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domenica 26 febbraio 2023

UNA SPIRITUALITÀ DELLA QUARESIMA



 

Nella tradizione della Chiesa romana, la Quaresima ha tre aspetti fondamentali: è preparazione alla Pasqua, è un tempo penitenziale e ha anche un carattere battesimale.

Oggi però sembra che sia rimasto in evidenza solo il primo aspetto, mentre gli altri due non hanno più il rilievo che avevano nei primi secoli del Cristianesimo. A quei tempi era la norma farsi battezzare da adulti, e questo avveniva nella Veglia pasquale, dopo il lungo periodo quaresimale di preparazione con catechesi, con digiuni e preghiere, chiamato catecumenato. L’intera comunità cristiana accompagnava i candidati al battesimo partecipando anch’essa ai digiuni e preghiere.

La Quaresima era un periodo penitenziale per coloro che si riconoscevano colpevoli di peccati gravi. Chi si dichiarava pubblicamente peccatore, confessava in privato il suo peccato al Vescovo, e iniziava il Mercoledì delle Ceneri un percorso pubblico di penitenza che durava l’intera Quaresima.  Anche in questo caso, la comunità cristiana era solidale con i penitenti e li sosteneva con la preghiera.

Dopo il concilio Vaticano II, la Chiesa ci propone di ricuperare tutti e i diversi aspetti della Quaresima: nella Costituzione sulla sacra liturgia, al n. 109, si ricorda il duplice carattere battesimale e penitenziale di questo periodo e si insiste su una duplice linea di “ascolto più attento della parola di Dio” e di un impegno “più a fondo nella preghiera”. Per la prima dimensione, quella battesimale, si raccomanda il ricupero degli elementi battesimali; per la seconda, quella penitenziale, si insiste nel senso personale e sociale del peccato. Nel n. 110 dello stesso documento si parla della penitenza quaresimale che non deve essere soltanto interna e individuale, ma anche esterna e sociale. Si raccomanda in una maniera speciale il digiuno pasquale nel venerdì e sabato santi “in modo da giungere con cuore aperto ed esultante ai gaudi della domenica di Risurrezione”. In questo caso, il digiuno esprime l’antico senso di attesa del Risorto.

San Pietro Crisologo (ca. 380 – 450), vescovo di Ravenna e dottore della Chiesa, illustra con poche parole il rapporto che intercorre tra preghiera, digiuno ed elemosina (= misericordia) nel modo seguente: “Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia” (Disc. 43: PL 52,320). Le tre pratiche quaresimali sono quindi strettamente collegate, una richiama l’altra, come le tre virtù teologali di fede speranza e carità. Possiamo affermare che la preghiera nutre la fede, l’elemosina alimenta la carità e il digiuno accresce la speranza, orienta verso i beni definitivi.

Non c’è dubbio che è il digiuno l’elemento costante e quindi tradizionale della prassi quaresimale. Parlare oggi di digiuno in una società in cui molti popoli vivono nella miseria e i loro cittadini muoiono di sete e di fame, può sembrare una provocazione. Ma anche nella nostra vecchia Europa che, nonostante la perdurante crisi economica continua a godere un alto livello di benessere, il digiuno quaresimale può configurarsi come un formalismo inaridente o un moralismo ritualistico, insomma una prasi irrilevante, forse inutile, che non sta più al passo coi tempi. Come possiamo dare a questa prassi un senso che sia al tempo stesso tradizionale e adatto ai tempi?

Si potrebbe praticare il digiuno nello spirito di una contestazione radicale della società dei consumi. Questa contestazione può esprimersi in un atteggiamento più critico e più libero nei confronti delle molteplici seduzioni di questa società. Ad esempio, in un uso più sobrio e in una scelta più accurata della quantità e qualità dei programmi televisivi. O anche in una disciplina di quel registro orale che è la parola, soprattutto in culture loquaci come la nostra, dove le parole sono trattate come una materia da consumare in vista di un’affermazione di sé dinanzi agli altri. Il nostro mondo è incredibilmente verboso e noi siamo costantemente sommersi da parole che hanno perso il loro significato e, quindi, la loro forza. Il cristianesimo proclama la sacralità della parola, vero dono fatto da Dio all’uomo. È per questa ragione che il nostro parlare è dotato di un potere tremendo, sia positivo che negativo, ed è per questa ragione che saremo giudicati sulle nostre parole, come dice Gesù: “Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio” (Mt 12, 36). Ecco, quindi, che un’ascesi parallela a quella del digiuno, e a lei complementare, può consistere nell’iniziazione al silenzio in modo di liberarsi dal verbalismo e dalla chiacchiera e farci riscoprire la parola come dono divino e come responsabilità nei confronti degli altri. Il silenzio favorisce l’ascolto: nella tradizione cristiana la Quaresima è anche, dicevamo, un tempo in cui siamo invitati ad un più assiduo ascolto della parola di Dio. Il filosofo Epitteto diceva: “Dio ci ha dato due orecchie, ma soltanto una bocca, proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà”.

Si può, poi, rivalutare la pratica, confermata dalla Bibbia e dalla prima tradizione cristiana, della “Quaresima di condivisone” dei nostri beni, del nostro cibo, del nostro tempo e anche delle nostre conoscenze. La Quaresima di condivisione può esprimersi pure in un gesto di riconciliazione con i fratelli da cui ci separano idee politiche o divergenze confessionali, che troppo spesso ci induriscono in esclusione reciproca, odio e anche scontri violenti. Elisabetta di Ungheria, chiamata la santa della carità, diceva ai poveri da lei beneficati: “Fale anche voi la carità”. A loro che le rispondevano: “Ma come fare, se siamo poveri?”, la santa regina replicava: “Non è sempre comandato di aprire le borse; è sempre comandato di aprire il cuore, e quando non abbiamo denaro, possiamo sempre avere un cuore per compatire i bisognosi, due occhi per vederli, due orecchi per ascoltarli, due piedi per visitarli, due mani per servirli, una lingua per consolarli, incoraggiarli, istruirli, esortarli, correggerli…” Sono alcuni esempi di un digiuno che sta al passo con i tempi. È stato detto che la castità vale quel che vale l’amore in nome del quale viene serbata. Si potrebbe dire la stessa cosa del digiuno: il digiuno può essere vissuto con autenticità solo in un contesto di comunione. Ridurre il digiuno quaresimale alla consumazione di un pasto più sobrio o all’astinenza della carne il Mercoledì delle Ceneri e i venerdì quaresimali, non basta. Il rapporto con il cibo di chi digiuna può essere pienamente compreso solo se oltrepassa, se va oltre la funzione biologica del cibo stesso. Bisogna domandarsi perché molti mettono con facilità in pratica i consigli del medico e considerano sorpassate le concezioni religiose in materia. Se il digiuno lo propone il prete, è una imposizione anacronistica. Se è il dietologo a proporlo, è legge sacrosanta da osservare quotidianamente con scrupolosità e con controlli periodici. Se la cuoca prepara una bistecca, tutti sbuffano: uffa… la solita carne! Se la Chiesa dice è venerdì di Quaresima: c’è astinenza dalla carne; magari ci viene voglia di bistecca.   

  

venerdì 24 febbraio 2023

DOMENICA I DI QUARESIMA ( A ) – 26 Febbraio 2023

 



 

Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

 

Nella prima domenica di Quaresima, recitiamo il Sal 50, salmo penitenziale per eccellenza, che abbiamo trovato già nel Mercoledì delle Ceneri e ritroveremo ancora in seguito. Si tratta di una delle più belle suppliche del salterio per la spontaneità e la profondità dei sentimenti che in esso sono espressi. All’inizio del cammino quaresimale, questo salmo diventa il segno della nostra sincera volontà di conversione. Se il senso della colpa che il testo esprime è vivissimo, più intensa è, però, l’esperienza del perdono, della novità dello spirito, della gioia di sentirsi salvato dal Dio misericordioso. Perciò si potrebbe ben dire che più che un canto penitenziale, il Sal 50 è la celebrazione della risurrezione alla vita nello spirito della parabola del figlio prodigo che ritorna alla casa del padre.

 

La prima lettura racconta il peccato di Adamo ed Eva, i quali disobbediscono al progetto che Dio ha su di loro. Il brano del vangelo, invece, ci propone l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto secondo la versione di san Matteo. Dalle tentazioni Gesù esce vittorioso accettando fino in fondo la volontà del Padre. Ecco, quindi, che alla disobbedienza di Adamo si contrappone l’obbedienza di Cristo, due personaggi che fanno scelte opposte; scelte nelle quali noi tutti siamo coinvolti. Ce lo fa capire san Paolo nella seconda lettura, quando stabilisce un confronto fra Adamo, responsabile della prima caduta umana che ha scatenato nel mondo la forza ostile del peccato, e Gesù Cristo, grazie al quale si riversa su tutti gli uomini la giustificazione. Gesù ha il potere di salvare l’uomo, perché ha, nella sua umanità, la capacità di ricollegare validamente l’uomo con Dio.

 

Come in Adamo e come in Gesù, la tentazione ci pone di fronte alla continua necessità di decidere e di scegliere. Le tre tentazioni subite da Gesù nel deserto possono essere considerate paradigmatiche di quelle a cui noi tutti siamo continuamente esposti. Gesù è tentato dal potere, dal successo e dal desiderio di usare per il proprio vantaggio le doti che ha ricevuto per il servizio degli altri e, in questo modo, sganciarsi dalla propria missione. Egli vince le tentazioni contrapponendo al tentatore la parola di Dio, e cioè il progetto che il Padre ha su di lui: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (canto al vangelo - Mt 4,4). Adamo ha voluto gestire in proprio, in assoluta autonomia il suo destino, e ha incontrato la morte. Cristo invece ha riconosciuto la propria dipendenza da Dio, e ha incontrato la vita: Egli non ha avuto paura di sottomettere la sua libertà al volere di Dio, perché ha capito che la sottomissione a Dio libera l’uomo della sottomissione agli idoli.

 

mercoledì 22 febbraio 2023

RESCRIPTUM EX AUDIENTIA SULL'IMPLEMENTAZIONE DEL MOTU PROPRIO "TRADITIONIS CUSTODES"


 


RESCRIPTUM EX AUDIENTIA SS.MI, 21.02.2023

 

[B0150]

 

Il Santo Padre, nell’Udienza concessa il 20 febbraio u.s. al sottoscritto Cardinale Prefetto del Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha confermato quanto segue circa l’implementazione del Suo Motu Proprio Traditionis custodes del 16 luglio 2021.

Sono dispense riservate in modo speciale alla Sede Apostolica (cfr. C.I.C. can. 87 §1):

­l’uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962 (cfr. Traditionis custodes art. 3 §2);

­la concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del Motu proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962 (cfr. Traditionis custodes art. 4).

Come stabilito dall’art. 7 del Motu proprio Traditionis custodes, il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti esercita nei casi sopra menzionati l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di quanto disposto.

Qualora un Vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi.

Inoltre, il Santo Padre, conferma – avendo già manifestato il suo assenso nell’udienza del 18 novembre 2021 – quanto stabilito nei Responsa ad dubia con le annesse Note esplicative del 4 dicembre 2021.

Il Santo Padre ha altresì ordinato che il presente Rescritto sia pubblicato su L’Osservatore Romano e, successivamente, nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.

Dal Vaticano, 20 febbraio 2023

Arthur Card. Roche

Prefetto

[00323-IT.01] [Testo originale: Italiano]

martedì 21 febbraio 2023

LA QUARESIMA OGGI

 



 

Per rendere più efficace il messaggio quaresimale, nel Medioevo si era soliti raffigurare allegoricamente la battaglia fra il Carnevale e la Quaresima, dove il Carnevale era rappresentato da persone paffute e gioiose seguite da una schiera di prosciutti, lardi, salami, mentre la Quaresima era rappresentata da personaggi magri e pallidi, seguiti da sardine, pesci e baccalà. Alla fine, la vittoria era sempre della Quaresima. E’ famosa al riguardo la Battaglia fra il Carnevale e la Quaresima del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio (sec. XVI). Oggi invece qualcuno ha scritto: “Sta morendo il Carnevale perché la Quaresima è già morta da un pezzo” (F. Cardini, Il libro delle feste. Il cerchio sacro dell’anno, Il Cerchio SRL, Firenze 2011, 201).

Si può quindi parlare ancora di Quaresima? Si può parlare ancora di Quaresima e di penitenza per l’uomo di oggi? Il tempo quaresimale, pur essendo un periodo importante dell’anno per l’incremento della vita cristiana, oggi la maggior parte dei battezzati non la avverte come una volta. Quando la Quaresima era sentita e osservata (magari con spirito legalistico, ma osservata) dai cristiani come un tempo contrassegnato da rinunce e pratiche penitenziali, vi era un’espressione popolare per indicare qualcosa di difficile e noioso: “lungo come una Quaresima”. Oggi quasi nessuno ricorre a questa esclamazione, semplicemente perché la Quaresima non è più vissuta “a caro prezzo”. Nel passato, le nostre chiese avevano un assetto adatto alla circostanza, si comprendeva che era Quaresima, oggi invece passa quasi inosservata. Occorre quindi riscoprire il significato e il valore della Quaresima alla luce della tradizione bimillenaria della Chiesa e nel contesto delle attuali circostanze in cui ci troviamo. Il fenomeno del secolarismo in cui è immersa la società ci conduce a un’autentica “schizofrenia” religiosa, che divide la nostra vita in due parti: la parte religiosa e la parte secolare, tra loro sempre meno interdipendenti. Bisogna fare uno sforzo spirituale per riscoprire, ricuperare e aggiornare i costumi e i richiami ereditati dalla tradizione, che costituiscono i mezzi del nostro sforzo quaresimale.

domenica 19 febbraio 2023

25 ANNI DOPO

 




 


 

Roma, 16 novembre 1998

 

 

Eminenza Reverendissima,

 

          Mi perdoni se ardisco di scrivere questa lettera. Lo faccio con semplicità, e anche con grande sincerità. Sono professore di liturgia al Pontificio Istituto Liturgico di S. Anselmo e alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense nonché Consultore della Congregazione per il Culto Divino. Ho letto la Conferenza che Lei ha tenuto poco tempo fa con occasione dei “Dix ans du Motu Proprio ‘Ecclesia Dei’”. Confesso che il suo contenuto mi ha lasciato profondamente perplesso. Mi hanno colpito, in particolare, le risposte che Lei dà alle obiezioni fatte da coloro che non approvano “l’attaccamento all’antica liturgia”. È su queste che vorrei soffermarmi in questa lettera che Le invio.

 

L’accusa di disobbedienza al Vaticano II viene respinta dicendo che il Concilio non ha riformato esso stesso i libri liturgici, ma ha semplicemente ordinato la loro revisione. Verissimo! e l’affermazione non può essere contraddetta. Le faccio notare però che neppure il Concilio di Trento ha riformato i libri liturgici, avendo dato solo dei principi molto generali al riguardo. La riforma come tale, il Concilio l’ha demandata al papa, e Pio V e i suoi successori l’hanno fedelmente attuata.

 

 Non riesco a capire, poi, come i principi del Concilio Vaticano II concernenti la riforma della messa presenti nella Sacrosanctum Concilium, nn.47-58 (quindi non solo i nn. 34-36 da Lei citati) possano andare d’accordo con il ripristino della cosiddetta messa tridentina. Se prendiamo inoltre per buona l’affermazione del Cardinale Newman da Lei ricordata, e cioè che la Chiesa non ha mai abolito o proibito “forme liturgiche ortodosse”, allora mi domando se, ad esempio, i notevoli cambiamenti introdotti da Pio X nel salterio romano o da Pio XII nella Settimana Santa abbiano o meno abolito gli antichi ordinamenti tridentini. Il suddetto principio potrebbe indurre alcuni, ad esempio in Spagna, a pensare che è permesso celebrare l’antico rito ispano - visigotico, ortodosso e rimesso a nuovo dopo il Vaticano II. Parlare poi del rito tridentino come diverso dal rito del Vaticano II non mi sembra esatto, anzi direi che è contrario alla nozione stessa di ciò che s’intende qui per rito. Sia il rito tridentino che quello attuale sono un solo rito: il rito romano, in due diverse fasi della sua storia.

 

          La seconda obiezione che si fa è che il ritorno all’antica liturgia rischia di rompere l’unità della Chiesa. Questa obiezione viene affrontata da Lei distinguendo tra l’aspetto teologico e pratico del problema. Posso condividere molte delle considerazioni che Lei fa a questo proposito, eccetto alcuni dati storicamente non sostenibili, come ad esempio l’affermazione che fino al Concilio di Trento esistevano i riti mozarabico di Toledo e altri, da esso soppressi. Il rito mozarabico, infatti, era stato soppresso già da Gregorio VII con esclusione di Toledo, dove rimane in vigore. Il rito ambrosiano, da parte sua, non è stato mai soppresso. Ciò che al riguardo non riesco a capire è che si dimentichi quanto Paolo VI afferma nella Costituzione apostolica del 3.4.1969, con cui promulga il nuovo Messale, e cioè: “...confidiamo che questo Messale sarà accolto dai fedeli come mezzo per testimoniare e affermare l’unità di tutti, e che per mezzo di esso, in tanta varietà di lingue, salirà al Padre celeste... una sola e identica preghiera”. Paolo VI vuole quindi che l’uso del nuovo Messale sia espressione di unità della Chiesa; e aggiunge poi concludendo: “Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere di contrario nelle Costituzioni e negli Ordinamenti Apostolici dei nostri predecessori e in altre disposizioni, anche degne di particolare menzione e deroga”.

 

Conosco le sottili distinzioni avanzate da alcuni giuristi o ritenuti tali. Credo però che si tratti semplicemente di “sottigliezze” che, in quanto tali, non meritano grande attenzione. Si potrebbero citare diversi documenti in cui si dimostra chiaramente la volontà di Paolo VI al riguardo. Ricordo solo la lettera che l’11 ottobre 1975 il Card. J. Villot scriveva a Mons. Coffy, presidente della Commissione episcopale francese di liturgia e di pastorale sacramentaria (Segreteria di Stato n.287608), in cui diceva tra l’altro: “Par la Constitution Missale Romanum, le Pape prescrit, comme vous le savez, que le nouveau Missel doit remplacer l’ancien, nonobstant les Constitutions et Ordonnances apostoliques de ses prédécesseurs, y compris par conséquent toutes les dispostions figurant dans la Constitution Quo Primum et qui permettrait de conserver l’ancien missel [...] Bref, comme dit la Constitution Missale Romanum, c’est dans le nouveau Missel romain et nulle part ailleurs que les catholiques de rite romain doivent chercher le signe et l’instrument de l’unité mutuelle de tous...”

 

          Eminenza, come professore di liturgia io mi trovo a insegnare delle cose che mi sembrano diverse da quelle da Lei espresse nella conferenza suddetta. E credo di dover continuare su questa strada in obbedienza al magistero pontificio. Lamento anch’io gli eccessi con cui alcuni dopo il Concilio hanno celebrato o celebrano ancora la liturgia riformata. Ma non riesco a capire perché alcuni Eminentissimi Cardinali, non solo Lei, abbiano creduto opportuno porvi rimedio mettendo “di fatto” in discussione una riforma approvata dopo tutto dal sommo pontefice Paolo VI e aprendo sempre di più le porte all’uso dell’antico Messale di Pio V. Con umiltà, ma anche con parresia apostolica, sento il bisogno di affermare la mia contrarietà a simili orientamenti. Ho preferito dire apertamente ciò che molti liturgisti e non, che ci sentiamo figli obbedienti della Chiesa, diciamo nei corridoi degli Atenei romani.

 

          Suo dev.mo in Cristo

 

 

 

                                                 Matias Augé cmf

 

 

__________________________________

Em.za Rev.ma Cardinale Joseph Ratzinger

Prefetto della Congregazione della Fede

CITTA’ DEL VATICANO

Joseph Cardinal Ratzinger

 

 

                                                                                                 

 

 

 

 

 

 

                                                           18 febbraio 1999

 

Reverendo Padre

P. Prof. Matias Augé, CMF

Istituto “Claretianum”

L.go Lorenzo Mossa, 4

00165 Roma

 

 

 

Reverendo Padre,

 

ho letto con attenzione la Sua lettera del 16 novembre u.s., nella quale Lei ha formulato alcune critiche alla Conferenza da me tenuta il giorno 24 ottobre 1998, in occasione del 10o anniversario del Motu proprio “Ecclesia Dei”.

 

Capisco che Lei non condivida le mie opinioni sulla riforma liturgica, la sua attuazione, e la crisi che deriva da talune tendenze in essa nascoste, come la desacralizzazione.

 

Mi sembra, però, che la sua critica non prenda in considerazione due punti:

 

1. è il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che ha concesso, con l’Indulto del 1984, l’uso della liturgia anteriore alla riforma paolina, sotto certe condizioni; in seguito, lo stesso Pontefice ha pubblicato, nel 1988, il Motu proprio “Ecclesia Dei”, che manifesta la sua volontà di andare incontro ai fedeli, che si sentono attaccati a certe forme della liturgia latina anteriore, e pertanto chiede ai vescovi di concedere “in modo ampio e generoso” l’uso dei libri liturgici del 1962.

 

2. una parte non piccola dei fedeli cattolici, anzitutto di lingua francese, inglese e tedesca, rimangono fortemente attaccati alla liturgia antica, e il Sommo Pontefice non intende ripetere nei loro confronti ciò che era accaduto nel 1970, dove si imponeva la nuova liturgia in maniera estremamente brusca, con un tempo di passaggio di soli 6 mesi, mentre il prestigioso Istituto liturgico di Treviri, infatti, per tale questione, che tocca in maniera così viva il nervo della fede, giustamente aveva pensato ad un tempo di 10 anni, se non sbaglio.

 

Sono dunque questi due punti, cioè l’autorità del Sommo Pontefice regnante e il suo atteggiamento pastorale e rispettoso verso i fedeli tradizionalisti, che sarebbero da prendere in considerazione.

 

Mi permetta, pertanto, di aggiungere alcune risposte alle Sue critiche circa il mio intervento.

 

1. Quanto al Concilio di Trento non ho mai detto che esso avrebbe riformato i libri liturgici, al contrario ho sempre sottolineato che la riforma postridentina, situandosi pienamente nella continuità della storia della liturgia, non ha voluto abolire le altre liturgie latine ortodosse (i cui testi esistevano da più di 200 anni) e neppure imporre una uniformità liturgica.

 

Quando ho detto che anche i fedeli, che fanno uso dell’Indulto del 1984, devono seguire gli ordinamenti del Concilio, volevo mostrare che le decisioni fondamentali del Vaticano II sono il punto d’incontro di tutte le tendenze liturgiche e che quindi sono anche il ponte per la riconciliazione in campo liturgico. Gli ascoltatori presenti hanno, in realtà, capito le mie parole come un invito all’apertura al Concilio, all’incontro con la riforma liturgica. Penso che chi difende la necessità ed il valore della riforma, dovrebbe essere pienamente d’accordo con questo modo di avvicinare i “tradizionalisti” al Concilio.

 

2. La citazione di Newman vuole significare che l’autorità della Chiesa non ha mai abolito nella sua storia con un mandato giuridico una liturgia ortodossa. Si è verificato invece il fenomeno di una liturgia che scompare, e poi appartiene alla storia, non al presente.

 

3. Non vorrei entrare in tutti i dettagli della Sua lettera, anche se non sarebbe difficile rispondere alle Sue diverse critiche dei miei argomenti. Mi sta però a cuore quello che riguarda l’unità del Rito Romano. Questa unità oggi non è minacciata dalle piccole comunità che fanno uso dell’Indulto e si trovano spesso trattati come lebbrosi, come persone che fanno qualcosa di indecoroso, anzi di immorale; no, l’unità del Rito Romano è minacciata dalla creatività selvaggia, spesso incoraggiata da liturgisti (per esempio in Germania si fa la propaganda del progetto “Missale 2000”, dicendo, che il Messale di Paolo VI sarebbe già superato). Ripeto quanto ho detto nel mio intervento, che la differenza tra il Messale di 1962 e la messa fedelmente celebrata secondo il Messale di Paolo VI è molto minore che la differenza fra le diverse applicazioni cosiddette “creative” del Messale di Paolo VI. In questa situazione la presenza del Messale precedente può divenire una diga contro le alterazioni della liturgia purtroppo frequenti, ed essere così un appoggio della riforma autentica. Opporsi all’uso dell’Indulto del 1984 (1988) in nome dell’unità del Rito Romano è, secondo la mia esperienza, un atteggiamento molto lontano dalla realtà. Del resto, mi rincresce un po’, che Lei non abbia percepito, nel mio intervento, l’invito rivolto ai “tradizionalisti” ad aprirsi al Concilio, a venirsi incontro verso la riconciliazione, nella speranza di superare, col tempo, la spaccatura tra i due Messali.

 

Tuttavia, La ringrazio per la Sua parresia, che mi ha permesso di discutere francamente su una realtà che ci sta ugualmente a cuore.

 

Con sentimenti di gratitudine per il lavoro che Lei svolge nella formazione dei futuri sacerdoti, La saluto

 

 

                                                                           Suo nel Signore

 

                                                                 + Joseph Card. Ratzinger

  

 

 

 

 


venerdì 17 febbraio 2023

DOMENICA VII DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) 19 febbraio 2023

 


 

 

Lev 19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

 

 

Possiamo soffermarci sulle ultime parole del brano evangelico. Gesù afferma: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Un ideale immenso che però è già proposto nell’Antico Testamento come ci ricorda la prima lettura d’oggi presa dal libro del Levitico: “Il Signore parlò a Mosè e disse: Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”. Il fatto che Gesù esiga da noi la perfezione del Padre significa che esiste in noi questa capacità, avendoci trasformati in veri figli di Dio. Possiamo dire che in noi c’è il DNA di Dio Padre e del suo Figlio Gesù Cristo.

 

Gesù esige da noi la perfezione e la santità di Dio in un contesto ben preciso. Lo fa parlando della paternità e tenerezza di Dio che ama tutti i suoi figli, e fa sorgere il suo sole anche sui cattivi e fa piovere anche sugli ingiusti, beneficando con i suoi doni anche i peccatori. Orbene Dio vuole che lo imitiamo, soprattutto in questo suo amore. Perciò dobbiamo impegnarci ad astenerci dall’odio, dalla vendetta e dal rancore verso il prossimo.

 

Il male, per quanto grande sia, moltiplica il suo effetto se la vittima si lascia imbrigliare da esso attraverso la rabbia, il rancore o la vendetta che ne seguirebbe; l’esercizio del perdono, ovvero della libertà di accogliere quel male e di restituirlo trasformandolo in un’offerta di presa di coscienza, rimette al mal-fattore la scelta di riconoscere quanto ha fatto e di rimediare, o di rimanere legato al suo stesso male. Dato che il perdono lo si può solo offrire, ma aspetta poi al “perdonato” accoglierlo o meno.

 

Nella nostra società, attraversata tuttora dall’odio e dalla violenza, il messaggio della fraternità universale esercita sempre un certo fascino. Non di rado però in nome della decantata fraternità universale si calpestano i valori più sacrosanti della coscienza cristiana e religiosa in genere predicando e imponendo di fatto un relativismo etico, che induce a ritenere inesistente un criterio oggettivo e universale per stabilire il fondamento e la corretta gerarchia di valori. Non essendo riconosciuta a priori alcuna verità come unico criterio pratico di discernimento dei valori, ci si affida all’opinione della maggioranza per stabilire le norme della convivenza pacifica tra gli uomini. Ogni scelta che riesce ad avere il consenso dei più diventa vincolante per tutti. Non è questa la fraternità universale proposta dal Vangelo. Essa svanisce se non è fondata nella verità della nostra comune figliolanza nei riguardi di Dio Padre di tutti. Non si può costruire una società fraterna che non rispetti la coscienza religiosa di ogni singola persona e il suo diritto a manifestarla. 

 

domenica 12 febbraio 2023

LA DERIVA CLERICALE DELLA MESSA CRISMALE

 



 

Il 16 ottobre dell’anno scorso ho presentato in questo blog l’opera del Prof. Giovanni Zaccaria sulla Messa crismale (Sacerdoti, re, profeti e martiri. Teologia della Messa crismale). L’autore, dopo aver parlato a pp. 146-148 della “deriva clericale” che rappresenta l’introduzione nella Messa crismale del rinnovo delle promesse sacerdotali e di un nuovo prefazio, a p. 151 propone quanto segue:

“Allo stato attuale delle cose ci troviamo di fronte ad un’introduzione che risente di una lettura riduzionistica della celebrazione e che non tiene conto del senso del Giovedì santo di cui abbiamo detto più sopra. Tale introduzione dovrebbe essere rivista in modo di prendere in considerazione il sacerdozio ministeriale nel contesto più ampio dell’unzione di Cristo: potrebbe segnalare il fatto che tutti i battezzati rinnovano le loro promesse battesimali nella Veglia pasquale, mentre alcuni – i fedeli ordinati – rinnovano anche le promesse fatte il giorno della loro ordinazione, e lo fanno nel contesto di questa celebrazione.

Inoltre, potrebbe essere importante dotare questa Messa di una orazione universale significativa. Si tratta di un segmento rituale rilevante per l’esercizio del sacerdozio regale: in esso si manifesta la risposta orante dell’assemblea storica alla parola di Dio che è stata proclamata. Ciononostante, l’attuale sistemazione non prevede una vera e propria preghiera universale; ci si “accontenta” di una serie di intenzioni intorno al rinnovo delle promesse sacerdotali. Riteniamo invece che una chiarificazione di tutto il segmento rituale del rinnovo delle promesse sacerdotali e della preghiera universale gioverebbe ad una migliore comprensione del senso della celebrazione e del ruolo centrale di ogni fedele per la vita della Chiesa”.

venerdì 10 febbraio 2023

DOMENICA VI DEL TEMPO ORDINARIO ( A ) – 12 febbraio 2023

 



 

Sir 15,15-20 (nv 16-21); Sal 118; 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37

 

Come dice il brano del libro del Siracide che abbiamo ascoltato come prima lettura, “davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male”. Ognuno è libero di scegliere la strada che preferisce nella, ma soltanto chi cammina alla luce della legge del Signore può raggiungere il traguardo della vita. Ecco il messaggio di questa domenica.

         

Nel brano evangelico, Gesù afferma che non è venuto ad abolire la Legge, ma a dare pieno compimento ad essa. Tra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento c’è continuità ma c’è anche progresso, anzi tra i due Testamenti ci sono pure delle vere e proprie rotture. Infatti, Gesù quando afferma che non è venuto ad abolire ma a dare compimento, usa un termine che nella lingua greca evoca l’idea della pienezza e, in questo caso, della pienezza di senso. Gesù continua il suo discorso dicendo “Avete inteso che fu detto agli antichi … Ma io vi dico …” Gesù non distrugge il passato, ma lo completa definitivamente nel campo della conoscenza di Dio e in quello morale. Con il suo ripetuto “ma io vi dico”, Gesù manifesta una consapevolezza che va oltre quella dei profeti dell’Antico Testamento: la sua è l’autorità del Messia, superiore a Mosè. La legge di Mosè e la legge di Cristo non sono quindi leggi in contrasto fra loro, ma bisogna pure coglierne le diversità anche profonde. Più in concreto, possiamo domandarci in che cosa consiste lo specifico della legge cristiana e come può dirsi in continuità e al tempo stesso in una certa rottura con la legge degli antichi?

 

Il brano del vangelo odierno ci pone di fronte ad una serie di antitesi che toccano diversi punti della Legge anticotestamentaria, scelti evidentemente tra i molti altri possibili. Non è però una scelta fatta a caso: tre riguardano il comportamento verso il prossimo e tutti e tre mettono in luce la carità. Possiamo dire che ad un’etica del “lecito” viene sostituita un’etica dell’ “amore”. In Cristo il regno di Dio si è fatto vicino, l’amore di Dio si è rivelato con una più grande chiarezza, il perdono ci è offerto con una misericordia gratuita e senza limiti, allora il nostro comportamento deve esprimersi con una generosità nuova, anzi con la generosità dell’amore. Ci viene rivelata in modo nuovo la paternità di Dio e ci viene quindi chiesta con maggiore enfasi un’etica filiale. Più che preoccuparci di determinare fino a che punto possiamo spingerci per non cadere sotto il giudizio di condanna, occorre chiederci che cosa ci faccia crescere con maggiore vigore nell’amore di Dio e del prossimo.

 

Come i profeti dell’Antico Testamento che l’hanno preceduto, anche Gesù si è sforzato di ricuperare il centro della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso. Nel Nuovo Testamento il comportamento morale diventa maggiormente opera dell’uomo integrale e si unifica assai più nella legge suprema dell’amore di Dio e degli uomini. Nella Nuova Alleanza l’amore diventa quindi il principio che ispira tutta la vita dei discepoli di Cristo. Come dice l’orazione colletta della messa, Dio ha promesso di essere presente in coloro che lo amano e con cuore retto e sincero custodiscono la sua parola.

domenica 5 febbraio 2023

LE NUOVE PREGHIERE EUCARISTICHE Un po’ di storia

 



 

Un particolare problema che si presentò subito dopo l’autorizzazione del Canone ad alta voce e in lingua volgare fu quello delle preghiere eucaristiche.

La Chiesa romana era la sola ad avere un'unica preghiera eucaristica, mentre sono un centinaio nel rito siro - occidentale, 14 in quello etiopico, tre presso gli assiri, tre presso i bizantini.

Nel rito ambrosiano ci sono un’ottantina di prefazi, il Messale Romano di Pio V ne aveva solo 14, mentre nel sacramentario Veronese ce ne sono 267, 54 nel Gelasiano.

L’uso del Canone in lingua volgare subito manifestò i suoi limiti, per cui presto fu avanzata la proposta di correggerlo e di creare nuove anafore.

Si constatò immediatamente l’estrema difficoltà e la non opportunità di mettere mano al Canone romano. Le varie proposte avanzate non risultarono soddisfacenti.

Per cui, con l’autorizzazione di Paolo VI, il Consilium si mise all’opera per creare tre nuove preghiere eucaristiche, che avessero una struttura chiara e l’epiclesi, pneumatologica, prima del racconto dell’istituzione. Dell’opera fu incaricato il Coetus X, con il compito pure di studiare la possibilità di adottare con i necessari adattamenti l’anafora di san Basilio Magno secondo la recensione alessandrina. Il gruppo lavorò intensamente dall’estate 1966 all’aprile 1968.

Le nuove preghiere II, III, IV furono sottoposte all’esame del Sinodo dei Vescovi del 1967, e approvate il 27 aprile 1968, mentre fu accantonata la proposta di adottare l’anafora di san Basilio a causa soprattutto dell’unicità dell’epiclesi e della sua collocazione dopo il racconto dell’istituzione.

Ma già prima dell’approvazione era apparso il fenomeno della libera composizione di preghiere eucaristiche. In Olanda ne furono prodotte oltre 100, alcune veramente carenti dal punto di vista teologico e liturgico. La loro traduzione in altre lingue causò la diffusione del fenomeno.

Nel tentativo di arginare il fenomeno i vescovi olandesi ne scelsero 11 (11 novembre 1969). Lo stesso fecero i vescovi del Belgio di lingua fiamminga (1 novembre 1969). Erano stati preceduti dall’Indonesia dove ne erano state approvate 10 (24 ottobre 1968). Si sperava che la pubblicazione delle tre nuove preghiere eucaristiche romane arginasse il fenomeno, ma non fu così.

Il 19 giugno del 1970 la Congregazione per il Culto aveva approvato per le diocesi dell’Inghilterra e del Galles una preghiera per i sordomuti.

Con l’autorizzazione di Paolo VI essa inoltre istituì un gruppo per esaminare a fondo il problema (17 settembre 1971).

Questa preparò un’istruzione nella quale si mostrava possibilista in ordine all’approvazione di qualche altra preghiera per le Conferenze episcopali che avessero avuto disponibilità di personale e di mezzi per prepararla, previa autorizzazione della stessa Congregazione. Ma la Congregazione per la Dottrina della fede fu irremovibile e convinse il Papa a non approvare la proposta.

Alla fine, il 27 aprile 1973 fu pubblica la “Lettera circolare alle Conferenze episcopali sulle preghiere eucaristiche” nella quale si richiama all’osservanza del Messale e si ribadisce la proibizione di comporre nuove preghiere eucaristiche.

Sulla base di tali indicazioni, dopo aver superato molte difficoltà e discussioni da parte della Congregazione per la Dottrina della fede e del papa Paolo VI, furono approvate: la preghiera eucaristica V quadriforme per il Sinodo Svizzero (8 agosto 1974); una in Olanda in occasione del colloquio pastorale del 1974 (18 agosto 1974); una per il Brasile in occasione del congresso eucaristico nazionale di Manaos invece delle tre richieste (11 novembre 1974); tre per le messe con i fanciulli ad experimentum, e due della riconciliazione (1 novembre 1974).

 

Fonte: Pietro Sorci, Riforma della liturgia e riforma della Chiesa, CLV 2022, pp. 58-59. Non sono state riportate le 5 note del testo.

 

venerdì 3 febbraio 2023

DOMENICA V DEL TEMPO ORDINARIO (A) 5 Febbraio 2023



 

 

Is 58,7-10; Sal 111; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16

 

Il brano del vangelo d’oggi inizia con queste impegnative parole di Gesù: “Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo”. I discepoli di Gesù siamo chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo e come tali dobbiamo apparire apertamente e pubblicamente agli occhi degli uomini. Come discepoli del Signore dobbiamo vivere le beatitudini in questo mondo. Perciò siamo chiamati a testimoniare ciò in cui crediamo per il bene degli uomini di questo mondo. Essere luce, essere sale. Due immagini semplici che danno però il senso di ciò che intendono esprimere: sapore e luminosità. I discepoli di Gesù siamo uomini e donne come tutti gli altri, viviamo e operiamo in mezzo alla società. Eppure, Gesù afferma che qualcosa ci deve distinguere dagli altri: dovremmo essere capaci di conferire alla vita della nostra società il vero sapore delle cose, fare gustare ai nostri simili i veri valori del Vangelo, e dovremmo essere capaci di illuminarli col buon esempio della nostra vita. In queste due immagini evangeliche l’accento è posto sull’essere più che sul fare. Gesù ci invita ad “essere” sale, ad “essere” luce. Come dice san Tommaso d’Aquino, “l’agire è conseguenza dell’essere” (agere sequitur esse). Si può far luce o si può dare sapore solo se si è luce e sale.

 

Siamo quindi chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo attraverso il nostro modo di vivere. Gesù lo dice esplicitamente quando esige che gli uomini possano vedere “le nostre opere buone”. La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, specifica questa esigenza della vita cristiana attraverso l’elenco di quelle che la tradizione ha chiamato “opere di misericordia”. Attraverso queste opere di misericordia, la luce dell’amore di Dio si diffonde nel mondo. Non si è luce del mondo perché messaggeri di una dottrina sublime o propagatori di un grande movimento religioso, ma perché il vangelo delle beatitudini, incarnato nella nostra vita, diventa segno luminoso in mezzo al mondo.

 

I cristiani abbiamo ricevuto un compito da eseguire. Un compito a servizio del mondo. Lo possiamo riassumere dicendo che siamo chiamati a dare senso al vivere, il vero senso alle cose. La vita è fatta da piccole cose, in famiglia, nel lavoro, nel riposo, nell’amicizia. È in queste piccole cose che si deve trovare il senso dell’esistere. Così come non è difficile per chi è innamorato dare alle piccole cose un valore grande, così non dovrebbe essere difficile per chi è innamorato di Cristo e ha una fede viva dare ad ogni piccolo impegno della sua esistenza un riferimento essenziale a Dio. In questo modo ogni cosa acquisterebbe sapore. Cristo insapora l’esistenza umana con il suo Vangelo, e noi saremo sale della terra se la nostra vita diventerà tuta compenetrata del Vangelo di Cristo.

 

La preghiera che recitiamo alla fine della messa riassume bene il messaggio della parola di Dio di questa domenica, adoperando un’altra immagine cara al Vangelo: chiediamo di essere uniti a Cristo per portare “frutti di vita eterna per la salvezza del mondo” (preghiera dopo la comunione).