guarisce e poi lo manda dal sacerdote perché egli possa essere reinserito ufficialmente nel contesto sociale. Il gesto e la parola efficace di Gesù restituiscono all’uomo quello statuto di purità, integrità e salute che gli consentiranno di vivere in maniera libera con gli altri davanti a Dio.

 

Cristo è venuto ad instaurare un nuovo atteggiamento verso la sofferenza dell’uomo e, in particolare, verso coloro che sono emarginati. Guarendo il lebbroso, Gesù si rivela come colui nel quale Dio si fa prossimo agli uomini: a tutti gli uomini, anche a coloro che sono esclusi ed emarginati. Gesù è una prossimità che supera le distanze e le barriere costruite dal nostro egoismo. In questo modo, Gesù ci insegna ad agire anche noi in modo simile. Ciò è possibile, come dice san Paolo nella seconda lettura, solo se ci si impegna a cercare non il proprio interesse “ma quello di molti, perché giungano alla salvezza”. Siamo quindi chiamati a controllare l’atteggiamento verso i nostri simili per eliminare ogni forma di esclusione, di emarginazione anche sottile presente talvolta nel nostro modo di pensare e di operare. Ci possiamo domandare: chi sono i “lebbrosi” oggi, i diversi? Chi sono gli esclusi della nostra società? Quale tipo di comportamento abbiamo di fronte ad essi? Abbiamo dei pregiudizi? Ci lasciamo trascinare talvolta da un egoismo mascherato di perbenismo, di buon senso? L’azione di Gesù è una testimonianza contro tutto questo.

 

Chi si avvicina con fede a Gesù, come il lebbroso del vangelo, viene “purificato”. Così pure chi si avvicina con fede all’eucaristia, viene purificato dal peccato e ritrova la vera vita.

domenica 7 febbraio 2021

UNA LITURGIA CONTACTLESS?

 

 

Il Comunicato finale del Consiglio permanente della CEI del 26 gennaio scorso, afferma, tra l’altro: “I Vescovi si sono confrontati sul Rito della pace nella Messa e hanno deciso di ‘ripristinare’, a partire da Domenica 14 febbraio, un gesto con il quale ci si scambia il dono della pace, guardandosi negli occhi o facendo un inchino del capo”.

https://www.chiesacattolica.it/consiglio-permanente-del-26-gennaio-il-comunicato-finale/


Dato che in tempo di pandemia, non è opportuno darsi la mano, la Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito che nello scambio del dono della pace nella celebrazione eucaristica possa essere sufficiente guardarsi negli occhi o fare un inchino del capo. Volgere gli occhi per intercettare quelli del vicino e accennare un inchino, secondo i Vescovi, può esprimere in modo eloquente, sicuro e sensibile, la ricerca del volto dell'altro, per accogliere e scambiare il dono della pace, fondamento di ogni fraternità. C'è però una maggior possibilità di espressione: le scarne parole della CEI non vietano, a mio avviso, di arricchire l'inchino con altri gesti come, ad esempio, poggiare la mano sul cuore o chinare la testa con le mani giunte. 


 





La Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, in una nota del 12.01.2021, dispone che in tempo di pandemia l’imposizione delle ceneri all’inizio della Quaresima sia fatta nel modo seguente: benedette le ceneri, il sacerdote rivolto ai presenti dice una volta sola la formula: “Convertitevi e credete al Vangelo”, oppure “Ricordati, uomo, che polvere tu sei e in polvere ritornerai”. Quindi, indossata la mascherina, impone le ceneri lasciandola cadere sul capo di ciascuno senza dire nulla.

http://www.cultodivino.va/content/cultodivino/it/documenti/note/nota-mercoledi-delle-cenere/italiano.html



 

È doveroso osservare queste norme, ma al tempo stesso bisogna ricordare alcuni principi importanti su ciò che possiamo chiamare la dimensione corporea dell’azione liturgica. La liturgia vive di linguaggi corporei. È tutto il corpo che parla, ascolta, canta, mangia, ecc., assumendo di volta in volta le posizioni e gli atteggiamenti corrispondenti al dinamismo della celebrazione. Il corpo è lavato, unto, profumato, incensato. Parlare di partecipazione interna e di partecipazione esterna come di due momenti diversi e separabili, è ambiguo e deviante. Il Concilio Vaticano II ha avuto il merito di condensare in una espressione lapidaria e ormai nota le modalità della partecipazione: “per ritus et preces id [= mysterium fidei] bene intellegentes” (SC 48). I riti e le preghiere non sono una realtà esterna, ma sono la mediazione con cui si accede al mistero che si celebra. In tempo di pandemia, costretti a ridurre al minimo alcuni gesti rituali, corriamo il rischio di affidarci alle parole del rito, al linguaggio verbale. Non dobbiamo dimenticare che il linguaggio verbale va collocato all’interno della vivacità espressiva della gestualità liturgica.

 

venerdì 5 febbraio 2021

DOMENICA V DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 7 Febbraio 2021

 


 

 

Gb 7,1-4.6-7; 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39

 

 La liturgia odierna ci invita a riflettere sullo scandalo del dolore nella nostra vita. I lamenti del giusto Giobbe, di cui parla la prima lettura, sono espressione classica di quella continua ricerca di una risposta al senso della sofferenza che percorre la storia dell’umanità e d’ognuno di noi. A Giobbe non viene condonato nulla, la sua sofferenza non è soggetta a sconti. Sprofondato nella tristezza del tempo volato via in fretta e del bene perduto ormai irrimediabilmente, l’avvilimento di Giobbe è così profondo che egli non intravede altro futuro che la morte. Giobbe grida la sua ribellione contro questa situazione, entra in discussione con Dio e da lui vuole una spiegazione. Ecco quindi che al colmo dell’angoscia, che le considerazioni dei suoi amici non riescono ad alleviare, Giobbe si rivolge a Dio, sperando contro ogni speranza in qualcuno che lo libererà dal baratro in cui giace.

 

La risposta di Dio agli interrogativi di Giobbe e di tutta l’umanità sofferente non è una filosofia o un convincente ragionamento. La risposta definitiva al mistero della sofferenza ci viene data con l’avvento di Cristo, il quale è presentato da san Marco già all’inizio della sua vita pubblica (cf. vangelo) come colui che è efficacemente solidale con i nostri mali ed è quindi capace di liberarci dalla nostra situazione di sofferenza. In questa intensa giornata a Cafarnao, Gesù dopo aver guarito la suocera di Pietro che era a letto con la febbre, guarisce molti malati e indemoniati che vengono condotti a lui. Le guarigioni operate da Gesù, che lo accompagneranno poi durante tutta la sua vita pubblica, sono segno visibile dell’azione sovrana di Dio che in Cristo “risana i cuori affranti e fascia le loro ferite” (salmo responsoriale). Come ricorda il canto al vangelo, “Cristo ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” (Mt 8,17).

All’immagine di Gesù che percorre tutta la Galilea predicando il vangelo e sanando i malati corrisponde l’immagine di san Paolo (cf. seconda lettura) che si fa tutto a tutti per guadagnare quanti più è possibile alla causa del vangelo. Per l’apostolo la predicazione del vangelo non si esaurisce in un insegnamento teorico, ma diventa personale partecipazione alla situazione di coloro cui si rivolge.

 

Concludendo questa breve riflessione, è doveroso che ne traiamo alcune conseguenze per noi. L’esperienza della sofferenza è in sé una situazione ambigua, può far attecchire l’erba velenosa della disperazione o far sbocciare il fiore della speranza. Alla luce della nostra fede, la sofferenza non è assurda. Anche se può sembrare paradossale, l’esperienza della sofferenza può costituire un momento di crescita ed essere poi il primo passo per aprirsi al desiderio della salvezza che Cristo annuncia e comunica.