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domenica 28 febbraio 2021

COSA CI INSEGNA LA MORTE IN TEMPO DI CORONAVIRUS?

 



 

La modernità laica aveva rimosso profondamente lo spettro della morte, che solo la fede dei cristiani nella risurrezione esorcizzava. In Francia come in Europa occidentale, settantacinque anni di pace e di crescente durata della vita avevano occultato una morte che riappariva soltanto per un certo periodo nelle famiglie in lutto.

All’improvviso, il Coronavirus ha fatto irrompere la morte personale, finora rimandata al futuro, nell’immediato della vita quotidiana. La scienza biologica e l’arte medica, nonostante il loro arsenale di rimedi e vaccini, si sono trovate disarmate di fronte al misterioso virus portatore di morte.

Tutti i gironi abbiamo contato i morti, e questo ha aumentato la paura della sua incidenza, anche se il tasso di mortalità del Coronavirus e inferiore al 3% dei casi di infezione.

Il confinamento ha tragicamente lasciato soli gli agonizzanti intubati o attaccati alle macchine respiratorie, senza che una mano amorevole prendesse la loro. Ha lasciato i congiunti, i genitori, i figli lontani dagli ultimi giorni dei loro cari. Ha impedito la cerimonia funebre e ha obbligato a sepolture fatte in fretta e furia.

Questo vuoto ci ricorda crudelmente che la morte di un essere amato richiede il suo accompagnamento fino alla sepoltura o alla cremazione. I sopravvissuti hanno bisogno di condividere il proprio dolore in comunione. Hanno bisogno di riti di addio e di una cerimonia collettiva, compreso il pranzo funebre. La mancanza di una cerimonia consolatrice ha fatto sentire di nuovo, anche a un laico come me, il bisogno di rituali che fanno rivivere intensamente nelle nostre menti la persona morta e attenuano il dolore in una sorta di eucaristia.

 

Fonte: Edgar Morin con la collaborazione di Sabah Abouessalam, Cambiamo strada. Le quindici lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 31-32.