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mercoledì 24 luglio 2019

Paolo VI e la liturgia · Alcuni aspetti peculiari ·






di Corrado Maggioni




L’insegnamento di Paolo VI in materia liturgica si può riassumere dicendo che egli ha voluto, guidato, spiegato, difeso, promosso la riforma liturgica, al fine di riformare la Chiesa, giacché è attraverso l’azione liturgica che la Chiesa sperimenta l’incontro trasfigurante con Cristo, per Cristo e in Cristo. Senza pretesa di abbracciare ogni aspetto se ne richiamano alcuni significativi.


La lingua corrente come “voce della Chiesa” in preghiera


Negli anni preparatori al concilio furono interpellati tutti i vescovi del mondo circa l’uso della lingua volgare nella liturgia. Esistevano già alcune limitate concessioni della Sede apostolica circa l’uso della lingua volgare nel Rituale Romano. Le chiare decisioni dei padri del Vaticano II al riguardo furono progressivamente attuate ed estese. Paolo VI era ben consapevole della gravità del cambiamento della lingua, ma al contempo vedeva con lucidità che era necessario in ragione della partecipazione del popolo alla liturgia. Ecco alcuni passaggi del suo insegnamento a tale proposito.



Così Paolo VI si esprimeva nello storico Angelus del 7 marzo 1965, prima domenica di Quaresima: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina.


«La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento — il Concilio lo ha suggerito e deliberato — e questo per rendere intelligibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa. È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti. E questo per voi, fedeli, perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti ed attivi e se saprete davvero corrispondere a questa premura della Chiesa, avrete la grande gioia, il merito e la fortuna di un vero rinnovamento spirituale» (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 1131).


Il valore della preghiera in lingua corrente, chiamata a esprimere la «voce della Chiesa» orante, veniva ricordato da Paolo VI nel discorso al congresso dei traduttori dei libri liturgici, il 10 novembre 1965, in questi termini: «Versiones, quae ante promulgatam Constitutionem de Sacra Liturgia hic atque illic editae erant, eo pertinebant, ut fideles ritus lingua Latina celebratos intellegerent; erant videlicet subsidia populi, veteris huius linguae ignari. Nunc autem versiones factae sunt partes ipsorum rituum, factae sunt vox Ecclesiae» (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 599).


L’istanza della partecipazione alla liturgia tramite la comprensione della lingua quale «magnum principium» da tenere in debito conto, è risuonata nel discorso di Paolo VI all’ottava sessione del Consilium, il 19 aprile 1967, dove, così rispondeva a proposito di una pubblicazione polemica in difesa del latino: «Essa non edifica alcuno, e non reca perciò alcun vantaggio alla causa che vorrebbe difendere, la conservazione cioè della lingua latina nella liturgia; questione questa degna certamente d’ogni attenzione, ma non risolubile in senso contrario al grande principio, riaffermato dal Concilio, della intelligibilità, a livello di popolo, della preghiera liturgica, non che a quell’altro principio, oggi rivendicato dalla cultura della collettività, di poter esprimere i propri sentimenti, più profondi e più sinceri, in linguaggio vivo» (Insegnamenti di Paolo VI, v [1967] 167).


Lo stesso pensiero ribadì Paolo VI nell’udienza generale del 26 novembre 1969, ormai a pochi giorni dall’inizio, il 30 novembre, prima domenica di Avvento, dell’adozione obbligatoria nella liturgia del nuovo rito della messa nelle diocesi italiane: «Non più il latino sarà il linguaggio principale della Messa, ma la lingua parlata. Per chi sa la bellezza, la potenza, la sacralità espressiva del latino, certamente la sostituzione della lingua volgare è un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra, e così perderemo grande parte di quello stupendo e incomparabile fatto artistico e spirituale, ch’è il canto gregoriano. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci, e quasi di smarrirci: che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio d’inestimabile prezzo. E per quale ragione? Che cosa vale di più di questi altissimi valori della nostra Chiesa? La risposta pare banale e prosaica; ma è valida; perché umana, perché apostolica. Vale di più l’intelligenza della preghiera, che non le vesti seriche e vetuste di cui essa s’è regalmente vestita; vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara, intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana. Se il divo latino tenesse da noi segregata l’infanzia, la gioventù, il mondo del lavoro e degli affari, se fosse un diaframma opaco, invece che un cristallo trasparente, noi, pescatori di anime, faremmo buon calcolo a conservargli l’esclusivo dominio della conversazione orante e religiosa? Che cosa diceva San Paolo? Si legga il capo XIV della prima lettera ai Corinti: “Nell’assemblea preferisco dire cinque parole secondo la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che non diecimila in virtù del dono delle lingue” (19 ecc.)» (Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 1128-1129).


La partecipazione del Popolo di Dio


Fin dal discorso di promulgazione della Sacrosanctum concilium, il 4 dicembre 1963, Paolo VI ebbe a cuore di sottolineare il nesso tra liturgia e Chiesa, con risvolti anche sulla missione che questa è chiamata a svolgere nel mondo odierno, eco in certo senso della celebre asserzione di Sc 10 che la liturgia è «fonte e culmine della vita della Chiesa»: «La liturgia (…) primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano, con noi credente ed orante, e primo invito al mondo, perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze umane, per Cristo nello Spirito Santo. (…) Sarà bene che noi facciamo tesoro di questo frutto del nostro Concilio, come quello che deve animare e caratterizzare la vita della Chiesa». 


In altri termini, vien posto in risalto il principio che recita: «La liturgia fa la Chiesa e la Chiesa fa la liturgia». Il primato della liturgia è perciò vitale per la Chiesa; non è infatti clericale la liturgia, poiché riguarda e coinvolge l’intero popolo di Dio come ricordava Paolo VI nell’udienza generale del 20 luglio 1966: «È noto a voi tutti parimente come la prima affermazione, la prima riforma, il primo rinnovamento, che il Concilio Ecumenico ha dato alla Chiesa, ha avuto per oggetto la Liturgia, cioè la preghiera ufficiale della Chiesa stessa. Ricordiamolo bene!» (Insegnamenti di Paolo VI, iv [1966] 817).


In quest’ottica, Paolo VI aveva ben presente e chiedeva di tener ben presente «lo scopo fondamentale della Costituzione conciliare sulla Liturgia, ch’è quello di restituire al Popolo di Dio la partecipazione attiva alla celebrazione cultuale» (Udienza generale del 4 gennaio 1967: Insegnamenti di Paolo VI, v [1967] 6.) E così spiegava nell’udienza generale del 6 aprile 1966: «Partecipazione: ecco una delle più ripetute e delle più autorevoli affermazioni del Concilio ecumenico a riguardo del culto divino, della Liturgia; tanto che questa affermazione può dirsi uno dei principi caratteristici della dottrina e della riforma conciliare. (…) Il pensiero della Chiesa è chiaro: il popolo cristiano non deve semplicemente e passivamente assistere alle cerimonie del culto divino; deve capirne il senso e deve essere associato in modo che la celebrazione sia piena, attiva e comunitaria (cfr. Sc 21)» (Insegnamenti di Paolo VI, iv [1966] 739-740).


Mettendo in guardia da una idea impropria di partecipazione vista come attivismo, senza coinvolgimento interiore che si manifesta poi in modo esteriore, Paolo VI ne spiegava già il significato a riforma appena avviata, nell’udienza generale del 14 settembre 1966: «Noi vorremmo che ciascuno di voi raccogliesse l’invito fatto dalla Chiesa ai suoi figli con la riforma della liturgia; riforma che soprattutto consiste nel far “partecipare” i fedeli alla celebrazione del culto divino e della preghiera ecclesiale. A quale punto si trova la vostra partecipazione? Bisogna, su questo punto, raggiungere l’unanimità, per quanto è possibile! Guai agli assenti, guai agli indifferenti, guai ai tiepidi, ai malcontenti, ai ritardatari! La vitalità della Chiesa dipende, sotto questo aspetto, dalla prontezza, dall’intelligenza, dal fervore dei singoli cristiani, ministri o semplici fedeli che siano» (Insegnamenti di Paolo VI, iv [1966] 849).


Essendo inclusiva dell’intero popolo di Dio, la liturgia si prende cura anche di chi, per distrazione o ignoranza, non ha piena coscienza del suo mistero. Nel discorso ai membri del Consilium del 19 aprile 1967, Paolo VI li invitava: «A delineare quel volto della sacra Liturgia, che ne dimostri la verità, la bellezza, la spiritualità, e che lasci sempre meglio trasparire il mistero pasquale in essa vivente, per la gloria di Dio e per la rigenerazione spirituale delle folle distratte, ma assetate, del mondo contemporaneo» (Insegnamenti di Paolo VI, v [1967] 168-169). 


Alla vigilia dei primi cambiamenti nel modo di celebrare la messa, nell’udienza del 19 novembre 1969 richiamava l’attenzione sul fatto che i fedeli «alla Messa sono e si sentono pienamente “Chiesa”; (…) sappiate piuttosto apprezzare come la Chiesa, mediante questo nuovo e diffuso linguaggio, desidera dare maggiore efficacia al suo messaggio liturgico, e voglia in maniera più diretta e pastorale avvicinarlo a ciascuno dei suoi figli ed a tutto l’insieme del Popolo di Dio» (Insegnamenti di Paolo VI, VII [1969] 1123-1124). 


Le celebrazioni papali


Abituati da più di cinquant’anni a vedere il Papa presiedere la liturgia, in San Pietro come nei più diversi luoghi del mondo, non sappiamo oggi cogliere l’impatto innovativo di questa prassi, divenuta abituale con Paolo VI. Nella consuetudine precedente erano assai rare le liturgie in San Pietro; la notte di Natale il Papa celebrava in Cappella Sistina per il solo corpo diplomatico. Pio XII non ha mai presieduto i riti della Settimana santa. Cominciò a farlo Giovanni XXIII, che riprendendo le visite alle parrocchie romane in Quaresima vi celebrava la messa. Fu dunque Paolo VI ad accordare rilevanza alle liturgie papali, la notte di Natale in San Pietro, le celebrazioni pasquali, dalla domenica delle Palme al Triduo sacro, con la Veglia in ore notturne. Volle anche presiedere personalmente la celebrazione di alcuni sacramenti, specie nell’Anno santo del 1975.


Negli anni immediatamente successivi il Vaticano II (1965-1969), alla luce del principio conciliare secondo cui i riti devono risplendere per «nobile semplicità» (Sc 34) e l’arte al servizio della liturgia (vesti e ornamenti) «piuttosto per una nobile bellezza che per una mera sontuosità» (Sc 124), le celebrazioni pontificie, in particolare della Cappella Papale, si sono trasformate da cerimonie derivate dalla corte rinascimentale in celebrazioni dell’assemblea liturgica del Popolo di Dio, presieduta dal vescovo di Roma. Il Papa vestiva e celebrava come i libri liturgici prescrivevano per il vescovo. Se era normale fino ad allora che nessuno comunicasse alla messa celebrata dal Papa, cominciò Paolo VI a distribuire personalmente la comunione ai fedeli dalla prima messa celebrata in italiano, il 7 marzo 1965. 


Il Papa raggiungeva l’altare processionalmente, preceduto dai ministranti, dai diaconi e dai concelebranti; indossava le vesti liturgiche prescritte dall’Ordinamento generale del Messale Romano, non rivestendo ormai più la “falda” ma un camice senza ricami, la casula elegante per ampiezza e preziosità della stoffa, portando sulle spalle il pallio e non più il “fanone”.

Così osserva Annibale Bugnini tra i suoi ricordi: «La passione con la quale Paolo VI ha attuato in prima persona la riforma liturgica, la fede con cui l’ha celebrata, sono state certamente il più valido stimolo ai vescovi per essere essi stessi i primi responsabili della vita liturgica delle loro diocesi, i primi celebranti» (La riforma liturgica [1948-1975], Centro Liturgico Vincenziano, Roma 1972, pag. 789).


Il culto mariano


Se ci fu chi criticò come “antimariana” la riforma “paolina”, si deve riconoscere che il riordino della memoria liturgica di Maria è stato conseguente ai principi conciliari. Serviva una lettura lucida e oggettiva della dimensione mariana della liturgia rinnovata — Calendario, Messale, Lezionario e Liturgia delle Ore — e Paolo VI vi provvide con l’esortazione apostolica Marialis cultus (2 febbraio 1974).


In un momento storico difficile, tra opposte tendenze, fu come l’accensione di una lampada che aiutò tutti a vedere meglio il posto di Maria nella pietà liturgica e non: gli scettici trovarono convincenti indicazioni per una fondata pietà mariana; i sostenitori vi trovarono la sintesi di quanto avrebbero voluto dire sulla comunione orante con la Madre di Cristo e della Chiesa; i timidi vi trovarono validi motivi per una riscoperta della presenza viva di Maria nel mistero del culto cristiano; i nostalgici vi trovarono la spiegazione che col rinnovamento liturgico nulla si era inteso togliere all’alma Madre di Dio, ma solo purificare affinché risplendesse meglio ciò che doveva brillare; i fanatici vi trovarono indicati i limiti di una corretta e fruttuosa devozione alla Vergine Santissima; gli ostili, infine, vi trovarono il necessario richiamo a stimare, nella preghiera comune e personale, la compagnia e l’esempio di Maria. Tra gli insegnamenti racchiusi nell’Esortazione apostolica risaltano tre aspetti.


Anzitutto la coscienza della dimensione “mariana” della liturgia. Eredi di un’epoca in cui la devozione mariana trovava fiato piuttosto in “devozioni” al di fuori la liturgia e parallele a essa, l’intento di Paolo VI fu di valorizzare la devozione a Maria espressa anzitutto nell’azione liturgica, senza dimenticare i pii esercizi. 


In secondo luogo il nesso lex orandi - lex credendi, in ordine alla lex vivendi. La Marialis cultus ha contribuito agli sviluppi liturgico-mariani successivi, quali l’arricchita seconda edizione del Messale Romano Italiano (1983) e specialmente la Collectio Missarum de beata Maria Virgine (1987), come anche l’editio tertia del Missale Romanum (2002). Per rendersene conto basta considerare gli accenti tematici di alcuni formulari della Collectio che attingono alla Marialis cultus, come ad esempio Maria “discepola del Signore” (n. 10), “donna nuova” (n. 20); “maestra spirituale” (n. 32). Assai eloquente è il prefazio del formulario n. 26 (Maria Vergine immagine e Madre della Chiesa), intitolato «Maria modello dell’autentico culto a Dio», la cui fonte diretta sono i numeri 17-20 della Marialis cultus. Non è sfuggito a Paolo VI — spesso vi ritorna — che venerare Maria significa vivere come lei: «È impossibile onorare la Piena di grazia senza onorare in se stessi lo stato di grazia, cioè l’amicizia con Dio, la comunione con lui, l’inabitazione dello Spirito» (Mc 57).


Infine, la sollecitudine per la pietà popolare, che sa incoraggiare e orientare, accompagnando la crescita armonica della vita spirituale. Nel rilevante ambito della pietà popolare, la Marialis cultus ha il grande merito di aver osservato luci e ombre, indicando la strada da percorrere per il rinnovamento e la purificazione della pietà popolare in genere, le cui linee guida sono poi maturate con il Direttorio su pietà popolare e liturgia (2002).




Fonte: L’Osservatore Romano 23 luglio 2019