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mercoledì 31 maggio 2017

SUMMORUM PONTIFICUM: DECIMO ANNIVERSARIO


 
 

di Riccardo Barile

 

A Herzogenrath, Germania, dal 29 marzo al 1 aprile ultimo scorso si è svolto il convegno “Quelle der Zukunft” (la fonte del futuro) nel X anniversario del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI sull’uso del rito antico. Doveva esserci anche il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, che non ha potuto partecipare, ma ha inviato una relazione presente in internet e pubblicata sul numero di aprile ultimo scorso di Studi Cattolici (“Continuità del movimento liturgico). Le parole del cardinale Sarah suscitano consensi, ma anche interrogativi e in ogni caso ci vorrebbe una riflessione, per la quale le righe che seguono sono un modesto avvio.
 
Due forme dello stesso rito. L’affermazione centrale è che ad oggi sono in vigore due forme dello stesso rito (romano); il Missale Romanum del 1962 e l’attuale Missale Romanum di Paolo VI, giunto alla terza edizione tipica del 2002. Per non parlare che della messa. Ma erano questi la lettera e lo “spirito” del Concilio? Sembra di no, stando al proposito che “la santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia” agendo non sulla “parte immutabile […] di istituzione divina”, ma sulle “parti suscettibili di cambiamento” (SC 21). Il risultato della riforma non doveva essere una novità, ma la riforma del Messale Romano allora corrente. Ciò avvenuto, “la legge posteriore abroga la precedente” quando, tra l’altro, “riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente” (CIC 20).
 
Dunque, la situazione normale prevista dal Concilio era ed è di un solo rito in una sola “forma”. Quando si concesse l’uso del Messale precedente, si trattò di un indulto, giungendo alla situazione corretta di un solo rito e di un indulto per usare lo stadio precedente dello stesso rito. Poi il motu proprio stabilì che la forma precedente non era mai stata abolita, per cui siamo alla situazione attuale di due forme dello stesso rito. Ma se il Concilio avesse previsto una riforma così concepita, ne avrebbe fatto parola… e invece nulla. Dunque prendiamo coscienza di essere in una situazione legittima, ma atipica e non normale, come invece sembra presentarla il cardinale Sarah. Tra parentesi: perché la disposizione dovrebbe valere solo per il Messale del 1962 e non per l’Ordo romanus I all’incirca al tempo di san Gregorio Magno?
 
Ciò che è accettabile nelle idee e nella prassi è che ci siano dei gruppi di fedeli che celebrano secondo il rito antico e che vadano cordialmente accolti e favoriti; che la riforma seguente al Vaticano II abbia punti discutibili e lacune (ma non sino ad aver soppresso a tutti i costi il patrimonio antico); che ci sia un mutuo arricchimento tra la forma antica e la forma rinnovata, sebbene sempre da valutarsi nei dovuti modi, ecc.
 
Ciò che non è accettabile nelle idee e nella prassi è il rinnovamento del Messale antico (l’ha già fatto la riforma liturgica!). Sembra non accettabile recedere dalla liturgia della Parola verso il popolo: J. Ratzinger in Introduzione allo spirito della liturgia (San Paolo 2001, p. 69) cita in questo senso e con lode l’uso antico del “bema” attorno al quale i fedeli si radunavano. Ugualmente sembra un non ritorno la preghiera eucaristica proclamata in modo intelligibile, anche se è un arricchimento proclamarla / cantarla talvolta in latino o parteciparla in silenzio, ma a patto di averne una confidenza abituale in lingua corrente.
 
Ciò che sarebbe stato auspicabile, ma che invece non è avvenuto, è un rito riformato (il Messale attuale) e un indulto per l’uso del Messale precedente senza motivazioni teologiche. Ratzinger però è caduto nella tentazione dell’intellettuale: voler spiegare tutto. Un uomo di governo avrebbe fiutato che sì era il caso di promulgare una normativa, ma senza spiegazioni teoriche, lasciando che fossero altri a dire che il rito antico non era mai stato abolito. Così non è stato. Ma a Ratzinger siamo grati di tanti altri suoi bellissimi interventi.
 
Puntare al rito attuale. In conclusione, è meno opportuno pensare e lavorare nella prospettiva di due forme che convivono ex equo, anche se va accennato che oggi la situazione è questa. Bisognerebbe invece puntare di più sul ricupero di certi elementi di silenzio – o meglio “parole misurate e di preghiera” –, di sacralità, di bellezza, di obbedienza rubricale, di uso del latino ecc. all’interno del rito attuale, che “sopporta” tutto questo e non si identifica come spesso lo si pratica.
 
Fonte: Vita pastorale N. 62017     

domenica 28 maggio 2017

USO E ABUSO DEI DITTICI NELLE CHIESE ANTICHE


                                                                                                                                

Il termine “dittico” deriva dalle parole greche δίς (= due volte) e πτύσσειν (= piegare), con le quali originariamente era indicato qualsiasi oggetto piegato appunto in due parti. Nella tarda antichità la parola assunse un significato più ristretto e indicò un oggetto usato per la scrittura, consistente di due valve uguali e chiudibili. Il primitivo uso dei dittici risale al VI sec. a. C. Furono utilizzati per esercizi di scrittura a scuola, per abbozzi, disegni e minute nonché per la corrispondenza. Erano usati anche per protocolli e per la redazione di liste nelle quali dovevano facilmente intervenire dei cambiamenti. Dal IV sec. d. C. in poi i dittici acquistarono una grande importanza nella vita politica e sociale.

In conformità all’uso originario di dittici per le registrazioni documentate e per le liste di nomi, anche la Chiesa primitiva impiegava i dittici per gli atti ufficiali. Qui ci interessa l’uso che se ne faceva nella liturgia[1]. I termini con cui sono nominati nell’Occidente latino sono vari: tabellae, codices, e soprattutto dyptica. Si trattava generalmente di copie di tavolette congiunte a cerniera, in legno o anche in avorio e altri materiali, talvolta riccamente decorate, sulle quali venivano scritti i nomi degli offerenti, ma in seguito anche dei fondatori delle Chiese, dei vescovi che si erano avvicendati nella sede vescovile, così come il nome di altri vescovi della provincia o altri con cui si era in comunione, in particolare del papa, e anche il nome dell’imperatore, dei notabili, dei benefattori, dei fedeli vivi o defunti nonché dei santi di cui si voleva ottenere l’intercessione. Questo elenco di persone ricordava lo stretto legame di comunione che univa i membri della Chiesa militante, sofferente e trionfante. I nomi erano letti nel corso della celebrazione liturgica, in particolare durante la Messa. Nei primi tempi, la lettura ad alta voce dei dittici era fatta non dal celebrante ma dal diacono o da qualche altro chierico. Il posto primitivo per la lettura dei dittici era probabilmente all’offertorio; in seguito saranno letti nel corso della preghiera eucaristica al momento delle intercessioni.

I dittici andarono acquisendo una crescente sacralità, fino ad essere considerati talvolta equivalenti alle reliquie. Essere incluso nei dittici ovvero cancellato da essi, fu equivalente a venire considerato in comunione con la Chiesa (e quindi degno di preghiere) oppure estromesso dalla medesima come eretico, scismatico o macchiato di qualche delitto: abbiamo testimonianze in merito di Cipriano, Giovanni Crisostomo, Agostino, e altri[2].

Ecco quindi che avere il nomen in sacris dypticis scriptum era segno di comunione con le persone nominate e giudizio sulla loro ortodossia e santità. Perciò a volte i dittici si chiamavano liber vitae (con allusione a Fil 4,3; Ap 13,8; 21,27) o anche sacrus catalogus, sacrum album, sacrae tabulae, mysticae tabulae, ecc. Tra i secoli V e VI, Lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita può affermare: “Sacrarum porro tabularum quae post pacen adhibetur recitatio, depraedicat eos qui sancte vixerunt, atque ad probae vitae perfectionem constanter pervenerunt[3]. Quando si entrava in comunione con i vescovi di un’altra sede vescovile si realizzava l’atto del nomen in dyptica recipere. Al contrario, cancellare il nome nei dittici era un segno di condanna.

Durante le lotte cristologiche dei secoli V e VI, l’inclusione o l’esclusione dei nomi nei dittici diede occasione a non poche controversie e abusi. Tra il secolo VIII e il secolo IX, le Chiese sostituirono un po’ alla volta la lettura dei dittici con brevi commemorazioni, che furono inserite nei testi fissi delle preghiere eucaristiche.

Anche se nell’uso e nell’abuso dei dittici Occidente e Oriente si intrecciano, vorrei organizzare queste brevi riflessioni distinguendo le due aree geografiche nonché ecclesiali. Mi soffermo su alcuni casi più significativi, senza pretendere di essere esauriente.

 

I dittici in Occidente

L’uso di ricordare i nomi degli offerenti nonché quelli dei defunti nel corso della celebrazione eucaristica è molto antico. Nel secolo II/III abbiamo delle testimonianze più o meno chiare negli scritti di Tertulliano e di san Cipriano. Nel secolo IV/V abbiamo diverse testimonianze di sant’Agostino, dalle quale si ricava che “… mai si debbono trascurare le suppliche per le anime dei defunti. Cosa che la Chiesa, in una comune commemorazione, ha fatto da sempre per tutti coloro che sono morti nella comunione cristiana e cattolica, anche senza dirne i nomi…”[4] Nel libro delle Confessioni, Agostino racconta la morte ad Ostia si sua madre Monica. E alla fine di questo commovente racconto, il santo afferma rivolgendosi in preghiera al Signore: “quanti leggono queste parole si ricordino davanti al tuo altare di Monica, tua serva, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi introducesti in questa vita”[5]. Dei defunti quindi si fa memoria e si prega per loro. Non così dei martiri, che sono nominati ma non si prega per loro: “… E per questo si ha la disciplina ecclesiastica, che i fedeli conoscono, per cui i martiri sono nominati all’altare di Dio in un momento nel quale non si debba pregare in loro favore; si prega, invece, in suffragio degli altri defunti, dei quali si fa memoria…”[6] Durante la celebrazione dei divini misteri, oltre ai nomi dei martiri, vengano menzionati anche quelli delle sacre vergini defunte[7].

All’inizio del secolo V, Innocenzo I nella sua lettera a Decenzio, vescovo di Gubbio, ordina che i nomi degli offerenti siano letti non nell’offertorio ma nel corso della preghiera eucaristica o canone romano: “De nominibus vero recitandis, antequam precem sacerdos faciat atque eorum oblationes, quorum nomina recitanda sunt, sua oratione commendat, quam superfluum sit, et ipse per tuam prudentiam recognoscis, ut cuius hostiam, nec dum Deo offeras, eius ante nomen insinues, quamvis illi incognitum nihil sit. Prima ergo oblationes sunt commendandae ac tunc eorum nomina, quorum sunt edicenda, ut inter sacra mysteria nominentur, non inter alia, quae ante praemittimus, ut ipsis mysteriis viam futuri precibus aperiamus[8]. Non è facile dire con precisione come si faceva questa raccomandazione degli offerenti nella liturgia che celebrava papa Innocenzo, dato che non abbiamo nessun testo completo del canone romano anteriore a Gregorio Magno e ciò che ci ha trasmesso sant’Ambrogio nel De Sacramentis inizia al Quam oblationem. In ogni modo, secondo Paul Cagin, a cui fanno seguito Bernard Capelle, Robert Cabié e altri ancora, il testo della lettera dimostrerebbe che nel 416 circa i dittici erano letti nel corso di una sorta di Memento, come si trova in seguito nel canone postgregoriano, e non prima del canone come si faceva nella liturgia gallicana e proponeva il vescovo Decenzio[9]. Ecco dunque che da parecchi anni i dittici erano già stati introdotti a Roma nel canone della messa.

Naturalmente, la lettura dei nomi in pubblico poteva lusingare la vanità degli offerenti in modo particolare se altolocati, o anche prestarsi a giudizi malevoli. Ciò risulta da un’osservazione un po’ brusca di san Girolamo, il quale riferendosi probabilmente all’uso occidentale, afferma nel suo Commento al profeta Ezechiele, scritto nell’anno 411: “… ut de multis parva pauperibus tribuant, et in suis sceleribus glorientur. Publiceque diaconus in Ecclesiis recitet offerentium nomina: tantum offert illa, tantum ille pollicitus est, placentque sibi ad plausum populi, torquente eos conscientia[10].

Nel sec. VI nominare il papa nella preghiera di intercessione del canone va assumendo sempre più il carattere di regola fissa nelle Chiese occidentali. Nel 500 riscontriamo tale uso a Milano e a Ravenna. Nel 519 ne riferiscono due vescovi dell’Epiro. Nel 529 questa usanza viene prescritta, su domanda di san Cesareo di Arles, dal Concilio di Vaison per il relativo territorio[11].

Nella complessa questione dei “Tre Capitoli”, alcune chiese occidentali cancellarono il nome di papa Pelagio I dai dittici. L’imperatore Giustiniano, sperando di ottenere il favore dei monofisiti, con un editto del 545 giudicò eretici tutti gli scritti di Teodoro di Mopsuestia (+ 428), alcuni di Teodoreto di Ciro (+ 458) nonché una lettera del teologo, scrittore e vescovo siro Iba di Edessa (+ 457). Questi scritti, raccolti appunto in “Tre Capitoli”, venivano considerati di tendenza nestoriana. Papa Vigilio (537-555) si oppose al provvedimento imperiale, però poi mutò opinione col protrarsi delle pressioni dell’imperatore. Il suo successore Pelagio I (556-561), che era stato sempre contrario alla condanna dei “Tre Capitoli”, cambiò improvvisamente atteggiamento quando Giustiniano gli fece capire che avrebbe appoggiato la sua candidatura al soglio pontificio. Pelagio fu costretto a condannare i Tre Capitoli e ad approvare il concilio di Costantinopoli.

In seguito, Pelagio I si trovò a dover contrastare e appianare l’opposizione dell’episcopato occidentale, ostile alle dottrine imposte dall’Oriente. I metropoliti di Aquilea e Milano disdissero la comunione ecclesiale con lui. Nella Toscana (Tuscia Annonaria) parecchi vescovi si rifiutarono di fare menzione del nome del nuovo papa nella celebrazione eucaristica. Il defensor romano inviato da papa Pelagio ne risentì, ma otto vescovi gli consegnarono una relazione in cui spiegavano la posizione assunta: non intendevano interrompere la comunione col vescovo di Roma, ma chiedevano garanzie in merito all’ortodossia di Pelagio. Il papa rispose con una lettera dal tono particolarmente benevolo indirizzata ai dilectissimis fratribus, ma in cui esigeva dai vescovi della Toscana che fosse fatto il suo nome nei dittici della messa: “quomodo vos ab universi orbis communione separatos esse non creditis, si mei inter sacra mysteria secundum consuetudinem nominis memoriam reticetis?”. Solo nel seguito della lettera, il papa, per evitare ogni sospetto sulla sua fede, formulava la professione di fede nei quattro concili ecumenici, tacendo del concilio di Costantinopoli del 553[12]. Lo scisma prodottosi nell’Italia settentrionale riuscì a ridimensionarlo solo il successore di Pelagio, Giovanni III (561-574).

Ancora nel secolo IX i dittici erano d’uso comune in Occidente. Il pontificato di papa Nicolò I (858-867) è stato un periodo di affermazione del primato papale sulle Chiese e sulle monarchie carolingie. Nel suo pontificato, Nicolò I ha agito con energia e fermezza. Nei suoi rapporti con i vescovi metropoliti, spesso in omaggio ai principi ha sacrificato la giustizia della causa[13]. Non c’è da meravigliarsi che si sia procurato dei nemici. Il suo successore Adriano II (867-872) ha dovuto ingiungere ai vescovi radunati nel sinodo di Troyes del 867 di rimettere il nome del suo predecessore nei dittici[14].

 

I Dittici in Oriente

Sull’uso e abuso dei dittici in Oriente, in particolare a Costantinopoli, ricordo alcuni dei fatti più rilevanti seguendo anche qui un ordine cronologico.

Sono note le vicende di san Giovanni Crisostomo, diventato vescovo di Costantinopoli nel 398[15]. Lo zelo coraggioso, la moralità severa, l’avversione al lusso procurarono a Giovanni molti nemici, specie negli alti ranghi della società compreso l’alto clero. E ostile gli diventò anche la corte, ove l’imperatrice Eudossia, che aveva nelle mani le redini del governo, mal sopportava le poco velate allusioni del patriarca alla lussuria e alla depravazione, allusioni che diventavano sempre più aspre. Ma implacabile fu soprattutto Teofilo, il patriarca di Alessandria, che fu al centro di tutti gli intrighi contro il Crisostomo. Un Sinodo di trentasei vescovi convocato dall’imperatore Arcadio e presieduto da Teofilo, il cosiddetto “Sinodo della Quercia”, dal luogo presso Calcedonia dove si riunì alla fine di settembre del 403, depose Giovanni. Il suo nome fu cancellato dai dittici, malgrado l’energica protesta del papa Innocenzo I, e Arcadio lo condannò all’esilio in Armenia. Le energiche proteste del popolo, ottennero il suo richiamo; ma su pressione dell’imperatrice, Giovanni fu nuovamente esiliato nel Ponto fino alla sua morte nel 407[16].

Nelle vicende del Crisostomo ebbe un ruolo importante anche Acacio di Berea, l’odierna Aleppo in Siria. All’inizio dell’episcopato di Giovanni Crisostomo, nel 398, Acacio giunse a Costantinopoli, dove si sentì trattato con meno rispetto di quello che sperava, se ne risentì grandemente e divenne un nemico accanito e irriducibile di Giovanni non perdendo occasione per attaccarlo. Presente nel Sinodo della Quercia, si mostrò fieramente avversario del Crisostomo. Non solo, ma in ogni sinodo convenuto per riabilitarlo, si dimostrò suo infaticabile denigratore. Sembra che la sua inimicizia restò tale anche dopo la morte del suo antagonista, al punto che nel 421 scrisse ad Attico di Costantinopoli lagnandosi del fatto che Teodoto di Antiochia aveva inserito il nome di Giovanni Crisostomo nei dittici. Attico succedette nel 406 al deposto Giovanni Crisostomo, dopo aver testimoniato contro di lui nel Sinodo della Quercia. La deposizione di Giovanni, disapprovata da Innocenzo I, provocò una forte tensione fra Roma e Costantinopoli durata fino a quando Attico ripristinò nei dittici il nome del deposto. Infatti, il Papa separò dalla sua comunione Teofilo e gli altri vescovi orientali e mise come condizione per la riconciliazione la riabilitazione di Giovanni, ossia la reposizione del suo nome nei dittici[17].

Qualche parola sul cosiddetto Latrocinium Ephesinum. Il cinque legati pontifici al Concilio di Calcedonia del 451, dichiararono espunti dai dittici i nomi di Dioscoro vescovo di Alessandria, Giovenale vescovo di Gerusalemme ed Eustazio vescovo di Beirut. Questi tre vescovi erano stati i promotori qualche anno prima del Latrocinium Ephesinum. Papa Leone Magno per fugare ogni dubbio del patriarca di Costantinopoli Anatolio, che presiedeva il Concilio, confermò in una lettera al patriarca il giudizio espresso dai suoi legati[18].

Alla fine del V secolo, emersero con rinnovata asprezza le controversie cristologiche, mai spente in Oriente. Nel 482 l’imperatore Zenone, d’accordo col patriarca di Costantinopoli Acacio, promulgò l’Henotikon, la cui dottrina si rifaceva a Nicea e Costantinopoli ma trascurava Calcedonia. L’Henotikon non fu accettato da Roma. Lo scisma acaciano durò trentaquattro anni ed ebbe fine con l’ascesa al trono imperiale di Giustino I[19].

L’imperatore Giustino I (518-527), nella cerimonia di incoronazione professò la sua ortodossia e contrariamente a quello che era stato l’atteggiamento dei suoi antecessori, perseguitò i monofisiti e riprese i rapporti con Roma, anche per influenza del nipote Giustiniano, da lui associato al trono poco prima di morire. A furore di popolo, furono iscritti nei dittici i nomi di Papa Leone Magno e di altri vescovi che erano stati perseguitati per la loro fedeltà all’ortodossia. Inoltre per la prima volta si iscrissero nei dittici non solo il nome delle persone, ma anche quelli dei Concili (i primi quattro ecumenici). Invece il nome di Acacio, patriarca di Costantinopoli (471-489), come quelli degli imperatori Zenone (474-491) e Anastasio (491-518), furono eliminati dai sacri dittici. Ecco quindi che, dopo un periodo di tensione con Roma, nel VI secolo si recitava il nome del papa nei dittici, e dal tempo di Giustiniano al primo posto[20].

 

Conclusione

Mario Righetti colloca i dittici nella serie dei “libri liturgici di lettura”[21]. In ogni modo, se non si tratta di un libro liturgico vero e proprio, i dittici hanno avuto nella Chiesa antica un ruolo importante nel bene come nel male. La lettura dei nomi nel corso della celebrazione eucaristica è stata certamente segno di comunione ecclesiale. Anzi l’iscrizione nei dittici dei vescovi che si erano distinti in vita per la loro santità equivaleva ad una sorta di canonizzazione. Di qui proviene, secondo il Du Cange, il verbo canonizare (introdurre nel canone)[22]. E quindi essere esclusi dai dittici è stato segno di una sorta di scomunica. Non sempre però l’inclusione o l’esclusione dal liber vitae è stata fatta secondo i criteri dettati dall’ortodossia. D’altra parte, come ci ricorda san Girolamo, la lettura dei nomi in pubblico poteva lusingare la vanità degli offerenti, in modo particolare se altolocati. Abbiamo visto che l’ambiguità con cui Pelagio I affrontò la complessa questione dei “Tre Capitoli”, fu strumentalizzata da alcuni vescovi del centro-nord della penisola italiana, ostili alle dottrine imposte dall’Oriente, creando una situazione di forte tensione con il vescovo di Roma cancellato dai dittici.

Ho illustrato alcuni casi in cui i rancori personali hanno avuto un ruolo importante nell’esclusione dai dittici, come nelle vicende del grande vescovo e dottore della Chiesa san Giovanni Crisostomo, vicende in cui oltre ai rancori personali si sono mescolati anche inconfessabili interessi politici. Infatti, le tensioni tra le Chiese di Oriente e quelle di Occidente non sono state sempre provocate da divergenze dottrinali; la politica imperiale ha avuto non di rado la sua parte includendo o escludendo dalla lista dei vescovi nominati nei dittici quelli graditi o non graditi secondo i casi.

 

Matias Augé, in Costellazioni geo-ecclesiali da Costantino a Giustiniano: dalle Chiese ‘Principali’ alle Chiese Patriarcali. XLIII Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana (Studia Ephemeridis Augustinianum 149), Roma 2017, 211-218.

l Mar Nero. Qui il 14 settembre 407prima in Armenia, poi sulle rive del ar Nero. Qui il 14 settembre prima in Armenia, poi sulle rive del Mar Nero. Qui il 14 settembre 407prima in Armenia, poi sulle rive del 407

 

 


[1] Cf. F. Cabrol, “Diptyques (Liturgie)”, in DACL IV,1, 1045-1094; F. Oppenheim, “Dittico”, in Enciclopedia Cattolica IV, Città del Vaticano 1950, 1759-1763
[2] Cf. Richard Delbrueck,  Dittici consolari tardoantichi, a cura di Marilena Abbatepaolo,  Edi-puglia, Bari,  2009, 565-584 e 571-573.
[3] Pseudo-Dionigi l’Areopagita, De Ecclesiastica Hierarchia 3, 9: PG 3, 438.
[4] Agostino, Sulla cura dovuta ai morti 4. Leggo le opere di Agostino nel sito http://www.augustinus.it/ di Città Nuova Editrice.
[5] Agostino, Le Confessioni 9,13.
[6] Agostino, Discorso 159,1; La Città di Dio 22, 10.
[7] Agostino, La Santa Verginità 45.
[8] Innocenzo I, Epist. 25, 2: PL 20, 553-554.
[9] Cf. R. Cabié, La lettre du pape Innocent Ier à Décentius de Gubbio (19 mars 416). Texte critique, traduction et commentaire (Bibliothèque de la RHE 58), Louvain 1973, 35-61.
[10] Girolamo, In Ezechielem, cap. 18: PL 25, 175. Nove anni dopo, lo stesso Girolamo, nel suo Commento a Geremia, deplora che il perdono dei peccati richiesto nella recita dei nomi degli offerenti, si converta in lode di colui che presenta l’offerta: “At nunc publice recitantur offerentium nomina et redemptio peccatorum mutatur in laudem” (In Jeremiam, 2, 11: PL 24, 755).
[11]Et hoc nobis justum visum, ut nomen domini papae, quicumque sedis apostolicae praefuerit, in nostris ecclesiis recitetur” (Concilium Vasense III, can. 4: Mansi Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 8, 728).
[12] Cf.  Pelagio I, Ep. 5 Ad Episcopos Tusciae: PL 69, 398 C.
[13] Cf. P. Paschini – V. Monachino (edd.), I Papi nella storia, 1, Coletti, Roma 1961, 292-304.
[14] Il testo della lettera di Adriano II al sinodo di Troyes si trova in Mansi Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 15, 821-822. Vedi anche M. Righetti, Storia Liturgica, vol. 1. Introduzione generale, edizione anastatica, Àncora, Milano 1998, 315.
[15] Si può consultare, tra l’altro, Niceforo Callisto Xanthopoulos, Historia Ecclesiastica 14, 26-27: PG 146, 1137-1149.
[16] Cf. P. Paschini – V. Monachino (edd.), I Papi nella storia, 1, cit., 70-73.
[17] Cf. Innocenzo I, Epist. 21 e 22: PL 20, 543-546.
[18] Cf. Leone Magno, Epist. 80: PL 54, 914-915.
[19] Cf. G. Filoramo, E. Lupieri, S. Pricoco, Storia del cristianesimo. L’antichità, Laterza 20042, 403.
[20] Su questi dati, cf. Hubert Jedin (ed.), Storia della Chiesa, vol. 3, Jaca Book, Milano 1978, 17-19; J.A. Jungmann, Missarum Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Mesa romana, Edizione anastatica, Àncora,  Milano 2004, parte II, 121.
[21] Cf. M. Righetti, Storia Liturgica, vol. 1. Introduzione generale, cit., 314.
[22] Cf. Du Cange, Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis, alla voce “canonizare”.

venerdì 26 maggio 2017

ASCENSIONE DEL SIGNORE (A)


 
At 1,1-11; Sal 46 (47); Ef 1,17-23; Mt 28,16-20
 

Il Sal 46 è un salmo processionale. Esso celebra, con il trionfale ingresso dell’arca dell’alleanza nel tempio, la gloria di Dio, re universale e sovrano cosmico, che ascende sul trono, da lui stabilito in mezzo al popolo eletto, e dal quale estende il suo dominio su tutta la terra. Questo salmo acquista tutto il suo senso nella prospettiva messianica; perciò la Chiesa lo canta oggi, solennità dell’Ascensione del Signore: con la sua ascensione, Cristo è stabilito re dei secoli, Signore dell’universo, sacerdote e mediatore unico tra Dio e gli uomini, capo del suo corpo mistico (cf. seconda lettura). L’ascensione di Cristo al cielo è il momento culminante della pasqua del Signore: il suo trionfo e la sua glorificazione personale dopo l’apparente disfatta della morte in croce.
 

Il racconto dell’evento dell’ascensione del Signore è affidato alla prima lettura, costituita dai versetti iniziali degli Atti degli Apostoli. Tuttavia la preoccupazione maggiore dei brani della Scrittura che vengono proposti oggi alla nostra attenzione è di dare indicazioni sul senso del tempo che noi stiamo vivendo tra l’ascensione del Signore e il suo ritorno alla fine dei tempi. San Paolo nella seconda lettura parla della speranza che l’ascensione di Cristo inaugura. Cristo, entrando nel mondo di Dio, rende accessibili a tutti noi le realtà divine. Guidati da questa speranza, siamo in grado di valutare in modo giusto le realtà terrene. Gesù è passato in mezzo a tutte queste realtà del mondo tenendo fisso lo sguardo verso il Padre, senza deviare dalla strada della sua missione. La solennità dell’Ascensione è  certamente un invito a guardare in alto e lontano, oltre le lotte e i limiti del tempo presente, ma non certo per restare inoperosi nella contemplazione di quel mondo che è oltre il tempo e lo spazio. Il “cielo” è una nostalgia giusta, una promessa sicura, perché Cristo lo ha reso accessibile; ma non per questo deve far dimenticare il cammino che dobbiamo percorrere perché diventi una concreta realtà per tutti noi. Il cielo diventa alienazione e inganno se ci distoglie dalle sue premesse nella storia, dai nostri compiti attuali. Il messaggio cristiano non è evasione religiosa, disimpegno del quotidiano, fuga dalla realtà. Il messaggio cristiano è il lievito che deve trasformare la realtà quotidiana indirizzandola verso il traguardo di Dio. Perciò questo messaggio è destinato ad essere annunciato a tutti gli uomini.
 

Infatti, Gesù congedandosi dei discepoli, li invia in missione. Il breve brano del vangelo d’oggi è tutto incentrato su queste parole di Gesù: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque a fare discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Se il fatto della missione rende la Chiesa apostolica, cioè inviata nel mondo, i destinatari la rendono cattolica, cioè universale. Una caratteristica quest’ultima che si rende visibile quando la comunità cristiana non appare chiusa in se stessa, ma aperta a tutti, veramente incarnata in ogni situazione e travaglio umano, totalmente presente al mondo per il suo servizio. Solo allora il termine cattolica acquista il suo pieno senso. La missione della Chiesa ha il compito di incontrare l’uomo e di condurlo al di là di se stesso, a Cristo. Il ritorno di Cristo al Padre inaugura quindi il cammino della Chiesa e della sua missione nel mondo per condurre tutti gli uomini con Cristo al Padre.

 

 

domenica 21 maggio 2017

LA RIFORMA DELL’ORDINARIO DELLA MESSA SECONDO SACROSANCTUM CONCILIUM


 
 

Come promesso, in questo post rispondo alla domanda rivoltami da un Anonimo il 20 maggio 2017, ore 23:37: “Quali sono, a suo avviso, i punti in cui il messale detto di san Pio V necessita di riforme? Come si dovrebbero realizzare, nel concreto, tali riforme?”
 
Per rispondere a questa domanda (mi limito all’ordinario della messa), abbiamo come punto di riferimento la Costituzione Sacrosanctum Concilium (SC). Credo che tutti possiamo essere d’accordo sul fatto che questa Costituzione è stata promulgata “affinché il sacrificio della messa raggiunga la sua piena efficacia pastorale anche nella forma rituale” (SC 49). Per raggiungere tale scopo, il Concilio “stabilisce quanto segue” (SC 49). Ciò significa che quanto segue (nel documento) deve applicarsi al Messale in quel momento in vigore, nello specifico si tratta del Missale Romanum del 1962.
 
Nel n. 50 di SC, si chiede la  revisione dell’ordinario della messa. Al riguardo si stabilisce che: 1) “appaia più chiaramente la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione”. Un esempio, al riguardo, potrebbe essere l’offertorio che anticipa in alcune delle sue preghiere ciò che è proprio del canone della messa. 2) Si stabilisce anche che “sia resa più facile la partecipazione pia e attiva dei fedeli”. Esempi possono essere, oltre all’atteggiamento spirituale prioritario: collocare gli altari non troppo lontani dall’aula; un maggior uso della lingua parlata; più interventi con risposte e canti sia del coro che dell’assemblea… Per raggiungere tutto ciò, 3) si stabilisce che “i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati”: un piccolo esempio è la formula per la distribuzione della comunione che alcuni Padri chiesero di ridurla all’espressione: “Corpus Christi. R/ Amen”; 4) “si sopprimano quegli elementi che col passar dei secoli furono duplicati o aggiunti senza grande utilità”: un esempio potrebbe essere la soppressione della lettura del prologo del Vangelo di Giovanni, presente ancora nel Messale del 1962. Poi, 5) “alcuni elementi che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti…”: un esempio potrebbe essere il ripristino della “preghiera universale o dei fedeli”, di cui parla SC 53. Noto che i paragrafi 4) e 5) presuppongo naturalmente un giudizio storico. L’applicazione concreta di queste norme è stato il compito della Commissione ad hoc nominata dal Papa; questa Commissione ricevette i numerosi interventi dei Padri conciliari su questo numero. Al riguardo, si può consultare il volume a cura di Francisco Gil Hellín (Concilii Vaticani II Synopsis. Constitutio de sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, Editrice Vaticana 2003).
 
Nei numeri seguenti della SC, si stabilisce: che “in un determinato numero di anni, si legga al popolo la maggior parte della Sacra Scrittura” (SC 51); si esalta l’importanza dell’omelia da non trascurare nelle domeniche e giorni festivi (SC 52); si raccomanda la comunione sotto le due specie (SC 55); viene ripristinata la concelebrazione eucaristica (SC 57-58).
 
A tutto ciò si dovrebbe aggiungere quanto stabilito nel cap. I della SC sui “principi generali per la riforma della liturgia”. Noto, ad esempio, l’importante n. 21, in cui si afferma che “la Chiesa desidera fare una accurata riforma generale della liturgia. Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare…” Poi, nel n. 34, si afferma che i riti devono splendere per “nobile semplicità”, evitare “inutili ripetizioni” e “siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli”. Tra le inutili ripetizioni del Messale del 1962, si possono indicare i ripetuti Dominus vobiscum…  Ho indicato solo alcuni esempi; si potrebbero citare altri.
 
Con quanto detto sinteticamente, posso riaffermare che il Messale del 1962, per volontà del Concilio Vaticano II, doveva essere riformato. Naturalmente le decisioni conciliari possono essere interpretate in modo più o meno minimalista o più o meno massimalista. Credo però che non si possa negare la vastità e profondità della riforma proposta da SC. Oggi è di modo in alcuni ambienti tradizionalisti affermare che la riforma di Paolo VI è andata oltre la lettera della Costituzione liturgica. Il Card. Sarah invita a riprendere la Costituzione Sacrosanctum Concilium e leggerla onestamente. E’ un modo “soft” di rifiutare la riforma. Invece altri, come il teologo Brunero Gherardini, hanno il coraggio di criticare la stessa Costituzione, si sono resi conto che essa apre veramente la porta ad una riforma in profondità (vedi quanto afferma il Gherardini nel suo volume Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009, in particolare pp. 144-145).
 
Più volte si è parlato del Messale Romano Latino-Italiano del 1965 come del Messale con la traduzione e l’adattamento della Messa, secondo il dettato del Concilio Vaticano II. Questo Messale, si dice, fu accettato pacificamente da tutti i tradizionalisti. Noto però che a parte la scomparsa del salmo 42 all’inizio della Messa e qualche altra piccola modifica, il testo è sostanzialmente quello del Messale del 1962, anteriore al Vaticano II.
 
Quale autorità "giuridica" ha questo Messale? Il titolo completo del Messale è Messale Romano Latino-Italiano per i giorni feriali e le feste. Si tratta di una edizione del Messale Romano quotidiano di Dom G. Lefebvre o.s.b., a cura dell’Apostolato Liturgico di Genova. L’edizione è stata "autorizzata" dalla Conferenza Episcopale Italiana. L’Imprimatur del Messale però è firmato il 24 giugno 1965 dal vescovo di Casale Monferrato Giuseppe Angrisani, città dove ha la sede l’Editrice Marietti che ha stampato il volume. Il Messale è stato pubblicato senza alcun Decreto della CEI. Si noti poi che la pubblicazione delle diverse edizioni tipiche dei libri liturgici della Liturgia Romana sono competenza della Santa Sede e le diverse edizioni sono introdotte da un Decreto della Congregazione del culto divino (o prima: della Sacra Congregazione dei Riti).  
 
Da quanto detto, è evidente che il Messale del 1965 non forma parte della storia del Missale Romanum, che ha conosciuto dopo l’edizione tipica di Pio V nel 1570 altre diverse edizioni tipiche.
 
 
M. A.

venerdì 19 maggio 2017

GRANDI MANOVRE ATTORNO AL “SILENZIO”?


 

La Bussola Quotidiana, in data 18.05.2017, ha pubblicato la postfazione scritta da Benedetto XVI al libro-intervista La force du silence (Paris 2017) del Card. Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Il titolo della postfazione è: “Se non entriamo nel silenzio non capiamo la Parola”. Alla fine del breve e sostanzioso sviluppo del tema, il Papa emerito conclude con queste parole: 

“… Il cardinal Sarah è un maestro spirituale che parla dal profondo del silenzio con il Signore, dalla sua unione interiore con Lui, e per questo ha davvero qualcosa da dire a ognuno di noi.

Dobbiamo essere grati a Papa Francesco per avere nominato un tale maestro spirituale alla guida della congregazione che è responsabile della celebrazione della liturgia nella Chiesa. È vero che anche per la liturgia, così come per l’interpretazione delle Sacre Scritture, è necessaria una cultura specialistica. Ma è altrettanto vero che la specializzazione può finire per parlare della questione essenziale senza capirla se non si basa sull’unione profonda, interiore con la Chiesa orante, la quale continua sempre a imparare di nuovo dal Signore stesso cosa sia l’adorazione. Con il cardinal Sarah, maestro di silenzio e di preghiera interiore, la liturgia è in buone mani”.

Nulla da dire su quanto si afferma sul silenzio nella celebrazione liturgica, valore che va ricuperato dove è stato smarrito. Sono anche d’accordo sull’osservazione secondo cui in liturgia non basta essere uno “specialista”, aggiungo però che non basata neppure essere un “maestro spirituale”. Si richiedono probabilmente ambedue le cose.

Mi voglio soffermare sulla lode fatta al Card. Sarah e, in particolare sulla solenne affermazione: “Con il cardinal Sarah, maestro di silenzio e di preghiera interiore, la liturgia è in buone mani”. Se si trattasse solo del silenzio, nulla da dire, ma sappiamo cosa pensa e scrive il Cardinale sulla liturgia e, in particolare, sulla riforma della riforma. Come recentemente ho ricordato in questo blog, il Card. Sarah ha addirittura criticato apertamente la riforma liturgica promulgata da Paolo VI. Secondo lui, questa “riforma” ha sostituito il vero “restauro” voluto dal Vaticano II. A conferma di questa severa affermazione, il cardinale invita a riprendere la Costituzione Sacrosanctum Concilium e leggerla onestamente senza tradirne il senso. Sappiamo invece quanto papa Francesco ha detto al riguardo e conosciamo, in particolare la sua netta affermazione: “parlare della riforma della riforma è un errore”. La liturgia, come la Chiesa, est semper reformanda. Nessuno ne dubita, ma ci sono modi e modi di affrontare questo problema. E’ curioso, poi, che coloro che parlano della “riforma della riforma”, non vedono il grosso bisogno di riforma che ha il Messale di Pio V e gli altri libri liturgici tridentini usati prima del Vaticano II, ai quali, e non ad altri, si riferisce la Costituzione Sacrosanctum Concilium.

Nella Lettera che accompagnava la pubblicazione del MP Summorum Pontificum, Benedetto XVI scriveva: “…sono giunto, così, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa”. La mia impressione è che a questo passo, per quanto riguarda la riconciliazione interna nel seno della Chiesa,  andiamo da male in peggio.

M. A.

Vedi quanto sullo stesso argomento ha scritto Andrea Grillo:

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/una-postfazione-senza-discrezione-ratzinger-si-ostina-a-raccomandare-sarah/